00 25/08/2010 18:44
Unità nazionale e unità morale degli italiani

Un plebiscito di tutti i giorni


Si tiene a Stresa dal 25 al 28 agosto l'undicesimo corso dei Simposi Rosminiani sul tema "Antonio Rosmini e il problema storico dell'Unità d'Italia". Pubblichiamo stralci della prolusione.

di Francesco Paolo Casavola

Leggo dai Taccuini di lavoro di Benedetto Croce: 
"2 giugno (del 1946). Recatomi di buon'ora a votare. Che cosa verrà fuori da queste votazioni? Per distrarmi ho scritto l'articoletto sull'Alfieri satirico";
 "6 giugno. Il referendum ha diviso l'Italia in due parti, che quasi si fanno equilibrio. Io sono convinto di aver sostenuto e votato la monarchia, e non vorrei avere l'inquietudine che dovrebbero provare coloro che, senza alcuna necessità e senza nessuna prevedibile utilità per l'Italia, vogliono il nuovo e finora intentato. Napoli ha dato una grande maggioranza per la monarchia. Il sentimento che ha mosso i fautori della monarchia e dello stato spontaneo e legato a tradizioni e a motivi buoni e generosi. Chi dice le solite volgarità di reazione, di fascismo, di gente pagata, ecc., calunnia vilmente questa popolazione intelligente e sensibile".
 "7 giugno (...) Agitazioni in Napoli per la monarchia:  il governo ha avuto il torto di far qui una legione di partigiani dell'alta Italia, che ha irritato la popolazione. Ci siamo radunati in prefettura, tutti i rappresentanti dei partiti e dei giornali e vecchi uomini politici, come me, De Nicola e Porzio, e abbiamo consigliato la calma e dette ferme parole contro il riaffiorare di sentimenti autonomistici di Nord e Sud" (Taccuini di lavoro, 1946-1949).

Per spegnere velleità di divisione si pensò subito di officiare per la carica del capo dello Stato repubblicano note personalità monarchiche quali Orlando, Croce, De Nicola. Il quale l'ultimo come è noto, dopo essere stato capo provvisorio dello Stato per tutta la durata dell'assemblea costituente, fu eletto presidente della Repubblica il 1° gennaio 1948, anni tragici della conclusione della guerra, nei campi di prigionia, nella lotta armata, nella attiva attesa della liberazione, fortunosamente preservata dopo il referendum istituzionale, dava come suo frutto la Costituzione della Repubblica.

Fu un cattolico, Giuseppe Dossetti, con un ordine del giorno del 9 settembre 1946, nella prima sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell'uomo; esclusa quella che si ispiri a una visione soltanto individualistica; esclusa quella che si ispiri a una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l'attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche, cui il nuovo statuto dell'Italia debba soddisfare, è quella che:  riconosca la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella pienezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali, ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella; riconosca a un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda, mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale:  anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose) e quindi per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, lo Stato; che perciò affermi sia l'esistenza dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente a ogni concessione da parte dello Stato.

Nasceva così un patto personalista e comunitario insieme, vincolando lo Stato al servizio delle persone e della società, non più viceversa come prima e durante il fascismo. Era davvero il battesimo della nuova Italia.
Il patriottismo costituzionale avrebbe dovuto prendere il posto dei desueti giuramenti politici. Sarebbe finalmente dovuta nascere la Nazione, secondo la celebre definizione di Ernest Renan del 1882 - "Qu'est-ce qu'une nation?" - "una nazione è un'anima, un principio spirituale (...) Una nazione è una grande solidarietà creata dal sentimento dei sacrifici che sono stati fatti e che siamo disposti a fare in futuro, il desiderio chiaramente espresso di continuare la vita in comune. L'esistenza di una nazione è un plebiscito di tutti i giorni". (cfr. Pietro Scoppola, La Costituzione contesa, 1998).

E invece la Costituzione, appena con la conclusione dell'Assemblea costituente cessò la concordia con i partiti che avevano operato nel Comitato di Liberazione Nazionale, diventò un oggetto misterioso. Quando nel 1956, a otto anni dall'entrata in vigore della Carta, si inaugurò l'organismo che avrebbe dovuto interpretarla e applicarla, e cioè la Corte costituzionale; nella prima udienza, Enrico De Nicola, che la presiedeva ammonì di provvedere a diffondere la conoscenza della Costituzione e di farlo sollecitamente perché troppo tardi è fatale non solo alla vita di un individuo, ma più ancora per quella di un popolo.
 
La prima fase di esistenza della Costituzione fu da più parti ostacolata. La Corte di cassazione introdusse per i suoi articoli la distinzione di norme programmatiche e precettive, in modo da dilazionarne alle calende greche l'effettività. I partiti ne davano letture ora conservatrici ora progressiste, a seconda dei propri e opposti interessi in un clima di politica interna ed estera condizionato dalla guerra fredda tra mondo occidentale e comunismo sovietico. Quando le nuove generazioni percepirono la insofferenza per il regime tutorio esercitato dagli apparati di vertice dei partiti sui cittadini, esplose la contestazione studentesca, cui seguirono gli anni di piombo del terrorismo.

Tra ix, xi, xiii legislatura operarono commissioni parlamentari bicamerali per una revisione di una costituzione, cui si attribuivano le cause di tutte le sfasature, incongruenze, ritardi di cui soffriva ogni settore della vita istituzionale e sociale. In realtà proprio la distanza crescente dal tempo in cui si svolse, restando purtroppo allo stato nascente, l'unità morale ritrovata, non dava altra via praticabile che quella di disfare quanto era stato fatto, ma non realizzato, con la Costituzione del 1948. È la transizione, termine pienamente espressivo della cecità di un ceto politico uscito dalla dissoluzione dei partiti ideologici, senza idee di dove andare, senza ideali cui ispirarsi. Si cominciò a numerare le Repubbliche. Come se fossimo in Francia, dove si numerano le Repubbliche per le rispettive nuove costituzioni, non a costituzione invariata.

(...) L'11 dicembre 1947, a iniziativa dei democratici cristiani Franceschini, Moro, Ferrarese e Sartori, fu presentato un ordine del giorno in Assemblea costituente di questo tenore:  "L'Assemblea costituente esprime il voto che la nuova Carta costituzionale trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado, al fine di rendere consapevole la giovane generazione delle raggiunte conquiste morali e sociali che costituiscono ormai sacro retaggio del popolo italiano".

Il 13 luglio 1951, il disegno di legge Gonella n.2100 su Norme generali sulla istruzione, indicava come fine della educazione civica quello di "diffondere la conoscenza dell'ordinamento dello Stato, di educare la coscienza dei diritti e dei doveri del cittadino e di contribuire ad alimentare l'amore della patria". Si è discusso invano anche se l'insegnamento della storia dovesse riguardare gli avvenimenti recenti.

In nome della libertà del pensiero storico si è rivendicata la preferibilità della loro ignoranza, piuttosto che apprenderli da una storia di Stato. Tesi codesta sostenuta da uno storico come Gaetano Salvemini! Tradizione peraltro antica e tenace nelle scuole italiane, dove si finiva col sapere di più di storia romana che di storia d'Italia. Con il contro-effetto di alimentare storiografie revisioniste, con tesi distorsive di quelle ufficiali. Educazione civica e storia si debbono convergere alla formazione delle giovani generazioni, non possono essere parziali o reticenti.

La storia d'Italia è stata anche una storia tragica.
Averla potuta conoscere avrebbe potuto aiutare a non ripetere errori, che non sono mai dovuti a un fato invincibile. Chi ha mai saputo nelle nostre scuole che nel decennio della repressione del brigantaggio meridionale, dal 1861 al 1870, sono stati fucilati o uccisi 73.875 briganti, una cifra di gran lunga superiore a quella dei caduti in tutte le guerre dell'Unità? Chi ha saputo che tra il 1920 e il 1922 vi furono altri settemila morti per la violenza politica?

Come si mantiene viva la memoria dei sacrifici in vite umane, in sofferenze delle famiglie, in ingiusti destini, per poi richiedere speranza e plebiscito quotidiano, se la storia tace, se i media si dividono tra verità e menzogne?

I mali che ci appaiono oggi come fatti di cronaca sono antichi. Nel 2001 Laterza ha edito un titolo, L'Italia di oggi, di Bolton King e Thomas Okey. Chi si fermasse al titolo potrebbe immaginare una parentela di genere, per fare un esempio, con Paul Ginsborg, L'Italia del tempo presente, (1998). E invece si tratta di un'anastatica di un'opera del 1901, di cui Benedetto Croce sollecitò l'edizione al Laterza, che vi provvide nel 1902 per una prima e pochi mesi dopo, nel 1903, per una seconda uscita.

Nell'avvertenza, Croce loda la imparzialità degli autori inglesi evocando l'assenso che il lettore dà alle cose da loro descritte con un eloquente "Così è!". Cito da pagina 82:  "I capi della camorra, un quarto di secolo fa, trovarono che il fare le elezioni è il solo affare che torna conto a Napoli". Da pagina 187:  "La mafia, come la camorra, ha fatto largo uso della scheda elettorale, specie dopo l'allargamento del suffragio. Dove la mafia è potente, non è possibile ad un candidato di vincere in un'elezione politica o amministrativa se non le assicura la sua protezione". (...) La storia, quanto più è lunga, fa misurare il cammino percorso e meglio scorgere i nodi irrisolti di un progresso o di un mutamento mancato. Nella storia dell'unità nazionale gli intoppi di strada sono sempre stati quegli emersi nelle lacerazioni dell'unità morale degli italiani.
 
Il conte di Cavour, il maggiore tra i padri dell'Unità, considerava la diversità del Mezzogiorno dal resto d'Italia come questione politica pari se non più grave che la questione romana o quella dell'Austria. È morì angosciato dal dover riconoscere che, divenuti italiani tutti i popoli della penisola, restavano pur sempre in disparte les neapolitains, cioè tutti i meridionali. Il fascismo tentò di imporre una unificazione ideologica, nazionalista, fuori dalla civiltà liberale, che voleva unite nazione e libertà. Con il risultato da cui abbiamo preso l'avvio per le nostre riflessioni. La ispirazione personalista e comunitaria della Costituzione del 1948 era dovuta a una ritrovata unità morale (...) il cui secondo fattore di difesa sta nella dottrina cristiana del bene comune.

In un contesto, quale quello che stiamo vivendo (...) il pensiero di Jacques Maritain e di Emmanuel Mounier, cui si formarono intere generazioni in Europa e in Italia nel pieno Novecento, potrebbe apparire anacronistico rispetto ai mutamenti contemporanei.

Resta il nucleo concettuale di bene comune come di bene di noi/tutti, dove tutti non è riferito a noi, ma a tutti gli altri, oltre noi e con noi. L'era dei diritti umani in cui siamo entrati, consente di intendere intuitivamente la continuità del bene delle persone a quelli delle comunità e dei popoli. Ma le riforme del riconoscimento, della protezione e della promozione dei diritti umani sono complicati dai regimi politici, dai processi di globalizzazione sottratti alle sovranità degli Stati. I contenuti dei diritti umani per la loro onnicomprensività possono essere contrastati dallo sviluppo delle tecnologie e delle scienze.

I diritti umani di ultima generazione, alla qualità della vita, all'ambiente e alla pace sono sintomatici della criticità della soglia cui è giunta la sempre più esigente meta del bene comune. L'enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI risponde con la sua articolazione tematica alle dinamiche di trasformazione della condizione umana nel nuovo millennio. La Chiesa non ha un ruolo nelle decisioni politiche, investe del suo messaggio di verità e di salvezza le coscienze personali. Dovranno essere i credenti a compiere in totale libertà, scelte di vita personale e sociale, e dunque anche politiche coerenti con quel messaggio.


(©L'Osservatore Romano - 26 agosto 2010)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)