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Breve rassegna dei primi nove papi che hanno portato il nome Benedetto.


Benedetti riformatori... e un altro Benedetto domenicano.... [SM=g1740733]


Da conclavi dominati dalle potenze emergono nel Settecento due “indipendenti”: Benedetto XIII e Benedetto XIV. Per tanti versi dissimili, non è però solo il nome ad accomunarli, ma un sincero tentativo di riforma


di Lorenzo Cappelletti


Illustrazione con cui si apre l’edizione degli Atti del Sinodo romano del 1725 stampata in Roma nello stesso anno dalla tipografia 
 <br /> Rocchi Bernabò

Illustrazione con cui si apre l’edizione degli Atti del Sinodo romano del 1725 stampata in Roma nello stesso anno dalla tipografia Rocchi Bernabò

BENEDETTO XIII (1724-1730)

Bisogna aspettare il XVIII secolo per vedere ricomparire il nome Benedetto nella lista dei papi. Forse perché gli ultimi ad averlo prescelto erano stati, fra il Trecento e il Quattrocento, due antipapi.
Lo sceglie di nuovo, al momento della sua elezione al soglio pontificio nel maggio 1724, il cardinale Pietro Francesco Orsini ovvero, secondo il nome di religione, il domenicano fra Vincenzo Maria Orsini. Che da papa prese il nome di Benedetto in riferimento al beato papa domenicano Benedetto XI (1303-1304). Rifacendosi all’umile successore di Bonifacio VIII dell’inizio del Trecento – e non a Pio V, ad esempio, papa domenicano di epoca più recente e proclamato santo pochi anni prima, nel 1712 –, Benedetto XIII, a chi voleva intendere, già offriva la cifra del suo pontificato, come vedremo.

Di nobile e religiosissima famiglia pugliese (sua madre, rimasta vedova nel 1658, avrebbe poi vestito l’abito domenicano), fece la sua professione fra i domenicani nel febbraio 1669 poco più che diciannovenne. Sul momento, con grave scorno dei suoi, che gli stavano preparando un matrimonio degno dell’erede del duca di Gravina. Ma i suoi non si persero d’animo e rimediarono combinando l’unione dell’altro maschio con la nipote del papa allora regnante Clemente X Altieri, facendo nominare nel contempo cardinale, con grave scorno di lui, lo stesso fra Vincenzo Maria pochi mesi dopo la sua ordinazione sacerdotale, nel 1672.
Poteva trattarsi dell’esordio di una tipica carriera ecclesiastica da ancien régime. E in qualche modo fu così. In quell’epoca non c’era cardinale che non emergesse dalla combine fra trono e altare. Chi può prescindere dal periodo storico che gli è dato di vivere? Eppure, scrive Luigi Fiorani nel Dizionario storico del Papato, «il suo itinerario personale e la sua ascesa seguono solo in parte la falsariga della carriera di un prelato di rango» (DSP, I, p. 163).

Anche il suo pontificato ebbe caratteri difficilmente inquadrabili in uno schema, per quanto, se letto attraverso alcuni parametri, non si distacchi da altri tipici pontificati “deboli” dell’età moderna. Egli, settantacinquenne, italiano, zelante, cioè facente parte del gruppo dei cardinali che si volevano solleciti solo del bene della Chiesa, fu eletto all’unanimità proprio perché le potenze del momento, rispecchiate in conclave, dopo essersi fronteggiate per oltre due mesi, trovarono alla fine l’accordo attorno a un candidato ritenuto politicamente inoffensivo.
Tanto meglio se, nel caso dell’Orsini, la sua neutralità non era tattica, ma scaturiva da autentica profondità religiosa. Scriveva il cardinale Cienfuegos all’imperatore pochi giorni dopo l’elezione di Benedetto: «Il pronostico che si fa del governo del Papa si riduce a crederlo rigido nelle cose ecclesiastiche, e che dove si tratti di queste possa egli dare in qualche stortura anche colle corone. Peraltro le sue intenzioni sono rettissime e la vita sua lo canonizza per santo» (citato dal Pastor,
Storia dei papi, XV, p. 502, nota 2).


Busto di Benedetto XIII, Pietro Bracci, battistero della Basilica di Santa Maria Maggiore, Roma

Busto di Benedetto XIII, Pietro Bracci, battistero della Basilica di Santa Maria Maggiore, Roma

Nel giudizio storiografico viene messo in rilievo soprattutto lo zelo religioso di Benedetto XIII. Sia che lo si legga in chiave puramente elogiativa fino a negare la sua più o meno voluta (ne riparleremo) inettitudine politico-diplomatica, sia che l’inettitudine politico-diplomatica sia fatta risalire in modo neppur troppo velato allo stesso zelo. Se nella scheda a lui dedicata come “servo di Dio” nel I Supplemento della Bibliotheca Sanctorum (sulla scorta, è facile capirlo, della monumentale “memoria difensiva” che G. B. Vignato gli ha dedicato fra il 1952 e il 1976) si legge che «fu la fama di “santo” ad attirargli il consenso unanime [ingenuamente enfatizzato nel testo] dei cardinali» (p. 159), il Pastor, pur ribadendo che «non può esserci dubbio che egli sia stato uno dei papi più devoti e umili», a conclusione della sua trattazione scrive una sentenza di condanna: «Non basta essere un religioso eccellente per riuscire anche un papa capace» (XV, p. 638).
Al che ci si può chiedere – ci sia permesso l’ardire – se le oltre centocinquanta pagine di documentatissima analisi che il Pastor dedica a Benedetto XIII (le abbiamo ripercorse tutte), in questo caso non siano l’incartamento giudiziario dell’accusa più che un vero tentativo di comprensione storica.


Dagli uni e dagli altri, comunque, e anche dal tiers-parti storiografico intermedio, per mettere in sicurezza la santità del Papa, si fa ricadere la responsabilità dei limiti della sua azione di governo sui corrottissimi beneventani di cui il Papa si circondò, e in particolare su Niccolò Coscia, già suo segretario a Benevento, creato nel giugno 1725 cardinale e diventato il factotum del suo pontificato. «Uomo di sentimenti bassissimi», dice il Pastor con enfasi giudiziale, «abusò della posizione di fiducia fattagli da Benedetto XIII nel modo più vergognoso» (XV, p. 507).
In questo caso, d’altronde, il giudizio degli storici è concorde e coincide con una vera sentenza di condanna che raggiunse il Coscia dopo la morte di Benedetto XIII. Le sue manovre sembra riuscirono a influire addirittura sui rapporti internazionali della Santa Sede nel caso delle trattative concordatarie con l’imperatore per la Sicilia e con i Savoia per il Regno di Sardegna.


Per capire il perché di tale decisivo influsso beneventano, bisogna ricordare che Benedetto XIII aveva mantenuto anche da papa un legame privilegiato con l’arcidiocesi di Benevento, dove era rimasto per 38 anni dedicandovi, non senza personale gratificazione, le migliori sue energie. Qui aveva sperimentato l’intercessione di san Filippo Neri, suo santo prediletto, cui attribuì la propria salvezza nel terremoto che aveva seminato morte a Benevento nel 1688.
Qui aveva provveduto a un’intensa azione riformatrice dell’organizzazione ecclesiastica effettuando ben quindici visite pastorali. Qui aveva dato luogo a iniziative di carattere fiscale e sociale. Benevento infatti non era solo un’importante sede arcivescovile, era parte dello Stato pontificio, un’
enclave di esso, quasi una Avignone post litteram all’interno del Regno di Napoli; e all’arcivescovo spettavano naturalmente anche compiti di governo civile.


«L’opera di riforma perseguita per quasi un quarantennio dall’Orsini nella provincia di Benevento difficilmente potrebbe essere sopravvalutata […], prova che egli non fu così privo di esperienza delle cose amministrative e politiche e così esclusivamente dedito alle pratiche ascetiche, come poi fu sempre giudicato», scrive G. De Caro nell’acuta voce del Dizionario biografico degli italiani dedicata a Benedetto XIII (DBI, VIII, p. 385). Dunque non fu probabilmente per pura «dabbenaggine» (Pastor, XV, p. 638) che egli si affidò ai beneventani. Il Papa pensava che appoggiandosi ai “suoi”, che conosceva bene, avrebbe avuto maggiore libertà di azione per la «politica nuova che meditava» (DBI, VIII, p. 394)

In effetti, non solo a livello della disciplina ecclesiastica (basta pensare al Sinodo romano celebrato nel 1725, il primo dall’epoca di Innocenzo III!), non solo a livello sociale (basta pensare, in occasione del Giubileo di quell’anno e in obbedienza letterale al senso di esso, alla clamorosa processione a Roma di schiavi liberati, su cui ha richiamato recentemente l’attenzione Guido Miglietta, o all’iniziativa, simile a quella già sperimentata a Benevento, di agevolazione del credito e di corrispondente defiscalizzazione), egli ebbe il coraggio di fare un passo indietro, o avanti che dir si voglia, rispetto ai suoi immediati predecessori. Anche nei terreni minati dei cosiddetti riti cinesi (l’uso di continuare a celebrare i riti tradizionali della propria stirpe da parte di convertiti del Celeste Impero) e della querelle sulla grazia (i cui strascichi in Francia si facevano ancora sentire), aveva tentato un’opera di riconciliazione. Quasi emulo, a secoli di distanza, dell’opera del suo lontano predecessore Benedetto XI, Benedetto XIII in un breve del novembre 1724 cercava di riconquistare all’unità i dissidenti francesi concedendo che «la dottrina della grazia per sé stessa efficace e della predestinazione alla gloria senza previsione di meriti era una dottrina antica conforme alla Sacra Scrittura, ai decreti pontifici e agli insegnamenti di sant’Agostino e di san Tommaso» (DBI, VIII, p. 390).

Ma sono proprio i “suoi” che remano contro. Da un lato, la Curia, e segnatamente gli zelanti, cioè l’originario schieramento d’appartenenza del Papa, d’accordo con le potenze cristianissime e cattolicissime, rintuzzarono «le aperture dottrinali tentate da Benedetto XIII» (DBI, VIII, p. 389), anche con furfanterie come la interpolazione di testi dogmatici del Sinodo del ’25. I furfanti beneventani, dall’altro lato, mandarono a monte il tentativo innovatore di politica fiscale intascandone i proventi insieme coi loro sodali. E non si fermarono lì.

L’incipit degli Atti del Sinodo romano 
 <br /> del 1725 stampati in Roma 
 <br /> dalla tipografia Rocchi Bernabò

L’incipit degli Atti del Sinodo romano del 1725 stampati in Roma dalla tipografia Rocchi Bernabò

Forse proprio in questa “presbiopia”, in parte voluta, per cui fin troppo ciecamente si fidava, o era costretto a fidarsi, dei vicini, e fin troppo acutamente sospettava, o era costretto a sospettare, dei lontani, risiede l’effettiva debolezza di Benedetto XIII. «Inflessibile l’Orsini si mostrava verso gli attacchi esterni, effettivi o presunti», si legge in un passaggio marginale della voce del DBI, (VIII, p. 386), che può però rivelarsi una chiave interpretativa centrale non solo per il pontificato di Benedetto. Perché ci fa riflettere su come sempre più, nel secondo millennio, le due cittadinanze di Agostino siano state ridotte indebitamente a un “essere dei nostri” e a un “essere dei loro” a prescindere dal dinamismo della grazia. E questo proprio da parte di coloro che hanno cercato magari di vivere fedelmente la Tradizione.
Non è un caso che sia stato Benedetto XIII, al culmine del suo pontificato, a estendere a tutta la Chiesa il culto a san Gregorio VII e con ciò ad approfondire il solco, scatenando un vero e proprio putiferio diplomatico. Dando ben più che «in qualche stortura colle corone», come aveva pronosticato il roboante cardinale Cienfuegos.


Ma proprio tutto questo rumore per nulla ci suggerisce di rintracciare l’autentica cifra del pontificato di Benedetto XIII (in attesa che ulteriori studi da tutti invocati ne illustrino più a fondo la figura) in alcuni dati e in alcune date che nessuno, ci sembra, ha sottolineato.
Non si può non rilevare, infatti, a partire dalla sua morte, avvenuta alla vigilia della festa della Cattedra di San Pietro del 1730, che la data del 22 febbraio accompagnava da sempre Benedetto XIII quasi come un presagio.
Infatti in quel medesimo giorno (in cui, nell’anno 1700, era morta sua madre, a cui da gestante era stato predetto il destino del figlio!) egli era stato creato cardinale, e prima ancora era stato ordinato diacono. Anche se lo era restato solo per lo spazio di due giorni, come si usava allora, Benedetto, che come nome di battesimo si chiamava Pietro Francesco, non poteva avere come destino che quello di essere per tutta la vita, e anche dopo, un papa “diacono”, un servo (dei servi) di Dio. È il titolo che la Tradizione gli assegnava e che accompagna per ora la sua memoria.







L’Ospedale di San Gallicano in Trastevere, un’opera buona e bella grazie a Benedetto XIII

Neglectis reiectisque ab omnibus


 


di Simona Benedetti



L’Ospedale di San Gallicano in Trastevere in una stampa 
 <br /> di Giuseppe Vasi, metà del XVIII secolo

L’Ospedale di San Gallicano in Trastevere in una stampa di Giuseppe Vasi, metà del XVIII secolo

La caritatevole opera assistenziale di don Emilio Lami da Monterotondo, inizialmente prestata nell’ospizio dei poveri di Santa Galla (dove venivano ricoverati i senzatetto, molti dei quali afflitti da malattie cutanee), poi, per intercessione del cardinale Corradini, presso una casa in affitto vicino alla chiesa di San Benedetto in Piscinula, è all’origine dell’opera promossa da Benedetto XIII, che volle la costruzione dell’Ospedale di San Gallicano per assistere le persone affette da malattie cutanee.

Appena eletto, Benedetto XIII incaricò il cardinale Corradini di individuare il sito per la costruzione del nuovo ospedale da realizzarsi con fondi pontifici della Dataria in occasione del Giubileo del 1725. È nota l’avversione di Benedetto XIII per il lusso. Una fonte coeva e ben informata riporta la critica che da cardinale aveva espresso sulle magnifiche scuderie papali del Quirinale: «Quanto sarebbe stato meglio che quel denaro fusse applicato in benefizio dei poveri e non al commodo delle bestie!».

Per il nuovo edificio venne elaborato dal Lami un «piccolo sbozzo» per la distribuzione funzionale degli ambienti, sistemati in pianta inizialmente con l’aiuto dell’architetto Lorenzo Possenti. Tuttavia è Filippo Raguzzini «napolitano, già architetto in Benevento di Sua Santità», ad essere designato per il progetto definitivo dell’Ospedale. Egli peraltro accolse sia gli aspetti di massima del progetto sia taluni innovativi suggerimenti funzionali, probabilmente dettati dall’esperienza sul campo del Lami, come il ballatoio per aprire e chiudere dall’esterno le finestre (poste in quota elevata rispetto al livello delle corsie dei degenti) o la dotazione di servizi igienici tutti marmorei, «cosicché l’acqua abbondantissima vi scorre dentro e li pulisce tutti», collocati in nicchie, chiuse da porte, poste nelle murature perimetrali delle corsie, e areati da ventole che trovano la loro corrispondenza in bucature sulle paraste esterne mimetizzate come elementi decorativi circolari.

La disposizione planimetrica per l’organismo originario prevedeva due lunghe corsie, una per gli uomini e l’altra per le donne. Sulle due testate erano previsti gli ambienti per gli assistenti (chierici per gli uomini e vergini per le donne). Parallelamente all’estensione degli ambienti delle corsie dei degenti (per un totale di 160 metri) si dispiegava il corpo di fabbrica dei servizi: locali con camini per l’inverno; stanze per i moribondi che venivano allontanati dagli ambienti comuni; logge e loggioni per stendere la biancheria d’inverno; vani con “lavamano per gli infermi”; cucine; refettori, ecc. I sotterranei erano adibiti a depositi e rimesse.

Nel cuore dell’intera composizione emerge la chiesa a pianta centrale e coperta a cupola, fuoco architettonico e urbano di tutto il complesso, sia funzionalmente (nello spazio interno della chiesa, in corrispondenza con le corsie dei degenti, sono aperti un finestrone e due porte su ciascun lato per permettere ai malati di assistere alle liturgie), sia figurativamente: sul fronte strada, infatti, il corpo di fabbrica della chiesa interrompe la lunghissima quinta dell’edificio distaccandosi dalla ripetitività della parete e rinvigorendo volumetricamente le modulate cadenze formali dei corpi laterali.
Le linee architettoniche convesse e concave della chiesa prettamente barocche unite al grande arcone d’ingresso segnalano e impreziosiscono formalmente questo cuore dell’intero complesso assistenziale, dedicato «agli abbandonati e respinti da tutti».

Nell’epigrafe all’ingresso dell’ospedale si legge infatti: «Benedetto XIII padre dei poveri eresse questo ospizio ampio e imponente, e dotato di censo annuo, per curare gli abbandonati e respinti da tutti che soffrono per il prurito in testa per la tigna e per la scabbia, e per strapparli dalle fauci di una morte precoce. Nell’anno della salvezza 1725».




[Modificato da Caterina63 24/08/2012 22:46]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)