00 10/09/2011 16:31

la fretta urticante della nuova liturgia

L’adorazione
La messa in latino cancella la fretta urticante della nuova liturgia e ci fa girare
di Francesco Agnoli

Ai piedi di una bella montagna, slanciata verso il cielo, ogni uomo sente dentro di sé qualcosa, un movimento segreto, intimo, incomunicabile, che la parola non sa esprimere, ma che assomiglia molto ad un desiderio di umile adorazione. L’immensità buona e potente della montagna risveglia nell’uomo di città, nell’uomo delle moderne metropoli piatte e monotone, confuse e rumorose, quello che Romano Amerio considerava il cuore dell’esperienza umana: “Il problema dell’uomo è il problema dell’adorazione e tutto il resto è fatto per portarvi luce e sostanza”. Che l’adorazione sia il problema dell’uomo, oggi, non è tanto facile capirlo. Non ci aiutano a farlo né le infinite occupazioni, né gli svaghi senza uscita offertici dalla tecnologia, né il diluvio di parole in cui siamo sommersi. Eppure, come scrive il Radaelli, nel suo bellissimo “Ingresso alla bellezza” (Fede & Cultura), “l’adorazione è un atto che soddisfa perfettamente il fine ultimo dell’universo, il quale, a cominciare dal nome, esige in primo luogo l’unità: ma non solo e non tanto l’unità del proprio essere universo, ma l’unità con l’Essere da cui esso, ‘ente per partecipazione’, in tutto dipende: con Dio, con l’Ente in sé sussistente; l’adorazione è l’atto che permette di non fratturarsi da Lui, pena trovarsi, statim, nulla”.

Su un pensiero analogo a questo si fonda la recente decisione di Benedetto XVI di liberalizzare l’antica messa latina, e di attuare col tempo una riforma liturgica nella riforma del 1970. Perché è innegabile che là dove l’adorazione dovrebbe trovare il suo culmine, nella sacra liturgia, nella preghiera comune della chiesa, nel sacrificio che unisce cielo e terra, purgatorio e paradiso, uomini e angeli, vi è sempre di più, oggi, qualcosa di assolutamente incongruo, dissonante. Al punto che il momento fondante della Messa, l’incontro con Gesù eucarestia, che dovrebbe rappresentare il massimo della umiliazione e divinizzazione, al tempo stesso, del fedele, avviene nella nuova liturgia nel più completo anonimato, alla fine della celebrazione, quasi in extremis, non più in ginocchio, come un tempo, ma in piedi, da pari a pari, con una frettolosità orticante, per chi, appunto, desideri adorare, prostrarsi; non più in bocca, con quella riverenza che si conviene, ma in mano, come se la comunione fosse non un panis angelicus caduto dal cielo ma un cibo qualsiasi, che si prende da soli, che si sceglie di afferrare, e non di ricevere in dono, così come si fa dalla tavola, a ogni pasto.

Per non degenerare in show

L’adorazione infatti implica un atto di umile sottomissione, e soprattutto un verso, una direzione: è un orare ad, cioè verso qualcuno, e quel qualcuno può e deve essere solo Dio, a cui è presente tutta l’umanità, non solo il “popolo”, la comunità di un determinato istante o di un determinato luogo. Pregare verso Dio, verso oriente, esige allora un atteggiamento del cuore e del corpo, che tutta la celebrazione deve contribuire a creare. La messa deve tornare a essere dialogo tra Dio e gli uomini, tramite il Dio che si è fatto uomo e che si presenta a noi sotto le spoglie del sacerdote, non dialogo tra un presidente e la sua assemblea.

E tutto, dall’arte, alle statue, all’altare, alla musica, deve tornare a servire a questo, perché “se manca il genius dell’adorazione trinitaria, subito subentra e gli si impone il genius opposto dell’antiadorazione, ossia della dispersione, della vacuità, del laicismo irrazionale e relativizzante”.

Antiadorazione significa, come scriveva il cardinal Ratzinger nella prefazione ad un libro del grande liturgista Klaus Gamber, “liturgia degenerata in show, nella quale si cerca di rendere la religione interessante sulla scia di sciocchezze di moda e di massime morali seducenti, con successi momentanei nel gruppo dei fabbricatori liturgici, e di conseguenza una tendenza al ripiegamento sempre più forte in coloro che nella liturgia non cercano lo showmaster spirituale ma l’incontro col Dio vivente”. Dio vivente, come nota sempre il Radaelli, che viene addirittura eliminato nelle immagini, nelle piante non più a croce, e nelle croci stesse, con una strana furia iconoclasta: “Non c’è più Volto, perché spesso il sacro Volto non lo si figura più o, se lo si figura, gli si svellono i caratteri dell’individuo: sacri volti senza occhi, sante mani senza dita, croci senza Crocifissi…”. Lo notava, quasi quarant’anni fa, anche Guareschi, in una amara lettera al suo don Camillo, in cui lo invitava ironicamente a seguire le disposizioni della riforma liturgica, a dimenticare la sua storia, ad abbandonare la liturgia che aveva sempre celebrato: “Lei don Camillo… aveva pur visto alla tv la suggestiva povertà dell’ambiente e la toccante semplicità dell’Altare, ridotto a una proletaria tavola. Come poteva pretendere di piazzare in mezzo a quell’umile sacro desco un arnese alto tre metri come il suo famoso crocifisso cui lei è tanto affezionato? … non si era accorto che il crocifisso situato al centro della tavola era tanto piccolo e discreto da confondersi coi due microfoni?”.

Ecco, dopo oltre trent’anni, torneremo, piano piano, alla centralità della croce, e alla centralità dell’Altare: verso il Signore.

E’ questa la restaurazione liturgica che Benedetto XVI persegue da quando era cardinale. La Croce che, come scrive Radaelli, significa “umiltà, obbedienza, dipendenza, contrizione, conversione del cuore, sacrificio, penitenza, silenzio”; la croce senza la quale il cristianesimo diviene una filosofia, una sociologia, una forma di moralismo, una forma di scoutismo, una serie di cose per le quali “mestier non era parturir Maria”.


da Il Foglio del 2 agosto 2007

Il corretto atteggiamento del corpo nella Liturgia, di Mons.Klaus Gamber





Fino a cinquant'anni orsono, e in molti luoghi fino a oggi, i cattolici usavano stare in ginocchio durante l'intera celebrazione della santa messa, con l'eccezione del Vangelo, alla lettura del quale si stava in piedi, e della predica che si ascoltava seduti. In genere erano solo i ritardatari che restavano in piedi per tutta la durata della funzione, fermandosi presso la porta della chiesa. Nel servizio evangelico, ove come è noto il momento centrale è dato dalla predica, e che non intende essere una celebrazione sacrificale, i fedeli in genere siedo¬no anche durante il resto della liturgia, cantando tutti insieme i canti del giorno.
Ci si alza solo al termine per la recita comune del Padre nostro e la benedizione del pastore. Lo stare in ginocchio, a eccezione del momento in cui ci si accosta alla "cena", è sconosciuto ai protestanti: esso è tipicamente cattolico.
Nelle chiese ortodosse orientali le cose stanno diversamente.
Qui l'atteggiamento liturgico fondamentale è da sempre lo stare in piedi, tanto è vero che nelle chiese si trovano pochissimi banchi per sedersi.
Questi sono collocati lungo le pareti laterali, come da noi gli stalli corali nelle chiese dei monasteri e nelle cattedrali, e sono riservati soprattutto alle persone anziane. In oriente le funzioni liturgiche durano sempre parecchio, come minimo un'ora buona e di solito ancor di più: ciò nono-stante i fedeli vi partecipano in piedi. Qui inginocchiarsi sul nudo pavimento o prostrarsi al suolo lunghi distesi è un segno di preghiera fervente o di penitenza.
Al pari che da noi, lo si può vedere soprattutto nei santuari che sono meta di pellegrinaggi.
Anche nell'entrare nella Casa di Dio molti fedeli si prostrano per terra in adorazione, come dice il Salmo 94,6: "Venite, prostrati adoriamo, in ginocchio da- vanti al Signore che ci ha creati".
Purtroppo da noi la genuflessione quando si entra in chiesa va sempre più scomparendo.
Ora ci si chiederà: com'era nella Chiesa antica? non sedevano forse i fedeli attorno all'altare, al pari degli apostoli all'Ultima Cena?
No, anche allora si partecipava alla liturgia stando in piedi.
Nelle basiliche paleocristiane non esisteva la possibilità di sedersi.
Come poi mostra un mosaico del XII secolo, che si trova nella basilica di S. Marco a Venezia, fin nel medioevo, durante la preghiera sacrificale del canone della messa, si usava alzare le mani insieme con il sacerdote.
Questo però non avveniva in modo estatico e allungandosi verso l'alto, come fanno oggi i pentecostali, bensì in atteggiamento modesto. Ciò dovrebbe rendere evidente come il sacerdote non offra il sacrificio da solo, ma lo faccia insieme con i fedeli.
Dell'alzare le mani parla Paolo, quando scrive nella prima lettera a Timoteo (2,8): "Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al ciclo le mani pure senza ira e senza contese". Nell'antichità cristiana si stava in piedi anche per ricevere la santa comunione: i fedeli si mettevano in fila, come mostrano le antiche raffigurazioni della "Comunione degli apostoli", in atto di adorazione, vale a dire con atteggiamento devoto.
Anche nella Chiesa primitiva in verità si usava piegare le ginocchia, come quando Luca negli Atti degli apostoli (21,5) narra di Paolo: "Tutti ci accompagnarono con le mogli e i figli sin fuori della città. Inginocchiati sulla spiaggia pregammo..."; oppure quando Paolo scrive nella lettera agli Efesini (3,14): "Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre di nostro Signore Gesù Cristo...".
La questione che a noi interessa in concreto è la seguente: quale posizione del corpo si adotta oggi nella liturgia?
L'ideale è attenersi, come il più delle volte ritorna ad avvenire oggi, all'uso della Chiesa antica, ove stare in piedi era l'atteggiamento liturgico fondamentale.
Lo star seduti — a parte il caso delle letture e della predica — dovrebbe essere lascia¬to ai fedeli anziani. Questi ultimi in ogni caso non debbono essere spinti a confor¬marsi alla posizione degli altri, come di massima va evitato ogni regolamento rigido a questo riguardo.
Ma deve essere uno stare in piedi con modestia, con la consapevolezza di stare davanti a Dio.
Un tale atteggiamento è in pari tempo ascesi del corpo, e innalza lo spirito, cosa che non si ottiene altrettanto facilmente col sedere comodamente, magari accavallando le gambe.
Il movimento giovanile degli anni venti ha riscoperto lo stare in piedi come atteg¬giamento liturgico: alla celebrazione della messa comunitaria i suoi aderenti evitava¬no di trattenersi nei banchi. Se le circostan¬ze lo consentivano, si ponevano invece di¬rettamente davanti all'altare, nel caso che non si avesse a disposizione una cappella laterale oppure, questo era l'ideale, una cripta (senza banchi). I giovani se ne rendevano conto: la mes¬sa non è la stessa cosa di un pio esercizio, al quale ci si inginocchia, ma neppure una rappresentazione teatrale, cui si assiste comodamente seduti.
La messa è la celebrazione del sacrificio eucaristico, e come tale esige un atteggiamento corrispon¬dente. Che alle letture e alla predica si possa sedere dovrebbe risultare chiaro per chiunque.
Chi frequenta la messa in Russia non ha tale comodità.
Come si è detto qui nelle chiese non vi sono banchi, e non vi sono anche per un particolare motivo, per consentire che nel numero limitato di chiese aperte possa partecipare alla liturgia il maggior numero possibile di fedeli. Per tutto il corso della funzione essi stanno fittamente accalcati, tanto che in Russia è diffuso il modo di dire: "Qui è stretto come in chiesa".
Fin dalle origini, già lo si è detto, inginocchiarsi è espressione di fervente supplica, ma è anche segno di adorazione.
Davanti al Santissimo esposto oppure quando viene trasportato solennemente, per esempio alla processione del Corpus Domini, secondo possibilità bisognerebbe inginocchiarsi. In pubblico questo è anche una testimonianza di fede.
E a nessuno si dovrebbe impedire di inginocchiarsi per ricevere la comunione, secondo l'uso vigente da noi fino a un recente passato.
Questa posizione è in ogni caso accettabile, e ha contribuito di molto a che i fedeli si accostassero con profondo rispetto all'eucarestia. Tuttavia se oggi sia opportuno come singoli comunicarsi in ginocchio è altra questione.
Di massima bisognerebbe, se possibile, addattarsi alla posizione degli altri fedeli, anche se non la si consideri corretta.
D'altra parte però nessuno dovrebbe essere obbligato ad assumere una determinata posizione.
Come è bello che tutto sia fatto in comune, così è altrettanto importante tollerare il punto di vista o l'abitudine dell'altro.
Mons. Klaus Gamber
( Dal Bollettino di Una Voce Italia n.106-107 del 1993 (Titolo originale: Die richtige Kòrperhaltung im Got-tesdienst, in Fragen in àie Zeit. Kirche una Liturgie nachàem Vatikanum II, Regensburg 1989, 132-134. Traduzione italiana di Fabio Marino).

da: Tradizione Catholica Romana di Andrea
 


[Modificato da Caterina63 28/09/2011 14:26]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)