00 13/07/2010 11:10

In Oriensforum il forumista Guy Fawkes, scrive:

Cari fratelli,

ho iniziato da un paio di settimane a leggere l'opera di Amerio, e vorrei proporre una discussione unica nella quale sviscerare, con l'aiuto dei forumisti più preparati e competenti, alcune questioni che possono apparire ostiche o incomprensibili al lettore comune e mediamente ignorante come il sottoscritto (che per soprammercato può dedicare alla lettura solo una manciata di minuti al termine di una serata estenuante, prima di addormentarsi).

Il primo tema che vorrei trattare è quello che Amerio definisce del cristianesimo secondario e quello correllato dell'eudaimonia cristiana. Nell'ottica dell'autore, che dona importanza preminente alla verità sull'amore e all'ultramondano sul mondano, risulta erronea la posizione di chi afferma che:

a) lo scopo (ma anche l'effetto precipuo) della religione è (anche?) la costruzione di una civiltà terrena (c.d. "cristianesimo secondario") in quanto considerare il fine dell'uomo raggiunto già sulla terra fa svilire il (vero) fine ultramondano dello stesso. Sbaglio dunque io a ritenere che tale civiltà sia effettivamente già esistita sulla terra (la Christianitas medievale) e che l'azione politica del Cristiano debba essere volta in qualche modo a restaurarla?

b) l'uomo possa effettivamente conseguire una maggiore felicità temporale già nella vita presente (eudaimonia) vivendo nella religione cristiana, in quanto vivere secondo i suoi precetti permette uno sviluppo integrale e migliore della persona umana (penso in particolare al "centuplo" evangelico o alla scommessa pascaliana). Nel mio piccolo, posso affermare che da cristiano sono effettivamente più felice che non quando ero pagano, anche perchè riesco a contestualizzare meglio la sofferenza.

Dai due punti che ho provato ad esporre, traggo l'impressione che Amerio, sicuramente come reazione alla spinta orizzontalizzante estrema del post-concilio, estremizzi a sua volta la cesura tra terreno e ultraterreno, svalutando oltre la corretta misura i fini mondani, che pure esistono e devono esistere (e difatti la fede senza le opere è morta). Qualcuno può aiutarmi a sviscerare la questione?

Mi scuso in anticipo se non posso citare esattamente il paragrafo (che ho letto ieri sera) che mi ha creato confusione; rimedierò entro stasera.

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gli risponde Daniele:

La difficoltà maggiore nella comprensione di Amerio sta nell'identificazione di quelle essenze la cui confusione, a suo giudizio, costituisce la principale causa della moderna crisi della Chiesa. Se non si hanno ben chiari i concetti ai quali l'autore di volta in volta si riferisce, non è affatto semplice seguirlo in ragionamenti molto profondi, sì, ma proprio per questo molto astratti e molto complessi. Amerio stesso esprime questo concetto in apertura al libro: "La determinatezza dei vocaboli è sanità del discorso". Ora, la forma mentis e il vocabolario dell'autore sono piuttosto distanti dai quelli contemporanei, inevitabilmente intrisi, anche presso i cattolici fedeli alla tradizione, di mentalità liberale e di relativismo. Difficilmente un moderno, se non ha studiato la filosofia di S. Tommaso, avrà una nozione esatta del termine e del concetto di "fine". Non perché sia difficile, ma perché la mentalità sociale nella quale egli vive ne ha snaturato il significato. Di qui la complessità insita nel leggere Amerio: occorre soffermarsi con estrema attenzione sul valore di ciascun termine, di ciascun concetto, il che è tanto più necessario quanto più l'argomento si fa complesso. Non c'è nulla di straordinario in questo. È la mentalità di oggi, pragmatica e relativista, che ci ha disabituati a farlo.

Una volta entrati nella prospettiva ameriana, che poi è la prospettiva cattolica della filosofia realista (la cui vetta fu toccata dall'Aquinate), il suo pensiero risulta di una chiarezza cristallina. Ad esempio, scompare la separazione tra verità e amore. Non è possibile assegnare una preminenza a questo o a quella, poiché l'una è il presupposto dell'altro e viceversa. Non c'è amore senza verità, né c'è verità senza amore. Amerio lo sostiene a viva forza, non solo con argomenti etici, ma anche teologici: "L'amore è preceduto dal Verbo, è preceduto dalla conoscenza. Separare l'amore, la carità, dalla verità, non è cattolico". Volendo esprimere questo concetto in termini matematici, potremmo dire che la verità sta alla carità come le tre persone della Trinità stanno tra loro. E se nel libro l'accento viene posto sulla verità piuttosto che sull'amore, è perché il mondo moderno, e la Chiesa dietro di esso, tende ad eliminare questa piuttosto che quello. Ma sopprimendo uno di due correlativi, anche l'altro necessariamente dilegua.

Quanto al problema del rapporto tra fine mondano e fine ultramondano dell'uomo, bisogna partire dalle fondamenta, ossia dalla nozione di fini. Ora, una cosa può certamente avere più fini, ma non può mai avere più fini ultimi. Il fine ultimo, proprio per il suo essere ultimo, è necessariamente unico. Due o più fini ultimi, infatti, postulerebbero l'esistenza di un ulteriore fine, ancor più ultimo, che li comprende entrambi. Inoltre, poiché il principio creatore e ordinatore della realtà è unico, Dio, è inevitabile che tutto tenda, in ultima analisi, a lui. Quindi la dottrina dell'unicità del fine ultimo può essere dimostrata con argomenti sia filosofici sia teologici.

Suo corollario è la gerarchia dei fini. Se il fine ultimo è il compimento delle potenzialità di una cosa, ne segue che gli altri fini della medesima cosa debbano essere subordinati e ordinati ad esso. In altre parole, se si manca all'adempimento del fine ultimo, si manca per conseguenza anche all'adempimento dei fini secondari e subordinati.

Nel caso dell'uomo, fine ultimo è la visione beatifica di Dio, fini secondari sono tutti quelli che non contrastano con tale fine ultimo e che possono essere ad esso ordinati. Tra di essi va annoverato anche il cosiddetto fine terreno, ossia, a livello privato, la felicità naturale, e a livello pubblico l'instaurazione della società cristiana, cioè il cosiddetto cristianesimo secondario.

Quando si dice che i fini diversi dal fine ultimo sono secondari, non si vuole dire che non abbiano importanza. Ce l'hanno, invece, e grandissima, poiché, essendo ordinati al fine ultimo, sono mezzi per conseguirlo. In effetti, è quasi impossibile attingere al fine ultimo senza servirsi di qualche fine secondario. Per andare in paradiso (fine primario) dobbiamo adempiere tutta una serie di fini secondari: l'adempimento dei nostri doveri, il conseguimento della perfezione, il rispetto della legge naturale e divina, e così via.

Il problema, dunque, non nasce dall'esistenza dei fini secondari e non nasce neppure dal riconoscimento della loro importanza. Amerio non sostiene che l'uomo debba disinteressarsi della città terrena e rivolgere le sue attenzioni solo alla città celeste. Nessun buon cristiano l'ha mai fatto. Anche i contemplativi che si ritirano dal mondo consacrano la loro preghiera e le loro penitenze alla conversione del mondo stesso. Pensare primariamente a salvarsi l'anima è essenziale, pensare solamente a salvarsi l'anima è egoismo e, in quanto egoismo, è peccato.

Il problema sorge piuttosto dalla confusione dei fini, cioè, in ultima analisi, dalla confusione delle essenze. Quando si comincia a dire che il fine terreno è a pari col fine ultraterreno, oppure che i due fini sono separati e indipendenti, oppure ancora che il fine terreno è subordinato all'ultraterreno, si commette un errore logico, oltre che storico e teologico, appunto perché due fini non possono essere equivalenti né il maggiore può sottostare al minore. La separazione del cristianesimo secondario, cioè degli effetti sociali del cristianesimo, dal cristianesimo primario, cioè dal cristianesimo come religione, è un prodotto di tale errore, e scopo di Amerio è metterlo in evidenza.

Senza il fine ultimo, i fini secondi si svuotano. Senza ordinamento a Dio, la vita umana perde completamente di senso, nonostante il tentativo di rendere autonomi i fini secondari.

Da questi concetti risulta chiaro come si debba interpretare la posizione di Amerio a proposito del cristianesimo secondario.

1) Fine primario della religione e dell'uomo è la salvezza eterna (cristianesimo primario). La civilizzazione, sia pure la civilizzazione cristiana, non è che un fine secondario subordinato al primo e ordinato ad una sua migliore realizzazione. Certamente una civiltà modellata sui principii del cristianesimo agevola la salvezza eterna degli individui, ma essa è possibile anche in un contesto sociale non cristiano. Si pensi al cristianesimo primitivo nella società romana. La religione e l'uomo, dunque, deve prima occuparsi del fine primario e poi, subordinatamente, del fine secondario. Se si inverte questo ordine, si scade nel cristianesimo sociale in cui si può parlare di salvezza eterna solo dopo aver realizzato in tutto il mondo la felicità terrena. La priorità non solo ontologica ma anche morale del fine ultimo sui fini secondi è insegnata anche da Gesù nel Vangelo: "Che giova all'uomo conquistare il mondo intero, se poi perde l'anima sua?". E ancora: "Chiedete prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta". Tale insegnamento è confermato dall'esperienza. Quando i cattolici, nel postconcilio, hanno spostato l'attenzione dal fine ultraterreno a quello terreno, hanno di conseguire e l'uno e l'altro.

2) Sul concetto di felicità naturale bisogna intendersi bene. Se si identifica la felicità temporale col senso di serenità e appagamento derivante dalla consapevolezza di una realtà soprannaturale che tutto in sé ricapitola, si commette un errore di prospettiva, perché qui abbiamo una felicità che è naturale nelle sue espressioni, ma soprannaturale nelle sue cause. I beati, nel paradiso, godono di una felicità che è, ad un tempo, soprannaturale e naturale, perché il più include il meno e l'adempimento del fine ultimo comporta in qualche modo un adempimento di tutti i fini secondi ad esso ordinati. Anch'io posso dire che sono più felice da quando ho preso piena coscienza dal mio essere cristiano, ma devo aggiungere che tale felicità, derivando appunto dalla consapevolezza del soprannaturale, è essa stessa soprannaturale; se mancasse questa, mancherebbe anche quella. La felicità naturale propriamente intesa è una felicità che deriva da cause naturali. E, in questo senso è, rispetto alla religione, puramente accidentale. Ci sono innumerevoli esempi di persone le quali, pur essendo vissute nel timore di Dio, non hanno goduto di felicità terrena nel senso proprio del termine. Giobbe, per esempio, ma anche molti Santi, nei quali la consapevolezza dell'Assoluto divino e delle gioie eterne generava serenità, ma non felicità. Ricordo che rimasi molto colpito dal tono estremamente cupo di alcune lettere di Padre Pio, talmente cupo che doveva essere l'interlocutore a ricordargli, nella risposta, che rattristarsi troppo non era da cristiani. E la Madonna, a Fatima, promise ai pastorelli felicità nell'altra vita, ma non in questa. Al contrario, abbiamo moltissimi esempi di atei naturalmente felici. Si può andare oltre. Dopo il peccato originale, la conformazione tra volontà e legge, cioè la moralità, richiede un notevole sforzo, e questo sforzo procede necessariamente attraverso il sacrificio, cioè attraverso la privazione volontaria di una porzione di felicità naturale. I Santi erano felici, sì, ma felici in Dio, non felici nel mondo. L'errore messo in luce da Amerio sta nel considerare la felicità naturale come una conseguenza necessaria della religione cristiana.

Concludo questa mia breve apologia del pensiero ameriano circa il cristianesimo secondario con alcune citazioni tratte da Iota unum.

"Il peccato specifico del cristianesimo secondario che vizia la civitas hominis è l'epocazione del trascendente. [...] Quindi: prospettiva finale puramente terrena, riduzione del Cristianesimo a mezzo, apoteosi della civiltà. Nega l'aut aut del Vangelo per sostituirvi una sorta di et et che combina cielo e mondo in un composto in cui la parte predominante che dà al composto il suo carattere è il mondo" (§ 221). Non si critica, come si vede, la concomitanza di fini, ma l'inversione del primario col secondario, del fine col mezzo.

"L'errore eudemonogico [...] pretende [...] che il godimento degli onesti beni terreni sia più sicuro, più autentico e più copioso nella religione che altrove". Non si tratta, dunque, di fare del cristianesimo il contrapposto della felicità naturale, ma di affermare che questa non consegue necessariamente da quello. La religione, in altre parole, garantisce la felicità soprannaturale, cioè la felicità tout-court (essendo la felicità naturale inferiore e subordinata a quella soprannaturale), ma non quella puramente naturale.


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...ecco.
Da un lato speravo in un intervento chiarificatore di Daniele. Dall'altro lo temevo  Ghigno. Ho studiato S. Tommaso (a livello liceale e quasi vent'anni fa ormai) quindi merito doppiamente la bastonatura  Ghigno però non rinuncerò a leggere un testo che mi ha arricchito con molti spunti di riflessione (uno su tutti quello sulla guerra e sul perchè oggi la Chiesa possa trovarsi a condannare qualunque guerra, davvero illuminante). Potrò ancora proporre qualche goffo dubbio scusandomi in anticipo?


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Studiare San Tommaso al liceo nel contesto di un programma di studi filosofici improntato all'idealismo hegeliano è come non studiarlo. Anzi, peggio che non studiarlo. Ma più che un problema filosofico, è un problema di mentalità. Il realismo è anzitutto l'atteggiamento di chi è persuaso che il reale sia conoscibile e, di conseguenza, il vero sia distinguibile dal falso. Per questo dà moltissima importanza alle essenze, cioè alla natura intima delle cose, e alla distinzione tra un'essenza e l'altra. Il relativismo invece, negando che la realtà sia conoscibile in sé, nega la distinzione reale delle essenze e, con essa, le essenze stesse. Liberarsi dalla mentalità relativista nella quale siamo immersi è estremamente difficile. Un buon procedimento, che a me almeno è servito tantissimo, consiste nell'astrarre e identificare i concetti. Di fronte a una questione, bisogna sempre esaminarne i termini nella loro essenza, prescindendo dalla situazione contingente, e poi chiedersi in che cosa veramente consista la loro essenza. Tutti siamo portati, ad esempio, a dare per scontato il concetto di "fine". Ma quante volte ci siamo seriamente interrogati sul suo significato profondo e sulle sue implicazioni? In molti casi, non occorre neppure ricorrere ai pensatori che ci hanno preceduto. Una persona di media cultura e di buona intelligenza è perfettamente in grado di arrivare da sola al principio per cui due fini ultimi non possono coesistere. Basta un po' di logica e un po' di buon senso, corrobotati dall'abitudine di confrontare sempre i risultati del proprio pensiero con la realtà, per evitare di scadere nell'errore dei soggettivisti.

Il mio non voleva, naturalmente, essere un invito a lasciare la lettura di Amerio. Anzi, frequentare autori come questi è il presupposto indispensabile per liberarsi dei residui della mentalità contemporanea che confonde le essenze e penetrare nella mentalità realista (e cattolica) che le distingue e le identifica.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)