00 08/11/2011 21:37

L'arte di celebrare: cosa significa?

di don Enrico Finotti

I segni del “sacro” ricevono completezza e unità sinfonica nella celebrazione, dove, in mutua connessione, tutti concorrono, con diverse modalità e intensità, ad esprimere e comunicare la realtà del mistero invisibile.

Affinché, tuttavia, questi segni realizzino pienamente il ruolo di “mediazione” del sacro che significano, è necessario siano posti in modo corretto, consono alla natura di ciascuno, e celebrati con autenticità. E’ questo l’intento “dell’arte del celebrare”, che potremo definire come: la capacità di porre i gesti e pronunziare le parole della liturgia in modo corretto, aderendo devotamente con la mente e il cuore ai contenuti delle preci e ai significati dei riti, in un fedele e umile servizio ministeriale. L’educazione all’arte del celebrare è rivolta a tutti nell’assemblea liturgica - sacerdote, diacono, ministri, assemblea nella sua totalità - anche se con gradi e modalità diversi, relativi ai vari ministeri.

L’arte del celebrare prevede, quindi, la compresenza di tre condizioni:

- porre i gesti e le parole, stabilite dalla Chiesa, in modo corretto: occorre conoscere la struttura e la tipologia dei riti, il genere delle preci e delle formule rituali, il significato dei simboli, la tecnica del porgere e del pronunziare, la nobiltà dei movimenti, la qualità dei materiali e delle forme, il senso dei silenzi e le espressioni del contemplare, gli sguardi, l’incedere, il benedire, il genuflettere, l’elevare, ecc. Il riferimento oggettivo ai riti come oggi la Chiesa li ha fissati deve distogliere la prassi da creazioni soggettive, anche riuscite, ma che non interpretano il “sentire” della Chiesa e non rispettano la natura della liturgia come preghiera ufficiale, pubblica e comune della Chiesa stessa. Si deve perciò evitare di imporre gusti personali di alcuni all’assemblea del popolo di Dio.

- aderire ai riti con la mente e il cuore: la corrispondenza interiore al rito esteriore libera dal pericolo di una fredda esecuzione, conferendo ai riti stessi il calore di un’anima orante penetrata dal balsamo della fede viva e della preghiera, animata dallo Spirito del Signore. Tale interiore cor-rispondenza, necessaria nei ministri e nei fedeli, è l’elemento indispensabile che, soprattutto, qualifica la celebrazione come “viva” e partecipata. La “mistagogia”, - come pedagogia che partendo dai riti porta al mistero da essi significato e comunicato - e la spiritualità liturgica, - come educazione spirituale alimentata dalle azioni liturgiche che prepara e sviluppa nel fedele la celebrazione “in spirito e verità” e la sua attuazione nelle opere - sono le vie classiche e indispensabili per portare il popolo di Dio sulle strade della salvezza, così come storicamente si è realizzata e sacramentalmente viene oggi attualizzata dalla liturgia della Chiesa.

- in umile e fedele servizio: vi è una differenza fondamentale fra il modo dell’attore nella drammatizzazione teatrale e il ministero del celebrante nel culto, soprattutto liturgico. L’attore imita gestualmente, nel vestito, nel linguaggio e in ogni altra espressione il personaggio rappresentato; egli è il protagonista che attira l’attenzione totale dei presenti, tutto dipende dalla sua capacità oratoria e professionalità artistica. Il celebrante, invece, opera una sorta di adorante distacco da Colui che rappresenta, pur rendendo presente il mistero in una maniera unica infinitamente superiore ad ogni espressione teatrale di natura psicologica; egli rimane in umile venerazione delle parole e dei gesti di Colui che è veramente il “presente”, e in tal modo e a questo prezzo rimanda al celebrante sopran-naturale e ne rende percepibile la misteriosa presenza che pervade l’assemblea liturgica.

Il celebrante, intimamente unito a Cristo e sacramento vivo del Signore, è tuttavia il primo adoratore del mistero, che per suo mezzo si compie. Egli nel medesimo tempo, agisce “in persona Christi” e offre ai fedeli l’esempio di umile sottomissione colma di venerazione.

Niente è più alieno al celebrare del recitare teatralmente. Il sacerdote, infatti, non è un protagonista, né la sua capacità celebrativa è, fondamentalmente, legata alle sue qualità oratorie ed espressive. La santità, in realtà, diviene la qualifica più consona del celebrante e quella che garantisce in modo più pieno l’arte stessa del celebrare e il suo impatto sui fedeli. Ciò viene dimostrato dalla vita di sacerdoti santi, penetrati dal mistero che realizzano sacramentalmente sull’altare.

“Pertanto il sacerdote, quando celebra l’Eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine deve far sentire ai fedeli la presenza viva di Cristo” (PNMR, n. 60).

 

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[SM=g1740733]  QUANTE MENSE?

di Don Riccardo Pane, cerimoniere arcivescovile di Bologna


L’elemento architettonico destinato alla proclamazione della Parola di Dio ha conosciuto nel corso della storia e delle aree rituali evoluzioni e differenziazioni altalenanti: dagli amboni monumentali di alcune basiliche medievali (si pensi ad esempio all’ambone di Nicola Pisano nel duomo di Siena) ai leggii volanti; dai “corni” dell’altare deputati alla lettura distinta dell’epistola e del vangelo, fino all’ipertrofia degli amboni nelle chiese riformate; senza contare la storia parallela, ma non sempre ben distinguibile del pulpito. Questo per rimanere in ambito occidentale; in oriente le diversificazioni sono ancora più accentuate (si pensi, ad esempio, al bema delle liturgie siro-orientali, che occupa un posto centrale e rilevante all’interno del tempio).
In molte chiese latine contemporanee si assiste a un’ulteriore evoluzione: gli amboni tendono a ingrandirsi e gli altari a rimpicciolirsi.

Da cosa nasce questa rinnovata fortuna dell’elemento architettonico “ambone”?

Nasce da un principio molto diffuso nel postconcilio, che è quello delle due mense: la mensa della Parola e quella dell’Eucaristia. In realtà, a livello dei documenti conciliari e della prima applicazione della riforma liturgica, l’espressione “due mense” non è molto ricorrente. Il passo più esplicito è PO 18, dove si legge: «i fedeli si nutrono della Parola di Dio alla duplice mensa della sacra Scrittura e dell’Eucaristia». Il contesto non riguarda direttamente la struttura della liturgia, quanto piuttosto la vita spirituale dei fedeli (e a maggior ragione dei presbiteri) che deve essere nutrita dalla Parola e dall’Eucaristia (cf. PC 6). In DV 21, invece, si afferma che la Chiesa non ha mai tralasciato «di nutrirsi del Pane di vita, prendendolo dalla mensa sia della Parola di Dio, sia del Corpo di Cristo», dove il singolare “mensa” sembra intendere l’unità della mensa stessa.

Il pericolo dell’espressione “due mense” è infatti quello di perdere di vista la profonda unitarietà del mistero della Parola che si fa carne, della profezia che si compie nel sacramento.

Non a caso la costituzione sulla liturgia si esprime in questi termini: «Le due parti che costituiscono in certo modo la messa, cioè la liturgia della Parola e la liturgia eucaristica, sono congiunte tra loro così strettamente da formare un solo atto di culto» (SC 56). L’articolazione in due parti è attenuata (“in certo modo”, lat. quodammodo) e l’unità della messa è affermata con forza.
Le norme liturgiche (cf. Ordinamento generale del messale romano n. 309) raccomandano che vi sia un luogo fisso e specifico per la proclamazione della Parola di Dio. Questo è essenziale per aiutare il fedele a distinguere la differenza radicale che sussiste tra la Parola di Dio e la ridda di parole umane, alcune delle quali entrano anche nel contesto liturgico (ad esempio gli avvisi e le didascalie). Per questo la tradizione vuole che l’ambone sia un luogo elevato, come elevata ed elevante è la Parola da esso proclamata. Tuttavia sono necessarie alcune precisazioni:

1) La costruzione dell’elemento architettonico atto alla proclamazione della Parola di Dio diventa pressoché inutile se si abusa di questo luogo, cioè se lo si utilizza per usi impropri, ancorché inerenti la liturgia (ad esempio didascalie, avvisi). L’ambone non è, in altri termini, il luogo del microfono, ma il luogo della Parola di Dio; viceversa, non ogni microfono della chiesa è adatto alla proclamazione della Parola di Dio.

2) L’elemento architettonico è funzionale alla Parola stessa e in particolare alla Parola proclamata, alla quale va la nostra venerazione (cf. DV 21) e nella quale è Cristo stesso a parlare (cf. SC 7). Ciò significa che vanno tenuti in considerazione altri importanti fattori, quali l’idoneità del ministro (l’ideale sarebbe che fosse un lettore istituito), la dignità del suo abbigliamento (che deve essere adeguato all’importanza del servizio che compie), il decoro del supporto cartaceo del lezionario e dell’evangeliario. Se costruiamo un ambone in marmo, decorato di fregi artistici, e proclamiamo la Parola da una fotocopia, vi è qualcosa da ripensare... Mette conto, a tal proposito, rammentare che è il libro della Scrittura a essere
incensato, non l’ambone; è il libro dei vangeli a essere spesso oggetto di venerazione e di culto, mentre non risultano devozioni indirizzate all’ambone.

3) L’ambone, nonostante la sua indubbia importanza, non dovrebbe entrare in concorrenza con la centralità dell’altare.

(e non si capisce perchè nelle chiese e comunità neocatecumenali questo viene lasciato fare  [SM=g1740730] )

Quest’ultimo, infatti, non è presente nella chiesa in chiave meramente funzionale, ma ha un surplus simbolico imprescindibile: mentre può darsi una chiesa senza ambone, non è pensabile una chiesa senza altare, che è il luogo del sacrificio, il principale simbolo di Cristo-roccia e agnello immolato. L’altare viene incensato, al contrario dell’ambone. L’altare viene consacrato; l’ambone solo benedetto. Per questo mi pare che la riduzione delle dimensioni dell’altare tenda non di rado a costituire una sorta di dualismo e di parallelismo tra le cosiddette “due mense”.

Il maggiore spazio e la migliore fruibilità della Parola di Dio è uno dei punti caratterizzanti della riforma liturgica. Purtroppo il sentire comune e diffuso dei fedeli è ancora molto lontano da questa prospettiva. Alcuni comportamenti sono un segnale significativo. Molti fedeli tendono ad arrivare sistematicamente in ritardo, verso la fine della proclamazione delle letture. Altri arrivano puntuali, ma usano del tempo delle letture come periodo di “ambientamento”, collegandosi, quando va bene, solo al momento della proclamazione del Vangelo. La parola “proclamazione”, poi, non sempre è adeguata alla realtà dei fatti: spesso si tratta piuttosto di una lettura piatta, stentata e trasandata della Sacra Pagina. Insomma: l’elemento architettonico dell’ambone è importante, ma ancor più importante è il servizio complessivo che compiamo nei confronti della Parola, e che passa attraverso molteplici attenzioni. In gioco è la
comprensione, particolarmente cara allo spirito della riforma liturgica, che il mistero di Cristo è una realtà profondamente unitaria. La comprensione sintetica ci sarà data solo quando saremo nella dimensione dell’Eterno. Finché siamo pellegrini sulla terra, la nostra comprensione non può che essere analitica. Da questo discende la pedagogia dell’anno liturgico e la struttura stessa della messa, con le sue parti e le sue articolazioni che rendono presente in diverso modo l’unico mistero di Cristo (cf. SC 7).

 

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)