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TESTI E MASSIME DI GREGORIO MAGNO PAPA


 



"Affinché la luce delle stelle, l'una dopo l'altra e ciascuna a suo tempo, fughi le tenebre della nostra notte, è comparso Abele a mostrarci l'innocenza; è venuto Enoc ad insegnarci la purezzadei costumi; è venuto Noè a suggerirci la longanimità della speranza e dell'azione; è venuto Abramo a manifestare l'obbedienza; è venuto Isacco a dare esempio di castità coniugale; è venuto Giacobbe a mostrarci come si sopporta lafatica; è venuto Giuseppe ad insegnarci a rendere bene per male; è venuto Mosè come esempio di mansuetudine; è venuto Giosuè ad ispirare fiducia nelle avversità; è venutoGiobbe a mostrare la pazienza in mezzo alle prove. Ecco le fulgide stelle che scorgiamo nel cielo. Sono lì per aiutarci a percorrere con passo sicuro il nostro sentiero nella notte (fulgentes stellas in caelo cernimus ut inoffenso pede operis iter nostrae noctis ambulemus)...finché spunti la vera stella del mattino (quosque verus lucifer surgeret) la quale, annunziandoci l'aurora eterna,  splenderà più luminosa di tutte le altre stelle con la sua divinità (qui aeternum nobis mane nuntians, stellis ceteris clarius ex divinitate radiaret)".  
 
Commento morale a Giobbe, Prefazione, 13. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 107.
 
 
Gregorio ci sta proponendo il suo <vocabolario spirituale> da tener presente sempre non soltanto in questa, ma anche in tutte le altre sue opere, prima fra tutte quella dei <Quattro libri dei Dialoghi>. Si tratta di un vocabolario che suppone un genere letterario, quello dell'esemplarità della vita, già presente e sfruttato nell'antichità sia classica che biblica, ma utilizzato tantissimo anche nel mondo cristiano (cfr il grande patrimonio agiografico, non soltanto monografico ma anche antologico, che da Eusebio di Cesarea e dal <De viris illustribus> di Girolamo arriva fino alle nostre vite dei santi).  Senza una conoscenza appropriata di un simile vocabolario potrebbe non essere tanto facile capire Gregorio Magno.


"E' ormai da diversi anni che sono tormentato da frequenti dolori viscerali....E' forse un disegno della divina provvidenza che io, colpito dal male, commenti la storia di Giobbe colpito dal male (fortasse hoc divinae providentiae consilium fuit, ut percussum Iob percussus exponerem). La prova mi aiuta a comprendere meglio lo stato d'animo d'un uomo così duramente provato...Qual è infatti la funzione del corpo, se non quella di far parlare il cuore (quid namque est officium corporis nisi organum cordis)? Un musicista, sia pure un artista di talento, non può esprimere la sua arte se non dispone anche di strumenti in armonia con essa...Ti chiedo però, mentre scorgi le pagine di quest'opera, di non cercare le foglie delle parole, perché la Sacra Scrittura non consente in alcun modo ai suoi commentatori la vanità di una verbosità infruttuosa...Perciò mi sono rifiutato di seguire l'arte del dire così come viene insegnata da una disciplina che cura solo l'esteriorità (ipsam loquendi artem, quam magisteria disciplinae exterioris insinuant, servare despexi)...infatti ritengo sconveniente assoggettare le parole dell'oracolo celeste alle regole di Donato (quia indignum vehementer existimo, ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati)".
 
Lettera a Leandro, 5 in Commento Morale a Giobbe/1. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 89.






"Se si abbassa la guardia del discernimento si spalanca la porta agli spiriti maligni che uccidono l'anima (cum discretionis sollicitudo cessaverit, ad interficiendum animum malignis spiritibus iter pandit)....Chi non ha l'anima difesa da una brava sentinella è un uomo confuso (vir autem confusionis est qui forti mentis custodia munitus non est), perché mentre crede di agire guidato dalle virtù, viene ucciso da vizi insidiosi senza che neppure se ne accorga (quia dum virtutes se agere aestimat, subintrantia vitia nescientem necant)". 
 
Commento morale a Giobbe, I, 1, 50. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 151.





"Offrire un olocausto significa incendiare tutto il nostro cuore col fuoco della compunzione (totam mentem igne compunctionis incendere), perché il cuore arda sull'altare dell'amore e consumi le contaminazioni dei nostri pensieri come fossero colpe dei nostri figli (ut in ara amoris cor ardeat et quasi delicta propriae subolis, inquinamenta cogitationis exurat). Sanno agire però così soltanto coloro che, prima che i loro pensieri si trasformino in opere, con prudenza e prontezza frenano i loro interni movimenti; coloro cioè che sanno custodire l'anima con una difesa virile (haec agere nesciunt nisi qui virili custodia munire mentem noverunt)". 
 
Commento morale a Giobbe, I, 1, 49.50. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 149.
 
Si ricordi che nella cultura latina il termine <virile> è spesso sinonimo di <virtuoso> a partire da Cicerone che spiegava: Vir/tus da vir!



"Per scoprire la radice profonda delle virtù giova più la preghiera che l'analisi.Ciò che ci sforziamo di scrutare più a fondo dentro di noi, spesso riusciamo a scoprirlo con più verità pregando che investigando (ea quae perscrutari in nobismetipsis plenius nitimur saepe verius orando quam investigando penetramus). Infatti quando la mente viene sollevata in alto dalla compunzione, ciò che di sé le si presenta, lo contempla al di sopra di se stessa con un giudizio più sicuro (cum enim mens per quandam compunctionis machinam ad alta sustollitur, omne quod ei de se ipsa, sub seipsa est, diudicando certius contemplatur)".  
 
Commento morale a Giobbe, I, 1, 48. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 149.


"CON SERVIZIO ALTERNATO 
 
LE VIRTU' SI SOSTENGONO A VICENDA
 
ALTERNATO MINISTERIO 
 
VIRTUS A VIRTUTE REFICITUR"
 
 
Commento morale a Giobbe, I, 1, 45. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 147.



I suoi figli (di Giobbe) solevano andare a fare banchetti a casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno" (Gb 1,4).
"I figli banchettano nell casa di ciascuno di loro, quando le singole virtù nutrono l'anima, ciascuna a modo suo (virtutes singulae iuxta modum proprium, mentem pascunt)...Richiamando brevemente questi stessi doni della grazia settiforme, diciamo che:
La sapienza nutre l'anima con la speranza e la certezza dei beni eterni...
L'intelletto penetra ciò che ascolta, ristorando il cuore di cui rischiara le tenebre. 
Il consiglio impedisce all'animo di essere impulsivo, regolandolo con la ragione. 
La fortezza non temendo le avversità appresta trepidante il cibo della fiducia. 
La scienza vince il digiuno dell'ignoranza. 
La pietà riempie le viscere del cuore con le opere della misericordia. 
Il timore impedisce di insuperbirsi per le cose presenti e conforta per quelle future col cibo della speranza...
Ogni singola virtù riceve però molto danno se non è sostenuta dalle altre (valde singula quaelibet destituitur, si non una alii virtus virtuti suffragetur)" 
 
Commento morale a Giobbe, I, 1, 44.45. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 147.




"Se per un momento la ragione si allontana dalla casa dell'anima, subito cresce il tumulto dei pensieri come se si trattasse di voci garrule di ragazzine inservienti in assenza della padrona (Si a domo mentis ad momentum ratio discedat quasi absente domina, cogitationum se clamor, velut garrula ancillarum turba multiplicat). Quando però la ragione ritorna al suo posto, subito la confusione tumultuosa si placa (Ut autem ratio ad mentem redierit, mox se confusa tumultuatio compescit) e le ragazzine che servono, subito riprendono in silenzio il lavoro loro assegnato e immediatamente i pensieri si sottomettono utilmente ai propri compiti (dum cogitationes protinus causis se propriis ad utilitatem subdunt)".  
 
Commento morale a Giobbe, I,1,42. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 145.
La custodia dei pensieri è uno degli elementi più importanti del cammino spirituale, ma in questo impegno è determinante che la mente sia diretta dalla ragione. Lo insegnavano già gli antichi sapienti della Grecia!


"Quando uno compie il bene ancora per timore vuol dire che non si è allontanato del tutto dal male (cum adhuc timore bona agit, a malo penitus non recessit): sarebbe disposto a peccare, qualora potesse farlo impunemente: per ciò stesso pecca. Perciò il testo biblico, dopo aver detto che Giobbe temeva Dio, aggiunge che era anche alieno dal male: infatti quando al timore subentra l'amore, la colpa rimasta nell'anima viene eliminata dal fermo proposito della volontà (quia dum metum caritas sequitur, ea quae mente relinquitur, etiam per cogitationis propositum culpa calcatur)".
 
Commento morale a Giobbe,I, 1, 37. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 141.




"Fin dall'inizio di questo commento, abbiamo detto che la persona del beato Giobbe annunzia il Signore e quindi simboleggia il capo e il corpo, cioè il Cristo e la Chiesa. Dopo aver mostrato come, mediante la fede, è simboleggiato il nostro capo, indichiamo ora come è figurato il suo corpo che siamo noi (Postquam caput nostrum quomodo designatum credatur, ostendimus nunc corpus eius, quod nos sumus). Così dopo aver ascoltato dalla narrazione ciò che dobbiamo ammirare e dopo aver conosciuto dal capo ciò che dobbiamo credere, deduciamo ora dal corpo come dobbiamo comportarci nella vita (ut quia audivimus ex historia quod miremur, cognovimus ex capite quod credamus; consideremus nunc ex corpore quod vivendo teneamus) Dobbiamo infatti assimilare ciò che leggiamo, affinché, mentre lo spirito è stimolato da ciò che ascolta, la vita concorra a tradurre nelle opere la Parola ascoltata (In nobismetipsis namque debemus transformare quod legimus, ut cum per auditum se animus excitat, ad operandum quod audierit vita concurrat)".  
 
Commento morale a Giobbe, I, 1, 33, Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp.137-139.



"La Sacra Scrittura è per noi ora cibo ora bevanda (Scriptura Sacra aliquando nobis cibus est, aliquando potus). E' cibo nei passi più oscuri, perché quando si spiega, si spezza e si deglutisce masticandola (Cibus est in locis abscurioribus, quia quasi exponendo frangitur et mandendo glutitur). E' bevanda nei passi più chiari, perché si beve così come si presenta (Potus vero est in locis apertioribus quia ita sorbetur sicut invenitur)... I deboli chiedono ai più capaci di spezzare loro, spiegandoli, i testi della Sacra Scrittura; ma non riescono a trovare chi sia in grado di farlo...Infatti è di pochi comprendere le cose profonde e nascoste, ma la massa può sempre gustare i semplici fatti della storia (Paucorum quippe est fortia et occulta cognoscere; multorum vero historiae aperta sentire)...Ma quando gli spiriti elevati si allontanano dal senso profondo, l'intelligenza dei piccoli non si disseta più neppure col senso esteriore (sublimioribus vero ab interno intellectu cadentibus, parvulorum intellegentia et in exterioribus exsiccatur)".
 
Commento morale a Giobbe, I, 1, 29. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 135.





"Ezechiele afferma di aver sentito che erano stati salvati tre personaggi: Noè, Daniele e Giobbe. 
Noè, che guidò l'arca sulle onde, simboleggia l'ordine dei pastori (praepositorum ordo), i quali, essendo proposti ai fedeli come modelli di vita, reggono la santa Chiesa in mezzo ai flutti delle prove. Daniele, noto per il suo mirabile ascetismo, simboleggia la vita dei continenti (continentium vita), i quali, rinunciando alle cose del mondo, dominano con superiorità la città terrena relativizzandola. Giobbe simboleggia la vita dei coniugi santi (bonorum coniugatorum vita), i quali, facendo del bene con i mezzi di cui dispongono in questo mondo, tendono alla patria celeste percorrendo la strada della terra (per terrae viam ad caelestem patriam tendunt)".  

Commento morale a Giobbe, 
I, 1, 20. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 127.
Gregorio Mgano propone ripetutamente ai suoi lettori, sulla scia di Giovanni Cassiano, di cercare sempre nel testo biblico il personaggio più connaturale a ciascuno. Egli è infatti convinto che tutti possono trovare nella Bibbia cibo spirituale adatto alle proprie necessità per ritornare verso il Paradiso perduto.


"Il Signore incarnato mostrò in  sé stesso tutto ciò che insegnava per confermare con l'esempio quel che chiedeva  (Incarnatus etenim Dominus in semetipso omne quod nobis inspiravit ostendit, ut quod praecepto diceret, exemplo suaderet). Il nostro Redentore conobbe il timore di Dio, dal momento che, per redimere la superbia dell'uomo, assunse un'anima umile (Redemptor noster Deum timuit, quia ut superbum hominem redimeret mentem pro illo humilem sumpsit)....e si spogliò dell'uomo vecchio condiviso con la sua nascita imprimendo l'orientamento nuovo, inaugurato in sé stesso, nella prassi dei suoi discepoli (vetustatem quam natus invenit, humanae conversationis vitam deseruit et novam, quam secum detulit sequacium moribus impressit)" 
 
Commento morale a Giobbe, I, 1, 17. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 125.



"<Viveva nella terra di Hus un uomo chiamato Giobbe> (Gb1,1a). Fermo restando il fatto storico, vediamo quale sia il senso pieno di questo testo mediante l'interpertazione allegorica (Haec per historiam facta credimus, sed per allegoriam iam qualiter sint impleta videamus). Giobbe significa <il Sofferente>, Hus <il Consigliere>. Chi simboleggia dunque Giobbe col suo nome, se non Colui del quale parla il profeta Isaia dicendo: <Egli ha preso su di sé i nostri dolori>? (Is 53,4). Giobbe abita nella terra di Hus, perché regna nel cuore del <Consigliere>...Giobbe dunque abita nella terra di Hus, perché la Sapienza, che per noi ha sofferto i dolori della passione, fece di se stesso la casa delle decisioni (corda) ponderate della vita (Hus ergo terram inhabitat Iob, quia Sapientia, quae pro nobis passionis dolorem sustinuit, corda vitae consiliis dedita sibimet habitationem fecit). <Era un uomo semplice e retto> (Gb 1,1b). Infatti il Signore incarnato conservò la semplicità insieme con la rettitudine, perché nella sua mitezza egli non sacrificò mai il rigore della giustizia e nel rigore della giustizia conservò sempre la mitezza (Incarnatus vero Dominus simplicitudinem cum rectitudine tenuit, quia nec in mansuetudine districtionem iustitiae nec in districtione iustitiae virtutem mansuetudinis amisit)". 
 
Commento morale a Giobbe, I, 1, 15-16. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 123.




"Il racconto della passione del beato Giobbe ci fa capire che noi sappiamo qualcosa soltanto se ne facciamo esperienza ( per hoc quod beati Iob passio dicitur, docemur quod experimento novimus). Il silenzio invece sulla durata della sua passione ci fa capire che certe cose dobbiamo semplicemente ignorarle (per hoc quod quantitas temporis in passione reticetur, docemur quid nescire debeamus). 
 
Commento morale a Giobbe, Prefazione, 21. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 113.



"Poiché il nostro Redentore forma una sola persona con la santa Chiesa da lui assunta...chiunque reca in sé l'immagine di Cristo lo esprime come capo e come corpo e quindi può far propria non solo la voce del capo, ma anche quella del corpo (quisquis Redemptorem in semetipso significat, modo hunc ex capite modo ex corpore designat, ut non solum vocem capitis, sed etiam corporis teneat)... Siccome dunque colui che come capo è lo sposo e come corpo è la sposa (Quia igitur ipse in capite sponsus, ipse est in corpore sponsa), è necessario che ogni volta che si dice qualcosa del capo immediatamente si estenda al corpo e, viceversa, occorre risalire subito al capo quando si fa riferimento al corpo (necesse est ut cum nonnumquam aliquid de capite dicitur, sensim ac subito etiam ad vocem corporis derivetur; et rursum cum de corpore aliquid dicitur, repente ad vocem capitis ascendatur), ".
 
Commento morale a Giobbe. Prefazione, 14. Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp.107-109.
Questi principi ermeneutici che Gregorio ha ricevuto da Agostino, il quale li aveva presi da Ticonio, vengono spesso sintetizzati nel cosiddetto riferimento al <Christus totus caput et membra> al quale i cristiani riferiscono il <secondo significato> del testo biblico, quel significato cioè che va oltre il semplice <sensoletterale> e che viene chiamato anche <senso allegorico> o <senso spirituale>.


"Tutti gli eletti che vissero santamente prima del redentore, lo hanno profetizzato e con le opere e con le parole (Redemptorem electi omnes dum bene vivendo praeeunt et rebus et vocibus prophetando promiserunt). Infatti non c'è stato nessun giusto che non abbia prefigurato e preannunziato Cristo (Nullus etenim iustus fuit qui non eius figuram nuntius exstiterit)...Nel loro insieme i secoli dissero ciò che la fine dei secoli avrebbe manifestato per la redenzione universale (ut simul omnia saecula dicerent quod in redemptione communi saeculorum finis exhiberet). Fu dunque necessario che anche il beato Giobbe...mostrasse con le proprie sofferenze ciò che il Cristo avrebbe sofferto e predicesse i misteri della passione con tanta maggior verità in quanto li profetava con le sue sofferenze più che con le sue parole (unde et beatus Iob... per ea quae pertulit, quae passurus esset ostenderet; tantoque verius passionis illius sacramenta praediceret quanto haec non loquendo tantummodo, sed etiam patiendo prophetaret)".  (Commento morale a Giobbe, Prefazione, 14. Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp.107-109.
 
 L'orizzonte teologico che presuppone Gregorio Magno con queste indicazioni sembra straordinariamente moderno, ma per lui si tratta della semplice conseguenza del suo concetto di Chiesa, che ha inizio a partire da Abele e si conclude alla fine dei tempi. Con confini così grandi, che si identificano simpliciter con l'umanità, assume altro colore il famoso adagio <Extra Ecclesiam nulla salus>! Si noti poi soprattutto quel <verius> legato alla sofferenza che diventa perciò stesso stigma ancora più esplicito della appartenenza profetica a Cristo.


"Il beato Giobbe, prima lodato dal suo Giudice, è poi da lui abbandonato nelle mani del tentatore; dopo che è stato colpito, Dio lo ricompensa intrattenendosi con lui molto familiarmente. Il che dimostra quanto la prova abbia fatto crescere la sua statura (Beatus Iob...post flagellum Deus dum remunerans familiarius alloquitur, aperte quantum de verbere creverit indicatur). Invece i suoi amici, incapaci di discernere i vari tipi di tribolazione, credettero che Giobbe fosse stato colpito per le sue colpe (Amici vero beati Iob, dum percussionum genera distinguere nesciunt, percussum pro culpa crediderunt); perciò, mentre si sforzavano di dimostrare che Dio l'aveva colpito giustamente, finirono per condannare il beato Giobbe come colpevole. Essi non sapevano che Giobbe era stato colpito, non perché avesse peccati da espiare, ma proprio perché da tale prova ne venisse maggior gloria a Dio (nescientes videlicet quod idcirco flagellatus fuerat, ut pro flagello eius divinae gloriae laus cresceret, non autem ut per flagella peccata quae nequaquam commiserat emendaret)".  
 
Commento morale a Giobbe, Prefazione, 12. Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp.105-107.




"Diversi sono i modi con cui siamo colpiti (Percussionum quippe diversa sunt genera). Un modo è quello in cui il peccatore è colpito con una punizione senza possibilità di ripensamento (percutitur ut sine retractatione puniatur); un altro modo è quello con cui il peccatore è colpito perché si corregga (percutitur ut corrigatur); un altro modo è quello in cui uno è colpito non per colpe passate, ma perché non ne commetta in avvenire (percutitur ne ventura committat). Spesso poi non si tratta di correggere colpe passate né di impedire colpe future, ma perché, giunta l'insperata salvezza dalla tribolazione, uno ami più ardentemente il Salvatore sperimentandone la potenza (percutitur ut, dum inopinata salus percussione sequitur, salvantis virtus cogitata ardentius ametur). Quando però un innocente viene duramente colpito, la sua pazienza gli ottiene un enorme cumulo di meriti (cumque innnoxius flagello atteritur ei per patientiam meritorum summa cumuletur).
 
Commento morale a Giobbe, Prefazione, 12. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 105.



"Giobbe, quest'uomo dotato di tante mirabili virtù, era noto a sé e a Dio; ma a noi sarebbe rimasto ignoto, se non fosse stato colpito e messo alla prova. Egli esercitava la sua virtù anche quando viveva tranquillo, ma la fama della sua virtù si diffuse solo allorché fu scosso dalla sofferenza (virtus quippe etiam per quietem se exercuit sed virtutis opinio commota per flagella flagravit). Mentre viveva in pace conservava dentro di sé ciò che egli era; quando fu scosso, fece arrivare a tutti il buon odore della sua fortezza. Come un profumo non si può sentire da lontano se non viene agitato e l'incenso non espande il suo aroma se non quando viene bruciato, così il profumo delle virtù dei santi non si espande se non in mezzo alle tribolazioni (sancti viri omne quod virtutibus redolent in tribulationibus innotescunt)...Se un granellino di senapa non viene pestato non si può conoscere la forza delle sue proprietà; finché rimane intatto è dolce; ma se viene schiacciato, brucia e manifesta tutta l'asprezza che in esso rimaneva nascosta. Così ogni santo, finché non viene colpito, appare spregevole e mediocre; ma se viene afferrato dalla macina della tribolazione, subito manifesta il suo ardore e il suo sapore (unusquisque vir sanctus cum non pulsatur, despiciabilis ac lenis aspicitur; si qua vero illum tritura persecutionis opprimat mox omne quod calidum sapit ostentat)".
 
Commento morale a Giobbe, Prefazione, 6. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 97.




A proposito del libro di Giobbe "E' del tutto inutile cercare chi ha scritto queste cose, quando si sa per fede che autore del libro è lo Spirito Santo (quis haec scripserit, valde supervacue quaeritur, cum tamen auctor libri Spiritus Sanctus fideliter credatur). L'autore è lui, che ha dettato ciò che bisognava scrivere. L'autore è lui che fu l'ispiratore, e che, tramite lo scrittore, ci ha trasmesso gli esempi da imitare. Sarebbe ridicolo se, avendo ricevuto una lettera da un uomo famoso, leggessimo le parole che ci ha scritto, ma cercassimo di sapere con quale penna ha scritto la lettera...Ora, qui, noi conosciamo l'opera e siamo convinti che l'autore di quest'opera è lo Spirito Santo; cercare di sapere chi l'ha scritta è come leggere una lettera, informandoci della penna (cum ergo rem cognoscimus, eiusque rei Spiritum Sanctum auctorem tenemus, quia scriptorem quaerimus, quid aliud agimus, nisi legentes litteras, de calamo percontamur?)"  
 
Commento Morale a Giobbe /1, Prefazione, 2. Città Nuova Editrice, Roma 1992, p.93.




Nel leggere le Scritture "qualche volta, chi trascura di prendere alla lettera le espressioni del racconto, nasconde la luce della verità che gli si offre (qui verba accipere historiae iuxta litteram neglegit, oblatum sibi veritatis lumen abscondit); e quando a tutti i costi uno vuol trovare in questi testi un significato più profondo, finisce col perdere ciò che senza difficoltà poteva cogliere in superficie (cumque laboriose invenire in eis aliquid intrinsecus appetit, hoc quod foris sine difficultate assequi poterat, amittit)... La  parola di Dio infatti se da un lato impegna con i suoi misteri la gente colta, dall'altro riscalda con la sua immediatezza le anime semplici (Divinus enim sermo sicut mysteriis prudentes exercet, sic plerumque superficie simplices refovet). Con la sua chiarezza offre nutrimento agli umili, mentre con la sua profondità non finisce di stupire gli spiriti più elevati. E' come un fiume, direi, dalle acque basse e profonde, dove un agnello può muoversi liberamente e dove un elefante può nuotare (Quasi quidam quippe est fluvius, ut ita dixerim, planus et altus, in quo et agnus ambulet et elephas natet). Così come lo richiede la natura di ciascun passo si deve opportunamente cambiare il genere della spiegazione: tanto meglio si trova il senso della parola di Dio, quanto più si varia il tipo di interpretazione adeguandosi a ciascun passo".
 
Lettera a Leandro, 4, in Commento morale a Giobbe /1, Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp.87-89.
 
 
La Bibbia è dunque un libro universale. Grandi e piccoli trovano ciascuno in essa  il cibo adatto alla propria età fisica, culturale e spirituale!


















Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)