00 23/05/2011 17:43
Commento sull’Istruzione
Universae Ecclesiae

Pubblicato il 19 maggio su DICI, organo ufficiale della Fraternità San Pio X


Annunciata il 30 dicembre 2007 dal cardinale Tarcisio Bertone, l’Istruzione Universae Ecclesiae sull’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007) è stata pubblicata il 13 maggio 2011 dalla Pontifica Commissione Ecclesia Dei.
Firmata dal cardinale William Levada, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e da Mons. Guido Pozzo, Segretario della Commissione Ecclesia Dei, questo documento romano appare dopo che i vescovi del mondo intero hanno inviato a Roma il bilancio dei tre anni trascorsi dalla pubblicazione del Motu Proprio, conformemente alla richiesta fatta da Benedetto XVI nella sua Lettera di accompagnamento del 7 luglio 2007.
Questo grosso ritardo indica come l’applicazione del Summorum Pontificum abbia incontrato delle difficoltà presso certi vescovi. Così che Universae Ecclesiae ha ufficialmente lo scopo di «garantire la corretta interpretazione e la retta applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum» (n° 12), ma anche e soprattutto di facilitare un’applicazione alla quale gli Ordinari acconsentono solo con parsimonia. Il prevedibile sfasamento tra il diritto della Messa tradizionale, riconosciuto dal Motu Proprio, e il fatto di questo riconoscimento da parte dei vescovi, era stato segnalato da Mons. Fellay nella sua Lettera ai fedeli della Fraternità San Pio X del 7 luglio 2007.

Questa situazione di fatto ha obbligato il documento romano a ricordare certi punti:
- Con tale Motu Proprio il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha promulgato una legge universale per la Chiesa con l’intento di dare una nuova normativa all’uso della Liturgia Romana in vigore nel 1962. (n° 2).
- Il Santo Padre, […] riafferma il principio tradizionale, riconosciuto da tempo immemorabile e necessario da mantenere per l’avvenire, secondo il quale “ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l’integrità della fede, perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede”. (n° 3).

- Il Motu Proprio […] si propone l’obiettivo di:

a) offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’Usus Antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare;
b) garantire e assicurare realmente a quanti lo domandano, l’uso della forma extraordinaria, nel presupposto che l’uso della Liturgia Romana in vigore nel 1962 sia una facoltà elargita per il bene dei fedeli e pertanto vada interpretata in un senso favorevole ai fedeli che ne sono i principali destinatari;

c) favorire la riconciliazione in seno alla Chiesa. (n° 8).


Parimenti, in ragione delle diatribe sorte per la poca buona volontà dei vescovi nell’applicazione del Motu Proprio, l’Istruzione assegna alla Commissione Ecclesia Dei maggiori poteri:
- La Pontificia Commissione esercita tale potestà, oltre che attraverso le facoltà precedentemente concesse dal Papa Giovanni Paolo II e confermate da Papa Benedetto XVI (cf. Motu Proprio Summorum Pontificum, artt. 11-12), anche attraverso il potere di decidere dei ricorsi ad essa legittimamente inoltrati, quale Superiore gerarchico, avverso un eventuale provvedimento amministrativo singolare dell’Ordinario che sembri contrario al Motu Proprio. (n° 10 § 1).
- In caso di controversia o di dubbio fondato circa la celebrazione nella forma extraordinaria, giudicherà la Pontificia Commissione Ecclesia Dei. (n°13).


In vista di possibili ricorsi:
- I decreti con i quali la Pontificia Commissione decide i ricorsi, potranno essere impugnati ad normam iuris presso il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica (n° 10 § 2).

Nei mesi a venire, occorrerà dunque osservare con cura se queste disposizioni si riveleranno efficaci e se il fatto dei vescovi si allineerà realmente al diritto che la Commissione Ecclesia Dei è incaricata di far rispettare.

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Molto attento alle opposizioni e preoccupato di gestire punti di vista divergenti, questo documento romano ha un carattere diplomatico facilmente percepibile. È così che si possono constatare diversi paradossi che, malgrado il dichiarato desiderio di unità, tradiscono i dissensi di cui si è dovuto tenere conto:
- Curiosamente, sono proprio i vescovi che tengono all’applicazione generosa del Motu Proprio che rischiano di non poter ordinare col rito tradizionale i seminaristi delle loro diocesi. Infatti, il n° 31 stabilisce che: «Soltanto negli Istituti di Vita Consacrata e nelle Società di Vita Apostolica che dipendono dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei e in quelli dove si mantiene l’uso dei libri liturgici della forma extraordinaria, è permesso l’uso del Pontificale Romanum del 1962 per il conferimento degli ordini minori e maggiori».
A questo proposito, il testo ricorda la legislazione post-conciliare che ha soppresso gli ordini minori e il suddiaconato. I candidati al sacerdozio sono incardinati solo al momento del diaconato, ma nondimeno col rito antico si potranno conferire la tonsura, gli ordini minori e il suddiaconato, senza tuttavia riconoscere loro il minimo valore canonico. Questo punto si oppone chiaramente al principio ricordato al n° 3 sull’adesione «agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica».

- Paradossalmente, sono esclusi dalle disposizioni del documento romano i sacerdoti più legati alla Messa tradizionale in quanto «tesoro prezioso da conservare» (n° 8) e che per ciò stesso non sono bi- ritualisti. Infatti, il n° 19 afferma: « I fedeli che chiedono la celebrazione della forma extraordinaria non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria e/o al Romano Pontefice come Pastore Supremo della Chiesa universale».
Si noterà una certa differenza: l’Istruzione parla di «validità» o di «legittimità» laddove la Lettera ai vescovi di Benedetto XVI del 7 luglio 2007 parlava di «riconoscimento del valore e della santità» del Novus Ordo Missae e della non esclusività della celebrazione tradizionale. Resta il fatto che questo n° 19 rischia fortemente di fornire ai vescovi la possibilità di neutralizzare efficacemente l’Istruzione, paralizzando il suo desiderio di una larga applicazione del Motu Proprio «per il bene dei fedeli» (n° 8).

Certi commenti frettolosi hanno fatto credere che la Fraternità San Pio X fosse anche esclusa in ragione della sua opposizione al Romano Pontefice, cosa che non è esatta, poiché la remissione delle “scomuniche” dei suoi vescovi è stata fatta perché Roma ha ritenuto proprio che essi non si oppongono al primato del Papa. Il decreto del 21 gennaio 2009, infatti, riprendeva i termini di una lettera del 15 dicembre 2008 indirizzata da Mons. Fellay al cardinale Castrillón Hoyos: «credendo fermamente nel primato di Pietro e nelle sue prerogative».

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I paradossi di questa Istruzione tradiscono i compromessi diplomatici attuati per facilitare l’applicazione, fino ad oggi laboriosa, del Motu Proprio Summorum Pontificum, ma essi si basano essenzialmente sulla reiterata affermazione di una continuità dottrinale tra la Messa tridentina e il Novus Ordo Missae; « I testi del Messale Romano di Papa Paolo VI e di quello risalente all’ultima edizione di Papa Giovanni XXIII, sono due forme della Liturgia Romana, definite rispettivamente ordinaria e extraordinaria: si tratta di due usi dell’unico Rito Romano, che si pongono l’uno accanto all’altro. L’una e l’altra forma sono espressione della stessa lex orandi della Chiesa» (n° 6).

Ora, su questo punto si può solo constatare una opposizione tra due Prefetti della Congregazione per la Dottrina della Fede: il cardinale Alfredo Ottaviani, col suo Breve esame critico del Novus Ordo Missae, e il cardinale William Levada, firmatario della presente Istruzione.
Nel suo studio, consegnato a Paolo VI il 3 settembre del 1969, il cardinale Ottaviani scriveva; «il Novus Ordo Missae, […] rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino».
E il cardinale Alfonso Maria Stickler, Bibliotecario di Santa Romana Chiesa e archivista degli Archivi Segreti del Vaticano, in occasione della riedizione del Breve esame critico dei cardinali Ottaviani e Bacci, il 27 novembre 2004, scriveva: «L’analisi del Novus Ordo fatta da questi due cardinali non ha perduto affatto il suo valore, né, sfortunatamente, la sua attualità… oggi i risultati della riforma sono giudicati devastanti da molti. Il merito dei cardinali Ottaviani e Bacci fu di scoprire molto presto che le modifiche dei riti portavano ad un cambiamento fondamentale della dottrina».

È proprio in ragione delle gravi carenze del Novus Ordo Missae e delle riforme introdotte da Paolo VI che la Fraternità Sacerdotale San Pio X si interroga seriamente se non sulla validità di principio almeno sulla «legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria» (n° 19), tanto è difficile considerare la Messa di San Pio V e quella di Paolo VI come appartenenti ad una stessa «ininterrotta tradizione apostolica» (n° 3), esattamente come aveva notato nel 1969 il cardinale Ottaviani.

Nessun dubbio che l’Istruzione Universae Ecclesiae, che si inscrive nella linea del Motu Proprio Summorum Pontificum, costituisca una tappa importante nel riconoscimento dei diritti della Messa tradizionale, ma le difficoltà di applicazione che l’Istruzione si sforza di eliminare, non lo saranno completamente se non con lo studio di questa profonda divergenza, non tanto tra la Fraternità San Pio X e la Santa Sede, quanto fra la Messa tradizionale e il Novus Ordo Missae. Divergenze che non possono essere oggetto di un dibattito sulla forma («extraordinaria» o «ordinaria»), ma sul fondamento dottrinale.


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a questo punto è opportuno segnalare il commento di Padre Giovanni Scalesi dal suo blog "Senzapelisullalingua" poichè, da quest'altra parte della "barricata" in effetti, riporta seppur su punti diversi, le stesse preoccupazioni riportate dalla FSSPX....


A proposito di “Universae Ecclesiae”

«Le sentenze non si discutono, si applicano». Semmai, si appellano. Mutatis mutandis, tale principio, proprio dell’ordinamento civile, può essere estensivamente applicato anche a quello canonico. Per cui i provvedimenti dell’autorità ecclesiastica non dovrebbero essere oggetto di discussione, ma di semplice esecuzione. Nel caso di decisioni prese da un’autorità inferiore si può sempre prevedere un ricorso all’autorità superiore; nel caso degli atti pontifici, invece, non è previsto alcun tipo di ricorso: le sentenze emesse dal Sommo Pontefice sono inappellabili (can. 1629); addirittura, chi ricorre al Concilio ecumenico o al Collegio dei Vescovi contro un atto del Romano Pontefice deve essere punito con una censura (can. 1372).

Fondandomi su questo principio, avevo pensato di non pronunciarmi a proposito della pubblicazione dell’istruzione Universae Ecclesiae. È vero, non si tratta di un intervento pontificio, ma di un documento della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”. Quindi, teoricamente, se ne potrebbe anche discutere; ma a me pare che esso faccia proprio ciò che devono fare le istruzioni: «rendono chiare le disposizioni delle leggi e sviluppano e determinano i procedimenti nell’eseguirle» (can. 34). Mi sembra che Universae Ecclesiae assolva correttamente questo compito nei confronti del m. p. Summorum Pontificum, il quale, essendo un atto del Papa, non dovrebbe essere messo in discussione. Ritengo che la nuova istruzione non aggiunga molto al motu proprio: essa si limita a fare alcune precisazioni, tese a evitare che d’ora in poi ci possano essere equivoci nell’interpretazione di Summorum Pontificum.

Se proprio si volesse cercare nell’istruzione una qualche novità rispetto al motu proprio, personalmente direi che questa vada ricercata nel primo degli obiettivi del documento papale, individuati al n. 8:

«[Il motu proprio] si propone l’obiettivo di:
a) offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’Usus Antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare;
b) garantire e assicurare realmente a quanti lo domandano, l’uso della forma extraordinaria, nel presupposto che l’uso della Liturgia Romana in vigore nel 1962 sia una facoltà elargita per il bene dei fedeli e pertanto vada interpretata in un senso favorevole ai fedeli che ne sono i principali destinatari;
c) favorire la riconciliazione in seno alla Chiesa».

Sul secondo e terzo obiettivo, nulla da eccepire, dal momento che essi sono chiaramente espressi nel motu proprio e nella lettera accompagnatoria ai Vescovi (si veda il mio post del 16 settembre 2010). Onestamente, non mi sembra che si possa dire altrettanto del primo obiettivo: finora ne potevano aver parlato alcuni prelati; ma faccio fatica a trovare quell’obiettivo esplicitamente dichiarato all’interno del motu proprio. In ogni caso, non ho nulla da ridire in proposito: se questa era veramente la mens del Santo Padre, era giusto che essa, rimasta implicita nel motu proprio, venisse esplicitata nell’istruzione. Non posso però non rilevare che, a mio modesto avviso, con l’attuale disciplina, non sarà facile raggiungere quell’obiettivo. Mi spiego: il motu proprio permette, ma non impone la celebrazione della Messa secondo il vecchio rito; per cui non vedo come, con una celebrazione che di fatto rimarrà limitata ai gruppi che ne faranno richiesta, si possa perseguire l’obiettivo di «offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’Usus Antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare».

Potrei fermarmi qui. Ma, siccome sono stato sollecitato a prendere posizione nel dibattito che è seguito alla pubblicazione dell’istruzione, mi sembrerebbe scortese rispondere con un secco «No comment». In particolare mi è stato chiesto di esprimere un’opinione sul commento del Prof. Andrea Grillo, pubblicato nel suo blog e ripreso dal Padre Augé. Devo precisare di aver letto il post del Prof. Grillo, ma di non aver potuto seguire i commenti pubblicati nel blog Liturgia Opus Trinitatis, perché da qualche tempo un misterioso problema tecnico mi impedisce di visitarlo.

Quanto alle considerazioni del Prof. Grillo, si potrà pure contestare il loro tono un tantino “brutale” o, come è stato detto, “temerario”; ma non le si può ritenere prive di qualsiasi fondamento. Il suo intervento potrà certo essere criticato; ma non può essere liquidato semplicemente come la reazione isterica di un nostalgico modernista o come l’atto di insubordinazione di un liturgista disobbediente al Papa. Secondo me, esso deve essere accolto come una stimolante provocazione, che ci costringe a riflettere su una situazione che non può essere considerata scevra di problemi.

Non mi sembra il caso di riprendere e discutere qui le singole osservazioni di Grillo. Ritengo piú utile esporre le mie personali riflessioni (che avrei preferito tenere per me) non tanto sull’istruzione (che — ripeto — non mi sembra portatrice di grandi novità), quanto piuttosto sul “doppio regime” liturgico, introdotto dal m. p. Summorum Pontificum e confermato dall’istruzione Universae Ecclesiae. Che qualche problema esista non sono solo il Prof. Grillo o il Padre Augé a dirlo. Proprio questo fine-settimana Vittorio Messori, col suo solito disarmante buon senso, faceva notare:

«Ma se il vecchio rito era bello e buono, come adesso si riconosce, perché è stato sostituito? Perché, anzi, è stato stravolto? Se si voleva solo cambiare la lingua, perché non è stato tradotto dal latino con solo qualche ritocco qua e là, come è avvenuto altre volte nella storia della Chiesa?» (La Bussola Quotidiana).

Per quanto mi riguarda, mi ero già espresso su Summorum Pontificum (i vedano i post del 6 marzo 2009 e del 18 luglio 2009). Forse qui conviene riprendere i punti allora enunciati e aggiungerne qualche altro frutto di successive riflessioni.

1. Innanzi tutto, a proposito del presupposto della nuova disciplina, Summorum Pontificum afferma che il vecchio rito non è stato mai abolito. Non mi sembra che tale affermazione trovi corrispondenza nella volontà piú che esplicita di Paolo VI di sostituire il Vetus Ordo con il Novus.

2. Sono sempre stato favorevole al fatto che ai fedeli tradizionalisti fosse riconosciuto il diritto di partecipare alla Messa secondo l’antico rito; ciò che mi crea difficoltà è la totale liberalizzazione di esso. Secondo me, per garantire quel sacrosanto diritto, non era necessario giungere alla liberalizzazione (che ritengo sia stata accordata esclusivamente per motivi di “politica ecclesiastica”, vale a dire per venire incontro ai lefebvriani, che l’avevano richiesta). Quel diritto poteva essere garantito tranquillamente attraverso l’istituto dell’indulto. Si dirà: ma l’indulto già esisteva e aveva mostrato i suoi limiti. Bene, a mio parere, bisognava trovare il modo di renderlo piú efficace senza giungere alla completa liberalizzazione. 

3. Personalmente trovo che l’attuale “doppio regime” non possa che essere fonte di confusione e divisioni. Si dirà: ma perché non si sottolineano i medesimi pericoli quando si tratta degli abusi liturgici? Rispondo: semplicemente perché, in quel caso, si tratta appunto di abusi; qui invece si sta parlando della norma. Diverso sarebbe stato se si fosse proseguito sulla strada dell’indulto. L’indulto è un privilegio, un’eccezione alla norma, accordata a determinati gruppi, senza mettere in discussione la norma stessa, che resta vincolante per tutti (“l’eccezione conferma la regola”). Personalmente, non ho alcuna difficoltà ad ammettere l’esistenza di amministrazioni apostoliche, ordinariati, prelature personali, istituti di vita consacrata, società di vita apostolica, parrocchie, rettorie, cappellanie, associazioni di fedeli, che godano del privilegio, da prevedere negli statuti, di celebrare secondo l’antica liturgia. Ecco, se proprio la disciplina precedente non sembrava soddisfacente, si poteva disporre che in ciascuna diocesi, in assenza di istituti “Ecclesia Dei”, si istituisse una parrocchia personale o, almeno, una cappellania per venire incontro ai fedeli legati alla tradizione. Trovo difficile da accettare invece che i due usi del rito romano vengano considerati su un piano di perfetta parità, e che ognuno possa sentirsi libero di scegliere una delle due forme, e che un qualsiasi gruppo di fedeli possa andare da un parroco e “pretendere” che si celebri la Messa tridentina.

4. Faccio fatica a capire come tali gruppi di fedeli (giuridicamente non ben definiti) possano godere di una sorta di “corsia preferenziale” rispetto a tutti gli altri fedeli, che sono tenuti a uniformarsi alle norme pastorali vigenti in ciascuna diocesi. Faccio un esempio che mi tocca da vicino: noi religiosi (che non siamo dei gruppi spontanei, ma delle persone giuridiche ufficialmente riconosciute dalla Chiesa ed esenti dal governo degli Ordinari del luogo) siamo soggetti alla potestà dei Vescovi in ciò che riguarda la cura delle anime, l’esercizio pubblico del culto divino e le opere di apostolato (can. 678 § 1). In qualche caso ciò si traduce in forti limitazioni nel decidere il numero e l’orario delle Messe, nella celebrazione del triduo pasquale e nell’amministrazione dei sacramenti (prima comunione, cresima, matrimonio) nelle nostre chiese non-parrocchiali o nei nostri oratori semipubblici. Non riesco a capire perché i gruppi tradizionalisti debbano godere di facoltà piú ampie di quelle dei religiosi (al punto che possono ottenere la reiterazione dei riti della settimana santa nella stessa chiesa: Universae Ecclesiae, n. 33).

5. Uno dei punti qualificanti del motu proprio (piú precisamente, della concomitante lettera ai Vescovi) è la riaffermazione della continuità tra Vetus e Novus Ordo: «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura». Ebbene, non mi sembra che la disciplina del “doppio regime” metta in risalto tale continuità: se si parla di continuità di due segmenti, ci si pone su una stessa linea retta; se si “giustappongono” (Universae Ecclesiae, n. 6; si veda il commento di Cantuale Antonianum) i due riti, li si pone su due rette parallele, e non si può piú parlare di continuità. Una volta dichiarata la continuità tra il vecchio e il nuovo rito, tutti dovrebbero accettare il nuovo come sostitutivo del vecchio (senza escludere, come detto, eventuali eccezioni, che però devono rimanere tali). La giustapposizione è una forma di dualismo, che non favorisce in alcun modo la percezione della continuità.

6. La stessa terminologia scelta per distinguere i due usi (“forma ordinaria” e “forma straordinaria”), che condivido, a mio parere implicherebbe una diversa disciplina, vale a dire quella dell’indulto e non quella della coesistenza su un piano di parità (nel qual caso non si capisce perché una forma debba essere considerata “ordinaria” e l’altra “straordinaria”).

7. Recentemente il Card. Kurt Koch ha affermato che Benedetto XVI avrebbe avviato col motu proprio la “riforma della riforma”, da lui a piú riprese auspicata prima di diventare Papa. Sinceramente tale affermazione suscita in me qualche perplessità: non riesco a vedere come la liberalizzazione del rito tridentino possa segnare l’inizio della “riforma della riforma”. A mio parere, una “riforma della riforma” era già in corso nella Chiesa dal giorno in cui era entrato in vigore il Novus Ordo. Certo, nessuno usava quell’espressione, ma di fatto di questo si trattava; o, se vogliamo, si trattava di una continuazione, di uno sviluppo della riforma. Un fatto è certo: la riforma liturgica non poteva dirsi conclusa. Man mano che passavano gli anni venivano introdotte delle correzioni e degli adattamenti; molto spesso si recuperavano elementi che erano stati forse un po’ frettolosamente accantonati dalla prima riforma. Testimoni di tale evoluzione sono le tre edizioni del Missale Romanum: si faccia un confronto tra la prima e la terza, e si vedranno le differenze. Bene, ho paura che il motu proprio, nonché favorire la “riforma della riforma”, finisca per bloccarla. Il rischio, non remoto, è che si possa assistere a una polarizzazione dei due riti. Altro che continuità!

8. Il Card. Ratzinger aveva espresso l’opinione che «a lungo termine la Chiesa romana deve avere di nuovo un solo rito romano. L’esistenza di due riti ufficiali per i vescovi e per i preti è difficile da “gestire” in pratica» (lettera al Dott. Heinz-Lothar Barth del 23 giugno 2003). Ora tale convinzione è stata ripresa dal Card. Koch: «A lungo termine, non possiamo fermarci a una coesistenza tra la forma ordinaria e la forma straordinaria del rito romano … la Chiesa avrà nuovamente bisogno nel futuro di un rito comune». Se questo è lo scopo, a che pro liberalizzare l’usus antiquior? Risponde Koch, riprendendo le parole di Benedetto XVI: «Le due forme dell’uso del rito romano possono e devono arricchirsi a vicenda». Siamo proprio sicuri che ciò avverrà? D’accordo che «una nuova riforma liturgica non può essere decisa a tavolino, ma richiede un processo di crescita e di purificazione»; ma chiedo: tale “processo di crescita e di purificazione” non era già in corso? Non rischia ora di essere bloccato? Non conveniva che il Vetus Ordo rimanesse il rito proprio di alcune, ben definite, categorie di fedeli, e da tale posizione continuasse a influire sul Novus?

Solo domande, le mie, che non intendono in alcun modo mettere in discussione la piena legittimità del motu proprio e della sua istruzione applicativa. Come detto, avrei preferito tenere per me i miei dubbi; ma, visto che mi è stato richiesto, ho voluto condividerli con voi. Con semplicità. Sperando di non essere tacciato di modernismo e di disobbedienza al Santo Padre...

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una mia umile osservazione a padre Scalese:

Io non credo che il Papa abbia agito con il MP SP ed ora con l'Universae Ecclesiae  "solo" per i lefebvriani o per i gruppi nostalgici, nel commento brillante di Vittorio Messori da lei citato, c'è una conclusione sull'argomento che condivido pienamente, dice:
Ormai è il credere che è diverso e questo spiega perché, nonostante le apertura del Papa, il motu proprio, i colloqui, eccetera, nulla si sia davvero smosso. Basta leggere le pubblicazioni lefebvriane, con la loro immutata durezza, per rendersene conto. Temo che lo scisma stia scivolando in qualcosa di più profondo.
............
 
e credo che Ratzinger questo lo sapeva bene perchè è con Giovanni Paolo II che decisero, sembra insieme, di fondare la risposta concreta alla FSSPX, la FSSP ;-)
ai quali Benedetto XVI ha affidato, e per la prima volta, una Parrocchia romana...
Benedetto XVI io credo che pensi più a loro che non alla FSSPX ;-)
oggi contano 200 sacerdoti formati esclusivamente nella forma straordinaria e tradizionale della Chiesa, dfanno perfino il giurnamento antimodernista.... ma anche CONTRO DI LORO si levarono gli scudi di gran parte dei vescovi non concedendo ad essi il famoso indulto dell'Ecclesia Dei....

 
Ecco, io credo che il Papa abbia pensato fin dal principio  A NOI! ;-)
a questi piccolissimi GRUPPI di fedeli ignorati, esiliati, che si fanno centinaia di chilometri per andare alla Messa antica e non lo fanno per i "pizzi, trine, merletti o incensi" perchè se è vero che anche l'occhio vuole la sua parte, chi scopre o riscopre questa Messa, ci ritorna per ben ALTRO, ma le distanze sono spesso proibitive e i Vescovi NON ci danno una mano....
Poi senza dubbio ha pensato anche ai Lefebvriani, come spiega nella Lettera ai Vescovi, ma li parlava più che altro della revoca della scomunica e non della liberalizzazione della Messa, un dato oggettivo da non sottovalutare ;-)
l'indulto non era solo limitato caro padre Giovanni, ma completamente ignorato....al contrario è stato IMPOSTO invece il modo di celebrare dei neocatecumenali....vada in una chiesa dove operano e vedrà la scomparsa del presbiterio, vedrà che essi non celebrano sugli altari post-concilio, ma ne aggiungono un secondo, il loro sotto il presbiterio, al di fuori, perchè così dice Kiko....ma al Papa quasto non va giù, la Lettera del 2005 data al CnC non ha avuto corrispondenza ed io credo che il Papa si sia mosso in tal senso anche per aiutare Kiko all'obbedienza...
il nesso c'è perchè il Papa infatti nel riformare la Messa moderna e che come ha detto mons. Guido Marini a febbraio egli desidera che in tutte le Parrocchie la Messa ordinaria venga celebrata come la sta facendo lui, non ha fatto altro che riportare un certo equilibrio fra le parti che tanti abusi e tante negazioni da parte dei vescovi, avevano troppo scompensato dando invece la palla ai lefebvriani per contestarci CON RAGIONEVOLI ARGOMENTI....
 

Non pensiamo solo ai lefebvriani....i gruppi amanti della Messa antica sono piccoli si, ma tanti e in crescita... e non stiamo con Lefebvre ma con il Papa e questo Ratzinger lo sapeva fin dal 1992....e sapeva che questi gruppi avevano urgente bisogno di uno SPONSOR dalla firma Petrina ;-)
 


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)