DIFENDERE LA VERA FEDE

I BUONI MAESTRI - come riconoscerli ?

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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 28/01/2012 15:00


    [SM=g1740733] Cari Amici..... siamo stati molto combattuti prima di aprire questa nuova pagina perchè NON è assolutamente nostra intenzione avanzare una lista di "buoni e cattivi" ma, visto il successo di lettori dei due thread che riguardano i FALSI MAESTRI e visto che spesso non sappiamo dove inserire gli insegnamenti dei BUONI MAESTRI seppur in questa sezione di Esegesi biblica e meditazione si possono trovare molti testi.... riteniamo opportuno inserire qui la voce di quei Sacerdoti, Vescovi e Cardinali, ma anche teologi laici, che in qualche modo possano aiutarci a non perdere la vera bussola, quella dell'ortodossia dottrinale ....

    Ripetiamo: qui non si fanno processi A NESSUNO.... cerchiamo solo, come Gesù ci insegna, di valutare ciò che è buono da ciò che è dannoso per l'anima, per la fede, per l'ortodossia Cattolica.... NON GIUDICHIAMO MAI LE PERSONE nè quelle inserite in questo thread, men che meno per quelle inserite nei thread dei falsi maestri... per tutti PREGHIAMO ed auspichiamo l'autentica unità che si esprime in quel parlare CON UN CUOR SOLO E UN ANIMA SOLA.... il resto son chiacchiere inutili e malsane....


    *********************************************


    Padre Serra, la difesa della verità

    di Mario Palmaro
    28-01-2012


    Con la morte di Padre Angelo Serra, avvenuta a Roma nella notte del 20 gennaio, la comunità scientifica perde uno dei più importanti genetisti, e il mondo cattolico perde uno dei più seri e rigorosi bioeticisti italiani. Serra rappresenta un raro esempio di studioso nel quale si univano una grande preparazione scientifica, una modestia sincera e sorprendente, e un rigore dottrinale e morale assoluto.


    Ho conosciuto Padre Serra nel 1995, da studente, quando frequentavo il corso di specializzazione in Bioetica presso l’Istituto Scientifico del San Raffaele di Milano. Si trattava di un corso organizzato con serietà, guidato da docenti intelligenti e preparati, ma all’interno di una visione morale piuttosto elastica, disposta a sconfinare dai contorni netti della dottrina cattolica sulla vita e sulla medicina. Fra i docenti si susseguivano monsignor Sgreccia e, appunto, Padre Serra; ma anche Edoardo Boncinelli (“per me – ci diceva – la ricerca scientifica è una cosa, la riflessione morale un’altra”) e Fernanda Pivano, che fu invitata a tenere una lezione sull’eutanasia parlando del suicidio dell’amico Hernest Haminguay. Il tema dell’aborto fu affidato, tanto per dare un’idea, al professor Giovanni Berlinguer, relatore della legge 194 al parlamento italiano.


    In quella giornata al San Raffaele, a Serra non ci volle molto per accorgersi che, a dispetto della cornice in cui avveniva la sua lezione, non stava “giocando in casa”: che l’embrione fosse un essere umano fin dal concepimento, che la fecondazione artificiale fosse incompatibile con il rispetto di quell’uomo, che il Rapporto Warnock dicesse delle corbellerie, era tanto chiaro per Serra quanto discutibile per alcuni dei suoi allievi. Sulle prime ebbi l’impressione che quel gesuita, piccolo di statura, dal tratto delicato e gentile, incapace di alzare la voce, con lo sguardo che ti voleva bene a ogni costo; ebbi l’impressione, insomma, che quel buon prete sarebbe stato del tutto inadeguato a far fronte alle obiezioni, talvolta sarcastiche di una platea così provocatoria. Una specie di don Abbondio in mezzo ai “vasi di ferro” della bioetica cattolica-possibilista.

    Si trattava, in fondo, di una platea che aveva fatto già perdere la pazienza a Sgreccia, che alla fine della sua burrascosa lezione mi aveva confidato “Io qui non ci vengo più, mi attaccano sempre”. Ma la mia valutazione di Padre Serra si rivelò presto del tutto sbagliata: Padre Angelo, con quell’aria serafica e impassibile, difese le posizioni senza mollare di un millimetro, impugnando di volta in volta le armi della biologia, della genetica, della filosofia, della logica elementare.

    Non ci fu niente da fare: più lo provocavano, e più ne veniva fuori con calma e con forza. Ne rimasi molto colpito, anche perché Serra non godeva, né godette negli anni successivi, di quella fama che avrebbe meritato, anche nel mondo cattolico. Era schivo, e non cercava i riflettori; e con quelle idee ortodosse che si ritrovava, tanto meno venivano a cercarlo i responsabili di giornali e Tv, anche cattolici.


    Rividi Padre Angelo molti anni dopo, per una circostanza della vita assai strana: insieme ad altri amici, avevamo fondato un’associazione pro life – il Comitato Verità e Vita – spinti dalla necessità di dire pubblicamente che la fecondazione artificiale, anche nella sua forma omologa, quella legalizzata dalla legge 40 del 2004, rimane una pratica inumana, immorale e contraria al diritto naturale. Una pratica che dovrebbe essere vietata dalle leggi di uno stato civile. Una pratica che dovrebbe essere sempre estranea a un medico e a un ospedale cattolico.

    Non immaginavamo che questa iniziativa ci avrebbe tirato addosso così tanti guai proprio da parte del mondo cattolico; ma non immaginavamo nemmeno che questa scelta ci avrebbe fatto incontrare tante persone straordinarie, spesso sconsociute ma qualche volta autorevoli e prestigiose, contagiate esse stesse da una certa “emarginazione” culturale per via dell’amicizia con “quelli di Verità e Vita”. Padre Angelo fu uno di questi: quando si trattò di mettere in luce l’altissima abortività indotta dalla fecondazione artificiale, non ebbe esitazioni, e iniziò a tenere pubbliche conferenze, organizzate anche da noi, per spiegare a tutti come stessero le cose.


    Ovviamente sarebbe riduttivo limitare a questo snodo bioetico la ricchezza di vita di Padre Serra. Genovese, 93 anni dei quali 78 trascorsi nella Compagnia di Gesù, padre Serra è stata una figura di primissimo piano nel campo della genetica, interpretata sempre nel rispetto della dignità di ogni essere umano. Era uno studioso apprezzato in tutto il mondo: nel 1964 ha insegnato alla Harvard Medical School di Boston. Tornato in Italia, per 30 anni ha risieduto nella comunità della Civiltà Cattolica ed è stato docente presso la facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Roma dove ha fondato e diretto l’istituto di genetica umana. Presidente della Confederazione italiana dei consultori di ispirazione cristiana, negli ultimi anni padre Serra è stato membro della Pontificia Accademia per la Vita e del Pontificio Consiglio per la Salute.


    Penso che la sua morte sia una grave perdita per la comunità scientifica, per la Chiesa e per la famiglia della Compagnia di Gesù. Ma è una perdita molto grave anche per l’esiguo (e talvolta tiepido) fronte pro life italiano. Padre Angelo Serra è sempre stato un fiero avversario delle tecniche antiumane applicate alla genetica, e un trasparente nemico delle leggi ingiuste che permettono l’aborto, la fecondazione artificiale, la sperimentazione sugli embrioni umani. Una posizione difficile da sostenere verso il mondo laico dei colleghi; ma per paradosso, difficile da sostenere anche rispetto a certe derive della bioetica e della sanità “cattoliche”.

    Per questo mi sembra giusto ricordare di lui questo profilo che lascia a tutti noi una sorta di “testamento bioetico”: Serra sostenne sempre la illiceità di ogni tecnica di fecondazione artificiale extracorporea, e la profonda ingiustizia di una legge come quella italiana, la 40 del 2004, che – fatte salve le buone intenzioni e il contesto in cui venne votata - permette di produrre l’uomo in provetta. Più di una volta, Padre Angelo mi ha confidato la sua sofferenza profonda per la confusione diffusa anche nel mondo cattolico sui temi della bioetica; non capiva i silenzi, i compromessi, le ambiguità, i veri e propri errori, i silenzi intorno alla fecondazione artificiale, e in particolare il clima di generalizzata “difesa” della fivet omologa a norma di legge 40.

    Il suo sorriso è la grande lezione che ci rimane più impressa: imparare ogni giorno a difendere la verità, senza odiare nessuno.

    http://ubipetrusibiecclesia.myblog.it/media/01/00/3178841890.jpeg

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 30/01/2012 14:14

    [SM=g1740722] 

    Motu proprio e altari: il Vescovo di Albenga-Imperia rimprovera duramente e con parole severe alcuni suoi sacerdoti.

    S.E. Rev.ma Mons. MARIO OLIVERI , AI SACERDOTI AI DIACONI
    Lettera sul Motu Proprio "Summorum Pontificum" del Papa Benedetto XVI
    Sulla celebrazione della Santa Messa


    Cari Sacerdoti e Diaconi,

    è con molta amarezza d'animo che ho dovuto constatare che non pochi di Voi hanno assunto ed espresso una non giusta attitudine di mente e di cuore nei confronti della possibilità, data ai fedeli dal Motu Proprio "Summorum Pontificum" del Papa Benedetto XVI, di avere la celebrazione della Santa Messa "in forma straordinaria", secondo il Messale del beato Giovanni XXIII, promulgato nel 1962.

    Nella "Tre Giorni del Clero" del settembre 2007, ho indicato con forza e chiarezza quale sia il valore ed il vero senso del Motu Proprio, come si debba interpretare e come si debba accogliere, con la mente cioè aperta al contenuto magisteriale del Documento e con la volontà pronta ad una convinta obbedienza. La presa di posizione del Vescovo non mancava della sua pacata autorevolezza, avvalorata dalla sua piena concordanza con un atto solenne del Sommo Pontefice. La presa di posizione del Vescovo era fondata dalla ragionevolezza del suo argomentare teologico sulla natura della Divina Liturgia, sulla immutabilità della sostanza nei suoi contenuti soprannaturali, ed era altresì fondata su rilievi di ordine pratico, concreto, di buon senso ecclesiale.

    Le reazioni negative al Motu Proprio ed alle indicazioni teologiche e pratiche del Vescovo sono quasi sempre di carattere emotivo e dettate da superficiale ragionamento teologico, cioè da una visione "teologica" piuttosto povera e miope, che non parte e che non raggiunge la vera natura delle cose che riguardano la fede e l'operare sacramentale della Chiesa, che non si nutre della perenne Tradizione della Chiesa, che guarda invece ad aspetti marginali o per lo meno incompleti delle questioni. Non senza ragione, avevo, nella Tre Giorni citata, fatto precedere alle indicazioni operative ed ai principi guida di azione una esposizione dottrinale sulla "Immutabile Natura della Liturgia".

    Ho saputo che in alcune zone, da parte di diversi Sacerdoti e Parroci, vi è stata anche la manifestazione quasi di irrisione verso fedeli che hanno chiesto di avvalersi della facoltà, anzi del diritto, di avere la celebrazione della Santa Messa in forma straordinaria; e pure espressione di disistima e quasi di ostilità nei confronti di Confratelli Sacerdoti ben disposti a comprendere ed assecondare le richieste di fedeli. Si è anche opposto un diniego, non molto sereno, pacato e ragionato (ma ben ragionato non poteva essere) di affiggere avviso della celebrazione della Santa Messa in "forma straordinaria" in determinata chiesa, a determinato orario.

    Chiedo che sia deposta ogni attitudine non conforme alla comunione ecclesiale, alla disciplina della Chiesa ed alla obbedienza convinta dovuta ad importanti atti di magistero o di governo.

    Sono convinto che questo mio richiamo sarà accolto in spirito di filiale rispetto ed obbedienza.

    Sempre con riferimento agli interventi del Vescovo in quella 'Tre Giorni del Clero" del 2007, debbo ancora ritornare sulla doverosa applicazione delle indicazioni date dal Vescovo circa la buona disposizione che deve avere tutto ciò che riguarda lo spazio della chiesa che è giustamente chiamato "presbiterio". Le indicazioni "Circa il riordino dei presbiterii e la posizione dell'altare" sono poi state riportate nell'opuscolo "La Divina Liturgia", alle pagine 23-26.

    Quelle indicazioni, a più di quattro anni di distanza, non sono state applicate ovunque e da tutti. Erano e sono indicazioni ragionevoli, fondate su buoni principi e criteri di ordine generale, liturgico ed ecclesiale. Ho dato tempo affinché di esse i Sacerdoti e soprattutto i Parroci ragionassero con i Consigli Parrocchiali Pastorali e per gli Affari Economici, e si tenesse anche opportuna catechesi liturgica ai fedeli. Chi avesse ritenuto le indicazioni non opportune o di difficile applicazione, avrebbe potuto facilmente trattarne con il Vescovo, con animo aperto ad una migliore comprensione delle ragioni che hanno spinto il Vescovo a darle, affinché fossero messe in pratica in modo il più omogeneo possibile in tutte le chiese della Diocesi . Esse non sono certamente contrarie alle norme ed anche allo "spirito" della riforma liturgica che si è attuata nel post-Concilio e partendo dal Concilio Vaticano II. Se qualcuno avesse avuto fondati dubbi avrebbe potuto esprimerli con sincerità e con apertura al sereno ragionamento, e con la volontà rivolta all'obbedienza, dopo che la mente avesse avuto maggiore illuminazione.

    Stimo che ormai sia trascorso ampio tempo di attesa e di tolleranza, e quindi sia arrivato il momento dell'esecuzione di quelle indicazioni da parte di tutti, in modo da giungere alla prossima Pasqua con tutti i presbiterii riordinati, od almeno con lo studio di riordino decisamente avviato, là dove il riordino richieda qualche difficoltà di applicazione.

    Va da sé che la non applicazione delle indicazioni, nel tempo che ho menzionato, non potrebbe che essere considerata come un'esplicita disobbedienza. Ma ho fiducia e speranza che ciò non avvenga.

    Mi affligge non poco l'avervi dovuto scrivere questa Lettera, assicurandovi che la riterrò come non scritta, se essa avrà avuto buona accoglienza e positivo effetto.

    Lo scritto porta con se tutto il mio desiderio che esso giovi ad un ravvivamento e ad un rafforzamento della nostra comunione ecclesiale e della nostra comune volontà di adempiere al nostro ministero con rinnovata fedeltà a Cristo ed alla sua Chiesa.

    Vi chiedo infine molta preghiera per me e per il mio ministero apostolico, e di gran cuore Vi benedico.

    Albenga, 1° gennaio 2012 Solennità della Madre di Dio.

    Monsignor + Mario Oliveri, vescovo


    Fonte (per testo e foto): sito ufficiale della Diocesi di Albenga-Imperia

    ***
    Nostre personali considerazioni: "Bene Scripsisti de quibus, Mario"

    Quelle di Mons. Oliveri sono toni insolitamente duri per un Vescovo paterno e di altissimo profilo teologico e diplomatico -anche nel senso tecnico del termine, visto il cursus honorum di Oliveri- quel egli è.
    Ma si vede che "
    ogni limite ha una pazienza e anche i diplomatici si arrabbiano", per parafrasare il Principe della risata.
    A detta di molti, Sua Eccellenza rarissimamente volte aveva usato parole così severe e mai aveva rimproverato esplicitamente, per di più in una lettera pubblica, i suoi sacerdoti , tacciandoli di miopia teologica e pastorale, di arrogante disobbedienza (a lui e al Santo Padre) e superficialità!
    Per quel poco che noi, per diretta esperienza personale, abbiamo potuto sperimentare, possiamo assicurare che l'intransigenza del Vescovo e la sua severissima lettera di richiamo all'ordine sono tristemente giustificate ma necessarie. Figuriamoci quindi quanti altri e seri motivi a noi sconosciuti ha avuto Mons. Oliveri per arrivare a scrivere questa infuocata lettera!

    Senza tema di essere smentiti, perchè più volte le abbiamo potuto personalmente riscontrare, possiamo confermare le pecche, colpite dalle bacchettate episcopali, di non pochi sacerdoti della Diocesi di Albenga-Imperia, in particolare di alcuni Vicariati Foranei (Oneglia,
    in primis, salvo tre o quattro rare -e giovani- eccezioni) e addirittura del capitolo della stessa cattedrale di Porto Maurizio di Imperia, canonico prevosto compreso. (Accanto quindi a sacerdoti di eccellenza -ad. es. Cattedrale di Albenga, Vicariato di Porto Maurizio, a Laigueglia, ad Alassio- ci sono anche preti disobbedienti, per usare le parole del Vescovo).
    Per quel che conta, noi non possiamo far altro che condividere la lettera di Mons. Oliveri, complimentarci con Sua Eccellenza per l'intransigenza, la coerenza e la forte determinazione e per il suo esplicito richiamo alla filiale obbedienza da parte del suo clero, e, soprattutto condividiamo i suoi intenti e le basi teologiche ed ecclesiologiche che ne stanno alla base.

    Siamo certi che i sacerdoti fin ora arroganti o troppo spavaldi, memori dell'obbedienza promessa nelle mani del rispettivo Vescovo consacrante, mantengano i voti presi e, abbassando la cresta, obbediscano al loro Vescovo e al Papa, anche per scongiurare impliciti e conseguenti sanzione o provvedimenti canonici e non, nei loro confronti.
    In questo modo, ce lo augiriamo, potranno dare il buon esempio ai Sacerdoti (e ai Vescovi!) delle due diocesi vicine: Ventimiglia-San Remo e Savona-Noli.
    I nostri complimenti a Mons. Oliveri!!! Dio La benedica! Ad multos annos, Eccellenza!

    Roberto

    *****


    [SM=g1740738] ci associamo a questo giubilo e ringraziamento, supplicando i Sacerdoti ad essere obbedienti, umili e rispettosi delle Leggi della Chiesa, così da essere per noi laici veri e santi testimoni di ogni virtù....

    [SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740750] [SM=g1740752]


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 10/02/2012 10:07

    Una questione molto seria, che va oltre le diatribe dialettiche

    (Ne avevamo già dato notizia in altri nostri precedneti post, qui e qui)



    Le sentinelle della Tradizione







    [SM=g1740771]

    È l’ultimo, in realtà è il primo. Ossia, Monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991) è l’ultimo a comparire nel libro Sentinelle nel post-concilio. Dieci testimoni controcorrente, curato da Lorenzo Bertocchi e Francesco Agnoli (Cantagalli, pp.156, € 10,00), ma fu il primo che con coraggio, come sacerdote e come Vescovo, comprese la tragedia che stava avvenendo nella Chiesa: il Modernismo faceva la voce grossa e pretendeva, nel Concilio Vaticano II, di affermare le sue idee rivoluzionarie, bandendo la Chiesa costantiniana, la Chiesa che insegnava ai bambini e agli adulti un catechismo non ludico, non sociale, non ideologico, ma dottrinale.
    Afferma Lorenzo Bertocchi: «Abbiamo inserito anche monsignor Marcel Lefebvre perché la sua figura, al di là dei preconcetti e delle controversie, risulta interessante per comprendere ciò che è accaduto durante e dopo il Vaticano II» (1), di cui il prossimo 11 ottobre ricorre il cinquantesimo di apertura.

    È proprio il caso di dirlo: Monsignor Lefebvre aveva ragione... Aveva ragione a piangere sull’archiviazione del rito “antico” perché aveva compreso che ciò che sarebbe accaduto sull’altare, sarebbe accaduto anche fuori dalle chiese: togliendo il concetto di Santo Sacrificio e riducendolo ad un solo memoriale della Cena e non più orientandosi a Dio, ma verso il popolo, la Fede ne avrebbe subito un colpo durissimo. È quello che è esattamente accaduto in questi cinquant’anni. Ancora una volta la lex orandi si è dimostrata non solo specchio, ma anche e soprattutto maestra elevatrice della lex credendi: questo principio, che ha fatto della liturgia cattolica e, in modo particolare, del rito della Santa Messa i più potenti strumenti di conversione alla sequela di Cristo, nel postconcilio e, in modo particolare dopo la riforma liturgica, diviene uno dei principali grimaldelli della secolarizzazione.

    Bertocchi riporta alcune parole dell’allocutio di apertura del Concilio pronunciate da Giovanni XXIII (1881-1963): «Non già che manchino dottrine fallaci, opinioni e concetti pericolosi […] ma essi sono così in evidente contrasto con la retta norma dell’onestà […] che gli uomini da se stessi sembrano siano propensi a condannarli […]: questa la grande fiducia nella maturità dei fedeli con cui si guardava al mondo e al futuro, a differenza di quei “profeti di sventura” che “nei tempi moderni” vedevano solo “prevaricazione e rovina”» (2). Ebbene, chi erano questi profeti di sventura? Indubbiamente molti uomini della Curia romana, fra cui spiccava il Cardinale Alfredo Ottaviani (1890-1979) e fra i Vescovi Monsignor Lefebvre e tutti coloro che formeranno il Coetus Internationalis Patrum, composto da 450 Vescovi (3).

    Durante il Concilio accaddero cose inaudite sia teologicamente (come ha dimostrato Monsignor Brunero Gherardini), sia storicamente (come ha dato prova il Professor Roberto de Mattei), sia umanamente, delle quali molto ebbe a soffrire lo stesso Paolo VI (1897-1978), che mai avrebbe aperto un Concilio in quelle circostanze.
    La Chiesa del post-Concilio ha messo in solaio il Crocifisso, ovvero la Chiesa della Tradizione, e ha puntato i riflettori sul Concilio Vaticano II con un Cristo storicizzato e umanizzato. Ma come è potuto accadere tutto questo all’interno della Chiesa, Sposa amatissima del Salvatore? Paolo VI «vide la causa di tutto questo in un “potere avverso” – Satana – che “da qualche fessura era entrato fin nel Tempio di Dio”» (4). Dirà, infatti, Monsignor Lefebvre ai seminaristi di Écône nel 1976:

    «La nostra battaglia è sovrannaturale, contro potenze spirituali del Demonio e degli angeli malvagi, una battaglia di giganti; non una diatriba dialettica, una giostra intellettuale. Entrando in seminario voi entrate nella storia della Chiesa, ma conducete una guerra che non sta sul piano naturale, altrimenti voi sareste completamente fuori dalla verità. La nostra battaglia è sul piano della grazia divina. Preparatevi filosoficamente, ma la grazia che convincerà le anime, non la otterrete che con la preghiera, il sacrificio, la mortificazione, la santità vissuta» (5).

    I Padri della Chiesa vengono sempre in soccorso, ecco allora che san Giovanni Crisostomo (344/354- 407) spiega:

    «Se poi alcuno esamini l’accanimento con cui quegli [il Demonio] combatte, troverà cosa ridicola il paragonarvi [quello consueto] fra uomini; e se scegliendo le più rabbiose e feroci belve, vorrà contrapporle alla furia di quello, le troverà al confronto mansuetissime e docilissime, tanto furore quegli esala nell’assalire le nostre anime. La durata poi della battaglia qui [fra noi] è breve, e pur nella sua brevità occorrono frequenti intervalli: il sopravvenire della notte, la stanchezza della strage, il tempo di prendere cibo e molte altre circostanze permettono al soldato di riposare, di svestire l’armatura e respirare alcun poco, rifocillarsi con cibo e bevanda e con molti altri mezzi riacquistare il pristino vigore. Ma col maligno, non è dato mai deporre le armi né prendere sonno a chi voglia serbarsi affatto incolume; è forza che l’una o l’altra accada di queste due cose: o cadere e soccombere se si spoglia [delle armi], o rimanere continuamente in piedi armato e vigilante. Ché quegli senza tregua insiste con tutto il suo campo, spiando le nostre disattenzioni, adoperando egli maggior diligenza alla nostra rovina, che noi stessi alla nostra salvezza. Inoltre il non esser egli da noi veduto e il sopraggiungerci di sorpresa, cose che più d’ogni altra sono causa di infiniti danni per chi non è in continua vigilanza, presentano questa lotta come assai più scabrosa di quella» (6).

    Accadde proprio questo: le armi vennero deposte in nome del «Dialogo». E con infausta volontà e irragionevole determinazione non si volle più vigilare, né sull’errore, né sul peccato. Non si rimase più in piedi, la maggior parte si sedette placidamente, mentre il maligno proseguiva, indisturbato, la sua opera di corruzione attraverso la teologia e la filosofia. Dietro Chenu (1895-1990), Daniélou (1905-1974), Congar (1904-1995), de Lubac (1896-1991), Rahner (1904-1984) c’erano Hume (1711-1776), Kant (1724-1804), Hegel (1770-1831), Comte (1798-1857) … Proprio Kant, ne La religione entro i limiti della sola ragione (1793), giunse a sostenere: «Non c’è che una sola (vera) religione; ma ci possono essere diverse specie di fede. Si può aggiungere che nella pluralità delle Chiese, distinte le une dalle altre per la diversità delle loro credenze speciali, si può trovare, tuttavia, una sola e medesima vera religione», ecco il relativismo religioso tanto paventato dal Cardinale John Henry Newman (1801-1890).

    Il Dottore della Chiesa Crisostomo era passato di moda, come lo stesso san Tommaso d’Aquino (1225-1274) e poche sentinelle rimasero a vigilare; il libro pubblicato da Cantagalli le descrive: Eugenio Corti, Romano Amerio (1905-1997), Giovannino Guareschi (1908-1968), san Pio da Pietrelcina (1887-1968), Padre Tomas Tyn (1950-1990), don Divo Barsotti (1914-2006), padre Cornelio Fabro (1911-1995), il Cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), Monsignor Brunero Gherardini e Monsignor Marcel Lefebvre. Interessante ciò che scrive Francesco Agnoli a proposito del Cardinale Siri: «Mentre molti vescovi e padri conciliari “tradizionalisti” (monsignor Sigaud, monsignor Marcel Lefebvre, monsignor de Castro Mayer, il cardinal Ruffini, monsignor Carli, etc.) iniziano a organizzarsi, per far fronte all’alleanza progressista, molto più agguerrita e strutturata, “la percezione di aver perso la battaglia conciliare” – soprattutto per le posizioni di papa Montini, per lo strapotere dei periti e dei “teologhelli” alla moda – spingono pian piano Siri “ad autoescludersi dai dibattiti. Una sorta di rassegnazione lo portava forse a non gettarsi nella mischia, dove spesso prevalevano opinioni ai suoi occhi assolutamente eterodosse”» (7). Il 19 novembre 1964 Siri arrivò ad affermare: «se la Chiesa non fosse divina questo Concilio l’avrebbe seppellita».
    Amore per la Chiesa di Roma, per Cristo, per Maria Santissima e per il Papa mossero e muovono questi uomini controcorrente, sprezzanti l’amor proprio ed il giudizio del mondo.

    Cristina Siccardi


    NOTE

    (1) L.Bertocchi-F.Agnoli, Sentinelle nel post-concilio. Dieci testimoni controcorrente, Cantagalli, Siena 2011, p. 12.
    (2) Ivi, pp. 5-6.
    (3) I Padri conciliari erano in tutto 2.540 con diritto di voto.
    (4) Paolo VI, Omelia, 29 giugno 1972.
    (5) Conferenze di Monsignor M. Lefebvre a Écône,27 B, 28 A, 13 e 23 febbraio 1976.
    (6) San Giovanni Crisostomo, De Sacerdotio, Libro VI, § XII.
    (7) Ivi, p. 119.

    [SM=g1740738]


    È vietato dirlo, ma col sesso non si gioca


    «La teoria del “gender” ci prepara un mondo dove nulla sarà più percepito come stabile», dice lo psicanalista mons. Tony Anatrella. «I danni provocati dal divorzio non sono nulla rispetto a quelli che può causare l’ideologia Lgbt»

    L’ideologia del “gender” «farà sicuramente più danni del marxismo». Lo ha messo nero su bianco monsignor Tony Anatrella, psicanalista di fama internazionale, specialista in psichiatria sociale, docente alle libere Facoltà di filosofia e psicologia di Parigi e al Collège des Bernardins, oltre che consultore del Pontificio consiglio per la famiglia e del Pontificio consiglio per la salute. Il suo ultimo libro, La teoria del “gender” e l’origine dell’omosessualità, appena pubblicato da San Paolo, Anatrella lo ha scritto proprio per mettere in guardia dalle conseguenze – esistenziali e sociali – della teoria che nega la differenza sessuale fra l’uomo e la donna.

    Monsignore, cosa può accadere a uomini che crescono incerti delle differenze che vedono?

    Ora non si vedono ancora le conseguenze della negazione della differenza sessuale, ma tra una ventina d’anni sarà chiaro: se si va avanti così assisteremo a crisi identitarie gravi, al diffondersi di problemi mentali. La realtà sarà confusa con l’immaginazione e niente verrà più percepito come stabile. Un’incertezza cronica è poi la madre di comportamenti violenti. Il bambino cresce sano e sicuro quando interiorizza la differenza sessuale. Ma è un conflitto accettarla. Se la mentalità lo spinge a non accettare la differenza è più facile che, come accade all’omosessuale, questo cresca depresso, insicuro e incapace di accettare la diversità. I gravi danni psicologici provocati dai divorzi che oggi constatiamo non sono nulla rispetto a quelli che può causare l’ideologia del gender sulle generazioni future.

    Lei parla di una crescente diffusione di comportamenti omosessuali. È dovuta solo all’accettazione di questo modello come normale o anche alla prevalenza di una mentalità narcisistica?

    Diciamo che la mentalità narcisistica, che rifiuta l’alterità come elemento necessario al compimento dell’uomo, favorisce l’omosessualità. Aumentano i comportamenti omosessuali perché la società, anziché favorire l’accettazione umana del proprio sesso prima e di quello opposto poi, favorisce la regressione alla fase infantile della sessualità in cui non si riconosce l’alterità come positiva. Ma se il bambino non è aiutato a uscire da se stesso e a superare le fasi infantili, come quella anale ad esempio, può incorrere in problemi molto seri: oltre a quello dell’omosessualità ci sono l’alcol, la droga, la bulimia e molti altri.

    L’omosessualità dunque non ha un’origine fisiologica, neurologica o genetica? 

    Ormai tutti gli studi concordano nell’affermare che è un disturbo della psiche, come già sosteneva Sigmund Freud. L’uomo e la donna sviluppano la propria psicologia interiorizzando il proprio corpo sessuato durante l’infanzia e l’adolescenza. Quando questo non accade, i soggetti non accettano il proprio corpo reale rappresentandone uno che non corrisponde alla loro realtà personale: il corpo immaginato è diverso dal corpo reale.

    L’omosessuale, si legge nel suo libro, è possessivo, nel rapporto con l’altro cerca di riempire una mancanza ed è incapace di donarsi. Come può allora la Chiesa chiedergli di vivere nella castità?

    La Chiesa afferma che le pratiche sessuali tra persone dello stesso sesso sono atti intrinsecamente disordinati perché l’omosessuale non riesce ad arginare la frustrazione che vive unendosi a chi è uguale a lui. Tanto che, pur vivendo queste relazioni, resta insoddisfatto. Perciò la Chiesa propone alle persone veramente omosessuali (altre possono invece intraprendere un percorso terapeutico che le porti all’eterosessualità) di astenersi dal praticare e di cercare di guardarsi dentro per fondare le loro relazioni su un altro amore che può colmare la ferita, quello di Cristo nella Chiesa. È un cammino difficile, ma è l’unico che permette di vivere in questa condizione serenamente. Ci sono cristiani che hanno questa tendenza e la assumono senza cercare di esprimerla o di praticarla. Alcuni possono avere esperienze, dispiacersene e avere voglia di cambiare, trovando nella fede in Cristo la risorsa per fare il proprio cammino di felicità: all’interno dell’amore della Chiesa ogni uomo può trovare il proprio posto.

    Che rapporto c’è tra le lobby Lgbt e la popolazione che dicono di rappresentare? Questi gruppi di pressione rappresentano davvero tutti gli omosessuali?

    Le lobby omosessuali fanno molto rumore. Lo si vede chiaramente quando organizzano manifestazioni come i Gay Pride, aperti anche agli eterosessuali per fare numero. Resta il fatto che gli omosessuali rappresentano una percentuale molto bassa della popolazione totale. In Francia un’inchiesta ha dimostrato che nel 2008 solo l’1,1 per cento degli uomini e lo 0,3 per cento delle donne hanno avuto contatti sessuali con persone dello stesso sesso, il che non vuol dire necessariamente che questi siano tutti realmente omosessuali. Parliamo quindi di un’esigua minoranza, con un grande potere nel settore politico e mediatico, che vuole imporre il proprio stile di vita alla maggioranza della popolazione ignara di quello che sta accadendo davvero: i media hanno un potere d’influenza psicologica tale da far passare per cattivo chi solo domanda di capire. Abituano ad accettare come normale anche quello che da sempre l’uomo percepisce come evidentemente problematico. Sono bandite dal dibattito perfino le domande circa l’origine dell’omosessualità.

    Insomma un problema che tocca poche persone viene trasformato in una questione epocale. Come è possibile che una lobby che rappresenta una parte minima della popolazione abbia tanto potere?

    Per comprendere questo fenomeno bisogna inserirlo in un quadro storico che si evolve a partire dagli anni Cinquanta, quando iniziò a svilupparsi l’ideologia della liberazione sessuale che voleva ridurre la sessualità al suo aspetto infantile e ludico. In seguito, all’inizio degli anni Settanta, si cominciò ad affermare che il piacere sessuale era un diritto primario della persona, quindi anche del bambino. Di qui la diffusione della pederastia e la legittimazione dell’omosessualità. Oggi siamo al punto in cui l’omosessualità viene considerata un’identità grazie al lavoro incessante degli attivisti gay all’interno di tutte le istituzioni più importanti. Come l’Onu e l’Unione Europea, che ora hanno ridefinito l’omosessualità. All’inizio degli anni Settanta gli attivisti gay per imporsi sono arrivati a usare la violenza verbale e fisica: le associazioni omosessuali intervenivano in tutti i congressi medici con metodi anche brutali, strappando il microfono a chi osava sollevare dubbi. E attraverso l’occupazione di posti strategici si sono infiltrati anche nel consiglio di amministrazione dell’Associazione degli psichiatri americani. Così hanno potuto imporre la cancellazione dell’omosessualità dal manuale delle malattie, una risoluzione raggiunta per alzata di mano dopo che a tutti i membri erano state inviate lettere personali: non era mai successo che si prendesse una decisione scientifica per alzata di mano. Da allora è diventato quasi impossibile per i medici affrontare l’omosessualità anche da un punto di vista scientifico. E dopo l’Organizzazione mondiale della sanità, le legislazioni statali hanno cominciato a negare l’esistenza della diversità sessuale, prima accettando l’omosessualità come normale, poi permettendo i matrimoni fra persone dello stesso sesso e infine aprendo all’adozione.

    Lei sostiene che gli omosessuali vivono una sofferenza. Se è così, perché nessuno si ribella e chiede di essere aiutato?

    Chi ammette il disagio e capisce che non è dovuto dalla società su cui proietta le proprie manie di persecuzione e da cui cerca una conferma che non ha trovato nel genitore, spesso cerca di farsi aiutare. Ma gli attivisti evidentemente o non se ne rendono conto o non vogliono uscirne: dicono di non soffrire, anche se c’è sempre un problema depressivo, di isolamento e di instabilità nei rapporti che si riversa all’esterno con rabbia. Perciò chi si fa aiutare ha spesso paura di dire le cose come stanno: siamo alla follia per cui se un eterosessuale diventa omosessuale gli si fanno congratulazioni, nel caso contrario c’è il disprezzo.

    Come giudica la ritrattazione di Robert Spitzer, lo psichiatra più influente dello scorso secolo, che recentemente si è scusato con gli omosessuali per aver constatato l’efficacia della terapia riparativa del dottor Nicolosi?

    Ci sono forme di omosessualità che non possono cambiare, altre che possono evolvere e incamminarsi verso l’eterosessualità. Ma se bisogna sempre evitare le terapie repressive, si può anche aiutare a superare la fase infantile della sessualità per correggere l’orientamento di chi intimamente lo desidera e sia quindi disposto a collaborare. Chi afferma questo, però, è perseguitato, compreso Spitzer.

    Ha mai ricevuto minacce?

    Mi capita di continuo, come a tutti quelli che sostengono quanto argomento io. Per ora non mi hanno ancora denunciato, sebbene in Francia una legge contro l’omofobia ci sia già: un deputato che si è permesso di dire che la famiglia ha un valore superiore a tutte le altre unioni è stato condannato in primo e secondo appello. La Cassazione si è pronunciata per la libertà di pensiero, ma mi domando: quanto durerà questa tregua? C’è una polizia delle idee che si sta sviluppando. E quando un’ideologia ha bisogno del potere della polizia e dei giudici per imporsi, significa che stiamo andando verso uno Stato totalitario. Il problema è che i cittadini non si stanno davvero accorgendo della gravità della situazione, anche perché i problemi che riguardano l’omosessualità sono sconosciuti e trattati come tabù.

    Quale può essere la via per contrastare questa ideologia e fermarne la deriva totalitaria? 

    Bisogna dire la verità. La Chiesa è rimasta l’unica istituzione a difendere la salute dell’uomo. Ma occorre un maggiore impegno per educare la gente: molti sono complici e giustificano questa ideologia per ignoranza. Spesso anche i preti parlano senza conoscere il vissuto reale degli omosessuali. Bisogna leggere la Bibbia e poi san Paolo che descrive le conseguenze orribili di una società che valorizza l’omosessualità. Sopratutto bisogna coltivare il rapporto con Dio. Infatti, il narcisismo in cui ci troviamo è frutto del rifiuto di Dio. E quindi dell’alterità che sola ci può compiere. Non a caso, in questo mondo che ha dimenticato l’alterità e non conosce il Suo amore, l’uomo non sa più chi è e non ha più un volto, se non quello uniforme della massa che lo plasma. Da qui l’importanza della nuova evangelizzazione di cui parla il Papa, che passa dall’annuncio dell’amore di Cristo all’uomo, sperimentabile nella Chiesa e nella famiglia. E l’importanza dell’educazione a uscire da se stessi per compiersi. Non a caso il Papa continua a parlare della famiglia naturale nonostante gli attacchi. 
    E l’allora cardinal Ratzinger, con cui ho lavorato per anni come membro della Congregazione per l’educazione cattolica, chiese di produrre un documento molto importante in merito all’educazione e all’omosessualità e alla necessaria collaborazione fra uomo e donna. È poi fondamentale l’azione pastorale in sostegno delle famiglie e un impegno maggiore dei cattolici nella difesa delle istanze familiari ed educative anche in politica.


    Leggi di Più: La teoria del “gender” e l’origine dell’omosessualità | Tempi.it 




    [Modificato da Caterina63 22/03/2015 12:52]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 26/02/2012 19:56
    "Mons. Karl Braun, vescovo di Eichstatt, ha svolto una serie di considerazioni sulla situazione in cui versa la pratica liturgica nel venticinquesimo anniversario della Sacrosanctum Concilium
    [Tratto da: http://www.alleanzacattolica.org/indici/mag_episcopale/braunk171_172.htm ]

    Nel 1988 è caduto il venticinquesimo anniversario della Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, il primo documento pubblicato, appunto nel 1963, dai Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II.
    Nella ricorrenza S.E. mons. Karl Braun, vescovo di Eichstätt, nella Repubblica Federale di Germania, ha svolto una serie di considerazioni sulla situazione in cui versa la pratica liturgica nella sua diocesi, ma, con ogni evidenza, la loro portata e il loro interesse si estendono oltre i confini della sede episcopale fondata da san Willibald, monaco anglosassone, compagno di san Bonifacio, morto nel 787.
    La traduzione del documento - condotta sul pieghevole originale in tedesco - è redazionale, così pure il titolo.

    Cristianità, 171-172 (1989)

     

    Su alcune questioni d'importanza attuale in campo liturgico

     

    Eichstätt, 4 dicembre 1988

    Ai Sacerdoti e ai Diaconi della diocesi di Eichstätt
    in occasione del 25º anniversario della pubblicazione
    della Costituzione sulla liturgia

    Cari Confratelli!

    Venticinque anni fa, il 4 dicembre 1963, come primo frutto del Concilio Vaticano II venne pubblicata la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium (SC). Essa costituisce il fondamento di tutti i passi postconciliari nell'ambito della vita liturgica della Chiesa. Traggo spunto dal 25º anniversario di questa Costituzione per richiamare l'attenzione su alcune questioni che mi sembrano importanti nella prospettiva attuale.

     

    1. Con la citata Costituzione i Padri conciliari hanno proseguito su vasta scala la riforma liturgica che Papa Pio XII aveva già iniziato al tempo della seconda guerra mondiale. Con questa decisione essi si proponevano di "far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli" (SC 1; cfr. SC 21).

     

    2. I Padri conciliari erano consapevoli che sarebbe stato possibile realizzare le aspirazioni della Costituzione sulla liturgia soltanto quando "gli stessi pastori d'anime [...] sono penetrati per primi dello spirito e della forza della liturgia, e [...] ne diventano maestri" (SC 14). La celebrazione liturgica ha certamente presupposti e conseguenze. La "vita spirituale" non si esaurisce solo in essa (cfr. SC 12). Comunque la liturgia "è la prima e per di più necessaria sorgente dalla quale i fedeli possano attingere uno spirito veramente cristiano" (SC 14). Per questa ragione noi pastori d'anime dobbiamo curare "con zelo e pazienza la formazione liturgica, come pure la partecipazione attiva dei fedeli, interna ed esterna ..."; in tal modo assolviamo "uno dei principali doveri del fedele dispensatore dei misteri di Dio" (SC 19 [1]).

    Oltre a tutti gli sforzi per un buon svolgimento esteriore dell'azione liturgica, oggi ci deve stare particolarmente a cuore che i fedeli giungano a una profonda partecipazione interiore all'atto liturgico. Un incremento delle attività esterne in occasione dell'azione liturgica non può andare a discapito dell'interiorità. Relativamente alla partecipazione interiore alla santa Eucarestia, la Costituzione desidera che "i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano istruiti nella parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l'ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo mediatore siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti" (SC 48). È quindi decisivo che i cuori si uniscano a Cristo e che insieme con lui si offrano al Padre. Ogni azione liturgica che non si ponga questo fine, per quanto apparentemente "riuscita" e "rispondente", misconosce la natura della liturgia.

    Quindi i pastori d'anime "devono vigilare affinché nell'azione liturgica non solo siano osservate le leggi per la valida e lecita celebrazione, ma che i fedeli vi prendano parte consapevolmente, attivamente e fruttuosamente"(SC 11). [SM=g1740733]

    Riferendosi alla Costituzione sulla liturgia il Sinodo Romano dei Vescovi, del 1985, sottolinea quindi a ragione che "l'attiva partecipazione [...] non consiste solamente nell'attività esteriore, ma soprattutto nella partecipazione interiore e spirituale, nella partecipazione viva e fruttuosa al mistero pasquale di Gesù Cristo ( cfr. SC 11)"(Relazione finale II. B. b. 1).

    Di fronte a una crescente superficialità in tutti i settori della vita l'approfondimento della spiritualità dell'azione liturgica in noi stessi e nei fedeli affidati alle nostre cure deve costituire una preoccupazione urgente.

     

    3. La liturgia è una celebrazione dell'incontro con il Dio vivente in parole e in immagini, in simboli e in gesti. Per questo tutto è ordinato in modo tale che la celebrazione stessa sia sorretta dalla nostra fede e dalla nostra carità, dallo spirito di timor di Dio e della sua adorazione e glorificazione. Di fronte alla sempre minore riverenza nell'azione liturgica è molto importante che non ci limitiamo a parlare di timor di Dio, ma che lo manifestiamo anche nel nostro servizio. Promuoveremo il senso del sacro soprattutto comprendendo più profondamente i segni liturgici e compiendoli coscientemente, con fede e con timor di Dio (cfr. Sinodo dei Vescovi, del 1985, Relazione finale II.B.b.1).

    Venticinque anni dopo la pubblicazione della Costituzione sulla liturgia ci dobbiamo chiedere se in ogni sforzo di rinnovamento liturgico teniamo anche in considerazione un presupposto essenziale per una partecipazione fruttuosa all'azione liturgica, cioè il timor di Dio. Senza timor di Dio non siamo "sensibili alla liturgia".

    Per questo le disposizioni esecutive della Costituzione sulla liturgia, così come le altre direttive liturgiche postconciliari per l'azione liturgica, ricordano ogni volta di nuovo il timor di Dio in campo liturgico, incominciando dalla messa in guardia dagli abusi, che misconoscono il carattere dell'azione liturgica, fino all'esortazione a un comportamento conveniente nella casa del Signore e a ricevere in modo riverente la santa Comunione. Il profondo timor di Dio nelle azioni liturgiche della Chiesa Orientale deve far riflettere noi cristiani in Occidente. Sarebbe grave se fra noi la sensibilità per il sacro si perdesse e l'irriverenza ci portasse a una velata irreligiosità.

    Non è un indizio preoccupante della diminuzione di timor di Dio e di senso del sacro se l'altare consacrato viene utilizzato come "tavolo ripostiglio" per oggetti estranei alla liturgia, se l'altare principale e l'ambone sono quanto vi è in chiesa di più scadente per qualità e per forma, se i fedeli, entrando o uscendo da una chiesa, non si inginocchiano o fanno al massimo un cenno di genuflessione, se lo stare in ginocchio in chiesa viene sostituito sempre più dallo stare seduti, se anche durante la liturgia il gesto così ricco di simbolismo delle mani giunte sembra passare sempre più di "moda", se il segno della croce viene fatto automaticamente e senza riflettere, se il canto dei fedeli e la preghiera comune vengono eseguiti in modo "sciatto", se il silenzio della casa del Signore viene disturbato da discorsi inutili e da chiacchiere? [SM=g1740721]

    Non dobbiamo cercare di rendere di nuovo accessibile ai fedeli il senso di riverenza nello spazio e nell'azione liturgici, come hanno fatto per esempio Romano Guardini nel suo scritto Von heiligen Zeichen [2] e ultimamente il vescovo mons. Egon Kapellari nel suo volumetto Heilige Zeichen, "Santi segni" (Verlag Styria, Graz-Vienna-Colonia 1988)?

    Le manifestazioni di mancanza di timor di Dio sembrano più preoccupanti quando si tratta di ricevere la santa Comunione.

    Non si ha qua e là l'impressione che la Comunione venga fatta automaticamente, in un atteggiamento esterno disinvolto e senza la dovuta manifestazione di timor di Dio? Che pensare di una "ressa" per la Comunione domenicale, se d'altra parte si deve constatare quanto è esiguo il numero di coloro che ricevono il sacramento della Penitenza? Non incombe in proposito il pericolo che la Comunione si trasformi in una semplice agape? Possiamo accettare senza difficoltà che nelle Messe in occasione di matrimoni, anniversari, funerali, e così via, ci si comunichi "collettivamente"? Certamente i fedeli sono invitati a partecipare alla celebrazione di tutta la liturgia della Messa e quindi anche a ricevere la Comunione. Come pastori d'anime, però, non dobbiamo spiegare a tutti, ancor più che in passato, che prima di accostarsi all'Eucarestia bisogna sottoporsi a un esame serio? Altrimenti non ci staremmo avviando, con l'automatismo nel ricevere la Comunione, verso una svalutazione dell'Eucarestia e a mangiare e a bere la nostra condanna (cfr. 1 Cor. 11, 28 ss.)?

    A questo proposito si deve tener conto che "per Cristo la sua obbedienza fino alla morte è la condizione per potersi donare a noi come cibo e come bevanda di vita eterna; così questo sacramento pretende che anche noi, in una sincera donazione, ci uniamo a Cristo senza riserve. D'altra parte non sarebbe neppure corretto considerare senza senso la partecipazione alla Messa senza comunicarsi, perché anche senza la Comunione la partecipazione alla santa Messa è una partecipazione sacramentale al sacrificio divino. Comunque si devono incoraggiare a partecipare alla Messa anche tutti coloro che, per qualche motivo, non possono partecipare pienamente all'Eucarestia ricevendo la santa Comunione. In nessun caso la libera decisione del singolo deve essere messa in discussione o annullata, anche se rito e testo della santa Messa prevedono che i partecipanti al rito si comunichino" (Lettera dei Vescovi Tedeschi a tutti coloro che sono incaricati dalla Chiesa di annunciare la fede, del 22 settembre 1967, n. 51).

     

    4. Ne "la liturgia infatti, [...] massimamente nel divino sacrificio dell'Eucarestia, "si attua l'opera della nostra redenzione"" (SC 2). Essa è soprattutto e innanzitutto azione divina in parole e in segni, in forme d'espressione umane. Essa avanza nei confronti dei fedeli elevate esigenze a cui non è lecito sottrarsi sostituendo il divino con l'umano. Il mistero dell'altare è "mistero della fede". Noi sacerdoti ci occupiamo del sacro tutti i giorni. Così si corre il pericolo dell'abitudine e della routine, se non continuiamo a preoccuparci di compiere coscientemente la celebrazione della fede.

    Oggi molti si lamentano che il mistero dell'azione liturgica stia svanendo o sia almeno minacciato. La dimensione del sacro, la profondità di forme simboliche durevoli, l'efficacia del rituale e del sacramentale, la potenza, contraria a ogni banalità, di un memoriale fondato divinamente, spesso non verrebbero più capiti o addirittura rifiutati. Un umanesimo desacralizzante impronterebbe in molti luoghi lo stile delle azioni liturgiche. La santa Messa e l'amministrazione dei sacramenti sarebbero trasformati in campo di prova per esperimenti liturgici "moderni", con il pretesto della "creatività" e della "spontaneità" si insinuerebbe l'arbitrio. Sarebbe necessaria una nuova disciplina arcani per un'azione liturgica di cui non si abusi per esibizioni personali o per la rappresentazione di banalità di tutti i giorni, ma conduca di nuovo nella profondità del mistero, se le nostre azioni liturgiche non devono finire nella dimensione orizzontale e mondana.

    Dobbiamo infatti prendere sul serio queste affermazioni, soprattutto in quanto - come ha constatato anche il Sinodo dei Vescovi del 1985 - "oggi [...] ci sono segni di una nuova fame e sete per la trascendenza e il divino" e "la diffusione delle sette" ci pone il quesito "se qualche volta non abbiamo manifestato sufficientemente il senso del sacro" (Relazione finale II.A.1).

    La natura stessa della liturgia, ma anche il fatto - e il bisogno che vi sta alla base! - che compaiono in misura crescente "segni di un ritorno al sacro", esigono da noi che, "per favorire questo ritorno al sacro e per superare il secolarismo, dobbiamo aprire la via alla dimensione del "divino" o del mistero" (ibidem). In proposito non si pone l'alternativa "culto misterico o assemblea della comunità". La liturgia della Chiesa è tutte e due: azione della comunità e attualizzazione dell'azione salvifica di Cristo. Noi dobbiamo piuttosto combattere una distorsione, che consiste nel vedere esclusivamente il carattere di assemblea comunitaria o di considerarlo a tal punto dominante che il valore del mistero nell'azione liturgica ne risulta pregiudicato. L'accentuazione del carattere comunitario della celebrazione della Messa non può prevalere sul carattere dell'Eucarestia come azione sacrificale divina rivolta a Dio. "Un primo stimolo" da parte della liturgia ortodossa - ha notato recentemente l'esperto protestante di Chiese Orientali K.-Ch. Felmy - "può essere quello di mettere di nuovo in maggior rilievo la dimensione del mysterium tremendum nella celebrazione dell'azione liturgica. La liturgia non è mai una manifestazione solamente umana, ma irruzione di Dio nella nostra realtà e partecipazione d'onore dell'uomo al servizio divino celeste, celebrato già prima di noi e anche senza di noi. Ogni azione liturgica ha perciò qualcosa di sacro in sé" (KNA-Ökumen. Information, n. 50, 1988, p. 12).

    Sacerdoti e diaconi non si possono accontentare del ruolo - inteso più o meno come funzione sociologica - di un "presidente" dell'assemblea liturgica: anzitutto devono essere autentici mistagoghi, che guidano i fedeli al mistero, all'incontro sacramentale e ricco di grazie con Dio.

     

    5. In noi sacerdoti e diaconi vengono riposte molte attese, che spesso non sono originate dalla totalità della fede, ma riguardano soltanto certi aspetti particolari. Una simile limitatezza è pericolosa. Essa compromette tanto la natura della liturgia quale celebrazione della fede della Chiesa come anche la sua ripetibilità. Mi sembra che noi oggi ci dobbiamo occupare più che mai dei fondamenti teologici della liturgia, per non soggiacere nella pratica pastorale a criteri che sono estranei alla sua natura.

    Una delle principali preoccupazioni di noi pastori d'anime deve essere quella di guidare i fedeli a capire e ad adempiere sempre meglio il loro compito di popolo di Dio, santo e sacerdotale (cfr. 1 Pt. 2, 9) soprattutto nella vita liturgica. Perciò è necessaria una continua formazione teologica, liturgico-pastorale e ascetica. Dobbiamo essere aperti alle conoscenze liturgico-teologiche e alle sollecitazioni liturgico-pastorali. In proposito dobbiamo però tenere presente che, da parte nostra, non siamo autorizzati a modificare a nostro piacimento le forme liturgiche vigenti o a introdurne di nuove. Il potere di regolare la liturgia compete unicamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al vescovo (cfr. SC 22). Ogni azione liturgica supera la dimensione della comunità, mette in rapporto con tutta la Chiesa e rappresenta l'unità della Chiesa stessa.

    Questo diventa chiaro non da ultimo nella celebrazione dell'azione liturgica in latino. La riforma liturgica ha consentito di celebrare la santa Messa e di amministrare i sacramenti nella lingua nazionale. Questo è molto importante dal punto di vista pastorale. Ma la lingua nazionale, nella quale viene normalmente celebrata la liturgia, non deve assolutamente sostituire del tutto la lingua latina nell'azione liturgica. La Costituzione sulla liturgia sottolinea:"Si abbia cura però che i fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell'ordinario della Messa che spettano ad essi" (SC 54). [SM=g1740722] 

    Gli ultimi Pontefici hanno ripetutamente espresso il desiderio che i fedeli di tutti i paesi sappiano cantare almeno alcuni canti in latino, per esempio il Gloria, il Credo, il Sanctus, il Pater Noster e l'Agnus Dei in gregoriano. Assecondiamo per quanto possibile questo desiderio e quando promuoviamo il canto comune inseriamo anche il canto gregoriano in latino. Un "repertorio di base" di canti gregoriani deve collegare spiritualmente i fedeli con una tradizione plurimillenaria e rafforzare la coscienza dell'unità delle molte Chiese locali.

    Le celebrazioni liturgiche "appartengono all'intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano" (SC 26). Questo punto di vista ecclesiale dell'azione liturgica della Chiesa merita la massima attenzione. Indipendentemente dal luogo e dall'occasione in cui celebriamo la liturgia, dobbiamo celebrare la liturgia della Chiesa e non una qualsiasi, creata da una singola comunità, da una commissione liturgica o da un singolo sacerdote in contrapposizione all'ordinamento liturgico della Chiesa. I fedeli hanno un diritto inalienabile alla partecipazione alla liturgia della Chiesa universale. A ragione essi oppongono resistenza ad azioni liturgiche che sono impregnate di elementi soggettivi e di preferenze personali, quando non ne sono completamente costituite. Essi sono particolarmente indignati se durante l'azione liturgica non vengono utilizzati i testi della Sacra Scrittura approvati dalla Chiesa, ma interpretazioni e parafrasi, che non sono più la Parola autentica di Dio.

    La riforma liturgica ha considerevolmente ampliato le possibilità di modificare liberamente (cfr. Introduzione Generale al Messale romano [IGM], Norme per la celebrazione della Messa comunitaria, Direttive per la celebrazione della Messa in piccole comunità, e così via). Questa libertà consente ampiamente di adattarsi alla situazione particolare. La liturgia ha però bisogno non solo di libertà d'azione ma anche di sostegno stabile. Proprio l'uomo moderno, che vive in un mondo in continuo mutamento, deve sentire la liturgia come patria, immune da un cambiamento permanente e in cui può anche ritrovare pace interiore e sicurezza. La costanza dei riti e delle preghiere vi contribuisce in modo determinante.

    Molte pubblicazioni liturgiche e proposte di testi in circolazione tradiscono un'ignoranza vergognosa in materia liturgica.

    Questo riguarda non da ultimo anche le formule delle preghiere dei fedeli nella celebrazione della Messa. Le invocazioni di intercessione sono non di rado ammaestramenti catechizzanti e moraleggianti, presentano una "sottolineatura etica" e sono appelli rivolti agli altri invece di essere veramente oratio fidelium, preghiere di coloro che si sono riuniti nell'azione liturgica e che, solidali con il prossimo, invocano pieni di fiducia il Signore: per le necessità della Chiesa, per i governanti e per la salvezza di tutto il mondo, per quanti sono oppressi da difficoltà di vario genere, per la comunità locale (cfr. IGM 45 ss.).

    Durante la celebrazione dell'Eucarestia il diacono o il sacerdote possono esortare a manifestare la disponibilità reciproca alla pace e alla riconciliazione. Questa dimostrazione così come viene pratica in più luoghi non corrisponde per modalità e per durata allo spirito di ciò che vuole significare. Perciò è necessario ricordare quanto segue: il saluto di pace del sacerdote prima della Comunione deve ricordarci di aprire il cuore alla pace e all'amore di Cristo e di prepararci così alla Comunione. L'ordinamento della Messa prevede che i fedeli - in certo qual modo come risposta di assenso - si possano assicurare e augurare reciprocamente questa pace, memori della parola di Cristo: "Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati" (Gv. 15, 12).

    È consuetudine che, per il saluto di pace, ognuno stringa la mano del vicino di destra e di sinistra, che rappresentano tutti gli altri fratelli e sorelle. Poiché non si tratta dell'unica professione in cui ci si riconosce in comunione con Dio e con gli altri, questo gesto non deve essere esteso più del dovuto. Non abbiamo già riconosciuto i nostri peccati e non abbiamo già chiesto perdono a Dio onnipotente, e a tutti i fratelli e sorelle all'inizio della celebrazione? Cantiamo e preghiamo insieme, e sappiamo che il pane che viene portato in offerta all'altare rappresenta in modo misterioso l'unione reciproca e, dopo la consacrazione, anche con Cristo. Non potremmo presentare le nostre offerte con cuore sincero se non fossimo disposti alla riconciliazione (cfr. Mt. 5, 23-24). Quindi il saluto di pace non è l'unico segno della nostra disponibilità a mettere in pratica la pace di Cristo. I sacerdoti che partecipano alla Messa come concelebranti e i diaconi in servizio si scambino il saluto di pace nella forma abituale dell'abbraccio reciproco, in questo modo manifestando la particolare comunione che Cristo ci ha donato con il sacramento dell'Ordine.

    Ogni arbitrio nell'abbigliamento liturgico contrasta con la dignità della liturgia. Vi è un nesso stretto fra l'insofferenza verso i paramenti liturgici e l'individualismo liturgico. L'abbigliamento liturgico ha carattere simbolico, serve alla dignità dell'azione liturgica, sottolinea la distinzione fra sacro e profano e rende evidenti le differenti funzioni svolte dai ministri che partecipano alla liturgia. Il sacerdote o il diacono deve essere riconoscibile come rappresentante di Cristo e come presidente dell'azione liturgica e quindi non può fare a meno dei paramenti liturgici. Ogni volta che celebra l'azione liturgica o amministra i sacramenti indossa un abbigliamento religioso adeguato e i paramenti prescritti. Un motivo per questo richiamo è fornito non da ultimo dall'amministrazione del sacramento della Penitenza in chiesa.

    Dovrebbe diventare di nuovo ovvio che diaconi e sacerdoti in azioni liturgiche comuni come in occasione di funerali, di ritiri per sacerdoti, nella Messa crismale della Settimana Santa, e così via, portino talare e cotta, se non concelebrano o se non sono in servizio come diaconi. La retta disposizione interiore, richiesta dal servizio a Cristo, si esprime anche nel comportamento esteriore e nell'abbigliamento. Io non credo che l'uomo moderno sia "insensibile ai simboli". Egli è senz'altro recettivo per il linguaggio dei segni in cui viene espresso visibilmente ciò che è invisibile. Spetta a noi rendergli accessibile il significato dei simboli in ambito liturgico.

    [SM=g1740733] I tentativi di rendere "più attraenti" le funzioni liturgiche per riscuotere il "successo" possono essere dettati da buone intenzioni ed esprimere autentica preoccupazione pastorale. Sarebbe però espressione di una "modernità pastorale" molto equivoca e di un'inutile preoccupazione per un'azione liturgica di "successo" presso gli uomini se ci si lasciasse guidare dall'"aggiornamento della liturgia" e se si utilizzassero per la celebrazione della Messa trovate più o meno ingegnose, testi di propria creazione, scambio di ruoli, dialoghi improvvisati, rituali di saluto profani, e così via, e il tutto riferito a situazioni particolari della comunità e a fatti d'attualità. Tali forme "moderne" possono sul momento piacere ai fedeli, ma con il tempo diventano esse stesse noiose, perdono la loro attrattiva e tradiscono la natura della santa Messa. Nell'azione liturgica non si tratta tanto della nostra azione quanto piuttosto dell'azione e dell'opera di Dio; si tratta di un atto di fede, che non può essere semplicemente "fatto", ma che deve essere sostenuto dalla grazia di Dio.

    La grandezza della celebrazione eucaristica non dipende "da una forma per quanto possibile interessante, ma da quello che essa è: annuncio della Parola di Dio, preghiera della Chiesa, sacrificio di Cristo e convito con Cristo" (dalla Dichiarazione della Conferenza Episcopale Austriaca relativa alla visita "ad limina" del 1987, del 29 marzo 1988).

    Più necessaria e più indispensabile dell'"aggiornamento" della celebrazione della Messa con l'introduzione di nuovi testi, forme e modelli è l'educazione liturgica dei fedeli, in modo che essi capiscano meglio natura, composizione ed elementi dell'azione liturgica e quindi vi possano partecipare più proficuamente. Il "successo" - come se si trattasse di uno spettacolo! - e l'"attrattiva" della liturgia, la sua forza e la sua efficacia non derivano da continui mutamenti e da novità superficiali, ma piuttosto da un'approfondita partecipazione all'avvenimento sacro della liturgia, in cui è presente e attivo il mistero di Cristo.

     

    6. La celebrazione della liturgia è la fonte del nostro servizio sacerdotale. Essa ci rende coscienti affinché "quanto in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura verso la quale siamo incamminati" (SC 2). La nostra dedizione al servizio divino davanti a Dio diventa con il suo aiuto fruttuosa per gli uomini, anche se non ci è concesso di constatarlo subito e di vederlo sempre confermato.

    Il modo in cui noi celebriamo la liturgia possa essere sempre espressione della nostra fede e della nostra convinzione che - com'è scritto nella Regola di san Benedetto - non si deve anteporre nulla all'"opera di Dio" (cfr. RB 43, 3). Cerchiamo di compiere il nostro servizio liturgico in unanime collaborazione e secondo le disposizioni ecclesiastiche, mettiamo da parte la nostra caparbietà, rinunciamo alle nostre inclinazioni personali per essere servitori della liturgia della Chiesa! In tal modo possiamo preparare quella primavera in cui hanno sperato i Padri conciliari pubblicando la Costituzione sulla liturgia, quel rinnovamento che non indulge a secolarizzazione e ad arbitrio, ma corrisponde alle vere esigenze del nostro tempo.

    Cari Confratelli, sono fiducioso che queste parole scaturite dalla mia preoccupazione e dalla mia responsabilità trovino un ascolto pronto e un cuore ben disposto. Mi sento anche obbligato a manifestarvi apprezzamento e riconoscenza per il vostro impegno a celebrare l'azione liturgica secondo le indicazioni e i fini della Costituzione sulla liturgia e a edificazione della nostra comunità.

    Se la liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia (cfr. SC 10), allora bisogna anche dire che una tale "esperienza di vetta" e una tale "esperienza di fonte" sono possibili soltanto per quanti si danno la pena di scalare la vetta e di risalire alla fonte. Auguro a tutti noi di non intiepidirci in questa impresa, ma di procedere con letizia.

    Vi saluta di cuore e vi benedice

    il vostro vescovo

    +Karl Braun
    Vescovo di Eichstätt

    ***

    (1) Le sottolineature nel testo della Costituzione conciliare sono state introdotte dall'autore (n.d.r.).

    (2) Cfr. Romano Guardini, I santi segni, in Idem, Lo spirito della liturgia. I santi segni, trad. it., Morcelliana, Brescia 1987, pp. 121-203 (n.d.r.).

     

    *******

     

    Giovanni Paolo II dalla Lettera Dominae Cenae


    Conducendo ormai a termine queste mie considerazioni, vorrei chiedere perdono - in nome mio e di tutti voi, venerati e cari fratelli nell'episcopato - per tutto ciò che per qualsiasi motivo, e per qualsiasi umana debolezza, impazienza, negligenza, in seguito anche all'applicazione talora parziale, unilaterale, erronea delle prescrizioni del Concilio Vaticano II, possa aver suscitato scandalo e disagio circa l'interpretazione della dottrina e la venerazione dovuta a questo grande sacramento. E prego il Signore Gesù perché nel futuro sia evitato, nel nostro modo di trattare questo sacro mistero, ciò che può affievolire o disorientare in qualsiasi maniera il senso di riverenza e di amore nei nostri fedeli. [SM=g1740733]

    Che Cristo stesso ci aiuti a proseguire per le vie del vero rinnovamento verso quella sapienza di vita e di culto eucaristico, per il cui mezzo si costruisce la Chiesa in quell'unità che essa già possiede e che desidera ancor più realizzare per la gloria del Dio vivente e per la salvezza di tutti gli uomini.


    [SM=g1740722] 

     


    [Modificato da Caterina63 26/02/2012 20:18]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 02/04/2012 15:56

    Diario Vaticano / Il Sant'Uffizio a portata di mouse

    http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350210

    Basta un clic per accedere a tutti i documenti della congregazione per la dottrina della fede, dal 1965 a oggi. Il più vecchio della serie, del cardinale Ottaviani, sembra scritto su misura per l'odierna disputa con i lefebvriani

    di Sandro Magister





    CITTÀ DEL VATICANO, 2 aprile 2012 –  Da un paio di settimane i documenti vaticani riguardanti la dottrina cattolica sono più facilmente accessibili in tutte le maggiori lingue nel mondo.

    Il 16 marzo, infatti, la congregazione per la dottrina della fede, CDF, pur conservando i propri documenti sul sito ufficiale della Santa Sede, per facilitarne la consultazione ha aperto una nuova pagina web:

    > Congregazione per la dottrina della fede

    In essa si possono leggere tutti i pronunciamenti postconciliari della congregazione. In pratica tutti i documenti emanati dopo che essa cambiò nome – con il motu proprio del 7 dicembre 1965 "Integrae Servandae" di Paolo VI – da congregazione del Sant’Uffizio a, per l’appunto, congregazione per la dottrina della fede.

    Per una più facile consultazione, i link ai documenti sono offerti non solo in una lista generale, ma anche in tre liste tematiche: quelli di natura dottrinale (74 documenti), quelli di natura disciplinare (33) e quelli riguardante i sacramenti (39).

    I principali documenti sono presenti in otto lingue: oltre alla versione latina, anche in italiano, inglese, francese, spagnolo, portoghese, tedesco e polacco, e qualche volta anche in ungherese, slovacco, ceco e olandese.

    Una nota pubblicata dalla CDF il 16 marzo spiega che "si sta procedendo nel completamento della raccolta delle traduzioni" e che "già attualmente ogni documento viene offerto comunque in lingua originale e in qualche traduzione". Solo di 7 documenti su 146 – tutti di minore rilievo e antecedenti il 1981 – non viene, per ora, ancora offerto il testo elettronico ma solo l’indicazione bibliografica.

    Nella nuova pagina internet si trovano anche informazioni aggiornate circa le pubblicazioni della collana "Documenti e Studi", che ripubblica i più importanti documenti del dicastero "illustrati da commenti di alcuni teologi autorevoli".

    Inoltre si offrono notizie circa i volumi con gli atti di simposi promossi dalla congregazione e si mettono a disposizione discorsi e interventi degli ultimi due prefetti della congregazione: il cardinale William J. Levada, che la guida dal 2005, e l’allora cardinale Joseph Ratzinger che ne fu prefetto nei 23 anni precedenti.

    Con questo sforzo divulgativo – spiega la nota – "la congregazione intende raggiungere un sempre più ampio cerchio di destinatari in ogni parte del mondo".

    Quanto al valore dei documenti, la nota sottolinea che "i documenti della CDF approvati espressamente dal Santo Padre partecipano al magistero ordinario del successore di Pietro (cfr. Istruzione 'Donum veritatis' sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990, n.18). Ciò spiega l’importanza di una ricezione attenta di tali pronunciamenti da parte dei fedeli e specialmente di coloro che sono impegnati, a nome della Chiesa, nell’ambito teologico e pastorale".

    La nota insiste infine sul fatto che "nel mondo di oggi" risulta "necessaria una più ampia diffusione dell'insegnamento del dicastero", poiché "soprattutto i documenti emanati dal tempo del Concilio Vaticano II fino ad oggi trattano questioni importanti per la vita e la missione della Chiesa, offrendo risposte dottrinali sicure alle sfide che ci stanno davanti".

    *

    Già cinque anni fa la congregazione per la dottrina della fede aveva pubblicato un'imponente raccolta a stampa di 105 suoi documenti: Congregatio pro Doctrina Fidei, "Documenta inde a Concilio Vaticano secundo expleto edita (1966-2005)", Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007, pp. 672.

    Documenti che però non erano tutti quelli prodotti dalla CDF, ed erano riprodotti esclusivamente nella lingua originale in cui erano stati redatti.

    Le prime 200 pagine di quel volume raccoglievano i documenti emessi dalla congregazione quando ne furono prefetti i cardinali Alfredo Ottaviani, ritiratosi nel 1968, e Franjo Seper, in carica fino al 1981.

    Le successive 400 pagine contenevano invece i testi di quando ne fu prefetto l’allora cardinale Ratzinger.

    Oggi nella lista di documenti riportati nella nuova pagina web ne compaiono un'altra ventina emanati durante il periodo coperto dal volume, più altri 16 usciti successivamente, in pratica da quando Ratzinger è diventato papa e come prefetto gli è succeduto il cardinale Levada.

    Contrariamente a quanto si può pensare, solo una parte minore degli interventi della congregazione riguarda opere di teologi entrati in conflitto con il magistero della Chiesa. In oltre 46 anni sono stati oggetto di pronunciamenti – di diverso tenore – testi dei seguenti diciotto autori: Hans Küng (nel 1975 e 1979), Jacques Pohier (1979), Anthony Kosnik (1979), Edward Schillebeeckx (1980, 1984, 1985), Leonardo Boff (1985), Charles Curran (1986), Gyorgy Bulanyi (1986), André Guindon (1986), Vassula Ryden (1995), Tissa Balasuriya (1997), Anthony de Mello (1998), Jeannine Gramick e Robert Nugent (1999), Reinhard Messner (2000), Jacques Dupuis (2001), Marciano Vidal (2001), Roger Haight (2004), Jon Sobrino (2006).

    Sicuramente più caratterizzanti il lavoro della congregazione nell'era Ratzinger/Benedetto XVI sono stati i seguenti documenti:

    - le due istruzioni sulla teologia della liberazione del 1984 e del 1986;
    - l'istruzione "Donum vitae" del 1987 sulla vita nascente e la procreazione, aggiornata nel 2008 con la “Dignitas personae”;
    - l'istruzione "Donum veritatis" del 1990 sul rapporto tra teologi e magistero;
    - la lettera "Communionis notio" del 1992 sul rapporto tra Chiesa universale e Chiese locali;
    - la dichiarazione "Dominus Iesus" del 2000 sul cristianesimo rispetto alle altre religioni;
    - la nota dottrinale sui cattolici nella vita politica del 2002;
    - la nota del 2003 sulla legalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso;
    - la lettera del 2004 sulla donna.

    Senza contare le norme sui "delicta graviora" promulgate nel 2001 e pubblicate in "editio typica" aggiornata nel 2010.

    *

    Curiosamente, la nota con cui la CDF ha presentato la sua nuova pagina internet è stata emessa proprio nello stesso giorno, il 16 marzo, nel quale i vertici dell’ex Sant’Uffizio hanno tenuto un delicato e importante incontro con il vescovo Bernard Fellay, superiore della lefebvriana Fraternità San Pio X.

    In quell'incontro, al leader tradizionalista è stato dato un mese di tempo per firmare un preambolo dottrinale – contenente l’accettazione del Concilio Vaticano II – come condizione per un pieno reintegro nel seno della Chiesa cattolica.

    Ma è anche possibile che nel corso di quel colloquio sia stato ritirato fuori uno dei primi documenti di quando nacque la “nuova” congregazione per la dottrina della fede.

    Si tratta della lettera circolare del 24 luglio 1966 inviata dal cardinale Ottaviani ai presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo “circa alcune sentenze ed errori insorgenti sull’interpretazione dei decreti del Concilio Vaticano II”.

    Nella lista dei documenti a carattere dottrinale raccolti nella nuova pagina web della CDF, questo testo occupa il primo posto in ordine cronologico.:

    > Lettera circolare...

    In questa lettera il cardinale Ottaviani, non certo con fama di progressista, tiene a distinguere "il Concilio Ecumenico Vaticano II", che "ha promulgato sapientissimi documenti, sia in materia dottrinale sia in materia disciplinare, allo scopo di promuovere efficacemente la vita della Chiesa", dagli "abusi che vanno prendendo piede nell'interpretare la dottrina conciliare". [SM=g1740733]

    E parlando di ecumenismo afferma:

    "La Sede Apostolica loda, indubbiamente, coloro che nello spirito del decreto conciliare sull'ecumenismo promuovono iniziative destinate a favorire la carità verso i fratelli separati e ad attirarli all'unità della Chiesa; ma si duole del fatto che non mancano alcuni i quali, interpretando a modo proprio il decreto conciliare, propugnano un'azione ecumenica tale da offendere la verità circa l'unità della fede e della Chiesa, favorendo un pernicioso irenismo e un indifferentismo del tutto alieno dalla mente del Concilio".

    Chissà se questa lettera di Ottaviani, tuttora inserita a pieno titolo tra i documenti ufficiali della congregazione per la dottrina della fede, sarà riletta con frutto dai capi dei lefebvriani...

    __________


    La nota del 16 marzo della congregazione per la dottrina della fede:

    > "Come è noto, i documenti..."
     
    __________


    Tutti i servizi di www.chiesa riguardanti il governo centrale della Chiesa cattolica:

    > Focus su VATICANO

    __________


    Gli ultimi tre precedenti servizi di www.chiesa:

    30.3.2012
    > Non sacra musica, ma rumori d'assalto
    Dopo il coro della Cappella Sistina, anche il conservatorio della Santa Sede sta per essere conquistato dai responsabili della deriva musicale di questi ultimi decenni. Nel silenzio del papa

    28.3.2012
    > Nella fornace ardente di Cuba
    Non lo scetticismo dei Ponzio Pilato, non l'irrazionalità dei fanatici, ma solo "la verità vi farà liberi". L'omelia del papa alla messa all'Avana, il 28 marzo

    25.3.2012
    > Il papa in Messico: "Viva Cristo Re"
    È un re con la corona di spine, ma solo lui ci può salvare: "Qualsiasi cosa vi dica, fatela". L'omelia alla messa di Léon, davanti a mezzo milione di fedeli, domenica 25 marzo

    __________



    [SM=g1740733]


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 03/04/2012 23:56

     

    La linea indicata alle chiese dalla sua omelia [SM=g1740721]
    http://www.loccidentale.it/node/114989

    Mons. Moraglia, il nuovo patriarca di Venezia che promette già bene



    [URL=]http://www.loccidentale.it/node/114989

    3 Aprile 2012

    moraglia01.jpg

    Un grande inizio quello del nuovo Patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia, già vescovo di La Spezia, che domenica scorsa 25 marzo si è insediato come quarantottesimo successore di San Lorenzo Giustiniani. La sua omelia in San Marco merita una attenzione particolare e promette molto di buono. La notizia è importante visto il peso specifico di quella sede vescovile dentro il governo della Chiesa cattolica.

    L'appello alla comunione con il Papa, la necessità di ricentrarsi sulla fede e sull'annuncio, l'insistenza sulla tensione missionaria, la denuncia dei goffi tentativi dei teologi di voler guidare la Chiesa, l'annuncio del realismo cristiano che parte da Cristo e non dall'uomo ed infine l'invito non ad un generico dialogo ma ad una "testimonianza dialogica" dicono già molto di positivo della linea indicata alle chiese del Nordest dal nuovo Patriarca, e non solo alle chiese del Nordest. Dicevo della comunione con il Papa. Il Patriarca è stato molto chiaro in proposito: rifacendosi a San Cipriano egli ha detto che Il vescovo “nel nome di Cristo, guida la comunità ecclesiale”, egli vive in comunione con gli altri vescovi “ma alla fine è la comunione col Vescovo di Roma a garantire la stessa collegialità episcopale”. In un momento in cui ci sono cardinali che si discostano dall'insegnamento di Benedetto XVI e vasti ambiti delle chiese dell'Europa centrale premono per una chiesa più sinodale ed elettiva si tratta di una affermazione di una certa importanza.

    Ma la parte più interessante dell'omelia è stato quando il Patriarca ha parlato del prossimo convegno delle Venezie Aquileia2 che si terrà dal 13 al 15 aprile prossimi. Nel 1992 l'allora Patriarca Cè aveva voluto Aquileia1 che però di frutti non ne ha poi prodotti tanti se ora i dati dell'Osservatorio socio-religioso Triveneto segnala una crescente secolarizzazione in queste terre. Aquileia2 ha avuto una preparazione di due anni, ma sembra essere stata presa in mano dai pastoralisti e dalla Facoltà teologica del Triveneto ed anche all'interno dell'episcopato non tutti sono d'accordo con l'impostazione data. La Chiesa deve imparare dal mondo, deve darsi una struttura sinodale consultiva periodica, deve rigenerarsi dal basso, bisogna far parlare i laici e le donne, occorrono gesti profetici per il bene comune... queste alcune delle linee emerse nella fase preparatoria ad Aquileia2, con le quali, però, il nuovo Patriarca sembra aver tagliato corto. “L'impegno comune - ha detto - è di ricentrare la vita delle nostre Chiese avendo di mira l'annuncio di Cristo” . “La nuova evangelizzazione - ha proseguito - per essere veramente tale - suppone che la comunità evangelizzante sia, prima di tutto, rigenerata nel proprio rapporto vitale con Cristo; ogni cammino d'evangelizzazione ha inizio non con l'elaborazione di piani pastorali o progetti accademici delle facoltà teologiche, e neppure attraverso un'auspicabile copertura del territorio da parte dei media.

    Certo questi strumenti, per quanto di loro competenza, concorrono all'opera evangelizzatrice in modo eccellente, ma non costituiscono ancora il fondamento dell'evangelizzazione”. Questa segnalazione del pericolo di confondere lo strumentale con l'essenziale è tornato in una successiva notevole sottolineatura: “Sono infatti i discepoli, intesi personalmente e comunitariamente, che vengono prima degli uffici pastorali, prima delle facoltà teologiche, prima della rete mediatica; solo in un secondo momento tali strumenti diventano preziosi... Prima di tutto, però, viene la comunità testimoniante che in nessun modo può essere surrogata o data per presupposta”. Il messaggio è molto chiaro: non sarà con le indagini sociologiche o inseguendo i nuovi costumi sociali, non sarà con le spesso cervellotiche elaborazioni degli esperti che le comunità cristiane riprenderanno in mano l'evangelizzazione delle Venezie. Soffermandosi poi sul brano evangelico dei discepoli di Emmaus, il Patriarca ha ricordato la loro pretesa di spiegare a Gesù, che non avevano riconosciuto tale, gli avvenimenti dei giorni precedenti.

    Tagliente l'osservazione di Mons. Moraglia: “Pare di intravedere, in questo goffo tentativo, l'immagine di certa teologia, più volenterosa che illuminata, tutta dedita all'ardua e improbabile impresa di salvare, attraverso le proprie categorie, Gesù Cristo e la sua Parola. Ma in questa immagine siamo rappresentati anche noi ogni qual volta, con i nostri piani pastorali, con i nostri progetti, convegni e dibattiti, avulsi da una vera fede, pretendiamo di spiegare a Gesù Cristo chi Egli è. Quando la fede viene meno, o non è più in grado di sostenere e fecondare la vita dei discepoli, allora ogni discorso teologico, ogni piano pastorale o copertura mediatica appaiono insufficienti. E noi ci troviamo nella stessa condizione dei due discepoli di Emmaus, incapaci d'andar oltre le loro logiche, i loro stati d'animo, scoprendosi prigionieri delle loro paure. Teniamo conto di tutto ciò alla vigilia di Aquileia2 e dell'incipiente anno della fede”. In vista di Aquileia2 di riunioni di commissioni e di convegni ne sono stati fatti tanti. La convegnistica sta in certi casi surrogando la mancanza di fede e nelle diocesi i ragionamenti umani e una ingenua pastorale dell'accoglienza delle situazioni di fatto sta facendo perdere di vista la centralità di Cristo.

    Le conclusioni dell'omelia del Patriarca hanno poi presentato il "realismo cristiano" che “partendo da Gesù Cristo ritorna a Gesù Cristo dopo aver incontrato ed attraversato, in tutto il suo spessore e diversi gradi, la creaturalità dell'uomo”. Non si parte dalla centralità del'uomo, come spesso si sente dire dopo la "svolta antropologica", ma dalla centralità di Dio. La Chiesa deve “crescere nella consapevolezza della fede per educarsi e porsi, senza arroganza ma anche senza timori o complessi d'inferiorità, in una testimonianza dialogica con le culture dominanti”. Anche questa espressione della "testimonianza dialogica" è ricca di significato. Il dialogo nel postconcilio ha spesso sostituito l'annuncio, mentre il magistero ha sempre sostenuto che nel dialogo deve essere sempre presente l'annuncio. Il Patriarca Moraglia sembra essere anche lui di questo avviso: nella testimonianza dialogica il sostantivo è la testimonianza e il dialogo è il suo strumento e non il suo fine. Promette bene questo nuovo Patriarca e bisognerà seguirlo con attenzione.

     

    [SM=g1740722] 

     

    *****************************

     

     

    "I cristiani vogliono essere cristiani"

     

     

     

    La benefica severità di Padre Barsotti

     

     

    Don Divo Barsotti con il Cardinale Giacomo Biffi (1998)

     

     L’impazienza è il veleno che a piccole o grandi dosi l’uomo moderno, compreso il cristiano, si inietta continuamente nelle vene ed ecco che l’ «uomo, proprio in forza della speranza che lo anima e lo spinge, non sa più abbandonarsi a Dio e attendere “i suoi momenti”, vuole anticiparli da sé e, proprio nel suo sforzo di realizzare quaggiù il Regno di Dio, va avanti da solo e Dio lo abbandona» (1). Questa grande verità venne analizzata da un maestro della spiritualità del XX secolo, don Divo Barsotti, in un suo articolo pubblicato su «L’Osservatore Romano» del 16 marzo 1969 e ripreso in un interessante libro che raccoglie suoi articoli ed interventi dal titolo I cristiani vogliono essere cristiani  (San Paolo 2006, pp. 347, € 17,00).
       Ma l’uomo, senza Dio, dove può mai arrivare? L’infelicità sarà il suo certificato di garanzia. Non c’è niente di più tragico, per l’uomo, che rimanere solo, senza il Padre che lo volle e lo creò. Pensiamo alla drammaticità di rimanere orfani nella tenera età oppure al terrore scritto sul volto di tanti anziani malati lasciati soli negli ospizi; pensiamo, soprattutto, a chi rimane orfano del Signore, all’inquietudine di società intere, un tempo cristiane, che hanno perso la Fede e la speranza in Dio: là dove la persona non fa più affidamento al suo Creatore ha già la morte nell’anima. Ci sono stati e ci sono eremiti che, benché vivano nella solitudine più assoluta, pregustano già la felicità eterna, perché vivono in Dio e non si affannano mai, non conoscono l’impazienza, ma solo la pazienza, vivendo nella traiettoria dell’Assoluto e dell’Amore Infinito, immersi nella Sua grazia, che nutre e disseta.

     


       «Quando il tempo presente, quando l’esperienza di quaggiù cessa di essere segno del Mistero, allora il tempo perde la sua stessa significazione e l’esperienza umana diviene vuota di senso» (2). Questa misteriosa, splendida, fuggitiva e terribile scena temporale, dove bene e male sono in perenne conflitto dentro e fuori di noi, ha un grande e sibillino protagonista: il Tentatore che minaccia tutti gli uomini, anche quelli di Chiesa. Senza il Mistero della Fede, afferma don Barsotti, la vita perde di significato e allora: «Mi domando se non è questa la tentazione di tanti oggi nella Chiesa. Una certa volontà che si disfaccia la Istituzione ecclesiastica, cioè la Chiesa, nella “città secolare”» (3). Barsotti, monaco di grande Fede, ma anche di grande onestà intellettuale, si interrogò assiduamente sulla deriva di buona parte del mondo cattolico e ne cercò le cause. Quella «città secolare» dentro alla «Città di Dio» proprio non poteva accoglierla con passività e rassegnazione. «La Costituzione pastorale “Gaudium et Spes” forse ne è stata l’occasione? Ogni grazia è ambigua: anche una Costituzione Conciliare, in una sua interpretazione aberrante, potrebbe rappresentare una grave tentazione» (4). Ma si tratta semplicemente di interpretazione o forse non ci sono già segni pericolosi dentro l’oggetto di quella che potrebbe diventare «interpretazione aberrante»? Don Barsotti afferma che la Chiesa non deve avere paura della Croce, perché in essa sta il segno della Fede e ad essa bisogna obbedire. «Si può dire: il Cristo ha già realizzato la salvezza, il Regno di Dio; sì, ma tu ne sei escluso, se l’obbedienza della fede che in Lui compì il disegno divino della salvezza, non diviene la sua stessa obbedienza. Per questo l’obbedienza della fede è la suprema attività dell’uomo. […]. Nulla perciò è più efficace, in ordine alla speranza della piena rivelazione del Regno di Dio, che la fede, anzi, nulla è veramente efficace tranne l’obbedienza della fede. Ogni attività che prescinda dalla fede, è attività demoniaca che vorrebbe violentare le segrete disposizioni di Dio, vorrebbe strappare a Dio la decisione dell’intervento ultimo, sostituendo all’economia sacramentale presente, l’economia della gloria», e il fondatore dei Figli di Dio, a questo punto, non usa mezzi termini: «Parlare di un post-cristianesimo è, nel migliore dei casi, delirio soltanto di chi ha perduto la fede e rinunzia definitivamente alla salvezza di Dio» (5).

     


       Don Divo Barsotti è profondamente allarmato dalla secolarizzazione della cristianità, ma non se ne sta con le mani in mano, reagisce con prediche, discorsi, articoli, libri... Nessun processo di secolarizzazione, afferma, avrà la capacità di risolvere in elemento secolare le virtù teologali: non la fede, non la speranza e nemmeno la carità, perché l’assistenza sociale non sostituisce e non sostituirà mai l’amore cristiano. Infatti il termine solidarietà ha rimpiazzato, anche in ampi strati della Chiesa, il cattolico vocabolo carità.
       Magnifico e verissimo ciò che sostiene: il Sacerdote mantiene la sua essenziale e formidabile mansione anche se gli fosse impedita ogni attività sociale. Questo vale pure per la Chiesa, anche se essa perdesse ogni grandezza di carattere storico. Gli uomini potrebbero comunque riconoscere al Sacerdote e alla Chiesa la loro vera missione che è l’annuncio della Salvezza, la celebrazione del Santo Sacrificio, la discesa della grazia attraverso i Sacramenti, l’unione con Dio nella preghiera. La Santa Messa è il cuore della Fede. Ma come porsi allora di fronte alle tante celebrazioni eucaristiche postconciliari dove al centro dell’attenzione non c’è più l’immolazione del Figlio di Dio, ma l’assemblea? «Se la celebrazione liturgica non realizzasse la unità trascendente degli uomini in Cristo, che cosa sarebbe di più che una riunione di amici, cui disturba ogni forma come inutile e falsa? Meglio cento volte un rito incomprensibile, che una celebrazione che si risolva in un puro incontro di amici – non certo perché l’incomprensibilità del rito illude più facilmente sul suo valore, ma perché meglio significa il suo contenuto reale di Mistero che trascende tutto l’umano» (6).

     


       Benché la secolarizzazione abbia profanato realtà che non le appartenevano, come per esempio la Sacra Liturgia, la «Presenza rimane e giudica il mondo». Qui don Barsotti si fa severo. Togliendo stoltamente la Croce per porvi un Gesù umanizzato che tutto perdona e tutti accoglie, si toglie il Mistero, ma ciò non può che portare alla rovina: l’uomo, così facendo, dovrà rinunciare al senso della vita, della storia, della creazione: gli rimarrà, alla fine, la dimensione animale, senza però averne l’innocenza, «animale che vive senza perché e muore senza rimpianto» (7).
       Severo è anche quando rimprovera, senza fare il nome dell’autore, il titolo di un libro uscito intorno al 1969, Credenti e non credenti per un mondo nuovo. Barsotti qui insiste sul fatto che non può esistere alcuna «novità» per il credente all’infuori di Cristo, perciò è logico che fra chi ha Fede e chi non l’ha, seppur possano vivere insieme e lavorare insieme, esiste un abisso: mentre per il secondo la sua condizione non trova risposte serie e non sa dove sia diretto, la meta per il primo è chiara e può credere meno in se stesso e nelle proprie attività, proprio perché si affida a Chi di lui si prende cura come i gigli dei campi e i passeri del Cielo.
       Interessante poi ciò che il fondatore dei Figli di Dio dichiara allorquando prende in esame la locuzione «Popolo di Dio», la quale, dal Concilio Vaticano II in poi, ha preso il posto di Gesù Crocifisso: «Fermandosi e insistendo sull’immagine di “Popolo di Dio”, la Costituzione dogmatica Lumen gentium già rivela l’intenzione fondamentale del Concilio di ispirare una teologia eminentemente pastorale» (8). Il Popolo non sostituisce, mai, il Figlio di Dio, così «come non lo sostituisce il “Cristo cosmico” che non ho mai capito che fosse», quello declamato dal geologo e paleoantropologo Teilhard de Chardin S.j. (1881 - 1955), che ebbe a definirsi in questi termini: «Io non sono né un filosofo, né un teologo, ma uno studioso del 'fenomeno', un 'fisico' nel senso dei greci » (9)… quale e quanta differenza dal dottissimo san Pier Damiani (1007-1072), teologo, latinista, vescovo e cardinale, che di sé diceva: «Petrus ultimus monachorum servus» («Pietro, ultimo servo dei monaci»).

     


       Il 30 luglio 1969 su «L’Osservatore Romano» don Barsotti si fa interprete dell’ortodossia contro le idee distorte moderne che hanno seminato la gramigna ovunque, infestando anche i campi migliori. Il suo racconto è chiaro, preciso, illuminante: vi è rappresentato il pensiero, trasmesso purtroppo da buona parte dei pastori, che oggi il cristiano ha della Chiesa:
       «Alcuni giorni fa, predicando un ritiro, un’ottima figliola si mostrò meravigliata che io non capissi come finalmente il Concilio ci avesse dato della Chiesa una concezione schiettamente democratica. La Chiesa, essa mi diceva, segue il cammino dei tempi. Alle monarchie assolute han fatto luogo le democrazie popolari. Così nella Chiesa. Non è Essa infatti il Popolo di Dio? Al sacerdozio ministeriale la Comunità delega semplicemente i propri doveri, e nulla vieta che possa riprenderli, quando il sacerdote ne abusa. Non vi è altro sacerdozio, come non vi è altra regalità che quella del Popolo». Alla giovane il monaco rispose con la Fede di sempre, quella trasmessa di generazione in generazione, dal Salvatore in poi. Disse che è Cristo il pastore del gregge, Egli la roccia sulla quale è edificata la Chiesa come Tempio santo di Dio ed è Pietro che il Figlio di Dio scelse per pascere, in suo nome, le pecore del gregge: non è il gregge che sceglie il suo pastore.
       Gli spunti di riflessione che don Barsotti ci propone sono molteplici: la sua teologia scava nei meandri della mentalità moderna e per non perdersi nei suoi labirinti, come invece hanno fatto molti altri colleghi del suo tempo, si è ancorato alle verità della Tradizione della Chiesa. 

     


       Chiudiamo con alcune osservazioni decisamente impregnate di attualità, considerando lo stato attuale di questa Europa malata e depressa, che non ha più nessun esempio da dare se non in negativo. «Non è certo facile vivere oggi. Respiriamo un’atmosfera di crisi – religiosa, politica, filosofica, morale – che vorrebbe toglierci ogni volontà di lavorare, ogni gioia di vivere. […]. Saper vivere, saper morire: chi ci insegna più questa sapienza? […]. Non c’è nulla da salvare quando ognuno vuol salvare soltanto se stesso e il proprio egoismo» (10). L’amarezza pervade questo mistico che vorrebbe gridare a tutti quanto è benefico stare con Dio. Immensa pena prova per coloro che corrono alla «fiera delle vanità» (11), coloro che credono e vorrebbero far credere ad una loro testimonianza. Ma testimonianza a chi e di che cosa? Si è disposti a mettere se stessi al servizio di coloro che hanno più o meno potere; ma si tratta di un servizio impuro perché nell’intimo il “servitore” non ama il “servito”, ovvero il padrone che si è scelto. «Si è servi in vista soltanto di diventare padroni» (12) e questo non vale soltanto per gli uomini del potere civile, ma anche di coloro che detengono quello religioso. Gli uomini veri, aggiunge ancora Barsotti, non sono mai stati molti, ma non conforta il constatare che ogni giorno sono sempre meno. E chi sono questi uomini veri a cui fa riferimento? Coloro che non cercano un facile consenso esteriore, ma sono paghi della testimonianza della propria coscienza e non antepongono nulla alla fedeltà di seguirne le norme con semplicità e fermezza. Ma una cultura «che non fa posto alcuno all’interiorità, non può educare gli uomini ad essere uomini» (13).

     

     

     

    Cristina Siccardi

     

     

     

       NOTE

     

      

     

    (1) D. Barsotti, I cristiani vogliono essere cristiani. Interventi del Padre dagli anni ’50 ai nostri giorni, a cura di Paolo Canal, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, p. 28.

     

    (2) Ibidem.

     

    (3) Ibidem.

     

    (4) Ibidem.

     

    (5) Ivi, pp. 30-31.

     

    (6) Ivi, pp. 45-46.

     

    (7) Ivi, p. 46.

     

    (8) Ivi, p. 51.

     

    (9) Intervista a Teilhard de Chardin, «Nouvelles Littéraires», 11 gennaio 1951.

     

    (10) D. Barsotti, op. cit., pp. 114-115.

     

    (11) Ivi, p. 115.

     

    (12) Ibidem.

     

    (13) Ibidem.

    [SM=g1740738]

     

    [Modificato da Caterina63 12/04/2012 18:56]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 25/05/2012 12:30

    La « tesi Ocariz » contraddetta anche dalla « tesi Ratzinger »

     
     cardinale Ratzinger
     
     

              Cardinal Ratzinger : “[l’Istruzione “Donum Veritatis”] afferma - forse per la prima volta con questa chiarezza - che ci sono delle decisioni del magistero che non possono essere un’ultima parola sulla materia in quanto tale, ma sono in un ancoraggio sostanziale nel problema,innanzitutto anche un’espressione di prudenza pastorale, una specie di disposizione provvisoria.
    Il loro nocciolo resta valido, ma i singoli particolari sui quali hanno influito le circostanze dei tempi, possono aver bisogno di ulteriori rettifiche. Al riguardo si può pensare sia alle dichiarazioni dei Papi del secolo scorso sulla libertà religiosa, come anche alle decisioni antimodernistiche dell’inizio del secolo
    ”. (Osservatore Romano, 27 giugno 1990, p. 6 ).
    Monsignor Ocáriz : “il concilio Vaticano II non definì alcun dogma, nel senso che non propose mediante atto definitivo alcuna dottrina. Tuttavia il fatto che un atto del magistero della Chiesa non sia esercitato mediante il carisma dell’infallibilità non significa che esso possa essere considerato «fallibile» nel senso che trasmetta una «dottrina provvisoria» oppure «autorevoli opinioni». Ogni espressione di magistero autentico va recepita come è veramente: un insegnamento dato da Pastori che, nella successione apostolica, parlano con il «carisma della verità» (Dei Verbum, n. 8), «rivestiti dell’autorità di Cristo» (Lumen gentium, n. 25), «alla luce dello Spirito Santo» (Ibidem)”. (Osservatore Romano, 2 dicembre 2011, p. 6)


    Il Cardinal Ratzinger afferma chiaramente che esiste un Magistero che è provvisorio e dà un esempio.Questo Magistero, secondo il Cardinale, non è l’ultima parola su una materia, ossia non si tratta evidentemente d’un Magistero infallibile, ma d’un Magistero puramente autentico, che potrebbe essere soggetto a rettifiche su alcuni aspetti.
    Tale Magistero potrebbe essere l’espressione della prudenza pastorale, un contributo in rapporto ad un problema. Le decisioni prudenziali possono e talvolta debbono cambiare a seconda delle circostanze. Tale insegnamento inclina verso una posizione senza per questo condannare l’altra posizione. Si tratta d’un Magistero esercitato in un preciso momento e per le circostanze del momento, potendo quindi cambiare se le circostanze cambiano. Il Cardinale non afferma che tutto il Magistero non-infallibile è esplicitamente provvisorio, ma che esiste anche un Magistero di questo tipo. Classicamente questa sorta di Magistero provvisorio, è detto quello che afferma che una tale dottrina è tuta vel non tuta.

    Tale Magistero non vuole metter fine alla questione, ma indica che una determinata dottrina, nel contesto contemporaneo a tale atto del Magistero, può essere insegnata senza pericolo per la fede o la morale oppure che, al contrario, essa non può essere insegnata senza mettere in pericolo la fede o la morale. Allo stesso modo, per esempio, una tesi filosofica può essere condannata come non tuta, non perché il Magistero la consideri falsa in maniera assoluta, ma perché nelle circostanze del momento (considerando in particolare lo stato in cui si trova la teologia, la filosofia o la scienza nel citato momento) non si riesce a conciliarla agevolmente col Deposito Rivelato ed è dunque imprudente tenerla. Col tempo il Magistero può condannare definitivamente tale teoria o affermarne la sua compatibilità con la Rivelazione. In tale quadro può vedersi il caso della condanna di Galileo Galilei, cui fu chiesto di non insegnare in maniera perentoria ciò che all’epoca era solo una tesi non provata e di non fare connessioni esegetiche con le sue teorie. In linea di principio dunque un Magistero puramente autentico e provvisorio può esistere, come l’afferma il Cardinal Ratzinger. Che tale sia il caso del Magistero contro la libertà religiosa del XIX secolo e delle decisioni magisteriali contro il modernismo all’inizio del secolo XX, resta quantomeno estremamente dubbio[1]. 

    Un’analisi dell’affermazione di Mons. Ocariz non è facile, poiché il testo manca di chiarezza.
    Si vuol semplicemente dire che il Magistero del Vaticano II non appartiene a questo tipo di Magistero fallibile provvisorio ?
    Magistero che esisterebbe dunque altrove, ma non nel caso dell’ultimo Concilio?
    Si può interpretare in tal modo la sua affermazione ambigua: “il fatto che un atto del magistero della Chiesa non sia esercitato mediante il carisma dell’infallibilità non significa che esso possa essere considerato «fallibile» nel senso che trasmetta una «dottrina provvisoria» oppure «autorevoli opinioni»” ? In tal maniera afferma forse che un atto di Magistero (puramente) autentico non trasmette necessariamente una dottrina provvisoria, benché possa farlo ? O in senso contrario vuole dire che nessun atto di Magistero (puramente) autentico può essere provvisorio ?

    Sembra piuttosto essere questo ciò che la sua ultima frase vuole indicare, poiché, per spiegare l’affermazione che il Vaticano II non è provvisorio, finisce per inglobare tutto il Magistero autentico: “Ogni espressione di magistero autentico va recepita come è veramente: un insegnamento dato da Pastori che, nella successione apostolica, parlano con il «carisma della verità» (Dei verbum, n. 8), «rivestiti dell’autorità di Cristo» (Lumen gentium, n. 25), «alla luce dello Spirito Santo» (ibidem) »”. Mons. Ocáriz sembra quindi piuttosto escludere la possibilità di qualsiasi Magistero provvisorio, contraddicendo il Cardinal Ratzinger, la pratica della Chiesa e la dottrina comune dei teologi. 

    Si deve inoltre affermare che un Magistero non-infallibile rimane sempre accompagnato da un certo carattere provvisorio, altrimenti si avrebbe a che fare con un Magistero sempre definitivo, immutabile, irreformabile, in finale infallibile. La distinzione tra fallibile e infallibile, data dalla Chiesa stessa, non avrebbe più alcun senso. Questo carattere provvisorio può essere espresso o direttamente (o esplicitamente) dal Magistero quando afferma che una dottrina è tuta vel non tuta, o indirettamente (o implicitamente) quando il Magistero afferma una dottrina (insegnandone la verità) o la condanna (insegnandone la falsità), senza tuttavia metter fine alla questione. Bisogna anche aggiungere che tale carattere provvisorio può avere più graduazioni. E tale Magistero puramente autentico, anche se non è direttamente o esplicitamente provvisorio non è de iure infallibile e resta riformabile. Si tratta d’un insegnamento che può contenere errori, anche se ciò resta assai raro, e conseguentemente non si può in nessun modo esigere un assenso assoluto per il solo fatto che si tratta d’un atto magisteriale dell’autorità ecclesiastica.
     
     
    Don Daniel Pinheiro


                                                                                                    


    [1]Tale Magistero non è Magistero Straordinario Infallibile, ma è molto probabilmente Magistero Ordinario Pontificio Infallibile, fondato sulla Rivelazione stessa. Questa posizione ha inoltre, a suo fondamento, delle solide ragioni dottrinali e teologiche.  Sulla libertà religiosa si rinvia allo studio di Mons. De Castro Mayer.

    Pubblicato da Disputationes Theologicae

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    50° del Concilio, in uscita il volume “Le ‘Chiavi’ di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II”


    50° CONCILIO: UN VOLUME SU “LE CHIAVI DI BENEDETTO XVI”


    “Le ‘Chiavi’ di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II” è il titolo del volume che verrà presentato ai giornalisti lunedì 21 maggio, nella Sala stampa di Radio Vaticana a Roma (ore 12). Saranno presenti gli autori card. Walter Brandmuller, mons. Agostino Marchetto e don Nicola Bux, con p. Federico Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana.

    L’opera edita da Cantagalli, si legge nel comunicato stampa, “prende le mosse dal Discorso alla Curia Romana del Papa che suggerì l’ermeneutica come chiave di accesso alla comprensione piena del Concilio e del suo intento di proporre un ‘rinnovamento nella continuità’ e non una rottura come alcune interpretazioni hanno voluto far intendere”. Il card. Brandmuller è studioso di storia della Chiesa, ha insegnato in varie università e ha ricoperto l’incarico di presidente del Pontificio comitato di scienze storiche.

    L’arcivescovo mons. Marchetto è segretario emerito del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti ed è stato nunzio apostolico in vari Stati. Don Bux è docente di liturgia orientale e teologia dei sacramenti e perito al Sinodo dei vescovi oltre che consultore di dicasteri vaticani.


    © Copyright Sir

    Il libro "Iuxta Modum" di padre Serafino Lanzetta

     


    Il Vaticano II riletto alla luce della Tradizione della Chiesa
     
    (
     
    Non si può negare l’evidenza. Molte, troppe cose, sono mutate dal Concilio Vaticano II in poi. Tanti, ormai, deridono il concetto di peccato, quando, raramente, se ne parla; i Sacramenti non sono più un’essenziale della propria vita religiosa; parecchi non credono più all’infallibilità del Papa, come non credono alla presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia; Purgatorio e Inferno? Credenze infantili, minacce di una volta… “leggende” presenti prima del Concilio Vaticano II, poi arrivò il Concilio e il pensiero e la pastorale della Chiesa divennero adulti, adulti come le filosofie moderne, le scienze umane, il progresso del mondo.
     
    Si chiedeva  il teologo de Lubac al termine dell’Assise: «La Chiesa cattolica stessa resterà in mezzo agli uomini testimone di Dio, oppure diventerà una società antropocentrica?». La citazione è ripresa da Padre Serafino Lanzetta F.I. nel suo libro Iuxta Modum. Il Vaticano II riletto alla luce della Tradizione della Chiesa (Cantagalli, Siena 2012, pp. 184, € 15.00).
     
    Si tratta, dunque, di un nuovo saggio sul Concilio Vaticano II: prendiamo atto che l’auspicio formulato nel 2009 da Monsignor Gherardini, in parte, si è avverato, ovvero si è aperto un franco dibattito, sebbene non (ancora) ufficiale. Il teologo di Santa Romana Chiesa aveva diretto una supplica al Sommo Pontefice affinché si facesse chiarezza su quell’Assise; anche padre Lanzetta si augura un atto chiarificatore da parte del successore di san Pietro, un «intervento dell’Autorità suprema per risolvere una disputa che potrebbe essere senza fine». Occasione propizia potrebbe essere proprio nell’Anno della fede indetto dal Papa, che, guarda caso, inizierà l’11 ottobre del 2012, lo stesso giorno in cui nel 1962 si apriva il Vaticano II.
     
    Da cinquant’anni la Chiesa vive una grave crisi che, secondo Benedetto XVI, «è essenzialmente una crisi di fede». Afferma padre Lanzetta: «Abbiamo smarrito la fede e il suo canone. Sembra che non sia più importante quello che si crede, ma che in qualche modo si creda, o dovremmo dire, si creda di credere, ci si autoconvinca per acquietare la coscienza. Questo non basta. È necessario recuperare la fede cattolica e quindi l’identità cattolica» e per riconquistarla c’è un solo ed unico mezzo: recuperare la Tradizione bimillenaria della Chiesa, ossia il canone della fede ricevuta e trasmessa ininterrottamente dagli Apostoli fino ad oggi.
     
    Purtroppo, per realizzare ciò, occorre che cadano pregiudizi, falsità e malafede perché, spiega il teologo dei Francescani dell’Immacolata, oggi «la Tradizione è assimilata allo stendardo di una vecchia confraternita: contraddistingue alcuni e ne distanzia altri. È letta in modo politico e una lettura politica ha purtroppo contribuito a far perdere nei credenti il suo intimo valore teologico per la Chiesa». La Chiesa, senza la Tradizione, è destinata ad apparire soltanto come un’istituzione internazionale con connotati religiosi, ma neanche troppi. La Chiesa, in realtà, è di natura divina; essa ha però nascosto l’obiettivo missionario per cui è nata: portare a tutti e a ciascuno la verità di salvezza annunciata da Gesù Cristo con la sua morte in croce e la sua risurrezione.
     
    Padre Lanzetta si pone lo scopo, con questo libro, di rendere visibili i nodi essenziali, che prima o poi dovranno essere sciolti: il problema teologico della pastoralità legato a quello dell’ “aggiornamento” e del metodo del dialogo; il rapporto fra dottrina e pastorale; il livello magisteriale del Vaticano II. L’occhio è critico sul Concilio, divenuto superdogma e mito. Occorre, perciò, far rientrare nel giusto alveo della Chiesa l’ultimo Concilio: «prima la Chiesa e poi i suoi concili». Cinquant’anni di ricezione del Vaticano II sono tanti, sono troppi… molte preoccupanti dichiarazioni in esso contenute non sono a tutt’oggi chiarificate e da ciò scaturiscono tensioni ecclesiali ed ermeneutiche contrastanti.
     
    In esso si sono scontrate, come ha storiograficamente provato il professor de Mattei nel suo Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, due minoranze: i fedeli alla Tradizione e i progressisti, per poi giungere a votazioni dal sapore democratico-parlamentare ed è stato «questo confondere spesso le nostre voci (troppo umane) con quella dello Spirito Santo che non ha funzionato».
     
    Cristina Siccardi
     
    Fonte: http://www.corrispondenzaromana.it/recensione-libraria-iuxta-modum-di-padre-serafino-lanzetta/

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 07/06/2012 22:28
    MONUMENTALE OMELIA DEL PAPA PER IL CORPUS DOMINI..... DENUNCIA DI UNA INTERPRETAZIONE ERRATA DEL CONCILIO SUL SANTISSIMO SACRAMENTO....

    Il Papa: Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale



    SANTA MESSA E PROCESSIONE: VIDEO INTEGRALE


    Vedi anche:

    Gesù nell’Eucaristia è una presenza concreta che deve permeare tutta la vita quotidiana: così Benedetto XVI alla messa nell’odierna Solennità del SS. Corpo e Sangue di Cristo

    Il Papa: se si elimina ogni ritualità religiosa, nella società dei consumi si lascia spazio ad altri riti, che possono diventare "idoli" (AsiaNews)

    Il Papa: interpretazione unilaterale del Concilio favorì la secolarizzazione (Izzo)

    Il Papa: Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! Non basta l'osservanza rituale, ma si richiede la purificazione del cuore e il coinvolgimento della vita

    Il Papa: la scomparsa del Sacro impoverisce la cultura (Sir)


    Questa sera il Papa presiede la Santa Messa e la Processione del Corpus Domini


    SANTA MESSA DEL CORPUS DOMINI


    OMELIA DEL SANTO PADRE


    Cari fratelli e sorelle!


    Questa sera vorrei meditare con voi su due aspetti, tra loro connessi, del Mistero eucaristico: il culto dell’Eucaristia e la sua sacralità.
    E’ importante riprenderli in considerazione per preservarli da visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato.

    Anzitutto, una riflessione sul valore del culto eucaristico, in particolare dell’adorazione del Santissimo Sacramento.
    E’ l’esperienza che anche questa sera noi vivremo dopo la Messa, prima della processione, durante il suo svolgimento e al suo termine.

    Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II ha penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo.

    In effetti, è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione, in cui il Signore convoca il suo popolo, lo raduna intorno alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita, lo nutre e lo unisce a Sé nell’offerta del Sacrificio. Questa valorizzazione dell’assemblea liturgica, in cui il Signore opera e realizza il suo mistero di comunione, rimane ovviamente valida, ma essa va ricollocata nel giusto equilibrio. In effetti – come spesso avviene – per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro.


    In questo caso, l’accentuazione posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione, come atto di fede e di preghiera rivolto al Signore Gesù, realmente presente nel Sacramento dell’altare. Questo sbilanciamento ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli. Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziale. E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come «Cuore pulsante» della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività. Il Sacramento della Carità di Cristo deve permeare tutta la vita quotidiana.
    In realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’«ambiente» spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia. Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore.

    L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre.
    A questo proposito, mi piace sottolineare l’esperienza che vivremo anche stasera insieme. Nel momento dell’adorazione, noi siamo tutti sullo stesso piano, in ginocchio davanti al Sacramento dell’Amore. Il sacerdozio comune e quello ministeriale si trovano accomunati nel culto eucaristico. E’ un’esperienza molto bella e significativa, che abbiamo vissuto diverse volte nella Basilica di San Pietro, e anche nelle indimenticabili veglie con i giovani – ricordo ad esempio quelle di Colonia, Londra, Zagabria, Madrid. E’ evidente a tutti che questi momenti di veglia eucaristica preparano la celebrazione della Santa Messa, preparano i cuori all’incontro, così che questo risulta anche più fruttuoso.

    Stare tutti in silenzio prolungato davanti al Signore presente nel suo Sacramento, è una delle esperienze più autentiche del nostro essere Chiesa, che si accompagna in modo complementare con quella di celebrare l’Eucaristia, ascoltando la Parola di Dio, cantando, accostandosi insieme alla mensa del Pane di vita.


    Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale. E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale.
    Invece, nella vera comunione, preparata dal colloquio della preghiera e della vita, noi possiamo dire al Signore parole di confidenza, come quelle risuonate poco fa nel Salmo responsoriale: «Io sono tuo servo, figlio della tua schiava: / tu hai spezzato le mie catene. / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento / e invocherò il nome del Signore» (Sal 115,16-17).

    Ora vorrei passare brevemente al secondo aspetto: la sacralità dell’Eucaristia.
    Anche qui abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura. La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale.
    E tuttavia da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato. La Lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato questa sera nella seconda Lettura, ci parla proprio della novità del sacerdozio di Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), ma non dice che il sacerdozio sia finito. Cristo «è mediatore di un’alleanza nuova» (Eb 9,15), stabilita nel suo sangue, che purifica «la nostra coscienza dalle opere di morte» (Eb 9,14). Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap 21,22).

    Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! Non basta l’osservanza rituale, ma si richiede la purificazione del cuore e il coinvolgimento della vita. Mi piace anche sottolineare che il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro.

    Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso. Con questa fede, cari fratelli e sorelle, noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo.

    Amen.

    ***************

    [SM=g1740733] L'ottimo commento di Massimo Introvigne

    Corpus Domini. Il Papa denuncia gli errori post-conciliari sull'Eucarestia

    pubblicata da Massimo Introvigne il giorno giovedì 7 giugno 2012 alle ore 23.55 ·

    Commento di Massimo Introvigne

     

    Proseguendo nella sua opera di correzione di un’interpretazione erronea del Concilio Ecumenico Vaticano II secondo una «ermeneutica della discontinuità e della rottura», che ha letto il Concilio come ripudio di tutto il Magistero precedente, Benedetto XVI ha tratto occasione il 7 giugno 2012 dalla Solennità del Corpus Domini per pronunciare a San Giovanni in Laterano un’importante omelia sull’Eucarestia, tutta intesa a denunciare «visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato».

    Il Papa ha preso in esame in particolare due errori. Il primo è la vera e propria guerra alla pratica dell’adorazione eucaristica scatenata in nome della centralità esclusiva della celebrazione. «Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II – ha detto il Pontefice – aveva penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo». Certo, «è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione», ma questa centralità «va ricollocata nel giusto equilibrio». Altrimenti «per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro». E nel post-Concilio è successo proprio così: l’accentuazione «posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione». Ma questo «ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli» e ha provocato gravi danni. «Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziali. E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come “Cuore pulsante” della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività».

    In effetti, «è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. È proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’“ambiente” spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia». Senza adorazione si rischia di capire male la stessa Messa. «Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore. L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre».

    Ricordando le grandi esperienze di adorazione eucaristica con i giovani alle Giornate Mondiali della Gioventù, Benedetto XVI ha osservato che «comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale. E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale». Chi combatte l’adorazione eucaristica finisce per sottovalutare e negare la presenza reale anche nella Messa.

    E questo ci porta al secondo errore post-conciliare che il Papa ha denunciato: la negazione della «sacralità dell’Eucaristia». Anche qui «abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura» e del Vaticano II. «La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso». Anche in questo caso, non tutto è falso nelle sottolineature degli ultimi decenni: con la venuta del Signore «è vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale». Ma attenzione: «da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo».

    La cosiddetta de-sacralizzazione dimentica che la Lettera agli Ebrei presenta Gesù Cristo come «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), «ma non dice che il sacerdozio sia finito». Cristo non ha abolito il sacerdozio e «non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio». Sbaglia quindi chi pensa che il sacro, i simboli, i riti, siano finiti con Gesù Cristo. No: «grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente!».

    Anche qui, i danni di una certa vulgata post-conciliare sono stati notevoli. Infatti, «il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe “appiattito”, e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita». E in quante città le processioni del Corpus Domini sono state abolite! [SM=g1740721]

    O ancora – ha detto il Papa – «pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli». Ogni nuova generazione ha bisogno di riti e di simboli. Se le si tolgono quelli cattolici, cercherà altre esperienze religiose. Dio non ha tolto i riti, «non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso». «Con questa fede – ha concluso il Pontefice – noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo».

     

     



    [Modificato da Caterina63 08/06/2012 21:21]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 11/07/2012 12:16

    Don Divo Barsotti e il Concilio

     
    Don Divo Barsotti lesse per intero i documenti del Concilio Vaticano II. Non ne fu entusiasta. Ebbe da ridire sull’ambiguità dei testi e delle espressioni. Barsotti fu tutt’altro che un nostalgico integralista. Fu un precursore, anzi, di un rilancio della liturgia, dello studio sui Testi Sacri e dell’attenzione alla teologia ortodossa orientale.
    Criticò certamente il post Concilio, ma evidenziò che i problemi erano in parte frutto degli stessi documenti conciliari.
     
    È scritto tutto molto chiaramente in: Serafino Tognetti, Divo Barsotti. Il sacerdote, il mistico, il padre, Edizioni San Paolo, Alba (Cuneo) 2012.
     
    «Barsotti si dimostrò infastidito dalla continua esaltazione del Concilio […]» e ne stigmatizzò «la visione troppo ottimista della storia umana».

    Don Divo disse inoltre:
    «non sono stati impediti gli equivoci, l’ambiguità e soprattutto non è stata impedita la presunzione, non l’ambizione e il risentimento, non la superficialità e la volontà di un rinnovamento che voleva essere uno scardinamento, uno sradicamento della tradizione dogmatica, una diminuzione della tradizione spirituale».
    Tognetti dice che «se dunque è vero che lo Spirito Santo assicura l’infallibilità del Concilio, non ne assicura però l’efficacia: egli [Barsotti] per questo criticò i Padri conciliari che non vollero impegnare l’infallibilità del loro magistero […]».
    Ancora Don Divo:
    «Non hanno voluto [i Padri conciliari] condannare l’errore e hanno preteso di “rinnovare” la Chiesa, quasi che il “loro” Concilio potesse essere il nuovo fondamento di tutto».
    «[…] la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura».
    Don Divo Barsotti, dice Tognetti, «arrivò a pensare che la paurosa crisi della Chiesa post-conciliare fosse proprio derivata “dalla leggerezza di aver voluto provocare e tentare il Signore”».
    Disse tutto ciò un profeta - vero.
     



    [SM=g1740733]


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    00 29/07/2012 14:12

    Archivio di 30Giorni

    Padre Lebreton, teologo credente


    Francese, gesuita, pubblicò scritti fondamentali sui primi secoli della Chiesa.
    Tanti grandi nomi gli sono debitori.
    Eppure nei più recenti dizionari teologici non c’è traccia di lui.

    Perché amava la fede della tradizione prima e più dei dibattiti dei dotti.

    Un suo profilo


    di Lorenzo Cappelletti

     

    Padre Jules Lebreton. Nacque a Tours nel 1873, morì a Parigi nel 1956 [© Romano Siciliani]

    Padre Jules Lebreton. Nacque a Tours nel 1873, morì a Parigi nel 1956 [© Romano Siciliani]

     

    Il recentissimo Dizionario dei teologi non lo nomina. Un suo profilo non si trova neppure fra i centodieci ritratti proposti nel Lessico dei teologi del secolo XX, ultimo volume della famosissima opera dogmatica (vanta von Balthasar e Rahner fra gli eminenti collaboratori) Mysterium salutis.
    Eppure debitori del padre Jules Lebreton si sono riconosciuti un po’ tutti i cosiddetti grandi, da Chenu a Danielou, da Leclercq a Lyonnet, da Bouyer a Marrou, tanto che Emile Blanchet, rettore dell’Institut catholique de Paris, dando notizia della sua morte, avvenuta nel luglio 1956, scriveva che in realtà «non si saprà mai quale sia stata la profondità e l’estensione dell’influsso del padre Lebreton».


    Nato a Tours nel 1873, Jules Lebreton era entrato diciassettenne nella Compagnia di Gesù e dopo aver brillantemente conseguito i gradi accademici non si era potuto sottrarre agli incarichi di docenza. Nel 1907, in piena crisi modernista, proprio a lui veniva affidata la responsabilità della cattedra di Storia delle origini cristiane, creata ex novo presso l’Institut catholique de Paris per curare il delicatissimo settore storico-teologico degli studi sulla Chiesa primitiva. Padre de la Potterie ricorda di averlo incontrato a Parigi molti anni dopo e Lebreton gli confidò che quando c’era arrivato lui, nei primi anni del Novecento, «un vent glacé soufflait sur Paris».
    Sarebbe stato in grado quel giovane professore di reggere al vento gelido del modernismo? Colleghi non sempre ben intenzionati si sdegnavano: «Bisogna che i vostri superiori siano pazzi per consentirvi di accettare un posto del genere». «Non ho brigato per ottenere questo posto», rispondeva Lebreton. «Mi ci chiamano. Ci vengo».


    In umiltà

    Questo atteggiamento di sovrana e umile indifferenza lo accompagnerà sempre. «La sua spiritualità austera era del tutto in contrasto con ogni ricerca di avventura e di evasione. Il padre non esprimeva desideri», scrive René d’Ouince nel ricordo che gli dedicò su Études del 1956. In effetti, anche dal punto di vista scientifico, il padre Lebreton spese la maggior parte della sua vita in opere che costano fatica e non portano gloria, almeno quella che si guadagna fra gli uomini marcando la propria pretesa originalità. Dio sa che cosa costa essere professore sempre disponibile per quasi un quarantennio, sintetizzare correttamente in due volumi la storia della Chiesa fino a Costantino per la grande opera diretta da Fliche e Martin, nonché essere sempre all’opera come scrittore per riviste come Études e Recherches de science religieuse (che aveva fondato nel 1910 col padre De Grandmaison e di cui dopo la morte di costui assunse anche la direzione); ma soprattutto recensire, per il Bulletin d’histoire di quest’ultima rivista, fino alla fine degli anni Quaranta, innumerevoli lavori altrui.

    Per mezzo secolo, le opere di una certa importanza di tutti gli esegeti neotestamentari, dei patrologi e degli storici del dogma sono passate al vaglio attento delle sue analisi critiche. Così misurate che per rintracciare un suo rilievo lo si deve leggere fra le righe. Annata trentaquattresima di Recherches de science religieuse, presentazione di Surnaturel del padre De Lubac: «Ogni cristiano sa che Dio propone come fine ultimo per la sua vita la visione beatifica, per la quale eternamente egli si unirà al suo Creatore e Salvatore; egli sa che questa visione gli è promessa e gli sarà accordata per una pura grazia di Dio; ma può domandarsi se questo fine sia stato proposto all’umanità dal momento della creazione del primo uomo o soltanto dopo la caduta, in previsione dei meriti del Redentore; in questa seconda ipotesi ci si deve rappresentare Adamo, prima del suo peccato, come orientato da Dio a una beatitudine naturale, meritata per una vita pia e giusta, quale le forze della natura potevano assicurare? Se questa ipotesi di una natura pura orientata verso un fine naturale deve essere scartata...». Come dire: quello che i cristiani devono credere lo sanno, le ipotesi sono ipotesi e non è detto che quella di natura pura vada scartata...

    Il padre Lebreton lasciò incompiuta l’unica opera che gli avrebbe potuto dare gloria. L’histoire du dogme de la Trinité des origines au Concile de Nicée non arrivò a Nicea, si fermò a sant’Ireneo. Ma forse non fu un caso. La fede di Lebreton era un po’ quella di Ireneo. Come Ireneo, il padre Lebreton ­– scrive ancora René d’Ouince – «si contentava di regola di esporre con fermezza la dottrina tradizionale della Chiesa». Secondo quella medesima regula fidei che era stata di Ireneo e che fa sua nella prefazione all’Histoire du dogme: «La catena viva della nostra tradizione ci unisce ancor più strettamente e più sicuramente al passato che non i commentari degli esegeti e le dissertazioni degli storici».

    Il vecchio servitore

    La diffidenza verso le speculazioni della gnosi cristiana di Clemente d’Alessandria e di Origene ritorna in alcuni suoi articoli degli anni Venti (che tradotti in italiano sono diventati un libretto edito nel ’72 da Jaca Book col titolo Il disaccordo tra fede popolare e teologia dotta nella Chiesa del terzo secolo). Secondo Origene i semplici credenti sono come dei lattanti, legati a conoscenze elementari: «Non conoscono che Gesù Cristo e Gesù Cristo crocefisso, pensando che il Logos fatto carne è tutto il Logos; essi conoscono solo Cristo secondo la carne: ed è la folla di quelli che sono detti credenti».

    Ebbene padre Lebreton è voluto vivere e morire come loro. Reso di nuovo come un bambino negli ultimi anni della sua vita da una grave malattia, aveva confidato a una suora anziana e malata come lui: «Lo comprendete come me, madre mia. Quel che il Signore vuole trovare nei suoi vecchi servitori è la confidenza in Lui. Un bambino non ha paura di rientrare nella casa paterna. Di mese in mese le forze diminuiscono. Questo pomeriggio andrò dal medico per delle punture mensili che m’aiutano a vivere, a pensare, a ricordarmi le cose. Quando non mi faranno più effetto lascerò perdere tutto questo e vivrò nella casa paterna come un bambino docile e fiducioso, ripetendo la parola: “Scio cui credidi. So in chi ho riposto la mia fiducia”. Non si tirerà indietro».



    [SM=g1740758]

    Fraternamente CaterinaLD

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    00 02/08/2012 17:05

    [SM=g1740720] Nel ventre tuo si raccese l’amore


    Meditazione di don Giacomo Tantardini Santuario di San Leopoldo Mandic - Padova mercoledì 18 dicembre 2002


    di don Giacomo Tantardini


    Spesso, quando occorre parlare, mi vengono alla mente le parole di Péguy che sono così attuali: «Ce ne han dette tante, o Regina degli Apostoli / Abbiamo perso il gusto per i discorsi / Non abbiamo più altari se non i vostri / Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice».
    Questa sera le mie parole, il dovere di parlare, quindi l’ubbidienza a questo dovere, vorrebbero soltanto ridestare in me e in voi questa preghiera semplice, questo «vieni», «sì, vieni», «vieni, Gesù». Non si può dire nulla al Signore se non domandando. Questa è una delle cose più belle che il Signore, nell’esperienza di grazia che facciamo, ci ha reso possibile sperimentare. Un bambino non dimostra che la mamma c’è. Quando dice «mamma» ne riconosce la presenza chiedendo di essere voluto bene. Non è una dimostrazione. Non si dimostra una presenza. Quando la si riconosce, si domanda. Non per nulla il Credo cristiano è una preghiera. In fondo, al Signore si può solo dire: «Vieni», «sì, vieni».

    Lo pensavo in questi giorni: quante volte abbiamo detto «sia fatta la Tua volontà» come una risposta nostra! Ma l’uomo non può dire «sia fatta la Tua volontà» se non come domanda. «Sia fatta la Tua volontà» è una domanda. Anche quando diciamo noi queste parole, non è una risposta nostra, è una domanda. Soprattutto nei momenti in cui è come impossibile che dal cuore salga una parola così. «Sia fatta la Tua volontà» è una domanda. Che accada in noi. Ma il soggetto non siamo noi che facciamo la Sua volontà. Sia fatta la Tua volontà in me, ma sia fatta da Te, da Te sia fatta la Tua volontà in me. Il Padre nostro è una preghiera.

    Ora voglio accennare a una cosa, che è stata per me una scoperta, la settimana scorsa, assistendo a una messa. Ascoltando parlare un prete, un buon sacerdote. Ho ripensato improvvisamente al mio vecchio parroco, quello per cui da piccolo sono entrato in seminario (dopo la terza media, perché mio papà e mia mamma non hanno voluto che ci andassi dopo la quinta elementare). Il prete per cui sono entrato in seminario era proprio un buon prete, semplice e molto concreto. E pensavo che tutte le parole che diceva in fondo erano moralistiche. In fondo parlava soltanto dei comandamenti. Di quello che bisognava fare. Eppûre tutte le parole che diceva erano cattoliche. Mentre, mi dicevo, le parole che questo prete sta dicendo sono tutte gnostiche.
    La gnosi o gnosticismo è la grande eresia che san Giovanni, il discepolo prediletto, definisce così: «L’Anticristo è colui che nega che il Figlio di Dio Gesù è venuto nella carne». Tutte le parole del mio vecchio parroco rimandavano all’umanità di Gesù. E quindi ai sacramenti. Tutte! E invece tutte le parole che si dicono adesso rimandano a idee. A idee cristiane, perché si riferiscono a contenuti cristiani. Ma sono idee, sono parole cristiane in cui non c’è più l’umanità di Gesù.

    L’umanità di Gesù. L’uomo creato da Dio aveva peccato. E c’erano stati tanti secoli di attesa del Messia. Poi duemila anni fa è venuto. L’umanità di Gesù è qualcosa di reale, che ha iniziato ad esistere a Nazareth quando è avvenuto il suo concepimento. La Madonna ha detto «eccomi» e il Figlio eterno di Dio è diventato carne. In quel momento ha incominciato ad essere uomo, solo in quel momento, prima era solo Dio. In quel momento ha cominciato ad essere anche uomo. L’umanità di Gesù vuol dire che la sua mamma l’ha portato nove mesi nel suo ventre. Gesù non sarebbe vero uomo se non fosse stato soggetto al tempo e allo spazio. Soggetto al tempo e allo spazio: nove mesi nel piccolo ventre di Maria. E in quei nove mesi la Madonna guardava la sua pancia che diventava più grossa. Alvus tumescit virginis. È stato sottomesso al tempo. E poi il parto mirabile, cioè pieno di stupore, a Betlemme. Talis decet partus Deum.
    E poi il bambino è diventato grande, a dodici anni già rispondeva e interrogava i dottori della legge. E poi, dopo i trent’anni di silenzio e lavoro a Nazareth, i miracoli, i suoi discepoli. Poi la morte. E la morte è stata morte reale. E la resurrezione non coincide con la morte, ma è avvenuta il mattino del terzo giorno dopo la morte. Il mattino di Pasqua.

    Invece, la perversione della gnosi è che non ci sono più queste distinzioni reali. Non ci sono più! La morte è vita, il dolore è felicità, il peccato è grazia. No! Il peccato è peccato. Il peccato mortale dà la morte all’anima, e se si muore in peccato mortale si va all’inferno.
    Tutto è affidato alla misericordia di Dio che è e rimane mistero. E così con speranza nei confronti di ogni uomo, cioè pregando, la santa Chiesa dice che se si muore in grazia di Dio si va in Paradiso, ma se si muore in peccato mortale si precipita nella seconda morte che non ha fine, nella morte eterna.

    Tutto questo è come se non esistesse più.

    Le parole non rimandano più a queste cose così semplici, cioè non rimandano più all’umanità di Gesù. Diceva Péguy: che cosa è un bambino cristiano rispetto a un bambino non cristiano? «Un bambino cristiano è un bambino al quale migliaia di volte è stata presentata davanti agli occhi l’infanzia di Gesù». È stata presentata la storia di Gesù. Non delle idee, ma la storia di Gesù. E così le domande non dobbiamo artificiosamente suscitarle noi. È la realtà che desta le domande al cuore. È la vita che pone le domande. E la risposta a tutte le domande che la vita pone non è una spiegazione cristiana che diamo noi. La risposta a tutte le domande che la vita pone è l’umanità di Gesù. La risposta al dolore è Gesù e questi crocefisso. Il Venerdì Santo è morto in croce. E la notte precedente, quella notte del Giovedì Santo(noctem cruentam criminis / quella notte cruenta di quel crimine così grande), quella notte ha sofferto fino a sudare sangue nell’orto del Getsemani. E poi il processo, la flagellazione, la coronazione di spine. La Sua umanità! Non la risposta cristiana che ci inventiamo noi. Questa Sua umanità, guardare la Sua umanità è risposta al dolore. E così il mistero rimane intatto, e nel cuore, se il Signore lo tocca, rimane compiuta l’attesa e compiuta ogni risposta.

    Insomma, cinquant’anni fa le parole che si ascoltavano in chiesa, anche le più moralistiche, rimandavano all’umanità di Gesù. Rimandavano a una storia, rimandavano a un uomo che era stato concepito nel ventre di sua madre che si chiamava Maria, che era stato portato nove mesi in grembo, che era stato partorito, che era stato allattato (come abbiamo ascoltato prima: Lactas sacrato ubere), allattato come ogni bambino, che aveva iniziato a sorridere come ogni bambino sorride a suo papà e a sua mamma. Quel bambino, diventato grande, aveva vissuto quei tre anni raccogliendo una piccola compagnia attorno a sé. Quell’uomo è tutto ciò che il Mistero ha voluto rivelarci e comunicarci. Quell’uomo è Dio. «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia». Così Giovanni, il discepolo prediletto. E san Paolo: «In Lui abita corporalmente la pienezza di Dio». Tutto ciò che Dio ha voluto manifestarci e donarci è nella Sua umanità.
    «Tabernaculum eius, caro eius» scrive sant’Agostino. La dimora di Dio è la Sua carne. La Sua umanità: come guardava, come domandava, come si stupiva, come piangeva, come si affaticava. Come quando si è seduto al pozzo di Giacobbe, quel pomeriggio, quando quella donna, che non era certo la donna più morale del villaggio, è andata ad attingere l’acqua. Tutto quello che Dio è, che il Mistero eterno e infinito è, noi lo conosciamo e ne godiamo attraverso la Sua umanità. Abbracciando, guardando la Sua umanità. Tant’è vero che la sera del Giovedì Santo, a Filippo (Filippo è un apostolo simpatico, perché fa tante domande. Così come tutti gli apostoli che sono uno più simpatico dell’altro) che gli chiedeva: «Mostraci il Padre e ci basta», Gesù guardandolo ha risposto: «Filippo, è da tanto tempo che sono con te e tu ancora non mi conosci? Chi ha visto me, ha visto il Padre». Chi ha visto me. Non in una visione mistica. Chi ha visto con gli occhi, con gli occhi di carne, chi ha visto quell’uomo ha visto il Padre.

    Insomma, la settimana scorsa è come se avessi intuito per la prima volta… E mi sono venute alla mente le parole di san Girolamo: «Ingemuit totus orbis, et arianum se esse miratus est». Tutto il mondo si è accorto con sgomento di non essere più cristiano. Perché il cristianesimo è solo questo. Si è accorto di non essere più cristiano, con tutte le sue parole cristiane. Con tutte le sue idee cristiane, di non essere più cristiano. Se non c’è più riferimento immediato, se le parole non rimandano immediatamente alla Sua umanità, non c’è più cristianesimo. Non c’è più questa storia meravigliosa. Non c’è più né creazione né grazia, tanto è vero che confondono la creazione e la grazia. Non c’è più né peccato né salvezza, tanto è vero che confondono il peccato e la salvezza, arrivando a dire che nel peccato si trova la salvezza. Tutto si confonde, perché non c’è più il rimando immediato alla Sua umanità, alla Sua storia.

    Accennerò ora a tre cose che i canti di Natale che abbiamo ascoltato questa sera hanno suggerito.

    1. La prima cosa, innanzitutto, contro cui la gnosi, la grande eresia gnostica combatte, è il fatto che la creatura è buona ed è stata ferita dal peccato originale. Il peccato originale. Tutti i canti che abbiamo ascoltato (tutti!) parlano del peccato originale. Quod Eva tristis abstulit. Dicono che Eva è diventata triste. Era così bella quella compagnia, era così bello il Paradiso terrestre. Era una sorpresa continua. È diventata triste, Eva, peccando, e ci ha fatto cadere in questa condizione che non è più bella. Rimane il cuore che attende, ma la condizione non è più bella. E invece della sorpresa, c’è la preoccupazione. Questa è una delle cose più belle che dice Péguy. Che cosa ha provocato il peccato originale? Ha reso tutto una preoccupazione. Invece della sorpresa, ha reso tutto un darsi da fare, una preoccupazione.
     A riguardo al peccato originale vi voglio leggere la strofa dell’inno di Alessandro Manzoni sul Natale, perché è riassuntiva della condizione dell’uomo che nasce ferito dal peccato. «Qual mai tra i nati all’odio». Così si nasce dopo il peccato di Adamo ed Eva, si nasce all’odio. «Voi siete tutti cattivi», dice Gesù. «Qual mai tra i nati all’odio, / Quale era mai persona, / Che al Santo inaccessibile / Potesse dir: perdona?». Chi poteva dire «perdona» al Santo inaccessibile, che non aveva un volto? Peüché, prima dell’umanità di Gesù, il Mistero non aveva un volto da guardare, prima di quell’umanità che si è potuta guardare, che Maria ha guardato, che Giuseppe ha guardato. Quei due ragazzi che per primi hanno visto Dio, quando lei, Maria, l’ha partorito.
    «Qual mai tra i nati all’odio, / Quale era mai persona, / Che al Santo inaccessibile…». Inaccessibile. A cui non si può arrivare. Tant’è vero che in un canto si dice che «tu sei la porta aperta del cielo», tu, Madonna, tu, Sua madre, sei porta spalancata, pervia, facile, a Dio. «Quale era mai persona, / Che al Santo inaccessibile / Potesse dir: perdona? / Far novo patto eterno?». Chi poteva rinnovare l’alleanza, per cui il Mistero, il Signore, il Creatore non avrebbe più destato paura? Perché dopo il peccato l’uomo ha paura di Dio: «Ho avuto paura e mi sono nascosto». Chi poteva ridonare quell’amicizia per cui l’avvicinarsi di Dio non fa paura, ma è una compagnia ineffabile, una sorpresa continua?
    Far novo patto eterno? / Al vincitore inferno / La preda sua strappar?». All’inferno che aveva trionfato strappare la preda.
    Questa è la condizione dell’uomo. Si nasce così, e nessuno avrebbe potuto neppure dire «perdona». Si nasce così. Ma, proprio perché si nasce così, i cristiani non condannano nessuno. Perché quell’uomo che si è imbattuto nei briganti, scendendo da Gerusalemme a Gerico, e che è rimasto sull’orlo della strada mezzo morto, ferito mortalmente, il Buon Samaritano, che è Gesù, che passava, non lo ha condannato. Non gli ha detto «guarda come sei disperato». No, ha avuto compassione di lui. Se non si accetta il peccato originale, ci si condanna a vicenda, ci si ricatta a vicenda. Non c’è nemmeno quella compassione che un pagano come Cicerone diceva essere la virtù più umana. Si è nati feriti, si è nati cattivi. Alla lunga a nessuno è possibile da solo osservare nemmeno quelle leggi scritte nel cuore che sono i dieci comandamenti. Si è poveri peccatori. Il Buon Samaritano non ha accusato nessuno, non ha sgridato nessuno, ha preso in braccio, ha messo sulla sua cavalcatura, ha asciugato e fasciato le piaghe di quest’uomo ferito.

    2. Ma è accaduto qualcosa. L’uomo non poteva dire «perdona», l’uomo non poteva ritornare, come il sasso che cade dalla montagna e sta sul fondo della valle e non può ritornare se una forza amica, altra dal sasso, non lo tira su. Lo dice ancora Manzoni nello stesso inno. Ma è accaduto qualcosa. E questo lo accenno con le parole di Dante. «Nel ventre tuo si raccese l’amore». Duemila anni fa. Duemila anni fa! Non fuori del tempo. Ma in un momento del tempo. A Nazareth, in quel paese di estrema periferia del popolo eletto, nella Galilea dei gentili. In quel momento di tempo, «nel ventre tuo», nel ventre di quella ragazza di nome Maria, di quella donna (non della Donna con la D maiuscola), nel ventre di quella donna (quel ventre, quella carne e quel sangue) «si raccese l’amore». L’amore, la possibilità di essere perdonati, la possibilità di dire «perdona», si accese nel ventre di quella ragazza.
    «Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo». Non per le parole che diciamo, non per le risposte che ci inventiamo noi: «per lo cui caldo». Caldo, cosa c’è di più fisico del caldo, del caldo che si è acceso nel ventre di quella ragazza? «Per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore». «Per lo cui caldo» la vita rifiorisce, la vita, che era stata ferita mortalmente, rifiorisce. «Per lo cui caldo», per il caldo di quella presenza umana che è stata concepita nel ventre di Maria. «Nel ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo». A contatto con questa umanità, a contatto visibile… perché dopo nove mesi l’ha partorito, con un parto stupendo, con un parto senza dolore. Mentre il parto di ogni donna, in conseguenza del peccato originale, è un parto nel dolore, il parto di questa donna, di questa ragazza, è stato un parto nello stupore. Com’è bello ciò che la Chiesa chiama la verginità nel parto di Maria. Un parto che riempiva di stupore. Così l’ha partorito, con un parto che ha riempito lei, e poi Giuseppe, e poi i pastori… ha riempito quelli che poi lo hanno visto di stupore.
    «Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace» in Paradiso. In Paradiso la vita fiorisce per sempre. Ma già qui, quando questo caldo raggiunge il cuore, anche solo per un istante, anche solo con una stilla di questa rugiada, anche solo con una promessa di germoglio di primavera… questo caldo, raggiungendo i cuori, fa germogliare. «Così è germinato questo fiore».

    Vi voglio leggere come san Pio X nel suo catechismo, in maniera così semplice e bella, dice queste cose. «In che modo il Figlio di Dio si è fatto uomo? Il Figlio di Dio si è fatto uomo prendendo un corpo e un’anima, come abbiamo noi, nel seno purissimo di Maria Vergine, per opera dello Spirito Santo». Dio ha preso un corpo e un’anima come li abbiamo noi. Il corpo è venuto tutto da quella ragazza, tutto dal suo sangue e dalla sua carne. Un corpo umano. E poi ancora: «Il Figlio di Dio, facendosi uomo» (perché è accaduto, è avvenuto! Verbum caro factum est: è avvenuto che il Verbo eterno si è fatto carne. È accaduto duemila anni fa a Nazareth), «cessò di essere Dio? Il Figlio di Dio, facendosi uomo, non cessò di esser Dio, ma, restando vero Dio, cominciò ad essere anche vero uomo». E poi l’ultima: «Gesù Cristo è stato sempre? Gesù Cristo come Dio è stato sempre; come uomo cominciò ad essere dal momento dell’Incarnazione». Come uomo cominciò ad esistere quando Maria ha detto sì.

    3. Cosa accade quando questo caldo raggiunge il cuore dell’uomo, il caldo riacceso nel ventre di quella ragazza? «Nel ventre tuo si raccese l’amore». L’amore! La possibilità di essere perdonati. Fino a quell’istante, a quel momento, di questo amore, di questo perdono si intravvedeva solo l’ombra, il riflesso, l’attesa. L’Antico Testamento è ombra, riflesso rispetto alla realtà. Quando arriva la realtà, l’ombra viene con rispetto messa da parte. Quando c’è la presenza che ama, uno guarda la presenza, senza continuare a guardare la fotografia. Così è il rapporto tra la realtà umana di Gesù e l’Antica Alleanza. La realtà umana di Gesù è l’imprevisto e imprevedibile compimento di ogni attesa. «Tutto è stato fatto in vista di Lui».
    Quando questo caldo raggiunge il cuore, cosa desta? Desta nel cuore la speranza. Quando questo caldo raggiunge il cuore dell’uomo, stupisce il cuore dell’uomo. La seconda virtù, la speranza, indica questo stupore. Quando lo raggiunge, commuove il cuore dell’uomo. Quando questo caldo tocca il cuore, l’uomo, preoccupato, ha un istante in cui si stupisce, in cui non è più preoccupato. Affaccendato in mille cose, preoccupato (pre-occupato vuol dire che il cuore è appesantito da tante cose), il cuore si stupisce. E il cuore ritorna, ridiventa o diventa come quello del bambino. Quando questo caldo raggiunge il cuore, desta questa commozione, desta questo stupore, desta questa speranza. Questa speranza non è un mero sapere che dopo ci sarà qualcosa. Questa speranza è l’inizio di quel fiorire del Paradiso sulla terra. Il germoglio è l’inizio, non è ancora il fiore completo. La prima gemma è solo l’inizio. Quando questo caldo tocca il cuore, il cuore germoglia. Si chiama speranza.

    Leggiamo Dante. «Qui se’ a noi» qui in Paradiso, è san Bernardo che prega, «meridïana face / di caritate». In aradisoýè diverso dalla terra. Perché il Paradiso è questo amore assicurato per sempre. In terra tutto è solo in speranza, cioè in stupore, in stupore reale ma precario, tanto è vero che si può perdere. La grazia di Dio si può perdere. Anzi, dice il dogma della fede, senza un aiuto speciale della grazia, non si può rimanere in grazia. Quindi è uno stupore precario. Reale, certissimo, ma precario. «Le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle».

    Così Giussani, descrivendo la sua vita. «Le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle facendo di esse la trama di una storia che mi accadeva e mi accade davanti agli occhi». Tessendo così la trama di un cammino che mi accadeva e che mi accade davanti agli occhi.

    «Qui se’ a noi meridïana face / di caritate», qui sei a noi sole splendente di carità, splendore di carità. La carità è quando il desiderio del cuore è soddisfatto, quando ciò che il cuore desidera è appagato. «E giuso», giù sulla terra, «intra ’ mortali»: come è realista il cristianesimo: tra coloro che vanno verso la morte. «E giuso, intra ’ mortali, / se’ di speranza fontana vivace». Sei la possibilità che quello stupore si rinnovi continuamente. Tu! Tu, o Maria, Tu, o Madonna, sei la possibilità che la grazia di Dio si rinnovi, sei la possibilità che quel caldo («nel ventre tuo si raccese l’amore») tocchi il nostro cuore, lo tocchi così che la nostra vita vada da inizio in inizio, lo abbracci possibilmente in ogni istante. La santità è quando quel caldo abbraccia quasi (quasi, perché la terra non è il Paradiso) ogni istante. Padre Leopoldo è stato così. Quel caldo, quello stupore quasi ogni istante abbracciava il cuore, così che era caro al cuore. «Lo stupore vero», intuiva Cesare Pavese, «è fatto non di novità, ma di memoria». Così che diventa caro al cuore, come la casa in cui il cuore abita.

    «Qui se’ a noi meridïana face / di caritate, e giuso, intra ’ mortali, / se’ di speranza fontana vivace». E poi Dante conclude, parlando della preghiera. Che cosa può fare l’uomo, l’uomo ferito dal peccato e l’uomo graziato, quando questo caldo, riacceso duemila anni fa nel ventre di Maria, lo raggiunge? L’uomo può domandare. «Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ali». Donna, sei tanto grande e tanto vali, che chi vuole grazia e a te non ricorre, il suo desiderio è come se volesse volare senza le ali.

    Ma poi c’è una strofa ancora più bella, più bella, perché suggerisce che anche il domandare è frutto della Sua grazia. «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre». E questo è un mistero. Il mistero più ineffabile della predilezione di Dio: che non solo risponde alla domanda, ma precorre la stessa domanda. Altrimenti non sapremmo neppure domandare. La tua benignità, di te, Maria, non solo soccorre a chi domanda, ma tante volte (possiamo anche dire sempre, altrimenti non si domanda, altrimenti si pretende o si dicono parole) «liberamente al dimandar precorre». Precorre, viene prima, precede. «Ci preceda e ci accompagni sempre la tua grazia». Precede vuol dire che viene prima, viene prima anche della domanda. Per domandare occorre, almeno all’orizzonte ultimo, essere attratti, essere destati da quel caldo che si è acceso nel ventre di Maria.


    E così concludo. Prima, in ginocchio, nella celletta di padre Leopoldo, ho promesso di concludere dicendo queste cose. Dicendo quella che, secondo me, non secondo me, secondo la santa Chiesa, è l’alternativa alla grande eresia di cui all’inizio dicevo, quando parlavo della gnosi nella Chiesa. Fu Giuda, uno dei dodici, a tradirlo. La persecuzione del mondo, del diavolo, avviene sempre attraverso cristiani. Giuda, uno dei dodici, l’ha tradito: era uno dei dodici! Così Pietro e Paolo, uccisi a Roma per invidia di cristiani. È sempre così. Anche oggi è così. Comunque, l’alternativa all’Anticristo, a chi non riconosce Gesù, il Figlio di Dio nella carne, secondo me sono tre cose.
    La prima è la confessione. La confessione così come il Concilio di Trento ha definito che è. Alla cui umile fedeltà il Papa ha richiamato recentemente tutto il popolo cristiano. La confessione, cioè accusa sincera, completa, umile, breve e prudente (sono le cinque caratteristiche dell’accusa dei peccati del catechismo di san Pio X. La confessione sincera e completa di tutti i singoli peccati mortali. La confessione comporta questo realismo. Per cui il peccato è peccato). E il gesto, il più semplice di questo mondo, di un povero peccatore, magari molto più peccatore di te, come è il confessore, un gesto posto da lui, ma realizzato da Gesù Cristo, un gesto di Gesù Cristo ti perdona. Il sacramento della confessione come Gesù lo ha istituito e la santa Chiesa domanda che sia: giudizio e misericordia. Tant’è vero che nel catechismo, quand’ero piccolo, c’era un’immagine che descriveva bene il fatto che se uno si confessa male compie sacrilegio. Era l’immagine di un bambino che si allontanava con dietro le spalle il diavolo. Mentre c’era l’immagine dell’angelo custode vicino a un bambino sorridente che si confessava bene. La confessione, quindi, come la santa Chiesa domanda che ci si confessi. Il sacramento della confessione è il primo modo con cui Maria ha sconfitto da sola tutte le eresie. Così diceva un’antifona della liturgia ripresa da san Giovanni Bosco nella sua preghiera alla Madonna: «Tu che hai distrutto da sola [da sola lei, non noi!] tutte le eresie del mondo».

    La seconda cosa è il santo Rosario. Vi leggo alcune frasi di papa Luciani, quand’era patriarca di Venezia, sul Rosario. «Personalmente, quando parlo da solo a Dio e alla Madonna, più che adulto, preferisco sentirmi fanciullo». Questo vale per tutta la vita. Essere adulti nella fede vuol dire accorgersi più facilmente di quello che si è, cioè niente: «Senza di me non potete far nulla». Prosegue papa Luciani: «…per abbandonarmi alla tenerezza spontanea che ha un bambino davanti a papà e mamma. Essere davanti a Dio quello che in realtà sono con la miseria e con il meglio di me stesso. Il Rosario, preghiera semplice e facile, a sua volta, mi aiuta a essere fanciullo. E non me ne vergogno punto». Il Rosario (con il Padre nostro, l’Ave Maria e le giaculatorie che si ripetono) è la preghiera in cui siamo quello che realmente siamo, cioè niente. In cui per grazia diventiamo bambini, in cui il cuore diventa bambino, così che entra (che entra, già dicendo il Rosario!) nel Regno dei cieli. Così che il cuore rifiorisce.


    E infine la terza cosa: le giaculatorie. La confessione, il Rosario, le giaculatorie. Le giaculatorie, cioè le piccole preghiere. Come quando si entra in chiesa e si dice: «Sia lodato e ringraziato ogni momento il santissimo e divinissimo Sacramento». Ogni momento! E uno s’accorge magari che è da tanto tempo che non dice grazie. Ma entrando in chiesa e facendo la genuflessione, uno ripete: «Sia lodato e ringraziato ogni momento». E il grazie di quell’istante abbraccia tutto, abbraccia le ore, i giorni, le settimane e i mesi in cui uno non ha mai detto grazie. E poi quell’altra giaculatoria, così semplice e cara, che tante volte Giussani ci ha raccomandato: «Veni, Sancte Spiritus, veni per Mariam». Vieni, o Santo Spirito. Lo Spirito Santo è Colui che nel ventre di Maria «raccese l’amore», Colui che ha destato nel ventre di Maria l’amore. Lo Spirito Santo è l’infinita corrispondenza tra il Padre e il Figlio. Mi sorprende questa cosa, da quando l’ho intuita. È l’infinita corrispondenza tra il Padre e il Figlio. L’infinita, eterna, sovrabbondante corrispondenza tra il Padre che genera e il Figlio che è generato. Per cui per sovrabbondanza di corrispondenza, e non per dialettica, per sovrabbondanza di gioia la Trinità ha creato il mondo e ha creato anche me. «Veni, Sancte Spiritus, veni per Mariam». Vieni attraverso Maria.


    Termino ripetendo la strofa di un inno che Giussani quindici giorni fa ha suggerito: «Jesu mi dulcissime», Gesù mia dolcezza. Intendevo dire solo questo, solo dire l’umanità di Gesù. «Jesu mi dulcissime», Gesù dolcezza per me. Solo una presenza è dolcezza al cuore. Dolcezza è una parola che per due volte nella Salve Regina ýipetiamo alla Madonna: «dulcedo», dolcezza, «dulcis virgo Maria». Così, affidando a lei quello che noi non siamo capaci e che tante volte non vogliamo… «Jesu mi dulcissime, spes suspirantis animae»: speranza, sorpresa, commozione dell’anima che sospira, che attende («il mio gemito a te non è nascosto»). È la vita, è la realtà che fa sospirare. Le cose fanno sospirare. «Spes suspirantis animae». Anima che sospira, anche quando non ce ne accorgiamo, a quella dolcezza, che sospira a quella presenza che Maria ha portato in grembo nove mesi e che ha partorito a Betlemme. «Spes suspirantis animae. Te quaerunt piae lacrymae».
    Ti cercano le lacrime pie. Lacrime, perché il dolore della vita fa piangere. Anche i nostri poveri peccati fanno piangere. E le lacrime si trasfigurano in lacrime di gratitudine. Altrimenti dopo un po’ non si piange neppure più, dopo un po’ anche il volto si irrigidisce e diventa una maschera. Le lacrime del dolore, di fronte a questa presenza, diventano lacrime di gratitudine, perché il Suo perdono, la Sua dolcezza, la Sua tenerezza è più grande. «Te quaerunt piae lacrymae et clamor mentis intimae». Te cerca il grido del cuore, quando dormiamo e quando siamo svegli. Te, Gesù Cristo, figlio di Maria, Figlio di Dio, il grido di ogni cuore cerca. E a noi, per grazia, è stato dato di iniziare a cercare e di essere trovati già qui sulla terra.



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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 01/09/2012 11:02

    Camillo Langone ha intervistato Mons.Luigi Negri ( da Il Foglio del 31 agosto)

     

     Di Camillo Langone ( su Il Foglio del 31-08-2012) 
    Il più cattolico dei pochi vescovi italiani cattolici si trova all’estero, a San Marino. “Lei vive in una cartolina!” esclamò Benedetto XVI l’estate scorsa, durante la visita nella diocesi.  
    “Sì, ma è una cartolina che non viene spedita mai” rispose monsignor Luigi Negri. 
    Un altro vescovo sicuramente
    cristiano, sebbene di prosa un po’ democristiana (monsignor Crepaldi), alligna a Trieste che è città importante però ai confini della nazione e del dibattito. 
    Un terzo vescovo sul quale metterei la mano sul fuoco (monsignor Oliveri) risiede in fondo alla Liguria, fra Albenga e Imperia, che non sarà ancora Francia ma certo non è il cuore dell’Italia.
    E’ come se i fautori di una “presenza cattolica vissuta senza compromessi” fossero tenuti a distanza di sicurezza dalle cattedre metropolitane o comunque
    cruciali, dove evidentemente i compromessi sono ritenuti indispensabili. Se Negri fosse stato vescovo di Udine, il corpo malato di Eluana Englaro (“vittima di un omicidio di stato”) avrebbe trovatousbergo nella chiesa locale, che invece reagì con molta flemma.

    Se fosse stato vescovo di Torino o anche solo di Manfredonia (da cui dipende San Giovanni Rotondo) Mario Botta e Renzo Piano si sarebbero dovuti acconciare a costruire chiese a forma di chiesa e non di centrale termica o di hangar. 
    Negri sarebbe riuscito perfino a far mettere in posizione visibile il tabernacolo, che gli architetti nichilisti tanto odiano, contro il quale tanto si accaniscono. 
    O avrebbe risolto il problema alla radice chiamando al loro posto Pier Carlo Bontempi, che sta all’architettura italiana contemporanea come Sua Eccellenza sta alla chiesa cattolica di oggi.

    Domanda: San Marino è davvero un’isola (o una cartolina, per dirla col Papa) felice?
    Risposta: In occasione della sua visita Benedetto XVI ha celebrato una liturgia nello stadio di Serravalle alla presenza di 22.000 persone. 
    L’intera diocesi, comprensiva di San Marino e Montefeltro, supera di poco i 60.000 abitanti: quindi c’era una persona su tre.

    D: Come se a una singola messa di Milano partecipassero un milione e mezzo di persone.
    R: Il Papa ha avuto la percezione che anche uno stadio può diventare una cattedrale. 
    Il coro di oltre duecento persone ha intonato i canti della tradizione ela maggior parte dei presenti si è comunicata in bocca.
    D: Non come a Parma dove nel santuario della Steccata il celebrante spende omelie per dire che l’ostia si può legittimamente ricevere sia in mano sia sulla lingua, però in mano è meglio. 
    E quindi ciò che fa il Papa nelle sue messe è peggio.
    R: Guardi, né il clero né il popolo cristiano si formano più attorno al magistero, si lasciano convivere i magisteri paralleli, modi di pensare e concepire e comunicare la fede che hanno come riferimento un teologo, un ecclesiastico, non il vescovo di Roma…
    D: Almeno siamo certi che a San Marino e in Montefeltro il punto di riferimento è Pietro.
    R: Questo Papa è assolutamente grande nel magistero e i sette anni da vescovo che mi sono stati concessi sono stati bellissimi. 
    Ho cercato di ridare esistenza ed energia al popolo cristiano, interpretando il mio ruolo non come fornitore di servizi, liturgici o solidaristici, ma come ridestatore della coscienza di un’intera comunità.
    D: Però anche nella ridente Repubblica di San Marino sta per sbarcare la sodomia di stato, contro la quale lei ha diffuso un messaggio di esplicita condanna. Reazioni?
    R: Tutte le volte che faccio un intervento ricevo mail entusiaste e mail piene di insulti.
    C’è stata la canea radical-chic, la stessa che c’è in Italia quando si tocca il medesimo argomento, ma il comune sentire del nostro popolo è molto diverso. Io ho voluto indicare un’immagine di chiesa che forte della sua identità si assume la responsabilità di intervenire nelle vicende sociali.
    D: Un po’ come fanno i vescovi americani a cui spesso lei si riferisce.
    R: Sì, vorrei citare la studentessa di New York che ha scritto al cardinale Dolan, uomo
    di chiesa che si batte per salvaguardare i diritti non solo della chiesa ma dell’intera società: “Eminenza, io sono con lei non perché sono credente ma perché sono americana”.
    D: Bello, però temo che in Italia le cose vadano in senso opposto e non mi stupirei che una studentessa le scrivesse: 
     “Eccellenza, io non sono con lei non perché non sono credente ma proprio perché lo sono”. Nei giorni scorsi Marco Pannella l’ha attaccata su Radio Radicale dicendo all’incirca così (provo a tradurre dal suo italiano stentato): “Nel nostro paese le grandi vittorie sui diritti civili sono state rese possibili dai cattolici che hanno agito in aperta disobbedienza rispetto alle loro guide”.
    R: Non nego la presenza di cattolici tra le loro file ma bisogna capire se questi possono ancora considerarsi tali. 
    Divorzio e aborto hanno distrutto la nostra società, distruggendo
    la famiglia che ne è la cellula fondamentale. I radicali promuovono un’esperienza umana individualista, egoista: salvo poi fare i moralisti con le esperienze degli altri. (Qui vorrei dire a Negri che gli applausi tributati dal Meeting a Mario Monti, nemico della domenica e quindi della civiltà cristiana, mi sembrano dare ragione a Pannella. 

    Ma non glielo dico perché: 
    1) le mani spellate di Emilia Guarnieri e Giorgio Vittadini non rappresentano tutti i ciellini, anzi, la maggior parte di loro in privato se ne dispera; 
    2) Gianfranco Polillo, sottosegretario montiano all’Economia, non aveva ancora pronunciato la seguente frase: “Per far ripartire il paese c’è bisogno di turni di lavoro su sette giorni settimanali”; 
    3) mica mi posso inimicare il più cattolico dei pochi vescovi italiani cattolici, altrimenti poi chi mi resta? Però qualcosa sull’applausificio ciellino devo pur dirlo e adesso glielo dico).
    D: Lei Monti lo avrebbe applaudito?
    R: No, io non applaudo nessun politico, non è giusto che un vescovo applauda un politico. Applaudo solo grandi testimonianze etiche e culturali: al Meeting ho applaudito Walesa, Madre Teresa di Calcutta…

    D
    : Bisognerebbe spiegare che c’è un tempo per gli applausi e un tempo per i fischi. Mi sembra un aspetto dell’emergenza educativa… E avrebbe mandato un messaggio ai musulmani al termine del ramadan, come ha fatto Scola?
    R: Io non ce li ho i musulmani.
    D: Vescovo fortunato: ma com’è possibile?
    R: Nella mia diocesi non sono una presenza organizzata. 
    Non ho nulla contro di loro ma io devo pensare a far crescere un popolo cristiano il quale poi si assumerà la responsabilità di un dialogo, di un rapporto. 
    Di questo ne risponderò a Dio: perché solo se il popolo cristiano sarà forte non si farà manipolare dai poteri mondani, occidentali o islamici che siano.
    D: Come sono messi i seminari?
    R: Male. 
    Se noi continuiamo a pensare che il clero che esce dai seminari sia formato a praticare l’evangelizzazione ci illudiamo. 
    E’ un clero di retroguardia, un clero fanalino di coda, incapace di portare certezze esaltanti, propositive. 
    Mentre il grande Origene diceva che bisogna vivere la fede con entusiasmo: bisogna essere entusiasti della fede.
    D: E invece l’entusiasmo scarseggia.
    R: E invece, anziché il cristianesimo inteso come incontro con Cristo, da un lato abbiamo l’esegetismo, l’esegesi fai-da-te, e dall’altro una concezione della fede moralistica e sociopolitica.
    D: Come se la passano le scuole cattoliche di cui lei si è occupato a lungo? Sopravviveranno
    all’Imu?
    R: Erano in crisi anche prima dell’Imu. A fronte di uno sgravio per le finanze pubbliche di proporzioni enormi lo stato ha sempre restituito le briciole e adesso neanche più quelle.

    D
    : I cattolici in politica che cosa ci stanno a fare? Secondo me niente, e secondo lei?
    R: Devo dire con amarezza che i cattolici impegnati nei due schieramenti non hanno fatto un solo gesto per riaprire la questione della libertà di educazione. 
    Eravamo giunti a ottenere che il sistema scolastico non fosse più considerato doppio (pubblico-privato) ma unico: un sistema scolastico pubblico all’interno del quale potevano convivere la forma statale e quella paritaria. 
    Mentre oggi siamo al tracollo, basti pensare che le scuole private sono inserite nel redditometro come bene di lusso. 
    Dalla dichiarazione dei redditi si possono detrarre le spese veterinarie ma non le rette scolastiche.
    D: Nonostante che il governo sia ingombro di ministri sedicenti cattolici.
    R: Lo stato si è reso inadempiente anche in passato, sia con i governi di centrodestra
    che con i governi di centrosinistra. 

    E’ un tema cruciale, se non c’è educazione libera non ci sono personalità mature e se non ci sono personalità mature non c’è dialogo ma un pensiero maggioritario che si impone su persone incapaci di usare il cuore e la ragione. Il mio maestro…
    D: Don Giussani?
    R: Don Giussani. Negli anni Sessanta diceva: “Mandateci in giro nudi ma lasciateci
    la libertà di educazione”.
    D: Adesso siamo nudi e senza libertà di educazione. 
    Ciò nonostante lei ha sempre avuto un occhio di riguardo per Berlusconi, atteggiamento che le viene spesso rinfacciato dai colleghi, ad esempio da monsignor Bettazzi, il vescovo emerito di Ivrea.
    R: Berlusconi ha avuto il merito di impedire, con la sua discesa in campo, un colpo
    di stato cattogiustizialista. C’è un ottimo libro postumo di Baget Bozzo, si intitola “Giuseppe Dossetti. La costituzione come ideologia politica”…

    D:
    Gran bel titolo.
    R: Chiarisce tutta la questione.
    D: Come la mettiamo con i politici tipo Casini che si dicono cattolici e poi, sulla scorta di piccoli calcoli di bottega, varano alleanze con una sinistra ideologica e nichilista?
    R: Il mio grande amico Augusto Del Noce disse con chiarezza, trent’anni fa, che per arrivare al potere il Partito comunista avrebbe venduto l’anima diventando un partito radicale di massa. E questo è puntualmente avvenuto.
    D: Casini quindi sta vendendo l’anima a chi se l’è già venduta. Ma anche oltre l’Udc non vedo molti politici desiderosi di tenersela stretta, l’anima.
    R: Secondo me c’è un’assoluta incultura sia nel centrodestra che nel centrosinistra mentre la politica o diventa cultura forte o rimane piccolo cabotaggio. 
    Questi politici incolti più del massmediaticamente corretto non sono capaci di pensare.
    D: Lei al posto di “politicamente corretto” usa spesso l’espressione “massmediaticamente corretto”. Mi sembra un aggiustamento di tiro necessario.
    R: Perché i politici vanno a rimorchio dei media, anche a costo di piegarsi a sovversioni
    totali del buon senso. 

    Avanza quella che Hannah Arendt chiamava democrazia totalitaria, una democrazia solo procedurale dove ciò che io definisco massmediaticamente corretto prende il posto di ciò che prima era il riferimento culturale che nasceva dalla fede.
    D: Come si può superare questo annichilimento della politica?
    R: Con cristiani presenti, coerenti e intraprendenti.
    D: E la crisi della chiesa?
    R: Lo ha detto il Papa come se ne esce, bisogna tornare a seguire davvero il suo magistero, senza se e senza ma.

    D
    : La mia paura è che gli anticristiani appaiano più vitali, più divertenti. Ad esempio gli omosessuali sono riusciti a imporre di farsi chiamare “gay”, gai, un termine per nulla neutro, pieno di connotazioni positive. 

    Se loro sono gai noi cristiani non possiamo che risultare tristi, proibizionisti, ossessionati dal peccato, negativi.
    R: Se i cristiani non capiscono che la loro è una vita vera, perciò bella, non sono in grado di contestare la società di oggi. Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai giovani, ha ricordato che Gesù non dice dei no alle esigenze autentiche del cuore ma soltanto dei sì alla vita, all’amore, alla libertà.
    D: La presente crisi economica fa male o fa bene alla fede?
    R: La crisi è innanzitutto antropologica. In Europa, non solo in Italia, prima è arrivata la crisi della fede, che non è stata più intesa come ricchezza. 
    Conseguenza inevitabile della perdita di questa ricchezza è stata la povertà: inizialmente morale e adesso anche materiale.



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 19/09/2012 15:05


    [SM=g1740733] Mons. Livi contro la falsa "teologia"




    Mauro Faverzani intervista mons. Antonio Livi, autore del libro "Vera e falsa teologia", giunto già alla sua seconda edizione. Una rilettura del Concilio Vaticano II alla luce del confronto teologico, sviluppatosi internamente all'evento. Come da allora ad oggi è mutato il ruolo del "teologo" e perché è urgente tornare al concetto di 'philosophia ancilla teologiae".



    [SM=g1740758]

    [SM=g1740771]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 29/11/2012 23:47


    IL  PROGRESSISMO

    Cardinal Giuseppe Siri

    da «Rivista Diocesana Genovese» - gennaio 1975

     

    Link a questa pagina :

    www.doncurzionitoglia.com/siri_e_il_progressismo.htm

    DOCUMENTO ANCHE IN PDF


    «Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole! […]  Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. […] Si ha vergogna di Dio».

    ***

    Viviamo nell’epoca delle «parole». Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica, che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si coniano parole.
    Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati, capiti, eventualmente smascherati.

    Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele bene, per evitare una sorte ingloriosa.
    Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio operato: «progressismo».
    Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un termine alla esatta funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non bisogna ricusare quel merito.

    Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno specchio perché ognuno ci si guardi.  

    1.  Essere indipendenti dalla logica teologica

    Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le conclusioni a poi.
    Che è questo «disimpegno totale dalla logica teologica»?
    Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione.
    Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della «logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica interpretazione sia della Scrittura che della divina tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra gli uomini. Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due.

    La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione filosofie torbide, il contrario, il contraddittorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia.

    La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio.

    Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane.
    Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del magistero ecclesiastico!
    Il magistero ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia... purché siano consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa. Tale approvazione rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico, potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro. Col che il campo resta spazzato.
    Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del magistero ecclesiastico costituiscono con lo stesso la «logica» della Teologia.
    Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare che sono espressamente condannati nella enciclica Pascendi di s. Pio X nonché nel suo Decreto Lamentabili; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultmann, sentono con indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo.

    Naturalmente trattati senza freno i princìpi, si ha quel che si vuole della morale e della disciplina ecclesiastica.
    Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto.
    Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non si lascia più nulla, neppure delle sue speranze!
    Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa — questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si fanatizzano.
    In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere.
    Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di vane lingue, dei quali fu pieno l’aere e che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono.
    Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di Teologia, il tedesco padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre e con ragione: «Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti!».  


    2. Il «sociologismo»

    Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non sanno che cosa sia.
    Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo mondo.
    La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza.

    Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perché il sociologismo non si cura della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno.
    Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale sia sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi, forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole!
    Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano.
    Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via brevissima per stare al passo coi tempi!

    Ma si sa dove vanno i tempi?
    Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono arrivate, dove si sono fermate? E proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per portare benessere ai nostri simili? E proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe, distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili?
    Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza eterna?

    3. La nuova storiografia

    Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero san Pier Damiani. Tutto qui!
    Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi «cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo.
    La parte maggiore della produzione - ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni - pare obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni:

    — la società ecclesiastica è la prima causa dei guai che hanno colpito i popoli;

    — la Chiesa - detta per l’occasione postcostantiniana - avrebbe fatto con continui voltafaccia alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità;

    — le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati dalla Storia, non si sa con quale motivazione;

    — tutta la storia ecclesiastica fino al 1962 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di Cristo. Questa conclusione - tutti lo vedono - costituisce il fondamento per distruggere il più possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro, martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero;

    — le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti;

    — il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli hanno sempre una causa che le ha generate.

    Si potrebbe continuare.
    Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi galantuomini... qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, che ha imposto ai renitenti la disciplina ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla!
    Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe, come se queste non potessero mai essere chiuse.
    È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!

    4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti

    Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia del progressismo ecclesiastico moderno.
    Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della divina tradizione ed avessero spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo.
    Quei due interventi, consci o no di portare l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli Imprimatur. La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata comune. Eccone i punti.

    — La filologia, l’archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum delphini), ma soprattutto le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia.

    Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata.

    — Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può essere, in cosa tanto grave, vera garanzia.

    — La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture, comparata con le Scritture e con la divina tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal Magistero.

    Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama «progresso», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio. Niente di più logico e di più ovvio.
    Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò. La materia biblica non è in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole «sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero!
    Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome di «progressismo».  

    5. Le allegre «teologie»

    Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila.
    Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro, dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione... Quasi tutte queste voci sono decorate di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci.

    Queste sono vere «teologie», anzitutto?
    È «teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle fonti teologiche. Quando le affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente proprio.
    In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste teologie o sedicenti teologie. Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni.

    — Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto oggettivo e permanente.

    — Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo, derivando da un principio messo dal “cristianissimo” e “devoto” Mounier, di fatto si ispira al marxismo, del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi più o meno stanchi assertori.

    Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere - con altre cose - una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale apparteneva quella magnifica voce. Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie teologie delle quali abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al tutto insoddisfatti.

    Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e ben più importante.
    C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962.
    E questo è grave. Infatti.
    La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro.
    Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della rivelazione divina e, senza forzature o deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti. Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi principî del buon senso umano, nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite.

    Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni» estranee al metodo.
    Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia».
    La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che possono dare ansa al genio di molti santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria!
    La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire al numero seguente.  

    6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie

    Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista». Un principio decantato in tutti i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a quello il messaggio cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della rivelazione divina.
    Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale nessuna persona colta crederà più.
    Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, sì da permettere sempre una tempestiva ritirata strategica.
    Guardiamo bene in faccia questa faccenda.

    — Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i placita di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade nel nostro tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono, comunque, morti.

    — Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste.

    La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialità è tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.

    Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto. Non eresia, ma anche apostasia!
    Con tutto questo non si esclude affatto che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi.
    La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela troppo vergognosa per gloriarsene.  

    7. Il rifiuto della apologetica

    Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.
    Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente.
    Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa (Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione di Cristo... Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare degli elementi di prova.

    Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna, quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più.
    Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa onesta capacità che il Vangelo di Matteo - come gli altri - ha di farsi precedere dalla più rigorosa documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica»; ora abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo sapeva.
    Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del modernismo latente sotto la cenere.
    Il silenzio in fatto di apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi ritiene sempre necessaria la apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti.
    Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della apologetica ne è la manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?  

    8. La riabilitazione degli eretici

    Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo.

    Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge dalle ceneri con l’aria di dire «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati abitualmente al posto di sant’Agostino e di san Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate.

    Ma, è normale tutto questo?
    I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri».
    Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini che la conducono fa al tutto difetto.
    Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del magistero ecclesiastico, per colpire il magistero ecclesiastico; si magnificano i distruttori della disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina. Agli eretici ed ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici. e infatti essi non si sono minimamente schiodati dalle loro posizioni
    Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane.
    Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri comodi. I peggiori!
    Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso spirituale, vorrebbero fermarne le cause.
    Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.

    9.  L’antigiuridicismo

    Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista.
    Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano e non vogliono rendersi conto che la legge è l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza.
    La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone perbene abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze.
    Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano. La ragione? Il numero diluisce e fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici.
    Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile. Sì, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice variazione lessicale.

    Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si scarica sulla «base».
    Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una debolezza.
    Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo, anche violento, a fare i «tiranni».
    La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita sociale solo in due modi: «la violenza o la legge». Ricordiamo che la paura è un riflesso della violenza.

    Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza?
    E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive?

    Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una «Legge». Si preferivano dei predicozzi.
    La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina» libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»!
    Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio catechismo dalle idee chiare e precise!

    10. La crociata antitrionfalistica

    Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista.
    È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani.
    La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio.

    Vediamo questo fascio.

    L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento. Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del suo dovere, fa del trionfalismo.
    La Fede, i Sacramenti, il divin sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi. Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la maestà di Dio, la infinita importanza del santo sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare.
    Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione sempre!
    Se si porta rispetto al Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta.
    Chi ha pronunciato per primo la disgraziata parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa.

    Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di gusti.
    Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel conformismo col quale si accettano e osservano — non le leggi liturgiche emesse dalla legittima Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia.
    Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le bande dei suonatori.

    11. La indisciplina endemica

    Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo sbarazzino ha diritto al titolo.
    Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno preciso ed intelligente.
    In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A ragione!
    In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano.
    A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine ecclesiastica del clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative culturali innumerevoli.

    Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Cielo, della rivoluzione permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore ormai confinato nelle nebbie.
    Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito. Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da Gesù Cristo.
    Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli stati intermedi, altri hanno di pari passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è buono e al quale pensa Dio evidentemente. Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si irride o la si tratta come se fosse risibile la santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è progresso!

    12. La bassa quota

    Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente, perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale.

    Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo quello che piace al «progressismo». Ed ecco.
    Nel clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate.
    Chi porta la talare sta fuori del progresso.
    Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo momento il pericolo più grave per il clero è quello di scomparire. Sta scomparendo, perché tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo anche noi.
    Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse che non è indicativo il Referendum sul divorzio? Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno mano a tutto questo.

    Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha costituita, costituisce benemerenza progressista.
    Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei più grandi equivoci religiosi del secolo.
    Animare gruppi detti magari «di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a movendo, tamquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti.

    Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma praticata? Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia. Quanto si parla della santissima Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate ha reagito.

    Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari ammannendo discussioni sul sesso.
    Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché, orribile a dirsi, si ha vergogna di Dio.
    Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe.
    Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza. La via dell’inferno.

    Conclusione

    Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi, quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche che rinnovano l’organismo, ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di vita degli spiriti migliori.

    Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno.

    Cardinal Giuseppe Siri, «Rivista Diocesana Genovese», gennaio 1975

    Link a questa pagina :

    http://www.doncurzionitoglia.com/siri_e_il_progressismo.htm




    [SM=g1740722]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 30/12/2012 00:57

    Bagnasco “sale” in ginocchio verso i Monti. Mons. Negri: “Sia più prudente e discreto”

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    BAGNASCO “SALE” IN GINOCCHIO VERSO I MONTI.

    MONS. NEGRI:  ”SIA PIÙ PRUDENTE E DISCRETO” 

    Il vescovo ciellino, emerito di San Marino e neo di Ferrara, a tutto campo su Concilio e  lefebvriani, rapporti politica-Chiesa… e, va da sé, Bagnasco-Monti

     

    Sinceramente credo ci vorrebbe e ci sarebbe voluta più discrezione da parte delle autorità ecclesiastiche, vaticane e non, nel fare interventi che possono essere letti come sostegno aperto per qualcuno. Non credo che il Papa voglia appoggiare un determinato partito o candidato. Quelli che sono a mediare tra lui e il resto della Chiesa e della società dovrebbero vivere con molta più prudenza questa responsabilità

    Intervista di

    Francesco Mastromatteo da papalepapale.com

    Mastromatteo

    Mons. Lugi Negri è certamente un uomo di Chiesa che non la manda a dire. L’ex vescovo di San Marino, che dal febbraio prossimo prenderà possesso canonico della diocesi di Ferrara-Comacchio, di area ciellina, insigne teologo e saggista,  non ama molto il “politichese” né tantomeno il “clericalese”, che spesso e volentieri caratterizza il modo di comunicare delle burocrazie episcopali. E lo dimostra in un’intervista a tutto campo – dal Concilio ai rapporti tra Chiesa e politica, passando per il tema del dialogo con i lefebvriani – rilasciata a margine di un convegno tenuto nella città di papa Benedetto XIII, Gravina (Ba), dove si presentava un libro sulla retta interpretazione e ricezione del Concilio. Senza risparmiare qualche stoccata a recenti scivoloni ed esternazioni di certi alti ambienti ecclesiali… a proposito delle elezioni. Dove, pur senza fare nomi, appare chiaro il riferimento critico del prelato alle controverse dichiarazioni del presidente della CEI, cardinal Bagnasco, in favore  cosiddetta “salita” in politica di Mario Monti.

    ***

    Mons. Negri durante la divina liturgia nella sua diocesi

    Eccellenza, nel convegno si è parlato di recezione e interpretazione del Concilio Vaticano II. Lei ha insistito molto sul tema della cultura come fondamento dell’identità cattolica. Oggi dunque è necessaria una battaglia culturale?

    - Il laicismo contemporaneo criminalizza la storia cattolica, dimenticando che essa ha prodotto una cultura, che a sua volta ha gettato le basi di una civiltà. La cultura è a pieno diritto una dimensione della fede, intesa non solo come dottrina, ma anche e soprattutto come tradizione e devozione popolare. Ma senza cultura non c’è identità, e senza identità non ci può essere dialogo autentico: esso scade nell’irenismo e nel filantropismo, che è il contrario della Carità. La fede viene così ridotta a mera prestazione di servizi. 

    Da qualche anno a questa parte, sull’onda del famoso discorso di Papa Benedetto XVI sull’ermeneutica della continuità, è molto acceso nel mondo cattolico il dibattito sul Concilio e sulle sue interpretazioni. Alcune opere sull’argomento, come il libro del prof. De Mattei, hanno fatto e fanno discutere. Qual è la sua opinione in merito?

    - È necessario un rigoroso approfondimento dei termini della storia del Concilio, che è stato un evento storico, e come tutti gli eventi storici pieno di luci e ombre. Il libro De Mattei è straordinario perché ci fa conoscere la complessità dialettica dell’evento conciliare, in cui sono maturate le prese di posizione del Magistero. La storia è molto complessa e contraddittoria, ed il Magistero si fa nella storia, ma non si esaurisce in essa.  Non c’è quindi un cortocircuito tra le due dimensioni.

    Un giovane Luigi Negri, agli inizi del suo cammino con don Giussani,

    Strettamente legato al tema del Concilio c’è quello, non meno controverso, del dialogo con la FSSPX, che sembra a un punto morto…

    - La remissione della scomunica è solo l’inizio di un cammino, non ne è la fine. Su questa base occorre fare un lavoro di approfondimento dottrinale che deve arrivare a una condivisione di principi sostanziali sul piano del Magistero. Ci sono stati degli inconvenienti in questo percorso, ma non sono colpa del Santo Padre, quanto piuttosto di alcuni suoi collaboratori.

    Un altro argomento caro al Papa è quello del rapporto tra Chiesa e politica, intesa sia come realtà esterna che come potere interno alla stessa realtà ecclesiale. Benedetto XVI ha spesso richiamato i politici cattolici alla coerenza nella difesa di certi principi, di quelli “non negoziabili”, che sono pochi ma precisi.

    - Credo che la questione non sia meramente un problema di persone o di analisi strettamente politiche, ma di chiarezza su alcuni criteri per giudicare correnti, posizioni, programmi. Questi sono i valori non negoziabili. Un uomo politico può ricevere un appoggio significativo soltanto nel momento in cui si impegna a fare di essi il punto di vista di tutta la sua azione di governo. La politica non ha la mediazione come obiettivo, quello è l’incremento del bene comune. La mediazione deve essere solo un mezzo. Ma non è il fine.

    In questi giorni, però, assistiamo a prese di posizione abbastanza esplicite che fanno parlare di vero e proprio “endorsement vaticano” verso determinate forze politiche… E’ di pochi giorni fa la dichiarazione, che ha suscitato disorientamento in molti cattolici, del presidente della CEI d’appoggio esplicito alla “salita” in politica con una lista propria ed entro certe alleanze del premier Mario Monti.

    - Sinceramente credo ci vorrebbe e ci sarebbe voluta più discrezione da parte delle autorità ecclesiastiche, vaticane e non, nel fare interventi che possono essere letti come sostegno aperto per qualcuno. Non credo che il Papa si voglia esprimere nel senso di appoggiare un determinato partito o candidato. Quelli che sono a mediare tra lui e il resto della Chiesa e della società dovrebbero vivere con molta più prudenza questa responsabilità.


    [SM=g1740733]


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 04/02/2013 19:00

    [SM=g1740758] Dal Diario di Don Divo Barsotti Don Divo Barsotti

     
    Chiesa problemi del Magistero - 26 Gennaio 1989

     

    La Chiesa da decenni parla di pace e non la può assicurare, non parla più dell'inferno e l'umanità vi affonda senza gorgoglio. Non si parla del peccato, non si denuncia l'errore.
    A che cosa si riduce il magistero? Mai la Chiesa ha parlato tanto come in questi ultimi anni, mai la sua parola è stata così priva di efficacia.
    « Nel mio nome scacceranno i demoni ... ». Com'è possibile scacciarli se non si crede più alla loro presenza? E i demoni hanno invaso la terra.

    La televisione, la droga, l'aborto, la menzogna e soprattutto la negazione di Dio: le tenebre sono discese sopra la terra.
    Leggo la vita di Cechov. Era un agnostico, ma il suo amore per gli uomini, la sua semplicità ci conquistano. Mi domando come mai queste biografie che certo non sono di santi, mi prendono tanto.
    Non vuole essere un eroe, non è un filosofo, sdegna di affrontare i grandi problemi, è conciliante, crede ingenuamente nel progresso.

    Contestazione dei teologi al Papa.

    Forse la crisi non sarà superata finché, in vera umiltà, i vescovi non vorranno riconoscere la presunzione che li ha ispirati e guidati in questi ultimi decenni e soprattutto nel Concilio e nel dopo-Concilio.

    Essi, certo, rimangono i «doctores fidei» , ma proprio questo è il loro peccato: non hanno voluto definire la verità, non hanno voluto condannare l'errore e hanno preteso di «rinnovare» la Chiesa quasi che il «loro» Concilio potesse essere il nuovo fondamento di tutto.
     
    Dal volume "Fissi gli occhi nel sole" Ed. Messaggero Padova

     

     
     

    tratto da L'Eco dell'Eremo Santuario B.V del Soccorso Minucciano (Lu) n.62 Dicembre 2012




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Caterina63
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    00 22/05/2013 09:20

    Lo “iota unum” del card. Biffi

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    LAMENTAZIONE SUI TEMPI PRESENTI

    di Giacomo cardinal Biffi (arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003)

    L’ideologia post-conciliare

    Essa deriva sì storicamente dal Vaticano II e dal suo magistero, ma attraverso un processo di “distillazione fraudolenta” immediatamente posto in atto all’indomani dell’assise ecumenica. L’operazione potrebbe schematicamente essere descritta così: la prima fase sta nella lettura discriminatoria dei passi conciliari, che distingue tra quelli accolti e citabili, e quelli da passare sotto silenzio; nella seconda fase si riconosce come vero insegnamento del concilio non quello effettivamente formulato, ma quello che la santa assemblea ci avrebbe dato se non fosse stata afflitta dalla presenza di molti padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito;con la terza fase si arriva a dire che la vera dottrina del concilio non è quella di fatto canonicamente approvata ma quella che avrebbe dovuto essere approvata se i padri fossero stati più illuminati, più coraggiosi, più coerenti.

    Con un metodo esegetico siffatto – non enunciato mai in modo esplicito, ma non per questo meno implacabilmente applicato – è facile immaginare i risultati. I quali, per quanto remoti siano dalla verità cattolica, vengono sempre messi in conto al Vaticano II; e chi si azzarda anche timidamente a dissentire è segnato col marchio infamante di “preconciliare”, quando non è addirittura classificato coi tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti. E poiché tra i “distillati di frodo” dal Vaticano II c’è anche il principio che nessun errore può essere condannato nella Chiesa a meno di peccare contro il dovere della comprensione e del dialogo, nessuno osa più denunciare con vigore e con tenacia i veleni che stanno progressivamente intossicando il popolo di Dio.

    Una buona occasione andata male oppure un messaggio rimasto inascoltato?

    Una buona occasione andata male oppure un messaggio rimasto inascoltato?

    Concilio e “post-concilio”

    Credo che il lavoro preliminare da compiere sia di distinguere accuratamente il concilio dal “post-concilio”, in modo che si possa accogliere il primo con totale cordialità e valutare il secondo alla luce del primo e di tutto l’insegnamento rivelato con animo libero da qualunque intimidazione e da qualunque ricatto culturale. Questa distinzione non deve turbare un cuore credente. Chi alla luce della fede riflette sulla storia della salvezza, sa benissimo che nella nostra vicenda come non c’è evento nefasto dal quale Dio non ricavi qualche bene per i suoi figli, così non c’è divino capolavoro che il demonio non tenti di tramutare per qualche aspetto in occasione di malessere e di rovina. Il che vale anche per il Vaticano II, opera senza dubbio provvidenziale e supernamente ispirata.

    Gli “idoli” post-conciliari

    Propiziati dal “post-concilio”, nella coscienza della cristianità contemporanea si celano, come nella sella del cammello di Rachele (Gn 31,19.34), molti svariati idoletti. Non tentiamo di ricordarli tutti ovviamente; ci limitiamo a segnalare quelli che più vistosamente influenzano tanto la ricerca teoretica quanto l’attività pastorale.

    1. La “antropolatria”

    Nei primi decenni del secolo XIX Feuerbach affermava che “il segreto della teologia è l’antropologia” e vagheggiava l’avvento di una teologia di nuovo genere, contrassegnata dal fatto “che essa pone nell’al di qua l’essere divino che la teologia comune, per paura e incomprensione, pone nell’al di là”. Viene da pensare che il pensatore tedesco, sia pure anonimamente, abbia fatto scuola presso molti cattolici della seconda metà del secolo XX e che la sua aberrante intuizione, probabilmente veicolata dalla grande ubriacatura marxista, dopo tanto tempo sia stata tacitamente ricevuta. L’uomo sembra divenuto l’unico oggetto dei nostri pensieri, dei nostri interessi, della nostra adorazione. E, nel desiderio di coglierlo in se stesso, nella sua autonoma e singolare natura, si è addirittura proposto da qualcuno che anche il credente debba guardare l’uomo “ut si Deus non daretur”, come se Dio non ci fosse, prescindendo cioè dal suo Creatore e valutando soltanto l’umanità come tale, presa a sé e separata da qualunque dipendenza e da qualunque superiore significazione.

    Sennonché l’uomo è intrinsecamente e non per un sopraggiunto rivestimento “immagine di Dio” e totale relazione a lui; e dunque escludere Dio sia pur metodologicamente dalla prospettiva sull’uomo vuol dire snaturare l’uomo e non coglierlo nella sua verità. Se con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” si intende che le cose create non dipendono da Dio, che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora tutti quelli che credono in Dio avvertono quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di lui nel linguaggio delle creature. Anzi, l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa (Gaudium et spes, 36). Si arriva così anzi a una contraddizione esistenziale. Noi siamo “adoratori costituzionali”: privati ideologicamente del vero Dio, rivolgiamo necessariamente altrove i nostri insopprimibili impulsi latreutici e ci poniamo ad adorare le creature, prima di ogni altra l’uomo. D’altra parte, l’uomo avulso dal suo Archetipo e dalla sua Sorgente è così fragile, debole, manipolabile, che, nell’atto stesso in cui crediamo di adorarlo, poniamo le premesse della sua profanazione. È facile rilevare come lo smarrimento del Padre abbia di solito fatalmente condotto sia al culto indebito della personalità e alla venerazione del tiranno sia alla schiavizzazione dei fratelli. Naturalmente questa “antropolatria” non ha niente a che vedere con l‘“antropocentrismo” di chi riconosce nell’uomo “il culmine dell’universo e la suprema bellezza del creato”, colui che detiene “la sovranità su tutti gli esseri viventi”, come dice sant’Ambrogio.

    L’antropocentrismo è prerogativa essenziale del disegno divino, in quest’ordine di cose liberamente eletto tra gli infiniti possibili, dal momento che il Padre ha collocato Cristo Gesù, uomo divinamente personalizzato, al centro di tutto e in lui ha chiamato tutti gli uomini a sé, facendoli partecipare, mediante l’inabitazione dello Spirito Santo, prima alla sua natura e poi alla sua stessa gloria. Come si vede, il vero antropocentrismo include nel suo stesso contenuto concettuale il rapporto privilegiato col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, e non lascia spazio ad alcuna forma di antropolatria. Antropolatria e antropocentrismo, anche se all’esterno possono presentare qualche somiglianza, nella realtà sono dunque diversi e incompatibili. L’antropolatria è propria di chi ha “cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile” (Rm 1,23); ed è l’approdo obbligato di chi, perdendo di vista l’Autore dell’essere e della vita, ha in sostanza una visione atea del mondo. L’antropocentrismo è proprio di chi onora l’uomo per quello che l’uomo è; esso non insidia affatto il culto del vero Dio, costituisce la predella da cui ci si può lanciare al riconoscimento del Padre. La cultura antropolatrica dà regolarmente origine a società disumane, nelle quali l’uomo – teoricamente adorato – è di fatto avvilito, reso servo, privato di ogni scopo plausibile dell’esistere. La cultura antropocentrica è un appello intrinseco al Padre e al suo disegno d’amore, senza di che l’uomo non solo non può essere visto come il centro di tutte le cose, ma appare piuttosto un frammento trascurabile di materia alla deriva sul mare dell’insignificanza.

    L’esteriore somiglianza può talvolta indurre in equivoci; ma non – c’è dialogo o convivenza possibile tra antropolatria e antropocentrismo, a meno che l’una o l’altra comincino a non essere più nei fatti quello che il loro nome significa in sé. In realtà la questione della riscoperta del Padre è preliminare a ogni serio discorso su un umanesimo non illusorio. Una delle citazioni più frequentemente ripetute in questi anni è la splendente frase di Ireneo: “La gloria di Dio è l’uomo vivente”. Se ne coglierebbe meglio la verità, si eviterebbe il pericolo di travisamenti ideologicamente strumentalizzati, si dimostrerebbe maggior rispetto verso il pensiero dell’antico scrittore, se ci si abituasse a riferirla nella sua integrità: “La gloria di Dio é l’uomo vivente; ma la vita dell’uomo sta nella contemplazione di Dio”.

    2. La “cronolatria”

    Il secondo idolo è stato indicato da J. Maritain, quando ha parlato di “cronolatria” o “adorazione dell’attualità”. La lucidità della denuncia del pensatore francese non ha però impedito che questo “culto” si estendesse e si affermasse sempre più nella cristianità, al punto da essere ormai un’abitudine mentale acquisita che neppure sente più il bisogno di giustificarsi. Senza affermarsi mai espressamente, essa trapela in modo spesso involontario e quindi tanto più significativo dal linguaggio d’uso corrente, nel quale l’aggettivazione del biasimo teorico non è: falso, errato, illogico, cattivo, aberrante; ma piuttosto: superato, sorpassato, attardato, vecchio. Non conta tanto la verità quanto la formulazione recente. Le idee, come le uova, devono essere “di giornata”. Talvolta si sente perfino squalificare un teologo o un vescovo con la frase: “è fermo al concilio di Trento”; dove è mirabile il fatto che la condanna sia espressa con l’indicazione non di ciò che, una volta dimostrato, potrebbe costituire una giusta critica (e cioè, ad esempio, la non consonanza con l’insegnamento del Vaticano II), ma di ciò che dovrebbe se mai rappresentare un titolo di merito (e cioè la fedeltà alla dottrina di un magistero solenne che, per quanto antico, resta tuttora autorevole).
    E con questa disinvoltura “cronolatrica” ci si dispensa dall’addurre le prove di una eventuale infedeltà al magistero più recente.

    Allo stesso modo, veniamo spesso esortati a pregare per gli “uomini del nostro tempo”, come se qualcuno fosse mai tentato di ricordare nelle sue orazioni gli assiro-babilonesi; o a vivere nel “mondo di oggi”, contro il pericolo di sconfinare inavvertitamente nell’epoca carolingia; o a impegnarci a “essere moderni”, che è un po’ come se una mucca si impegnasse ad avere la coda. Non ci si meraviglia allora di notare che il tema della “vita eterna” si faccia sempre più raro nei discorsi ecclesiastici, dove invece hanno sempre più larga parte le questioni del “tempo presente”. Queste è giusto e doveroso affrontare senza evasioni alienanti, ma non “invece di quella”, bensì “alla luce di quella”: solo con la coscienza sempre pungente della “vita eterna” e della sua impareggiabile rilevanza è possibile “redimere il tempo presente”, ridonandogli senso e spessore.

    Naturalmente non c’è niente di male nell’uso di queste locuzioni, le quali possono anche avere la buona finalità di richiamare il cristiano da un atteggiamento “astratto” e troppo remoto dalle condizioni esistenziali. Ma, considerate come un “vezzo linguistico”, sono la spia di un atteggiamento spirituale indebitamente ossessionato dal culto dell’attualità. Si ha talvolta l’impressione che i credenti si ritengano piuttosto mobilitati a riscattare il tempo presente, non dalla vanità e dalla malizia dei “giorni cattivi” (cfr. Ef 5,16), ma proprio dalla incombenza oppressiva dell’eterno, il quale – se è troppo insistentemente rammemorato – si teme non lasci spazio all’inserimento nel quotidiano. Il caso è preoccupante: quando si scambia il fondamento della libertà con la ragione della tirannia, la medicina con la malattia, la fonte dell’energia con la causa della paralisi, le speranze di sopravvivere sono poche. Di solito, poi, prevaricare nei confronti della fede porta anche ad attentare alla ragione. E in effetti la “cronolatria”, rovesciando la prospettiva cristiana, guasta altresì i meccanismi del raziocinio. ”Lo spirito che si inquieta per la verità e arriva a cogliere la verità, trascende il tempo”.

    Perciò “sottoporre le cose dello spirito alla legge dell’effimero, che è quella della materia e del puro fatto biologico”, vuol dire soffocare la vita stessa dell’anima. Quando resta se stessa e non viene traviata, “la ragione non si preoccupa di essere inserita o di accettare la storia, né allo stesso modo si interessa e si dà pena di essere contemporanea, ma solo di essere ‘ragione’, perciò di essere vera”.

    continua......


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 22/05/2013 09:20
    Le tentazioni di Gesù. Il Re dei cieli sconfigge il principe di questo mondo.

    Le tentazioni di Gesù. Il Re dei cieli sconfigge il principe di questo mondo.

    3. La “cosmolatria”

    Di tutte le idolatrie che ci affliggono, l’adorazione del mondo è senza dubbio la più clamorosa. Oggi uno può impunemente parlare male della Sposa di Cristo senza avere il minimo fastidio ecclesiale; ma se azzarda a scrivere due righe contro il “mondo”, deve aspettarsi almeno qualche tiratina di orecchie anche da parte dei recensori più benevoli e pii.

    Questa “cosmolatria” fa tanto più spicco in quanto stride con tutta la consuetudine linguistica dell’ascetica tradizionale: la “fuga dal mondo”, la “rinuncia al mondo”, il “disprezzo del mondo” dai primordi del cristianesimo fino a pochi anni fa sono, stati temi classici della riflessione e della predicazione; ebbene, di essi nelle comunità cristiane di oggi non si trova più traccia. Al loro posto si propone l’ “inserimento nel mondo” e perfino il “servizio del mondo”. A esaminare con attenzione alcuni testi ecclesiastici recenti (per esempio, alcuni formulari suggeriti da qualche parte per le preghiere dei fedeli) si ha l’impressione che i due vocaboli “mondo” e “Chiesa” rispetto all’uso di prima si siano semplicemente scambiati di senso. Si implora sempre infatti che la Chiesa capisca, riconosca, si converta, abbandoni il suo egoismo e la sua volontà di potenza ecc.; e per contro si prega perché il mondo venga riconosciuto e appagato nelle sue aspirazioni, aiutato nelle sue necessità, esaltato nei suoi valori. Ad ascoltare certe celebrazioni del mondo viene da domandarci perché mai a Gesù Cristo sia venuto in mente di fondare la Chiesa, peggiorando notevolmente le cose. Almeno sul piano terminologico è innegabile la rottura con tutta la tradizione precedente.

    Ma è davvero soltanto una questione di vocabolario? All’origine di questo mutamento c’è la “Gaudium et spes”; ma si tratta della “Gaudium et spes” passata al filtro della ideologia post-conciliare e, così mortificata, acriticamente accolta da molti strati della cristianità. Affrontando il tema dei rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo, il Vaticano II ha compiuto un’opera preziosa di chiarificazione e di illuminazione. Mettendosi nella prospettiva della Genesi e della Somma teologica, vale a dire considerando la natura umana e il mondo in ciò che li costituisce in se stessi, la Costituzione pastorale afferma senza esitazioni la loro bontà radicale e l’invito al progresso che, per quanto ostacolato dall’ambiguità della materia e dalle ferite del peccato, è iscritto nella loro essenza. E mostra, non solo in maniera generale ma con analisi molto accurata e con tutta la generosità che deriva dalla divina carità, come la Chiesa, restando perfettamente nel campo della sua missione esclusivamente spirituale e nell’ambito delle “cose di Dio”, possa e voglia aiutare il mondo e la specie umana nel loro sforzo di avanzare verso i loro fini temporali.

    A dire il vero si trova qui nuovamente affermata la dottrina perenne della Chiesa – ma con connotazioni nuove ed eccezionalmente importanti, dal momento che è riaffermata sotto il segno della libertà – non più per rivendicare il diritto della Chiesa di intervenire ratione peccati nelle cose del mondo al fine di combattere il male (a questo, credo, sarà sempre obbligata, sotto una forma o l’altra), ma per dichiarare il suo diritto, e la sua volontà, di animare, stimolare, assistere dall’alto, ratione boni perficiendi, se posso dire, e senza attentare all’autonomia del temporale, gli sviluppi del mondo verso il raggiungimento di un bene più grande.
    Ma l’ideologia postconciliare, oltrepassando indebitamente questa prospettiva, ha letto il documento come se esso avesse voluto offrire – a proposito delle relazioni tra il “mondo”, di cui si parla ripetutamente negli scritti apostolici, e la Chiesa – un insegnamento in netto contrasto con quello delle pagine di san Giovanni e di san Giacomo.

    Il prevalere di questa ideologia ci spiega come mai in questo tempo di esasperato biblismo ci siano molte frasi del Nuovo Testamento che non si ascoltano mai: è una sorta di censura tacita ma severissima, esercitata sul Libro di Dio. Proprio perché la parola di Dio non sia incatenata (cfr. 2 Tm 2,9), ne trascriviamo un po’ per comodità del lettore.”Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive” (Gv 7,7).
    ”Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv12,31).
    ”Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Gv 14,27).
    ”Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15,18-19).
    ”Quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio” (Gv 16,8).”Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà” (Gv 16,20).
    ”Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 17,9).
    ”Io ho dato loro la mia parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,14).
    ”Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto” (Gv 17,25).
    ”Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui” (1 Gv 2,15).
    ”Il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!” (1 Gv 2,17).
    ”La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui” (1 Gv 3,1).
    ”Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia” (1 Gv 3,13).
    ”Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa é la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5,4-5).
    ”Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno” (1 Gv 5,19).
    ”Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27).
    ”Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio!” (Gc 4,4).
    ”Il mondo con tutta la sua sapienza non ha conosciuto Dio” (1 Cor 1,21).
    ”Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio” (1 Cor 2,12).
    ”La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio” (1 Cor 3,19).
    ”La tristezza del mondo produce la morte” (2 Cor 7,10).
    ”Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14).

    Sappiamo benissimo che, accanto a queste frasi, ci sono nel Nuovo Testamento altre espressioni nelle quali la parola “mondo” indica la creazione di Dio che è buona, e l’umanità che è in attesa della salvezza ed è amata da Dio. Non potremmo non saperlo, perché sono passi che giustamente ci vengono sempre ricordati da tutte le parti; sicché un problema del loro recupero oggi, dopo la Gaudium et spes, fortunatamente non si pone. Si pone invece per quelle che abbiamo sopra elencate: dove è andata a finire tutta questa tematica nella cristianità dei nostri tempi? Anche a supporre che si sia mutato soltanto il linguaggio, sotto quali locuzioni dei nostri giorni questa dottrina si cela? Tutto sembra farci pensare che si tratti non del disuso di una terminologia, ma di un insegnamento esplicito della Rivelazione che non ha più posto nell’odierna riflessione teologica e pastorale.

    Così, privo delle naturali difese immunizzatrici, l’organismo ecclesiale resta pericolosamente esposto al contagio di quella “cosmolatria” che stiamo qui denunciando. Occorre ripartire dal dato rivelato preso nella sua integrità, senza operarvi nessuna aprioristica selezione.

    Una frase del vangelo di Giovanni ci ricorda da sola tutta la multiformità della parola di Dio a proposito di “mondo”.”Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe” (Gv 1,10).
    In due righe il vocabolo compare tre volte e sempre con sfumature diverse.”Era nel mondo”: si riferisce al fatto della incarnazione e alla presenza del Verbo nella realtà creaturale. E’ una indicazione che non implica alcuna valutazione. Nello stesso senso la parabola del seme dice: “il campo è il mondo” (Mt 13,38).
    ”Il mondo fu fatto per mezzo di lui”: qui è implicitamente affermata l’originaria bontà del mondo, e quindi la presumibile disposizione di accoglienza verso il Figlio di Dio. Allo stesso modo è detto che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16).
    ”Eppure il mondo non lo riconobbe”: qui la parola “mondo” esprime il grande enigma della opposizione sistematica, permanente, ineliminabile, nella quale si è imbattuta e si imbatterà sempre l’iniziativa salvifica. E il discepolo di Gesù è ripetutamente ammonito di non perdere mai di vista e non sottovalutare questa tragica realtà.

    Il mondo è dunque o un semplice spazio o una realtà nativamente buona ma da redimere o una forza malvagia che resiste alla redenzione e cerca di vanificarla. Nessuna di queste tre verità va trascurata Ciò che non c’è nel Nuovo Testamento è l’idea che la Chiesa debba essere istruita, illuminata o addirittura salvata dal mondo. Neppure c’è l’idea che il mondo sia realtà così buona e santa da non aver bisogno della restaurazione di Cristo, attualizzata nella Chiesa. Chi muove dalla pur giusta convinzione dell’intrinseco e inalienabile valore delle cose, create da Dio e da lui riconosciute come “buone” (cfr. Gn 1), e ritiene che qui si esaurisca quanto il cristiano ha da dire sul “mondo”, rischia obiettivamente di non riconoscere la presenza attiva e continua del male, di banalizzare la redenzione e di rendere superflua la croce di Cristo. Molti atteggiamenti rilevabili nei cristiani di oggi nei confronti del “mondo” sarebbero plausibili in un ordine di cose di incontaminata innocenza; un ordine bello in sé e desiderabile, che però non esiste. L’irenismo a ogni costo nei confronti di tutto e di tutti è forse una nostalgia per la pace del Paradiso terrestre (dove per altro non mancava il serpente); o, se si vuole, è un’abusiva pregustazione dello stato d’animo che ci rallegrerà nell’eterna Gerusalemme: rispetto al tempo di lotta che stiamo vivendo è una indebita anticipazione.

    Il “servizio del mondo”. Parrebbe anche utile una breve riflessione circa il “servizio del mondo”, che ci viene indicato spesso come dovere della Chiesa e dei credenti. L’affermazione è carica di ambiguità e, se non è chiarita, può alla lunga provocare una visione distorta dell’impegno cristiano. Gli equivoci possibili sono due: sul concetto di “mondo” e sul dovere del “servizio”. Per “mondo” qui si può intendere solo l’umanità che – dolorante, sviata, senza luce – è in attesa della salvezza. Non certo il “mondo” per il quale il Signore non ha pregato e che poi dalla parola di Dio siamo invitati a odiare; della cui oscura esistenza non dobbiamo mai dimenticarci.

    E il “servizio” più urgente e necessario che può essere reso agli uomini decaduti e infelici è l’annuncio del Salvatore e del progetto d’amore che il Padre ha pensato per noi: questa é la vera “promozione umana”, che poi diventa la molla propulsiva di ogni altro “progresso” nel benessere, nella pace sociale, nella giustizia terrena. Va anche detto che l’unico a dover essere propriamente e direttamente servito da noi è il Figlio di Dio, Gesù Cristo. “Ci sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore” (1 Cor 12,5). Nessun altro può essere riconosciuto come padrone. Vero è che l’unico nostro Signore si è fatto “servo” di tutti: e noi, se vogliamo veramente e concretamente servirlo, dobbiamo servirlo anche associandoci a lui in questo servizio degli altri e attendendo dunque alle necessità reali di tutti. La delucidazione, che può sembrare sottile e puntigliosa, è invece essenziale: noi, servi di Cristo, diventiamo in lui servi degli uomini; ma non per questo siamo tenuti a dare agli uomini sempre ciò che a loro piace o che da noi essi si aspettano. Noi abbiamo il “foro”.

    Un secondo esempio significativo è dato dal fenomeno del monachesimo, che, chiudendosi nel microcosmo del monastero per inseguire l’ideale di una vita evangelica perfettamente coerente, di fatto ha contribuito in modo determinante al sorgere della nuova Europa. È curioso notare nella storia ecclesiale che il programma spirituale e culturale della “fuga dal mondo” di solito riesce ad animare un’azione incisiva nella società e a riplasmarla effettivamente alla luce del Vangelo. Basti pensare all’incidenza nella realtà sociale e politica del suo tempo di sant’Ambrogio, che pure ha scritto un De fuga saeculi e teorizza continuamente nei suoi scritti l’urgenza della solitudine.





       continua........


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    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 22/05/2013 09:21
    Su divorzio, aborto, eutanasia, omosessualità, etc... dobbiamo e vogliamo essere "integralisti".

    Su divorzio, aborto, eutanasia, omosessualità, etc… dobbiamo e vogliamo essere “integralisti”.

    4. La “schizolatria”

    La quarta “latria” nasce ed è alimentata da una “fobia”. La paura ossessiva dell’integralismo – cioè dell’abitudine mentale a risolvere tutti i problemi umani di ogni ordine e grado deducendo immediatamente le soluzioni dai princìpi di fede – induce alcuni incauti al culto esasperato della divisione degli ambiti e alla esaltazione della totale impermeabilità tra un piano e l’altro dell’impegno umano. Alcune annotazioni si impongono a questo proposito.

    L’inerzia mentale, lo schematismo linguistico, l’incapacità a seguire l’effettivo succedersi dei mutamenti culturali cospirano a tenere nascosto agli occhi di molti il fatto che un integralismo cattolico – che pur ha avuto una sua lunga e deleteria stagione – oggi non esiste più se non in frange trascurabili della cristianità. È morto da un pezzo, anche se il suo fantasma è continuamente evocato da alcuni sprovveduti e da molti interessati. A lottare contro le ombre non c’è pericolo di farsi male, e perciò sono numerosi i prodi che si slanciano in queste battaglie. Per contro esistono – graffianti, acritici, sicuri di sé – altri integralismi di vario colore: c’è un integralismo marxista, un integralismo radicale, un integralismo laicista, un integralismo liberale, perfino un integralismo mazziniano. Ogni “parrocchia” politica in Italia ritiene di avere una concezione totalizzante della realtà, in grado di portare luce su ogni questione, ivi comprese quelle che si riferiscono alla coscienza morale, ai contenuti dell’impegno religioso. alle forme di esercizio del, magistero ecclesiale.

    Tutte queste “parrocchie” si adoperano a tenere viva la fobia dell’integralismo cattolico; e il più delle volte viene contrassegnato con questa etichetta ogni desiderio di coerenza cristiana ed è condannata a questo titolo ogni determinazione di irradiare la fede nella cultura e nella vita. Né c’è da stupirsene; stupisce piuttosto che questo tipo di intolleranza trovi consensi in molti credenti anche sinceri. Ma la schizolatria è soprattutto un attentato alla retta visione cristiana della realtà. Essa sembra dimenticare totalmente l’esistenza di un solo Signore, nel quale, per mezzo del quale, in vista del quale tutto esiste, sia nell’ordine della redenzione sia nell’ordine della creazione.

    Conseguentemente colpisce al cuore l’unità del piano divino e la stessa ultima intelligibilità di questo universo di fatto esistente. Ci sia consentito riprodurre qui alcune pagine lucidissime di Inos Biffi, meritevoli di rilettura e di approfondita meditazione. ”Il primo punto di partenza non esatto è la suddivisione, anzi la distinzione tra piano creaturale / o di natura, e piano redentivo / o della grazia. Questa distinzione, che per qualcuno arriva persino alla separazione, non è teologicamente accettabile e proponibile. Essa viene a misconoscere il dato primo dell’attuale e concreto ordine di realtà: ed è il progetto originario, assoluto e totalizzante – su cui abbiamo già insistito – consistente nella predestinazione dell’uomo e dell’universo in Gesù Cristo risorto da morte.

    E’, indubbio che Dio avrebbe potuto concepire un altro ordine di provvidenza; è indiscutibile che solo la fede – che fa uditori della Parola – trasmette integralmente questo disegno originario di fronte al quale tutti gli altri sono ipotetici: ma questo è in ogni modo un fatto, fuori del quale esiste solo, obiettivamente, la non esistenza o l’ipotesi. Una teologia corretta non accetterà mai un ordine naturale e ad esso giustapposto un ordine soprannaturale concretamente esistenti e che si tratterebbe di tenere uniti. E di conseguenza: una specie di natura-ragione neutra, valida per tutti, non riferita a Gesù Cristo, di “pura” entità “creaturale” (ossia dipendente dalla pura creazione). Ne deriva che, se per mediazione si dovesse intendere l’atto di chi si sforza di mettere insieme tali due ordini inizialmente separati, essa è semplicemente scorretta e impossibile.

    Purtroppo ci è dato di constatare che un certo linguaggio e certe impostazioni concettuali traducono esattamente questa inconsistente dicotomia. Manca un pensiero che traduca, oltre la cultura religiosa e storica, una dottrina teologica criticamente fondata. La verità è un’altra: nel disegno originario in Gesù Cristo è compresa la “ragione”, la “filosofia”, l’incontrovertibilità, dell’essere e vi è compresa non come sostituibile dalla fede, ma nella sua specificità. Per il fatto di essere creata in Gesù Cristo la ragione non smette di essere tale: l’accoglienza per fede del disegno divino in Cristo non la degenera e non la umilia. Per poter giustamente parlare di mediazioni bisogna uscire da questo equivoco. Il cristiano va anche più avanti: egli intende la grazia non solo non adulterante, ma di fatto sanante la ragione: la redenzione in certo modo rende la ragione a se stessa. Un secondo punto di partenza non esatto sarebbe quello di porre da un lato il dato della fede, dall’altro il dato della storia, e quindi della temporalità, della politica, come se alla fede non appartenesse la storicità, la politicità, in una parola sola: l’antropologia filosofica. Ci sono dati di intelligibilità e di struttura antropologica la cui mortificazione significherebbe la mortificazione dello stesso disegno originario.

    Il cristiano non prende a prestito dalla filosofia pagana-neutra la dimensione razionale dell’uomo: piuttosto, eventualmente, riconosce che al di fuori dell’orizzonte della fede consapevole esistono valori obiettivamente appartenenti al piano di salvezza, il quale non si separa e non si distingue affatto – in concreto! – dal piano “creaturale” come abbiamo ora detto. Facendo storia, cultura, politica, ecc., il cristiano non fa altro che rilevare e determinare una dimensione del contenuto della sua fede, mettendo in atto la razionalità che è un reale ingrediente del disegno divino: un ingrediente che richiede riflessione, ricerca, confronto; che conclude a gradi più o meno di certezza, che lascia spazi di ipoteticità e margini di pluralismo. Se è vero in un certo senso che non c’è passaggio diretto dalla fede alla politica, è altrettanto vero che la politica mette in opera elementi che non sono discordi o àlteri rispetto al piano integrale originario. S’è parlato, con preciso fondamento, di “umanesimo integrale”. Occorrerebbe più compiutamente parlare di “cristianesimo integrale”. Ancora: si è detto – e giustamente in una determinata prospettiva – che si deve distinguere per unire: nella nostra prospettiva va detto che si deve “distinguere nell’unito”.

    Una mediazione che fosse configurata come lo sforzo o l’impegno di tenere insieme la salvezza e la storia, il vangelo e la politica, come se fossero costitutivamente separati, è una pura ideologia, in quanto immagina radicalmente fuori il secondo versante dall’ordine salvifico; oppure m quanto si rappresenta piuttosto miticamente la storia come entità a sé da ‘battezzare’. L’originario costitutivo impone una filosofia, con le sue proprietà caratterizzanti: essa è un compito del credente – e ognuno, dotto o indotto, la pone, sia pure con diversa teorizzazione. È vero che il cristianesimo non può fare a meno della filosofia, ma il motivo è perché l’uomo creato da Dio in Gesù Cristo è un essere “filosofico”, con quel che ne consegue”.

    5. La “bibliolatria”

    Il culto della Sacra Scrittura, la riscoperta del suo valore vitale, gli studi di cui è fatta oggetto rappresentano certamente una preziosa conquista del nostro tempo. Possiamo anzi dire che ancora non è letta, meditata, amata abbastanza dai cattolici: è augurabile che si abbia a progredire su questa strada a passo più spedito e con animo più risoluto. Pure c’è qualcosa che ci inquieta nel modo attuale di accostarci al Libro di Dio e ci spinge a formulare alcune osservazioni, che proponiamo candidamente trascurando il rischio non ipotetico di essere fraintesi e mal giudicati. Noi non siamo il “popolo del Libro”; a rigore non siamo neppure il “popolo della Parola”: siamo il “popolo dell’avvenimento”.

    La Parola di Dio risuona all’interno dell’evento salvifico e, rendendolo non solo un fatto ma anche una illuminazione, non solo una “res” ma anche un “signum” eloquente, non solo un “mistero” ma anche un “evangelo”, lo offre alla nostra contemplazione perché la contemplazione ci porti alla partecipazione intera della vita. La “pagina sacra” è il mezzo privilegiato con cui possiamo arrivare alla “Parola” per nutrircene e vivere con intelligenza nell’evento. Non è dunque un assoluto, ma è ordinata all’avvenimento. L’avvenimento resterà nel Regno eterno, quando la Bibbia non avrà più sussistenza e valore. Per circa un secolo la Chiesa non ha avuto un canone dei libri sacri cristiani, senza che per questo potesse dirsi manchevole di qualche elemento essenziale.

    Anche quando i vangeli non erano ancora stati scritti né erano state ancora raccolte le lettere degli apostoli, la Parola di Dio risuonava con tutta la sua forza nella Chiesa e la salvezza era presente e operante. Chi si colloca integralmente all’interno dell’avvenimento, si pone nelle condizioni di leggere giustamente la Sacra Scrittura e di coglierne il senso ultimo. Chi non si colloca integralmente, o almeno non con sempre rinnovata coscienza, all’interno dell’avvenimento, per quanto numerose, erudite, scientificamente vagliate si facciano le sue citazioni è sempre in pericolo di rimanere all’esterno del Libro di Dio e di non gustare la sua saporosa sostanza. A cominciare dal demonio, che nelle narrazioni sinottiche appare bravissimo nell’addurre i passi ispirati a sostegno delle sue argomentazioni, la storia delle aberrazioni teologiche è caratterizzata dall’abbondante ricorso da parte degli eretici ai testi scritturistici. E per la verità anche ai nostri giorni assistiamo talvolta ad “alluvioni” di frasi bibliche che nascondono una fondamentale infedeltà alla Parola di Dio.

    Ma c’è una insidia più subdola e perniciosa: l’uso abbondante e quasi ossessivo della Bibbia – staccato però dalla consapevolezza sempre richiamata dell’avvenimento salvifico, il quale include anche la Sacra Scrittura e la trascende – può condurre a una visione meramente “culturale” del cristianesimo e rendere l’atto di fede non più un “assenso reale” ma un puro “assenso nozionale” mentre – come splendidamente dice san Tommaso, “actus credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem”: l’atto di fede non ha come suo ultimo approdo una serie di nozioni ma una realtà.
    La distinzione tra “assenso nozionale” e “assenso reale” è uno dei concetti fondamentali della Grammatica dell’assenso, di J.H. Newman.

    In realtà, in campo teologico la questione è ancora più seria di quel che per il campo pastorale abbiamo qui cercato di dire. Il pericolo sta nell’insensibile ma sempre più vasto affermarsi della tendenza (crediamo non pienamente consapevole) a considerare la “res” – attinta nell’atto di fede, quando l’atto di fede c’è veramente – scientificamente inconoscibile come il “noumeno” kantiano, e quindi non più oggetto di attività teologica, la quale si esercita soltanto sul “fenomeno”. Di qui la risoluzione della teologia nell’esegesi, e poi anche nella storiografia, nella metodologia, nello studio delle mediazioni con le filosofie contemporanee, nella psicologia religiosa, nella sociologia religiosa ecc. Sventurato quel teologo o quell’esegeta che, pensando a Gesù Cristo, primariamente e come d’istinto si richiama a un personaggio della catechesi sinottica o a un tema della speculazione di Paolo, e non al Salvatore che si rispecchia sì nei Libri sacri ma soltanto in quanto antecedentemente a tutto esiste in sé, fuori e prima di ogni testimonianza, come qualcuno che vive.

    Un uomo dal semplice cuore cattolico, alla domanda: “Dov’é Gesù?” risponde in modo del tutto ovvio e naturale: “In cielo alla destra del Padre e in chiesa nel tabernacolo”, senza che gli passi lontanamente per la testa di tirare in campo la Sacra Scrittura. Questo, per lui, è l’indirizzo di una persona reale e concreta. Guai se l’interrogazione cominciasse ad avere come risposta: “Si trova nel vangelo di Luca, nel ‘corpus’ giovanneo, nella lettera agli Ebrei”; cominciasse cioè ad avere come risposta l’indicazione di un “luogo” letterario.
    Nei modi aberranti che qui si sono descritti la Sacra Scrittura diventa non, come deve essere, una forma eccezionale di accostamento al mistero che trasforma e ci salva, ma un diaframma tra noi e il Signore Gesù. Così sarebbe un “idolo”. Da questo ” idolo ” deve essere purificato il santuario del nostro cuore e il “tempio” della comunità cristiana radunata in Cristo e offerta al Padre dall’impeto dello Spirito.

    Il più cattolico dei cardinali italiani.

    Il più cattolico dei cardinali italiani.

    Alcuni segni di sanità teologica e pastorale

    La rassegna delle più diffuse “idolatrie” non deve indurci a credere che tutto sia traviato nella cristianità e non ci siano più veri adoratori del Dio vivo. Bisogna anzi riconoscere che lo Spirito Santo è all’opera oggi più che mai e riesce coi suoi inattesi prodigi ad alleviare gli effetti nefasti di una insipienza ecclesiale che ha raggiunto ai nostri giorni vertici di eccezione. E così le comunità cristiane, svigorite e disanimate da un’acutissima mondanizzazione, ricevono vitalità e conforto dall’incontro con persone, gruppi, movimenti che, con varie forme e colorazioni spirituali diverse, sinceramente si determinano a una generosa adesione all’Evangelo e a una totale partecipazione all’evento salvifico.

    Il fenomeno, che complessivamente è stato una felice sorpresa dopo lo squallore di un secolarismo arido, chiassoso, senza futuro, è composito, agitato, confuso e solleva il problema di una giusta analisi e di una pacata valutazione. Da quali segni possiamo riconoscere, nella concretezza di questo momento storico, la sanità teologica e pastorale delle forze che vanno via via affiorando nel mondo cristiano? Dopo l’esperienza di questi decenni e dopo una lunga riflessione, ci parrebbe di poter suggerire, come contributo a un discernimento che non sia astratto e puramente nominale, l’attenzione a tre note caratteristiche. Non sono certo le sole che si richiedono né forse le più importanti in assoluto, ma sono quelle che più possono aiutare nell’ora presente.

    La prima è il sentimento acuto della distinzione tra il bene e il male, la consapevolezza che tra il bene e il male è in atto una lotta irriducibile e la persuasione che in questo scontro – che è ancora in atto e lo sarà fino alla venuta del Signore – ciascuno di noi è chiamato a combattere nelle forme e secondo le possibilità che di fatto gli sono date La seconda è la convinzione che Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, è il Salvatore del mondo e non colui che deve essere salvato dal mondo. Egli è il vincitore, e noi dobbiamo essere la sua vittoria. Perciò a lui – e quindi al cristianesimo – è necessario ricorrere perché l’uomo viva, cresca, emerga dalle sue contraddizioni e dalle sue schiavitù. Inversamente, non si arrivi mai a pensare che solo l’apporto di estranee culture possa consentire a Cristo di essere ancora vitale e al cristianesimo di essere ancora accettabile ai nostri tempi (1). La terza è la percezione della bellezza della Chiesa e l’ammirato stupore per questo capolavoro dell’amore del Padre; o almeno la certezza di fede che la Chiesa è la realtà più bella, più santa, più nobile che l’infinita potenza di Dio di fatto ha ricavato dalla nostra terra polverosa e dalla nostra umanità disastrata.

    NOTE
    (1) La retorica circa il “dialogo” e il “confronto” – che sono attitudini lodevoli in se stesse, quando non diventano i nuovi nomi del cedimento e della mondanizzazione – ha innegabilmente contribuito a una “smobilitazione generale” dei cristiani, che ha pochi precedenti nella storia. Anche l’uso acritico e indiscriminato di alcune frasi, che adoperate a proposito hanno una loro validità, ha contribuito al diffondersi dello spirito di resa o almeno alla confusione. Ne citiamo qualcuna, per non restare nel vago.

    • “Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante”. Principio giustissimo, ma da applicarsi con due avvertenze: che di fatto l’affermazione non si traduca nel non distinguere più tra l’errore e la verità; che ci si renda conto che, se la condanna dell’errore non deve restare un’inutile astrazione, il popolo cristiano va messo in guardia anche da colui che di fatto semina l’errore, naturalmente senza cessare di volere il suo vero bene e lasciando sempre a Dio il giudizio sulle intenzioni profonde delle persone.
    • “Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide”. Questo principio vale solo in proporzione alla vastità e all’importanza di ciò che ci unisce e all’esiguità di ciò che ci divide. Quando si ha la stessa fede nella Trinità, in Cristo, Figlio di Dio, crocifisso e risorto, nella vita eterna, è del tutto insipiente litigare su quando e come vada cantato l’alleluia. Ma quando la divisione verte sulle questioni sostanziali, il volerla accantonare e quasi dimenticare vuol dire snaturarsi nel profondo e perdere la propria identità; così l’ecumenismo diventa davvero, come amaramente è stato detto, una “comune apostasia”.
    • “La Chiesa deve diventare credibile”. Così come suona, il concetto è mal formulato e inaccettabile, perché fa delle esigenze e delle persuasioni degli uomini il metro per giudicare l’azione e la realtà dei cristiani, mentre l’unico metro resta il Signore Gesù e la sua verità. La Chiesa deve sforzarsi di essere sempre più credente; in tal modo diventerà sempre più credibile agli occhi dei non credenti ben disposti, che ricercano la verità, e sempre più incredibile agli occhi dei non credenti che non hanno nessuna voglia di credere.
    • “Bisogna guardarsi dai profeti di sventura”. Se la frase vuol dire di evitare coloro che tentano di uccidere le ragioni della speranza cristiana – tra le quali emergono l’esistenza di Cristo vivo e Signore, e l’inalienabile bellezza della Chiesa – allora è giusta e da approvare. Se vuol dire che bisogna sempre dire a tutti i costi e per tutte le circostanze che tutto va bene, allora è smentita dalla parola di Dio. Di solito i veri profeti sanno annunziare anche il dolore e sanno denunziare il male; gli annunziatori di facile allegria, di tranquillità senza lotta, di immancabile benessere, nella Bibbia sono i falsi profeti (cfr. Ger 14,13-16; 23,17; 27,9-10).
    • “Non bisogna essere manichei”. Il manicheismo consiste nel credere all’esistenza di due princìpi assoluti, due dèi, uno del bene e uno del male; il manicheo non crede quindi al Dio buono, creatore di tutto, né alla sua vittoria finale. Questa è un’aberrazione da condannare. Definire manicheo invece chi vuol distinguere tra il vero e il falso, tra il buono e il cattivo, tra il giusto e l’ingiusto, tra ciò che è conforme alla volontà di Dio ed è perciò da seguire, e ciò che è difforme ed è perciò da respingere, è un modo truffaldino di combattere il cristianesimo dandogli prima una falsa e infamante etichetta.

    GIACOMO BIFFI, La bella, la bestia e il cavaliere. Saggio di teologia inattuale, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 20-41.









    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 28/05/2013 22:44
    La monumentale omelia di S.E. mons. Negri al Pellegrinaggio emiliano-romagnolo dei “Summorum Pontificum”
    Omelia tenuta da S. Ecc. Mons. Luigi Negri
     alla S. Messa solenne in Forma Extraordinaria del Rito Romano
     il giorno di Pentecoste (19 maggio 2013)
     per il Popolo Summorum Pontificum
     al Santuario della Madonna del Poggetto

    http://www.missagregoriana.it/?p=1335


    mons. Luigi Negri

    La S. Messa secondo il rito antico è celebrata oggi nella grande Solennità di Pentecoste, che ricorda alla Chiesa di ogni tempo, di ogni momento, e quindi ad ogni cristiano, che l’avvenimento della Fede e quindi lo svilupparsi della Fede in una vita di comunità e in una vita di comunione, in una pratica della carità, in un esercizio attivo della missione, tutto questo nasce dal miracolo dell’effusione dello Spirito Santo nel cuore dei fedeli, che è dono purissimo del Signore!

    Il Santo Padre Benedetto XVI, in un intervento mirabile tenuto durante il Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione – a cui ebbi l’onore di partecipare, invitato personalmente da Benedetto XVI – disse, “la Chiesa non nasce per una decisione della base. La Chiesa non nasce da nessuna assemblea costituente.” La Chiesa nasce per opera dello Spirito Santo, che cambia il cuore degli uomini e li identifica con il Cuore stesso di Dio. È lo Spirito del Signore crocifisso e risorto. È il suo modo di sentire la vita, il suo modo di giudicare l’esistenza, il suo modo di rapportarsi agli uomini. È la novità del suo essere e del suo esistere che è passata in maniera, come dire, dirompente nella vita di una comunità che certamente era in preghiera, attendendolo, ma che non poteva assolutamente presumere di entrare nella modalità e nel contenuto del grande evento di cui sono stati spettatori e sono diventati protagonisti. Lo Spirito cambia il cuore dell’uomo, il suo modo di essere, il suo modo di agire e il suo modo di sentire l’esistenza. Prosegue nel mondo l’Umanità di Cristo: la Chiesa che nasce dallo Spirito si mantiene viva nello Spirito, si comunica agli uomini attraverso lo Spirito. Questa Chiesa è il volto definitivo che nella storia assume il Signore Gesù Cristo!

    Noi abbiamo questa altra grande e definitiva eredità: quella di partecipare veramente al mistero della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, di viverla con verità nella nostra vita di ogni giorno, nella buone e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia, nella gioia e nel dolore come dicono i protagonisti del grande Sacramento ecclesiale che è il Matrimonio. Io credo che questo situi la vostra lodevole iniziativa del Pellegrinaggio, con questa Messa, nel suo contesto vero. Io mi auguro e vi auguro che questa celebrazione eucaristica nel giorno della Pentecoste serva a ciascuno di voi – come penso e spero sia servita a me – per ritrovare il calore degli inizi, il calore dell’evento della Chiesa generato dallo Spirito Santo. La grandezza dell’evento della nostra missione è quella di farci apprendere questa novità e non tenerla ciascuno per sé ma di diffonderla a tutti gli uomini.

    Ho partecipato ieri alla Veglia di Pentecoste che il Papa Francesco ha tenuto con oltre 150.000 giovani delle varie realtà ecclesiali. A un certo punto il Papa ha detto con il suo stile sincero e spigliato fino a una durezza cui non si era abituati: “la Chiesa non deve stare dentro di sé”. Non deve chiudersi in sé. Se si chiude in sé si ammala. La Chiesa deve uscire da sé, non abbandonando la sua identità, ma per vivere la sua identità, perché l’ambito vitale della Chiesa è la missione e occorre dunque che la Chiesa esca da sé e vada verso gli uomini, visitando tutte le periferie dell’esistenza dell’uomo d’oggi.

    Quindi la Pentecoste vi consegna la missione ecclesiale. Vi consegna il vanto dell’essere testimoni di Cristo risorto fino agli estremi confini del mondo, generatori – lo dice Sant’Ireneo in un brano formidabile – resi capaci di essere generatori dei figli di Dio. Di fare degli uomini dei figli di Dio.

    Mi è già accaduto, pure in questi pochi mesi del mio servizio episcopale qui, di chiarire quali sono i termini della vita e della missione. Non posso e non debbo in questo momento di saluto rievocare tutto, ma a mio parere è importante situare questa celebrazione sotto il volto e lo sguardo tenero e forte di Maria e situarla come un evento di grazia e di responsabilità. Il Cristianesimo è un evento di grazia perché ci è donato integralmente e nessuno può dire, “ho diritto”. Non avevamo diritto alla Fede. Non avevamo diritto all’Incarnazione del Figlio di Dio. Così ricordiamo qualche volta i nostri “fedeli” che vengono a chiedere o a pretendere i Sacramenti: loro non hanno alcun diritto sui Sacramenti. I Sacramenti sono un dono che la Chiesa ha ricevuto dal Signore Gesù Cristo e la Chiesa li consegna a coloro che sono nella condizione di assumerli in maniera adeguata. Mi riferisco alla questione assolutamente inconsistente – dal punto di vista teologico e pastorale – del “diritto” dei divorziati risposati a ricevere l’Eucaristia.

    Allora, questa grazia della Chiesa voi la vivete nel punto sorgivo della Fede, che è l’Eucarestia, la celebrazione liturgica. Voi la attingete per la prudente e grande misericordia centrale di Benedetto XVI. Potete assumerla utilizzando uno dei due grandi tesori della liturgia della Chiesa: la liturgia tradizionale. Non alternativa alla liturgia riformata del Concilio Vaticano II, ma che vive con piena dignità, con piena fisionomia, con piena libertà e con piena responsabilità accanto alla liturgia riformata. Benedetto XVI l’ha detto con mirabile chiarezza nel Motu Proprio. Ha voluto ampliare la possibilità di vivere la ricchezza della liturgia della Chiesa; perciò ha chiesto a tutta la Chiesa, cominciando dai Vescovi, di essere rispettosi di questo suo intendimento di allargare i tesori della Chiesa, concedendo a chi ne sente legittimamente il desiderio di favorire il diritto di poter accedere a questo tesoro “antico” e di viverlo con pienezza nella contemporaneità per la verità della Fede di oggi e della missione di oggi. Il Papa ha così certamente superato quella contraddizione spuria e inaccettabile fra “antico” e “presente”, rompendo e superando quell’ermeneutica della discontinuità per ciò che viveva prima del Concilio e ciò che ha annunziato il Concilio e ciò che l’attuazione del Concilio ha faticosamente portato al vivere attuale. C’è un’unica Chiesa del Signore, cui lo Spirito ha dato da vivere momenti diversi; il Concilio Ecumenico Vaticano II è stato un momento di straordinaria importanza, anche se di grande sfida per la crescita della Chiesa.

    Allora voi utilizzate – e io sono lieto che lo facciate anche in questa Diocesi della quale sono Arcivescovo da pochi mesi – questa liturgia. Non contro qualcuno, o per affermare opinioni, ma per vivere il mistero della Chiesa secondo la profondità e la verità con cui sentite il dovere e il diritto di vivere. E la Chiesa rende possibile anche questo. Benedetto XVI – io non sono una persona che usa le parole per modo di dire – Benedetto XVI ha usato una misericordia pastorale mettendo a servizio della Fede dei singoli Cristiani o dei piccoli gruppi che potrebbero anche non essere identificati strettamente dal punto di vista numerico: i “coetus” sono tutti quei fedeli che hanno il diritto e il dovere di poter accedere a questa liturgia. L’avete fra le mani; la Chiesa vi consente di introdurla con piena libertà. Non potrà esserci nessuno, nessuna Diocesi in Italia o nel mondo che vi dica di no. Nel momento in cui ci dovesse essere un solo “no”, il Vescovo deve essere chiamato in causa. Prima di allora, il dialogo fra i fedeli che vogliono la liturgia antica e la Chiesa è un dialogo tra fedeli e il Sacerdote che si sente di aiutarvi in questo vostro esercizio e questa vostra volontà di partecipare a questo rito antico e bellissimo che – certamente esige per una partecipare adeguata una corrispettiva preparazione che certamente voi avrete. Io penso che perché diventi un’esperienza per i tanti che non la conoscono occorra un periodo di formazione e di preparazione. Io ho tentato di attuare il Motu Proprio in una Diocesi piccola com’è quella di San Marino-Montefeltro senza particolari reazioni. Lì dove ci sono state invece le ho raccolte in una relazione al Santo Padre esprimendo come era stato gestita la situazione, anche perché mancavano le linee attuative arrivate più di due anni dopo. Io ho ricevuto una breve lettera personale da Benedetto XVI che ha lodato il modo con cui senza tensioni la Messa antica era stata riportata nella Diocesi di San Marino-Montefeltro. Praticate la liturgia antica per voi. Per la verità della vostra Fede. Per la verità della vostra Carità. Per l’impeto della vostra missione. Come quelli che la devono praticare con la liturgia riformata per la verità della loro Fede e la loro Carità: sono due tesori che servono ad un unico popolo. E quest’unico popolo maturo si alimenta della Fede proprio se sa vivere la libertà che la Chiesa concede. La libertà liturgica che, in questo caso, la Chiesa non solo concede ma garantisce.

    Non abbiate delle opinioni da difendere o da opporre agli altri. L’Arcivescovo di Ferrara-Comacchio non è custode di nessun’opinione e non è propagatore di nessun’opinione. L’Arcivescovo di Ferrara-Comacchio ha una sola opinione: la verità del Signore, il Vangelo, la Tradizione della Chiesa, il Magistero del Santo Padre ed il Suo proprio sempre in collegamento con quello del Santo Padre. Questo è lo spazio entro cui Benedetto XVI l’ha concesso. Io sono stato tra i Vescovi (devo dire la verità, non moltissimi) che hanno guadagnato da tutto questo un approfondimento della propria identità in merito all’esperienza di Dio. È una grandezza, non soltanto per coloro che lo praticano, ma è una grandezza per tutta la Chiesa.

    Per questo – e concludo – dovrete sempre cercare il massimo di adesioni alla vita della comunità ecclesiale. Questa pratica non vi sottrae dalla vita della comunità ecclesiale né tanto meno dalla faticosa ma altrettanto bella realizzazione della comunione. In questa nostra terra la vita ecclesiale è fortemente impegnata nella lenta ma inesorabile fatica di emergere dalle rovine materiali che sono state una grande sfida, come ho scritto, a recuperare la Fede e la Carità. Io sono calato nel clero di questa Diocesi e ho visto che ci sono tanti laici che non si sono fatti mettere in crisi dalle vicende del terremoto di un anno fa, che ha reso impraticabile centinaia di chiese. Esso li ha costretti e ci costringe ancora a vivere l’Eucarestia ancora in luoghi di fortuna o nelle sale in cui le comunità sono ospitate o celebrandola nei pochi luoghi risparmiati dal terremoto. Il terremoto ha distrutto le case e le chiese. Non ha distrutto la Fede. Su questa Fede contiamo di riprendere. Purtroppo dobbiamo sperare anche nelle istituzioni pubbliche, che fino ad ora non hanno dato grande prova di tempestività, ma la prima risorsa che abbiamo è la nostra esperienza di Fede. Siamo tutti dentro un’unica Chiesa: perciò, anche in quest’esperienza particolarissima e bellissima che vivete, dovete cercare di vivere ogni giorno di più come membra vive della Chiesa, partecipando all’unico Sangue e all’unico Corpo del Signore di modo che, crescendo in voi la Fede, la Speranza e la Carità, siate membra vive di questa Chiesa nel mondo.

    Vi seguo con affetto. Vi incoraggio nel vostro cammino. Vi chiedo quella sana umiltà che Papa Francesco, prima di chiederla alla sua Chiesa, testimonia ogni giorno con la sua presenza e col suo modo d’essere. Non abbiate altra preoccupazione se non quella di vivere nel profondo quel che la Chiesa ha concesso per il bene vostro e di tutta la Chiesa. Siate certi che non vi mancherà mai né la mia accoglienza né il mio sostegno. La mia correzione, se fosse necessario, come per ogni comunità qualora questo mio compito si dovesse esprimere, ma suppongo che non avverrà mai! Proseguite con questa S. Messa che non ho voluto interrompere. Intendo perciò sottolineare che non ho potuto partecipare in toto alla pregevole iniziativa solo perché mi attendevano e ancora mi aspettano gli impegni diocesani legati alla solennità odierna.

    Ora, perché il vostro cammino sia chiaro e sicuro abbracciate la verità, dono del Signore che lo Spirito Santo fa a tutta la Chiesa e che il Vescovo custodisce, protegge e comunica. Pregate ora per me, per questa non lieve fatica che mi sento sulle spalle e che verso la fine della mia vita ho inteso assumermi come ubbidienza al Vicario di Cristo, che mi ha chiesto con un’insistenza che ha tolto ogni possibilità di resistenza.

    Auguri a tutti!







    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Caterina63
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    00 02/07/2013 14:22

      Il cardinale che si oppone alla corte suprema

    Per Camillo Ruini la sentenza americana contro il matrimonio soltanto tra uomo e donna è l'illusione che pretende di negare la realtà. Il futuro appartiene a chi sa difendere l'essere umano autentico. Le unioni civili tra omosessuali: un compromesso "inutile e dannoso"

    di Sandro Magister




    ROMA, 1 luglio 2013 – A cinque giorni dalla deflagrante sentenza della corte suprema degli Stati Uniti contro la creaturale differenza di sesso tra uomo e donna, ancora il pastore supremo della Chiesa cattolica non ha proferito verbo.

    È sempre possibile che lo faccia dopodomani, nel corso della settimanale udienza pubblica del mercoledì, o in un altro momento successivo.

    Ma visto il personale riserbo con il quale ha affrontato questo e altri temi analoghi a forte impatto politico nei primi cento giorni del suo pontificato, in linea generale Francesco sembra preferire che su questi temi siano i vescovi di ciascuna nazione a parlare. In questo caso, in primo luogo i vescovi degli Stati Uniti, notoriamente tra i più battaglieri, come hanno mostrato fin dalle prime reazioni alla sentenza.

    Che questa sia la linea dell'attuale pontificato, sui principi che Benedetto XVI definiva "non negoziabili" perché inscritti nella natura stessa dell'uomo, è per ora più un'ipotesi che una certezza.

    In ogni caso, nel perdurante silenzio della cattedra di Pietro, alcuni vescovi e cardinali si sentono oggi ancor più tentati che in passato di distanziarsi dal magistero della Chiesa quale espresso dai due precedenti pontificati, ad esempio esprimendosi a favore della legalizzazione delle unioni tra omosessuali:

    > Diario Vaticano / Sei voti in più per le unioni "gay"

    E il fatto che tra costoro ci sia il presidente del pontificio consiglio per la famiglia, monsignor Vincenzo Paglia, è indicativo di come la curia vaticana sia un serio problema molto più per la confusione di alcuni suoi membri che per l'inadeguatezza di certe sue strutture.

    *

    Tra i cardinali e vescovi non degli Stati Uniti, uno che dopo la sentenza della corte suprema americana del 26 giugno non ha taciuto, anzi, ha espresso giudizi critici inequivocabili, è l'italiano Camillo Ruini.

    Ruini, 82 anni, è stato per oltre un ventennio prima segretario e poi presidente della conferenza episcopale italiana, e per diciassette anni vicario della diocesi di Roma, prima con Giovanni Paolo II e poi con Benedetto XVI.

    Con entrambi questi papi ha operato in piena sintonia. È coinciso con la sua leadership l'affermarsi della Chiesa italiana come "eccezione" rispetto al cedimento di tante altre Chiese nazionali all'avanzata di quella cultura neolaicista di cui la sentenza della corte suprema americana è un emblema.

    Una recente sintesi della sua visione è la "lectio magistralis" che egli ha tenuto alla Fondazione Magna Carta, a Roma, lo scorso 6 maggio:

    > Quale ruolo della fede in Dio nello spazio pubblico?

    Durante il precedente pontificato, delle visioni d'insieme teologicamente argomentate e storicamente situate come quella espressa da questa "lectio" di Ruini erano pane quotidiano, nella predicazione e negli scritti di papa Joseph Ratzinger.

    Oggi sono diventate qualcosa di più raro.

    Ma è proprio da una visione di questo respiro che discendono i netti giudizi espressi nell'intervista che segue, rilasciata dal cardinale Ruini a Matteo Matzuzzi per il quotidiano d'opinione "Il Foglio" del 28 giugno.

    __________



    SPOSATEVI COME NATURA COMANDA

    Intervista di Camillo Ruini



    “L’uguaglianza intesa come negazione di ogni differenza è qualcosa che va contro la realtà”, dice al "Foglio" il cardinale Camillo Ruini commentando la sentenza con cui la corte suprema degli Stati Uniti ha dichiarato incostituzionale parte del "Defense of Marriage Act", la legge che definiva il matrimonio come unione esclusiva tra uomo e donna sotto la giurisdizione federale.

    “Ci illudiamo se pensiamo di poter cancellare la natura con una nostra decisione personale o collettiva”, aggiunge ancora l’ex vicario di Roma e presidente della conferenza episcopale italiana.

    D. – La decisione della corte sembra confermare che ci si trovi davanti a una valanga inarrestabile in cui ogni eccezione sull’equiparazione tra matrimonio eterosessuale e omosessuale sarà superata. È questo il terreno su cui si articolerà il dibattito sullo sviluppo della civiltà nel XXI secolo?

    R. – Penso proprio di sì. Naturalmente la questione dei matrimoni omosessuali rientra nel problema più vasto della concezione che abbiamo dell’uomo, cioè di cosa sia la persona umana e di come vada trattata.

    Un aspetto molto rilevante del nostro essere è che siamo strutturati secondo la differenza sessuale, di uomo e di donna. Come ben sappiamo, questa differenza non si limita agli organi sessuali, ma coinvolge tutta la nostra realtà. Si tratta di una differenza primordiale ed evidente, che precede le nostre decisioni personali, la nostra cultura e l’educazione che abbiamo ricevuto, sebbene tutte queste cose incidano molto, a loro volta, sui nostri comportamenti. Perciò l’umanità, fin dalle sue origini, ha concepito il matrimonio come un legame possibile soltanto tra un uomo e una donna.

    Negli ultimi decenni si è fatta strada una posizione diversa, secondo la quale la sessualità andrebbe ricondotta alle nostre libere scelte. Come diceva Simone de Beauvoir, "Donna non si nasce, lo si diventa". Perciò il matrimonio dovrebbe essere aperto anche a persone dello stesso sesso. È la teoria del "gender", ormai diffusa a livello internazionale, nella cultura, nelle leggi e nelle istituzioni.

    Si tratta però di un’illusione, anche se condivisa da molti: la nostra libertà, infatti, è radicata nella realtà del nostro essere e quando va contro di essa diventa distruttiva, anzitutto di noi stessi. Pensiamo, in concreto, a cosa può essere una famiglia in cui non vi siano più un padre, una madre e dei figli che abbiano un padre e una madre: le strutture di base della nostra esistenza sarebbero sconvolte, con gli effetti distruttivi che possiamo immaginare, ma non prevedere fino in fondo.

    D. – Siamo davanti a un attivismo di carattere giuridico e sociale. Ormai il concetto di matrimonio tradizionale appare destinato a diventare qualcosa di obsoleto. C’è forse l’illusione che allargando l’istituto del matrimonio a ogni tipo di unione si risolva il problema, facendo sì che l’uguaglianza possa dirsi definitivamente raggiunta?

    R. – Questa è appunto l’illusione: cancellare la natura con una nostra decisione personale o collettiva. Perciò sono vane le speranze di poter trovare un compromesso che accontenti tutti, ad esempio introducendo, accanto al matrimonio che rimarrebbe riservato a persone di sesso diverso, delle unioni civili riconosciute legalmente, alle quali potrebbero accedere anche gli omosessuali.

    Queste unioni da una parte non soddisferebbero quell’istanza di assoluta libertà e parità che è alla base della rivendicazione del matrimonio omosessuale, dall’altra parte sarebbero un duplicato del matrimonio, inutile e dannoso.

    Inutile perché tutti i diritti che si dice di voler tutelare possono benissimo essere tutelati – e in gran parte già lo sono – riconoscendoli come diritti delle persone, e non delle coppie.

    Dannoso perché un simil-matrimonio, con minori impegni e obblighi, metterebbe ancora più in crisi il matrimonio autentico, senza il quale una società non può reggersi.

    D. – Come valuta il fatto che una decisione divisiva come quella adottata dalla corte suprema americana sia stata presa da un tribunale e non da un parlamento?

    R. – Lo valuto negativamente: la corte suprema, come anche ad esempio in Italia la corte costituzionale, ha infatti una legittimità democratica molto mediata e derivata. A mio parere è assai meglio affidare decisioni di questa portata agli organismi che hanno una legittimazione democratica diretta, come i parlamenti.

    D. – Non crede che alla radice di questo progressivo smantellamento di ciò che è sempre stato considerato “tradizionale” ci sia il fatto che l’eguaglianza stia diventando
    sempre più un dogma? Non c’è il rischio che la tradizione sia destinata ad andare incontro a una completa riformulazione?

    R. – Distinguerei il concetto di uguaglianza. Intesa come uguale dignità tra tutti gli esseri umani l’uguaglianza è un principio sacrosanto. Intesa invece come negazione di ogni differenza e quindi come la pretesa di trattare nello stesso modo situazioni differenti, l’uguaglianza è semplicemente qualcosa che va contro la realtà.

    D. – Cosa può fare la Chiesa davanti a tutto questo? A volte sembra arrancare, incapace di far sentire la sua voce. Negli ultimi decenni, poi, si è rapportata a questi mutamenti andando oltre lo storico dualismo tra progresso e tradizione. Viene da pensare, però, che superato questo schema duale si aprano problemi ben più gravi davanti ai quali le risposte possono essere percepite come ambigue o non chiare. Quali prospettive si hanno davanti?

    R. – La Chiesa non può non battersi per l’uomo, come ha scritto Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica – "Sulla via che conduce da Cristo all’uomo la Chiesa non può essere fermata da nessuno" – e come ha ripetuto Benedetto XVI anche nel discorso alla curia romana per gli auguri del Natale 2012: i valori fondamentali costitutivi dell’esistenza umana la Chiesa deve difenderli con la massima chiarezza.

    Non mi sembra poi che oggi la Chiesa arranchi. Per stare al caso della Francia, i vescovi e i cattolici, insieme a tanti altri cittadini, sono stati sconfitti, almeno per ora, sul piano legislativo, ma hanno mostrato una vitalità e una forza culturale e sociale più grande dei loro avversari.

    Solo apparentemente si tratta di dualismo tra progresso e tradizione: in realtà la vera sfida è tra due concezioni dell’uomo e io rimango convinto che il futuro appartenga a coloro che sanno riconoscere e accogliere l’essere umano nella sua autentica realtà. Le illusioni, invece, prima o poi si sgonfiano, spesso dopo avere provocato molti danni.

    D. – C’è poi la questione del rapporto che hanno i cattolici con i grandi temi che intaccano la sfera dell’etica e della morale. In merito al caso specifico del matrimonio, non crede che negli ultimi anni il contributo attivo alla difesa di ciò che è sempre stato un simbolo millenario si sia attenuato e stemperato?

    R. – I cattolici devono essere più consapevoli del significato culturale e sociale della loro fede. Quando questa consapevolezza si attenua la fede diventa insipida e incide poco non solo in ambito pubblico, ma anche nella capacità di attrarre le persone e di condurle a Cristo. Da questo punto di vista un certo modo di intendere la laicità della cultura e della politica rischia di privare la fede della sua rilevanza.

    D. – La battaglia per l’eguaglianza si nutre di ragioni sentimentali. C’è un’idea di
    amore che va al di là delle differenze di genere, della distinzione tra uomo e donna. È l’amore che si fa istituzione e diritto perfettamente uguale. È una china irreversibile?

    R. – L’amore è una parola bellissima, che però può avere molti significati. Gli stati non possono, evidentemente, comandare o proibire a una persona di amarne un’altra e in questo senso le leggi non possono occuparsi direttamente dell’amore.

    Possono e devono invece cercare di regolare nel modo più utile e più conforme alla realtà i comportamenti che nascono dall’amore ma hanno una pubblica rilevanza.

    __________


    Il quotidiano che ha pubblicato l'intervista:

    > Il Foglio

    __________


    Il discorso di Benedetto VI del 21 dicembre 2012 citato dal cardinale Ruini nell'intervista:

    > Il papa e il rabbino contro la filosofia del "gender"


    E il caso dell'opposizione della Chiesa francese (ma non solo) alla legalizzazione dei matrimoni omosessuali:

    > Il risveglio della Chiesa di Francia

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    Gli ultimi tre precedenti servizi di www.chiesa:

    27.6.2013
    > Diario Vaticano / La diplomazia del bastone e della carota
    Verso i rappresentanti pontifici nel mondo Francesco non ha pregiudizi. Un giorno li rimprovera, un altro li rincuora. Alcuni li stima, altri no. Da loro soprattutto si aspetta che selezionino bene i futuri vescovi. Ecco come

    24.6.2013
    > I cento giorni di Francesco e l'enigma della poltrona vuota
    Il suo improvviso rifiuto di ascoltare la Nona Sinfonia di Beethoven offerta per l'Anno della fede è il suggello di un inizio di pontificato difficile da decifrare. Il successo mediatico di cui gode ha un motivo e un costo: il suo silenzio sulle questioni politiche cruciali dell'aborto, dell'eutanasia, del matrimonio omosessuale




    ed anche il Comunicato ufficiale del cardinale Caffarra

    Card. Caffarra: "Affermare che omo ed etero sono coppie equivalenti è negare le basi della civiltà"

    L'Arcivescovo di Bologna interviene a proposito delle dichiarazioni del Sindaco sul riconoscimento di matrimonio e adozioni per le coppie omosessuali
    Bologna, 01 Luglio 2013 (sito  della diocesi)



    Le affermazioni fatte dal Sindaco di Bologna riguardanti il matrimonio e diritto all’adozione per le coppie gay sono di tale gravità, che meritano qualche riflessione.
    Quanto da lui profetato come ineluttabile destino del Paese a diventare definitivamente civile riconoscendo alle coppie omosessuali il  diritto alle nozze e all’adozione è una battuta a braccio che costa poco: tanto non dipende dal Sindaco. Ma ciò non toglie la gravità di tale pubblica presa di posizione da parte di chi rappresenta l’intera città. E dove mettere il cittadino che non per fobia ma con motivate ragioni ritiene matrimonio ciò che è stato definito tale fin dagli albori della civiltà o ritiene non si possa parlare di un diritto ad adottare ma del diritto di ogni bambino ad avere un padre e una madre?
    Davvero questo cittadino, con la sua cultura e le sue ragioni, è da giudicare incivile e fuori dalla storia, condannato a sentirsi estraneo in casa sua, perché non riesce a stare al passo del sedicente progresso?
     
    Naturalmente ci sarà chi, riempiendosi la bocca di laicità dello Stato (che è cosa ben più seria!), ci accuserà di voler imporre una dottrina religiosa. Ma qui non c’entra religione o partito, omofobia o discriminazione: sono i fondamentali di una civiltà estesa quanto il mondo e antica quanto la storia ad essere minati; e forse non ci si accorge dell’enormità della posta in gioco.
     Affermare che omo ed etero sono coppie equivalenti, che per la società e per i figli non fa differenza, è negare un’evidenza che a doverla spiegare vien da piangere. Siamo giunti a un tale oscuramento della ragione, da pensare che siano le leggi a stabilire la verità delle cose. Ad un tale oscuramento del bene comune da confondere i desideri degli individui coi diritti fondamentali della persona.
     
    + Carlo Card. Caffarra
     
    Arcivescovo di Bologna



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 10/08/2013 11:36
    [SM=g1740733] bellissima riflessione da cordialiter.....

    I tradizionalisti bergogliani

     
    Una signora italiana mi ha raccontato di essere stata alcuni anni a Buenos Aires e di aver incontrato tre volte il Cardinale Bergoglio. La prima volta che lo vide era vestito con una normale talare nera, aveva un paio di scarpe usurate e una logora borsa nera. Pensò che fosse un prete qualsiasi, ma le altre persone lo riconobbero e gli si avvicinarono per salutarlo affabilmente. Lei rimase molto stupita nel vedere lo stile di vita umile dell'Arcivescovo e l'amabilità con cui trattava con la gente. Tutti e tre gli incontri avvennero sui mezzi pubblici di Buenos Aires (autobus e metropolitana) e ciò fu una sorpresa per lei, poiché in Italia era abituata a vedere gli ecclesiastici girare su costosi macchinoni.
     
    Un'altra cosa che la colpì fu il fatto che il Cardinale Bergoglio si dirigeva verso il quartiere più degradato e malfamato della capitale argentina, dove si recava per aiutare materialmente e spiritualmente i poveri abbandonati da tutti. Vi andava da solo, senza scorta, ma mai nessuno ha osato assalirlo e derubarlo. Era molto amato dalla gente comune. 
     
    Quando è stato eletto al soglio di Pietro, la sorella del Papa ha espresso il desiderio di venire a Roma per continuare ad aiutarlo, ma il Pontefice gli ha risposto che in Vaticano non ha bisogno di lei, e l'ha esortata invece a continuare il suo apostolato nei quartieri degradati di Buenos Aires. Le ha chiesto anche di donare ai poveri i vestiti che ha lasciato in Argentina.
     
    Non bisogna scandalizzarsi dello stile di vita umile condotto dall'allora Arcivescovo di Buenos Aires, infatti anche i santi si comportavano allo stesso modo. Per esempio il grande Sant'Alfonso Maria de Liguori, quando venne eletto vescovo, nell'anello episcopale invece di una pietra preziosa fece incastonare un pezzo di vetro ricavato da un fondo di bottiglia. Inoltre viveva poveramente (dormiva addirittura per terra), dava tutto il possibile ai bisognosi, e una volta donò persino la talare nera e fu costretto ad andare in giro con l'abito viola usato per la liturgia. Insomma, pur essendo vescovo, non viveva in maniera sfarzosa (come purtroppo facevano tanti altri sacerdoti elevati alla dignità episcopale), ma conservò sempre uno stile di vita austero da vero successore degli apostoli.
     
    Se vogliamo che il movimento tradizionale si espanda maggiormente, c'è bisogno di tradizionalisti "bergogliani”, cioè di persone che vivano in maniera semplice, aiutino concretamente i poveri, siano gioviali e cordiali col prossimo, abbiano un grande amore per la liturgia antica e il patrimonio dottrinale e spirituale della Tradizione Cattolica. Questa è la miscela giusta per "sfondare a sinistra" e far dilagare il movimento tradizionale.
     
    A frenare l'avanzata del movimento non sono tanto i modernisti, quanto piuttosto gli atteggiamenti di certi tradizionalisti che si comportano in maniera fredda col prossimo, hanno spesso una faccia arcigna, fanno una vita comoda piena di agiatezze, sprecano soldi in cose inutili e magari poi dicono di non essere in grado di aiutare i bisognosi. Insomma col loro comportamento poco cristiano, allontano il popolo dalla Tradizione Cattolica, perché inducono la gente a credere che i tradizionalisti siano persone glaciali, scorbutiche, altezzose, piene di superbia, poco sensibili alle sofferenze altrui, ecc.
     
    I veri tradizionalisti devono avere come modelli San Giovanni Bosco, San Leopoldo Mandic, San Luigi Orione, Sant'Alfonso Maria de Liguori, San Vincenzo de Paoli, e tutti i santi. Il Sommo Pontefice San Pio X affermò che i tradizionalisti sono i veri amici del popolo. Dunque se il popolo non considera come “amici” certi personaggi, evidentemente significa che costoro non si comportano da veri tradizionalisti.


    [SM=g1740722]


    Fraternamente CaterinaLD

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    00 08/09/2013 17:50

    LE RISORSE DELLA CHIESA - di P. Giovanni Cavalcoli, OP

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    di RiscossaCristiana

     

    rs1

    Raffaello Sanzio - La disputa del Sacramento

     

     

     

    La Chiesa cattolica, nel suo aspetto umano, per volontà di Cristo e con la forza dello Spirito Santo, è costituzionalmente una società ben ordinata, organizzata gerarchicamente, con un capo, che è Cristo, rappresentato sulla terra dal Sommo Pontefice, e un corpo, che è l’insieme dei membri, che sono i fedeli, quello che oggi si chiama spesso il “popolo di Dio”, che porta a compimento l’ordinamento e il destino di quel popolo ebraico, che Dio, secondo la narrazione biblica, un tempo si scelse come oggetto di una cura speciale della sua misericordia e come mandato all’umanità per insegnarle a conoscere il Signore.

    Ma la Chiesa non è solo una società mondiale vivente visibilmente su questa terra, con una propria organizzazione sociale, religiosa, culturale, giuridica, territoriale, pastorale, educativa ed amministrativa, non priva di forti riflessi politici nel contesto delle nazioni e degli stati. Essa è anche e più profondamente la comunità di tutti i discepoli di Cristo, lo siano consapevolmente ed esplicitamente, quindi visibilmente o lo siano inconsapevolmente ed implicitamente, e quindi invisibilmente.

    Da qui un carattere invisibile della Chiesa su questa terra. Ci può essere infatti chi le appartiene visibilmente (“col corpo”), ma senza che il suo cuore sia con lei, come invece ci può essere chi le appartiene realmente (“con l’anima”), ma senza saperlo. Soprattutto c’è chi le appartiene realmente e sinceramente su questa terra, e dobbiamo pensare che sia la maggioranza, ma sempre imperfettamente o difettosamente ed in una condizione di peccatore, anche i più santi.

    Il fine della Chiesa, per volontà del Fondatore Gesù Cristo, è quello di formare un popolo santo secondo la volontà di Dio Padre per mezzo di Cristo e dello Spirito Santo, e di condurre l’umanità alla salvezza eterna in paradiso istruendola col Vangelo, santificandola con i sacramenti, governandola, sotto la guida del Papa insieme con la gerarchia apostolica (vescovi, presbiteri e diaconi) e i doni carismatici dello Spirito Santo, che Egli distribuisce quanto e come vuole a qualunque membro del popolo di Dio, uomo o donna, per l’edificazione della Chiesa.

    Su questa terra la Chiesa è orientata al suo fine soprannaturale, che è la vita eterna nella visione beatifica del Volto Trinitario di Dio in cielo, per cui dal momento della sua fondazione duemila anni fa, il cielo ha cominciato a popolarsi di membri della Chiesa - la anime beate -, i quali, dopo essersi purificati dai peccati ed avendo esercitato le opere buone, hanno meritato di ricevere il premio celeste, vivono nella Gerusalemme del cielo, ed ora godono per sempre tutti assieme e con Cristo e Maria SS.ma, in compagnia degli angeli santi, la gioia della patria celeste.

    Tuttavia, siccome la salvezza passa attraverso la Chiesa, dobbiamo pensare che essa accolga nel suo abbraccio materno, anche tutte le anime che sono vissute prima della sua fondazione e che comunque senza loro colpa non hanno potuto conoscere la Chiesa visibile pur vivendo nell’onestà di coscienza.

    Quanto alla  Chiesa celeste o trionfante, essa è detta così perché costituita da “coloro che hanno lavato la propria veste col sangue dell’Agnello”(Ap 7,14) ed hanno vinto “il mondo, la carne e Satana”. Viceversa la Chiesa della terra è detta pellegrina e militante: pellegrina perché è in pellegrinaggio verso il santuario del cielo, militante perché ancora soggetta ai pericoli della vita presente, e impegnata nella “buona battaglia” contro il male, il peccato, i vizi, la morte, l’ingiustizia  e il potere delle tenebre.

    La Chiesa terrena è in cammino nella fatica, nella lotta, nelle prove, nella sofferenza. I suoi membri sono tutti soggetti alla morte, che deve prepararli ad entrare nella Chiesa del cielo. Essa coltiva questa beata speranza, gode sin da adesso delle consolazioni dello Spirito Santo e pregusta la gioia della patria celeste.

    La Chiesa celeste riposa dal travaglio terreno e gode dei frutti del proprio lavoro in una vita nuova e, nella luce e per mandato del Padre, esercita un’attività nuova ed ancora più benefica di intercessione in dipendenza da Cristo alla destra del Padre, a favore dei fratelli rimasti ancora tra i rischi e i pericoli del mondo.

    Cristo ha donato alla Chiesa, per il tramite del collegio apostolico sotto la guida di Pietro, un sapientissimo programma d’azione, una specie di statuto ben preciso e mezzi altrettanto certi e definiti per il regolare e fruttuoso compimento del suo dovere in vista del raggiungimento del fine, sicchè la Chiesa, per volontà di Cristo, ha una struttura e un volto ben precisi, immutabili, indeformabili ed incorruttibili,  ma non rigidi e nel contempo aperti, duttili ed adattabili alle diverse circostanze; il che le consente di mantenere la sua identità sostanziale nel corso della storia, acquistando o lasciando cadere aspetti contingenti ed accidentali, e di svilupparsi e progredire continuamente come si dà per ogni sano organismo vivente.

    Essa progredisce nella continuità, migliora sempre più se stessa aumentando la conoscenza della Verità e crescendo nella santità, con l’arricchirsi nel corso dei secoli di sempre nuovi figli santi, e diffondendo sempre di più il Vangelo sulla terra, sicchè essa, nel corso della storia, aumenta la luce e fa retrocedere le tenebre, mentre, grazie soprattutto all’opera del laicato, incrementa la civiltà e allontana la barbarie, fa trionfare la giustizia sull’ingiustizia, fa crescere le virtù e corregge i vizi, unifica l’umanità nella concordia e nella pace, rende l’uomo felice liberandolo da ogni forma di male e di miseria del corpo e dello spirito.

    Esiste tuttavia un altro aspetto essenziale della Chiesa terrena, sul quale non possiamo assolutamente tacere, anche se sempre crea disagio, scandalo e difficoltà, ed è il fatto che la Chiesa, benchè santa, è composta di peccatori e a volte di tali peccatori, che pare che, soprattutto se sono costituiti in autorità, mettano in pericolo l’esistenza stessa della Chiesa a causa degli errori che diffondono e quindi del danno che le fanno. Essi sfigurano o imbrattano il volto della Chiesa rendendola ripugnante agli onesti, creando alle loro orecchie una cattiva fama, frenandola nelle sue attività  col pensare magari di essere dei “riformatori”.

    In ciò la Chiesa assomiglia ancora al popolo dell’Antica Alleanza, popolo santo, eletto da Dio, eppure spesso rimproverato dai profeti per la sua infedeltà, fino a che non si creò la crisi gravissima con la venuta del Messia, per la quale Egli “venne tra i suoi e i suoi non lo hanno accolto”.

    Così la direzione del popolo di Dio, adesso la Chiesa, che di per sé poteva benissimo restare nelle mani di questo popolo, a causa della sua incredulità, di fatto è passata ai gohìm, ai “gentili”, ossia ai pagani che hanno accolto Cristo, i cristiani, mentre questi sono apparsi dei minìm, ossia degli eretici agli occhi di quegli ebrei che non hanno accolto Cristo, credendo con ciò di mantenere le tradizioni ebraiche.

    E ciò fino ad oggi! Ma alla Parusia, come profetizza S.Paolo (Rm 9-11), Israele si convertirà a Cristo. Quindi quell’“ecumenismo” che sostiene che non si deve predicare Cristo agli Ebrei è una grande stoltezza e disobbedienza alla Parola di Dio.

    Ricorrente nella storia è il sorgere o dall’esterno o dall’interno della Chiesa, di progetti di società o di umanità, i quali, prendendo a pretesto mali reali o presunti esistenti nella Chiesa o causati dalla Chiesa, con criteri di giudizio e la proposta di mezzi estranei alla dottrina ed alla prassi della Chiesa, hanno o l’audacia di minacciarne o prevederne la soppressione o l’estinzione o la pretesa di correggerla in base a questi criteri o di riformarla o di insegnarle dal di fuori qual è la sua salvezza o qual è la sua vera essenza o quali sono i suoi doveri o nel peggiore dei casi si sono convinti che ormai la Chiesa è una realtà invecchiata e superata dalla storia, che ha fatto molti danni all’umanità e che ormai è avviata ad un’estinzione irreversibile.

    Tra costoro non mancano i sedicenti “cattolici” che rovinano la Chiesa dal di dentro (non sappiamo se in buona o cattiva fede). E’ così che Paolo VI, riferendosi al rinato modernismo postconciliare, parlò di “autodemolizione” della Chiesa da parte di se stessa o della penetrazione del “fumo di Satana da qualche fessura” all’interno della Chiesa o di “magistero parallelo” di teologi ribelli al Magistero ufficiale dei vescovi e del Papa.

    Cristo ha voluto la sua Chiesa così che il collegio dei vescovi uniti al Papa nel campo dell’insegnamento e dell’interpretazione della Parola di Dio, il “Magistero vivo”, come lo chiama il Concilio Vaticano II, ossia la predicazione collettiva orale, che è la vera Tradizione, fosse infallibile, perché assistita dallo Spirito Santo, mentre la direzione disciplinare-pastorale, basata sulla semplice prudenza umana, fosse fallibile, per quanto di norma meritevole di grande rispetto e sincera obbedienza.

    Per questo la Chiesa nel corso della storia può sbagliare, cambiare, sopprimere o innovare nel campo della pastorale o del diritto, ma non può mai smentirsi, mutare o correggersi nel campo della dottrina della fede. L’unico mutamento non riguarda i contenuti, ma il progresso nella conoscenza della medesima verità.

    Così, mentre continuamente si accresce e progredisce la conoscenza che la Chiesa ha delle verità immutabili della divina Rivelazione, soprattutto nella solenne definizione dei dogmi, eodem sensu eademque sententia,  come dice  S. Vincenzo di Lerino, nella Chiesa  sorge continuamente la necessità o l’opportunità di riformare o mutare usi, leggi ed istituzioni, correggere o rinnovare costumi, eliminare abusi o ingiustizie, a causa dell’evolversi dei tempi o del mutare delle circostanze e soprattutto a causa della fragilità o peccaminosità umana dei suoi membri, anche i più santi, che la compongono su questa terra.

    Se tuttavia la Chiesa va soggetta nella storia a periodi di crisi, a divisioni interne, rilassatezze, decadenze, o indebolimento occasionati dalle tentazioni o dagli attacchi di nemici esterni ed interni, essa trae sempre e comunque dal suo interno, in forza della sua santità e dall’assistenza che le viene da Cristo e dallo Spirito Santo, la luce e la forza per risollevarsi, correggersi,  riformarsi, riprendere le forze, sempre sostenuta e confortata dalle consolazioni dello Spirito Santo e dalla coscienza della sua appartenenza allo Sposo divino.

    Così la Chiesa è l’unica formazione umana collettiva, l’unica organizzazione sociale-giuridica in tutta l’umanità ad aver assicurata da Dio un’intima ed indistruttibile forza divina, quella della grazia di Cristo e la guida dello Spirito Santo, che la rende resistente ed invincibile nonostante gli attacchi più feroci e più astuti ai quali va soggetta da parte dei poteri del mondo e di Satana: come le ha promesso Cristo, portae inferi non praevalebunt.

    Chi resta nella Chiesa, magari anche inconsapevolmente ed implicitamente, si salva; chi la contrasta o le disobbedisce, magari anche dal di dentro, quale che sia il suo stato, ufficio, ministero o grado della sua autorità, è perduto. Il Papa stesso, come sappiamo bene, se non obbedisce alla legge di Cristo, può esser dannato, come ci insegna anche Dante.

    Non esistono, non possono esistere nella storia popoli, regni, nazioni, stati, imperi, dinastie, civiltà per quanto vasti, duraturi e potenti, che non conoscano, dopo l’apice della loro potenza, un declino irreversibile, esattamene, salve le proporzioni, a come avviene nell’arco della vita degli individui, salve le istituzioni o le tradizioni che si alimentano alla vita della Chiesa o sono legate alla Chiesa, ma allora è la Chiesa stessa che le alimenta, le sostiene e le difende dalle forze nemiche e corrompitrici.

    La Chiesa, a causa del suo aspetto umano fallibile, può ogni tanto e deve essere riformata, ma non può essere deformata, non può non solo nel senso che non deve, ma proprio come impossibilità di fatto. Lutero la voleva riformare, ma in realtà ha deformato, benchè alcune sue istanze (per esempio la Messa in volgare e l’abolizione della pena di morte per gli eretici) fossero valide, tanto che sono state raccolte in seguito e soprattutto dal Concilio Vaticano II, per esempio nel decreto sull’ecumenismo.

    Il Concilio di Trento, dal canto suo, ha tolto gli sgorbi di Lutero e in esso la Chiesa si è ridata il suo vero volto, uscendone più bella e più forte di prima. Ogni Concilio rende la Chiesa sempre più bella secondo quell’identità che le ha dato Cristo, eliminando quei tratti che non rispondono al suo vero volto. Anche il Concilio Vaticano II ha svolto questa funzione, benchè non tutti la abbiano capita, mentre altri la hanno fraintesa.

    Dispiace per esempio che uno studioso così serio, dotto, illustre ed amante della Chiesa  come Romano Amerio, abbia scritto quasi una trentina di anni fa un’opera ponderosa e documentatissima[1], piena di sagge considerazioni e nobili sentimenti, per esprimere il timore che la Chiesa col Vaticano II abbia “mutato la sua essenza”, cosa in realtà inconcepibile ed impensabile per un vero cattolico, quale pure in fondo egli era e voleva essere. Tuttavia, per i suoi aspetti validi, e sono molti, quest’opera è sempre utile ed attuale ed è stata più che opportuna la sua recente ripubblicazione.

    In essa Amerio descrive dettagliatamente ed abbondantemente il risorgere del modernismo - i “neoterici”, come li chiama - nel postconcilio, ma non è però in grado di mostrare l’assunto indifendibile e temerario che la Chiesa avrebbe “mutato la sua essenza” e che quindi il “neoterismo” sarebbe da addebitare ad errori dottrinali del Concilio.

    Bisogna dire ancora che oggi esistono forze all’interno della Chiesa - lo abbiamo osservato molte volte in precedenti articoli in questo sito -  le quali, influenzate da ideologie anticristiane, e dall’alto di posti di potere, tentano di imporre alla Chiesa un volto che non è il suo, per cui stanno conducendo un’opera devastatrice, che potrebbe esser ben descritta in questi termini dal Salmista, che così si lamenta con Jahvè: “Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e se ne pasce l’animale selvatico” (Sal 79, 13-14).

    Quello che in particolare sta diventando sempre più evidente senza che per ora si noti un’inversione di rotta, e che reca un enorme danno alla Chiesa, è il fatto che i livelli intermedi tra il vertice e la base della Chiesa, tra la S.Sede e la massa dei comuni fedeli, soprattutto l’episcopato, i superiori degli istituti religiosi e il ceto dei teologi, non svolgono convenientemente la loro funzione mediatrice tra le due istanze, le quali, soprattutto la S.Sede, conservano i valori essenziali della Chiesa, anche se c’è da dire che molti fedeli sono sedotti dai modernisti, mentre alcuni sono sviati da forme di tradizionalismo anticonciliare o preconciliare.

    Molti non capiscono o non si rendono conto di cosa sta succedendo e vivono da spensierati, molti purtroppo sono indifferenti, vivendo superficialmente alla giornata, molti sono gli incerti, gli oscillanti, gli sdegnati, coloro che per i cattivi esempi che vengono dall’alto, o per gli scandali visti o subìti o perché frastornati da maestri del dubbio o perché constatano eretici non puniti, rischiamo di perdere la fede o di passare ad altre religioni. Certo per i modernisti questo poi non è un gran male, anzi è un segno di “libertà”, ma qui naturalmente i modernisti non fanno testo.

    Però, grazie a Dio, capita spesso anche di incontrare laici, professionisti, uomini di cultura, insegnanti, umile gente del popolo, operai, contadini, massaie, disoccupati, giovani, anziani, povera gente ma fedeli e illuminati dallo Spirito Santo, i quali mostrano più sensus Ecclesiae e amore per il Papa, per la Tradizione e per la Parola di Dio, che non certi vescovi o guide o teologi di fama che non sono all’altezza del loro compito, non discutiamo per quale motivo.

    Molti onesti, se non sanno dare una risposta, avvertono un disagio, un turbamento, sentono confusamente che nella posizione ideologica o nella condotta di quel tale o di quell’altro prete o vescovo o teologo c’è qualcosa che non va, per cui è molto importante illuminare e confortare queste persone.

    Questi livelli intermedi della gerarchia pretendono obbedienza, magari invocando per l’occasione l’esempio di Cristo o dei Santi, ma a loro volta non obbediscono al Papa e al Magistero, e il guaio è che il povero popolo di Dio, se non obbedisce a loro, subisce soprusi, angherie e persecuzioni, mentre chi non obbedisce al Papa, se ne va tranquillo ed impunito, onorato dalla folta schiera dei modernisti e degli eretici.

    Esiste bensì un modello di Chiesa, legato soprattutto alla teologia della liberazione, che, col pretesto dell’uguaglianza e della fraternità cristiana sotto un unico Maestro, rifiuta quella che vien chiamata con disprezzo la “struttura piramidale” della Chiesa, ossia praticamente la gerarchia e quindi al limite la stessa superiorità del sacerdozio sul laicato, affettando un finto atteggiamento di mitezza ed umiltà, ma ecco che come ottengono una carica, diventano feroci contro quei poveretti che in nome della “gerarchia” modestamente si oppongono ai loro soprusi.

    Il Concilio, dal canto suo, come si sa, ha voluto una Chiesa più aperta ai valori del mondo contemporaneo, senza per questo ovviamente approvare il mondo moderno in toto, ma purtroppo i modernisti che oggi pesano sul destino della Chiesa hanno inteso questa apertura in un modo dissennato e scriteriato, hanno fatto un idolo del mondo moderno, un po’ come uno che sotto pretesto di cambiar aria o far entrare aria fresca, aprisse  tutte le finestre all’arrivo di un uragano o al diffondersi dell’inquinamento atmosferico.

    Questa azione insensata e demolitrice, falsamente innovatrice dei modernisti dovrà finire e finirà, anche se non sappiamo come e quale prezzo dovremo pagare o se dovremo scendere ancora più in basso. Dobbiamo sperare nella loro conversione e pregare per questa intenzione. Ma certamente la liberazione e il ritorno della pace e della normalità non potranno avvenire in definitiva che per la potenza dello Spirito Santo, accettando serenamente il mistero della Croce, in piena comunione con la Chiesa sofferente.

    Di fatto attualmente la comunione col Papa e con i vescovi a lui fedeli scarseggia[2] e sembra in diminuzione, a meno che ciò non voglia dire che si sta avvicinando quell’apostasia finale che è prevista da Cristo, da S.Paolo e dall’Apocalisse, come effetto dell’opera dell’Anticristo e come prodromo della fine del mondo.

    Questo Papa, come Cristo, si sta guadagnando il favore delle masse fedeli, dei poveri e dei sofferenti, ma dovrà affrontare presto gli scribi e i farisei, i quali lo stanno lisciando, nella speranza di farlo cadere in trappola, ma egli ha gli occhi abbastanza aperti per riconoscere la loro falsità. Che succederà? Quello che è successo Benedetto XVI? Non vogliamo pensarlo.

    Noi invece confidiamo nella forza di questo Papa affidandolo alla Madonna, della quale è tanto devoto. Spesso egli parla del demonio, lasciando intendere la durezza dello scontro contro il male. Preferiamo però pensare che prima dell’evento catastrofico ed apocalittico risolutivo della storia della Chiesa terrena, debba finalmente verificarsi quella “nuova Pentecoste” che fu auspicata dal Beato Papa Giovanni XXIII come vera attuazione del Concilio.

     

     

     


    [1] Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX, Milano-Napoli, R. Ricciardi, 1985; poi Torino, Lindau, 2009; Verona, Fede & Cultura, 2009.

    [2] Non lasciamoci troppo impressionare dai due milioni di giovani che hanno accolto il Papa a Rio de Janeiro.




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 14/09/2013 09:30

    Madre Teresa: l’aborto distrugge la pace e genera le guerre

    Madre Teresa di Calcutta riceve il Premio Nobel per la  pace.

    Madre Teresa di Calcutta riceve il Premio Nobel per la pace.

    Discorso integrale della Beata Madre Teresa di Calcutta in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Pace. Se i sacerdoti citassero, nelle loro omelie, un paragrafo, di domenica in domenica – anziché citare cattivi maestri e falsi profeti – di questo testo, molte anime si convertirebbero.

    Oslo, 10 dicembre 1979

    Poiché ci troviamo qui riuniti insieme penso che sarebbe bello per ringraziare Dio per il premio Nobel per la pace che pregassimo con una preghiera di S. Francesco d’Assisi che mi sorprende sempre molto – noi diciamo questa preghiera ogni giorno dopo la Santa Comunione, perché è molto adatta a ciascuno di noi, e penso sempre che quattro-cinquecento anni fa quando S. Francesco d’Assisi compose questa preghiera dovevano avere le stesse difficoltà che abbiamo oggi, visto che compose una preghiera così adatta anche a noi.

    Penso che alcuni di voi ce l’abbiano già, dunque pregheremo insieme. Ringraziamo Dio per l’opportunità che abbiamo tutti insieme oggi, per questo dono di pace che ci ricorda che siamo stati creati per vivere quella pace, e Gesù si fece uomo per portare questa buona notizia ai poveri. Egli essendo Dio è diventato uomo in tutto eccetto che nel peccato, e ha proclamato molto chiaramente di essere venuto per portare questa buona notizia. La notizia era pace a tutti gli uomini di buona volontà e questo è qualcosa che tutti vogliamo – la pace del cuore – e Dio ha amato il mondo tanto da dare suo Figlio – è stato un dono – è come dire che a Dio ha fatto male dare, perché ha amato tanto il mondo da dare suo Figlio, e lo dette alla Vergine Maria, e lei allora che cosa fece? Appena arrivò nella sua vita, fu subito ansiosa di darne la buona notizia, e appena entrò nella casa di sua cugina, il bambino – il bambino non ancora nato – il bambino nel grembo di Elisabetta, sussultò di gioia. Era un piccolo bambino non ancora nato, fu il primo messaggero di pace.

    Riconobbe il Principe della Pace, riconobbe che Cristo era venuto a portare una buona notizia per me e per te. E se non fosse abbastanza – se non fosse abbastanza diventare uomo – egli morì sulla croce per mostrare quell’amore più grande, e morì per voi e per me e per quel lebbroso e per quell’uomo che muore di fame e per quella persona nuda nelle strade non solo di Calcutta ma dell’Africa, e New York, e Londra, e Oslo – e insistette che ci amassimo gli uni gli altri come lui ci ha amato. Lo abbiamo letto molto chiaramente nel Vangelo – amatevi come io vi ho amato – come io vi amo – come il Padre ha amato me così io amo voi – e tanto più forte il Padre lo ha amato, tanto da donarcelo, e quanto ci amiamo noi, noi pure dobbiamo donarci gli uni agli altri finché non fa male. Non è abbastanza per noi dire: amo Dio, ma non amo il mio prossimo. San Giovanni dice che sei un bugiardo se dici di amare Dio e non il prossimo. Come puoi amare Dio che non vedi se non ami il prossimo che vedi, che tocchi, con cui vivi? Così è molto importante per noi capire che l’amore, per essere vero, deve fare male.

    Ha fatto male a Gesù amarci, gli ha fatto male. E per essere sicuro che ricordassimo il suo grande amore si fece pane della vita per soddisfare la nostra fame del suo amore. La nostra fame di Dio, perché siamo stati creati per questo amore. Siamo stati creati a sua immagine. Siamo stati creati per amare ed essere amati, ed egli si è fatto uomo per permettere a noi di amare come lui ci ha amato. Egli è l’affamato – il nudo – il senza casa – l’ammalato – il carcerato – l’uomo solo – l’uomo rifiutato – e dice: l’avete fatto a me. Affamato del nostro amore, e questa è la fame dei nostri poveri. Questa è la fame che voi e io dobbiamo trovare, potrebbe stare nella nostra stessa casa. Non dimentico mai l’opportunità che ebbi di visitare una casa dove tenevano tutti questi anziani genitori di figli e figlie che li avevano semplicemente messi in un istituto e forse dimenticati.

    Sono andata là, ho visto che in quella casa avevano tutto, cose bellissime, ma tutti guardavano verso la porta. E non ne ho visto uno con il sorriso in faccia. Mi sono rivolta alla Sorella e le ho domandato: come mai? Com’è che persone che hanno tutto qui, perché guardano tutti verso la porta, perché non sorridono? Sono così abituata a vedere il sorriso nella nostra gente, anche i morenti sorridono, e lei disse: questo accade quasi tutti i giorni, aspettano, sperano che un figlio o una figlia venga a trovarli. Sono feriti perché sono dimenticati – e vedete, è qui che viene l’amore. Come la povertà arriva proprio a casa nostra, dove trascuriamo di amarci. Forse nella nostra famiglia abbiamo qualcuno che si sente solo, che si sente malato, che è preoccupato, e questi sono giorni difficili per tutti. Ci siamo, ci siamo per accoglierli, c’è la madre ad accogliere il figlio? Sono stata sorpresa di vedere in occidente tanti ragazzi e ragazze darsi alle droghe, e ho cercato di capire perché – perché succede questo, e la risposta è: perché non hanno nessuno nella loro famiglia che li accolga. Padre e madre sono così occupati da non averne il tempo. I genitori giovani sono in qualche ufficio e il figlio va in strada e rimane coinvolto in qualcosa. Stiamo parlando di pace. Queste sono cose che distruggono la pace, ma io sento che il più grande distruttore della pace oggi è l’aborto, perché è una guerra diretta – un’uccisione diretta – un omicidio commesso dalla madre stessa.

    E leggiamo nelle Scritture, perché Dio lo dice molto chiaramente: anche se una madre dimenticasse il suo bambino – io non ti dimenticherò – ti ho inciso sul palmo della mano. Siamo incisi nel palmo della Sua mano, così vicini a lui che un bambino non nato è stato inciso nel palmo della mano di Dio. E quello che mi colpisce di più è l’inizio di questa frase, che persino se una madre potesse dimenticare, qualcosa di impossibile – ma perfino se si potesse dimenticare – io non ti dimenticherò. E oggi il più grande mezzo – il più grande distruttore della pace è l’aborto. E noi che stiamo qui – i nostri genitori ci hanno voluti. Non saremmo qui se i nostri genitori non lo avessero fatto. I nostri bambini li vogliamo, li amiamo, ma che cosa è di milioni di loro? Tante persone sono molto, molto preoccupate per i bambini in India, per i bambini in Africa dove tanti ne muoiono, di malnutrizione, fame e così via, ma milioni muoiono deliberatamente per volere della madre. E questo è ciò che è il grande distruttore della pace oggi. Perché se una madre può uccidere il proprio stesso bambino, cosa mi impedisce di uccidere te e a te di uccidere me? Nulla.

    Per questo faccio appello in India, faccio appello ovunque. Restituiteci i bambini, quest’anno è l’anno dei bambini. Che abbiamo fatto per i bambini? All’inizio dell’anno ho detto, ovunque abbia parlato ho detto: quest’anno facciamo che ogni singolo bambino, nato o non nato, sia desiderato. E oggi è la fine dell’anno, abbiamo reso ogni bambino desiderato? Vi darò qualcosa di impressionante. Stiamo combattendo l’aborto con le adozioni, abbiamo salvato migliaia di vite, abbiamo inviato messaggi a tutte le cliniche, gli ospedali, le stazioni di polizia – per favore non distruggete i bambini, li prenderemo noi. Così ad ogni ora del giorno e della notte c’è sempre qualcuno, abbiamo parecchie ragazze madri – dite loro di venire, noi ci prenderemo cura di voi, prenderemo il vostro bambino, e troveremo una casa per il bambino. E abbiamo un’enorme domanda da parte di famiglie senza bambini, per noi questa è una grazia di Dio. Stiamo anche facendo un’altra cosa molto bella – stiamo insegnando ai nostri mendicanti, ai nostri lebbrosi, agli abitanti degli slum, alla nostra gente sulla strada, i metodi naturali di pianificazione familiare.

    E solo in Calcutta in sei anni – nella sola Calcutta – abbiamo avuto 61.273 bambini in meno da famiglie che li avrebbero avuti, ma perché praticano questo metodo naturale di astinenza, di auto-controllo, con amore reciproco. Insegniamo loro il metodo della temperatura che è molto bello, molto semplice, e la nostra povera gente capisce. E sapete che cosa mi hanno detto? La nostra famiglia è sana, la nostra famiglia è unita, e possiamo avere un bambino ogni volta che vogliamo. Così chiaro – quelle persone nelle strade, quei mendicanti – e io penso che se la nostra gente può farlo tanto più potete voi e tutti gli altri che potete conoscere i metodi e i mezzi senza distruggere la vita che Dio ha creato in noi. I poveri sono grandi persone. Possono insegnarci molte cose belle. L’altro giorno uno di loro è venuto a ringraziare e ha detto: voi che avete fatto voto di castità siete le persone migliori per insegnarci la pianificazione familiare.

    Perché non è altro che auto-controllo per amore reciproco. E penso che abbiano detto una frase molto bella. E queste sono persone che magari non hanno niente da mangiare, magari non hanno dove vivere, ma sono grandi persone. I poveri sono persone meravigliose. Una sera siamo uscite e abbiamo raccolto quattro persone per la strada. Una di loro era in condizioni terribili – e ho detto alle Sorelle: prendetevi cura degli altri tre, io mi occupo di questa che sembrava stare peggio. Ho fatto per lei tutto quello che il mio amore poteva fare. L’ho messa a letto, e c’era un tale meraviglioso sorriso sulla sua faccia. Ha preso la mia mano e ha detto solo una parola: grazie, ed è morta. Non ho potuto non esaminare la mia coscienza di fronte a lei, e mi sono chiesta cosa avrei detto al suo posto. E la mia risposta è stata molto semplice. Avrei provato ad attirare un po’ di attenzione su di me, avrei detto che ho fame, che sto morendo, che ho freddo, dolore, o altro, ma lei mi ha dato molto di più – mi ha dato il suo amore riconoscente. Ed è morta con il sorriso sul volto.

    Come quell’uomo che abbiamo raccolto dal canale, mezzo mangiato dai vermi, e l’abbiamo portato a casa. Ho vissuto come un animale per strada, ma sto per morire come un angelo, amato e curato. Ed è stato così meraviglioso vedere la grandezza di quell’uomo che poteva parlare così, poteva morire senza accusare nessuno, senza maledire nessuno, senza fare paragoni. Come un angelo – questa è la grandezza della nostra gente. Ed è per questo che noi crediamo che Gesù disse: ero affamato – ero nudo – ero senza casa – ero rifiutato, non amato, non curato – e l’avete fatto a me. Credo che noi non siamo veri operatori sociali. Forse svolgiamo un lavoro sociale agli occhi della gente, ma in realtà siamo contemplative nel cuore del mondo. Perché tocchiamo il Corpo di Cristo ventiquattro ore al giorno. Abbiamo ventiquattro ore di questa presenza, e così voi e io. Anche voi provate a portare questa presenza di Dio nella vostra famiglia, perché la famiglia che prega insieme sta insieme. E io penso che noi nella nostra famiglia non abbiamo bisogno di bombe e armi, di distruggere per portare pace – semplicemente stiamo insieme, amiamoci reciprocamente, portiamo quella pace, quella gioia, quella forza della presenza di ciascuno in casa. E potremo superare tutto il male che c’è nel mondo. C’è tanta sofferenza, tanto odio, tanta miseria, e noi con la nostra preghiera, con il nostro sacrificio iniziamo da casa.

    L’amore comincia a casa, e non è quanto facciamo, ma quanto amore mettiamo in quello che facciamo. Sta a Dio Onnipotente – quanto facciamo non ha importanza, perché Lui è infinito, ma quanto amore mettiamo in quello che facciamo. Quanto facciamo a Lui nella persona che striamo servendo. Qualche tempo fa a Calcutta avemmo grande difficoltà ad ottenere dello zucchero, e non so come i bambini lo seppero, e un bambino di quattro anni, un bambino Hindu, andò a casa e disse ai suoi genitori: non mangerò zucchero per tre giorni, darò il mio zucchero a Madre Teresa per i suoi bambini. Dopo tre giorni suo padre e sua madre lo portarono alla nostra casa. Non li avevo mai incontrati prima, e questo piccolo riusciva a malapena pronunciare il mio nome, me sapeva esattamente che cosa era venuto a fare. Sapeva che voleva condividere il suo amore. E questo è perché ho ricevuto tanto amore da voi tutti. Dal momento che sono arrivata qui sono stata semplicemente circondata da amore, da vero amore comprensivo. Si percepiva come se ciascuno in India, ciascuno in Africa fosse qualcuno molto speciale per voi. E mi sono sentita proprio a casa dicevo alla Sorella oggi. Mi sento in Convento con le Sorelle come se fossi a Calcutta con le mie Sorelle. Così completamente a casa qui, proprio qui.

    E così sono qui a parlarvi – voglio che voi troviate il povero qui, innanzitutto proprio a casa vostra. E cominciate ad amare qui. Siate questa buona notizia per la vostra gente. E informatevi sul vostro vicino di casa – sapete chi sono? Ho avuto un’esperienza veramente straordinaria con una famiglia Hindu che aveva otto bambini. Un signore venne alla nostra casa e disse: Madre Teresa, c’è una famiglia con otto bambini, non mangiano da tanto tempo – faccia qualcosa. Così ho preso del riso e sono andata immediatamente. E ho visto i bambini – i loro occhi luccicanti per la fame – non so se abbiate mai visto la fame. Ma io l’ho vista molto spesso. E lei prese il riso, lo divise, e uscì. Quando fu tornata le chiesi – dove sei andata, che hai fatto? Lei mi dette una risposta molto semplice: anche loro hanno fame. Quel che mi colpì di più fu che lei sapeva – e chi sono loro, una famiglia musulmana – lei lo sapeva. Non portai più del riso quella sera perché volevo che godessero la gioia della condivisione. Ma c’erano quei bambini, che irradiavano gioia, condividendo la gioia con la loro madre perché lei aveva amore da dare. E vedete è qui che comincia l’amore – a casa. E voglio che voi – e sono molto grata per quello che ho ricevuto.

    È stata un’esperienza enorme e torno in India – tornerò la prossima settimana, il 15 spero – e potrò portare il vostro amore. E so bene che non avete dato del vostro superfluo, ma avete dato fino a farvi male. Oggi i piccoli bambini hanno – ero così sorpresa – c’è così tanta gioia per i bambini che hanno fame. Che i bambini come loro avranno bisogno di amore e cura e tenerezza, come ne hanno tanto dai loro genitori. Così ringraziamo Dio che abbiamo avuto questa opportunità di conoscerci, e questa conoscenza reciproca ci ha portati così vicini. E potremo aiutare non solo i bambini indiani e africani ma potremo aiutare i bambini del mondo intero, perché come sapete le nostre Sorelle stanno in tutto il mondo. E con questo premio che ho ricevuto come premio di pace, proverò a fare una casa per molti che non hanno una casa. Perché credo che l’amore cominci a casa, e se possiamo creare una casa per i poveri – penso che sempre più amore si diffonderà. E potremo mediante questo amore comprensivo portare pace, essere la buona notizia per i poveri. I poveri della nostra famiglia per primi, nel nostro paese e nel mondo. Per poter fare questo, le nostre Sorelle, le nostre vite devono essere intessute di preghiera.

    Devono essere intessute di Cristo per poter capire, essere capaci di condividere. Perché oggi c’è così tanto dolore – e sento che la passione di Cristo viene rivissuta ovunque di nuovo – siamo noi là a condividere questa passione, a condividere questo dolore della gente. In tutto il mondo, non solo nei paesi poveri, ma ho trovato la povertà dell’occidente tanto più difficile da eliminare. Quando prendo una persona dalla strada, affamata, le do un piatto di riso, un pezzo di pane, l’ho soddisfatta. Ho rimosso quella fame. Ma una persona che è zittita, che si sente indesiderata, non amata, spaventata, la persona che è stata gettata fuori dalla società – quella povertà è così dolorosa e diffusa, e la trovo molto difficile. Le nostre Sorelle stanno lavorando per questo tipo di persone nell’Occidente. Allora dovete pregare per noi affinché siamo capaci di essere questa buona notizia, ma non possiamo farlo senza di voi, lo dovete fare qui nel vostro paese.

    Dovete arrivare a conoscere i poveri, magari la gente qui ha beni materiali, tutto, ma penso che se noi tutti cerchiamo nelle nostre case, quanto troviamo difficile a volte sia sorriderci reciprocamente, e che il sorriso è l’inizio dell’amore. E così incontriamoci sempre con un sorriso, perché il sorriso è l’inizio dell’amore, e quando cominciamo ad amarci è naturale voler fare qualcosa. Così pregate per le nostre Sorelle e per me e per i nostri Fratelli, e per i nostri Collaboratori che sono sparsi nel mondo. Essi possono rimanere fedeli al dono di Dio, amarlo e servirlo nei poveri insieme con voi. Quello che abbiamo fatto non avremmo potuto farlo se voi non lo aveste condiviso con le vostre preghiere, i vostri doni, questo continuo dare. Ma non voglio che mi diate del vostro superfluo, voglio che mi diate finché vi fa male. L’altro giorno ho ricevuto 15 dollari da un uomo che è stato sdraiato per venti anni, e l’unica parte che poteva muovere è la mano destra. E l’unica cosa di cui gode è fumare. E mi ha detto: non fumo per una settimana, e ti mando questi soldi.

    Deve essere stato un sacrificio terribile per lui, ma guardate quanto è bello, come ha condiviso, e con quei soldi ho comprato del pane e l’ho dato a quelli che sono affamati con gioia da tutte e due le parti, lui stava dando e i poveri stavano ricevendo. Questo è qualcosa che voi e io – è un dono di Dio per noi poter condividere il nostro amore con gli altri. E fate come se fosse per Gesù. Amiamoci gli uni gli altri come egli ci ha amato. Amiamo Lui con amore indiviso. E la gioia di amare Lui e amarci gli uni gli altri – diamo ora – che Natale è così vicino. Conserviamo la gioia di amare Gesù nei nostri cuori. E condividiamo questa gioia con tutti quelli con cui veniamo in contatto. E questa gioia radiosa è vera, perché non abbiamo motivo di non essere felici perché non abbiamo Cristo con noi. Cristo nei nostri cuori, Cristo nel povero che incontriamo, Cristo nel sorriso che diamo e nel sorriso che riceviamo. Facciamone un impegno: che nessun bambino sia indesiderato, e anche che ci accogliamo con un sorriso, specialmente quando è difficile sorridere.

    Non dimentico mai qualche tempo fa circa quattordici professori vennero dagli Stati Uniti da diverse università. E vennero a Calcutta nella nostra casa. Stavano parlando e dicevano di essere stati alla casa per i morenti. Abbiamo una casa per i morenti a Calcutta, dove abbiamo raccolto più di 36000 persone solo dalle strade di Calcutta, e di questo grande numero più di 18000 hanno avuto una bella morte. Sono semplicemente andati a casa da Dio; e sono venuti nella nostra casa e abbiamo parlato di amore, di compassione, e poi uno di loro mi ha chiesto: Madre, per favore ci dica qualcosa che possiamo ricordare, e ho detto loro: sorridetevi gli uni gli altri, dedicatevi del tempo nelle vostre famiglie. Sorridetevi.

    E un altro mi ha chiesto: sei sposata, e ho detto: sì, e trovo a volte molto difficile sorridere a Gesù perché può essere molto esigente a volte. Questo è qualcosa di vero, ed è là che viene l’amore – quando è esigente, e tuttavia possiamo darlo a Lui con gioia. Come ho detto oggi, ho detto che se non vado in Cielo per qualcos’altro andrò in cielo per tutta la pubblicità perché mi ha purificata e sacrificata e resa veramente pronta ad andare in Cielo. Penso che questo sia qualcosa, che dobbiamo vivere la nostra vita in modo bello, abbiamo Gesù con noi e Lui ci ama. Se potessimo solo ricordarci che Gesù mi ama, e ho l’opportunità di amare gli altri come lui ama me, non nelle grandi cose, ma nelle piccole cose con grande amore, allora la Norvegia diventerebbe un nido d’amore. E quanto bello sarà che da qui sia stato dato un centro per la pace. Che da qui esca la gioia per la vita dei bambini non nati. Se diventate una luce bruciante nel mondo della pace, allora veramente il Nobel per la pace è un dono per il popolo norvegese.

    Dio vi benedica!




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 26/09/2013 15:41

    Frecce per Radio Spada (11): Padre Roger Thomas Calmel

     

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    D’altra parte, il soprannaturale non si può né volatilizzare né modificare: esso è fermo e preciso; ha un volto determinato, una configurazione completa e definitiva: dopo l’Incarnazione del Verbo, dopo la Croce redentrice e la discesa dello Spirito Santo, il solo soprannaturale che esiste è cristiano e cattolico. Esso è reale solo in Christo Jesu et Virgine Maria et Ecclesia Christi. Perciò se ancora si conserva nel proprio animo il punto di vista del Vangelo di Gesù Cristo e dei primi venti Concili, si vede con tutta chiarezza ciò che ricaccia nel niente la chimera dell’unità ecumenica: l’obbligo di piegare il ginocchio davanti al Figlio dell’Uomo, autore e dispensatore sovrano della salvezza, sì, ma unicamente nell’unica Chiesa da Lui fondata. 

    Oggi che la Chiesa è avvolta dalle nebbie e dai fumi dell’infernale modernismo, confessare la fede nella Chiesa, nei suoi dogmi e nei suoi Sacramenti, consiste nel mantenere intatte le definizioni ed i riti tradizionali, perché questi sono leali e veritieri e non danno adito a nessuna ambiguità. Confessare la fede nella Chiesa di fronte al modernismo, essere contenti di poter soffrire per rendere una bella testimonianza alla Chiesa ovunque tradita, significa vegliare con lei nella sua agonia o vegliare con Gesù, che continua, nella sua Chiesa afflitta e tradita, la sua agonia dell’Orto degli Olivi. Nella misura in cui saremo fedeli nel vegliare, inaccessibili al timore mondano e allo sconforto, sapremo per esperienza che la Santa Chiesa è un mistero di forza soprannaturale e di pace divina.  

    Il Signore ha fondato la sua Chiesa non quale istituzione religiosa provvisoria, destinata a trasformarsi poi indefinitamente, ma come la società definitiva di salvezza, costituita una volta per sempre, con i suoi poteri di celebrare il culto della nuova Legge e di trasmettere agli uomini la grazia e la verità; soprattutto con la carità, che scaturisce dalla Croce e dai sette Sacramenti; la carità che arderà nel cuore della Chiesa fino alla Parusìa e per l’eternità.  

    Troppi dignitari ecclesiastici si sono lasciati andare alla perversione modernista dell’intelligenza; sono giunti a non trovare più mostruosa l’abitudine di affermare nello stesso discorso proposizioni incompatibili, perché considerano l’intelligenza inetta a cogliere il vero. (…) 

    Chi consente a questa deformazione mentale si vieta di condannare eretici o eresie e non si ritiene legato da nessun dogma: contempla con distacco e benevolenza le tesi più opposte, sforzandosi di valorizzare in ciascuna gli elementi che preparano un avvenire migliore e che si ricollegano più o meno a un sedicente spirito evangelico (in cui il Vangelo è interpretato come il fermento di un avvenire ideale, ma non è accettato come una regola definitiva, fedelmente custodita da una Tradizione divinamente assistita). 

    E tuttavia quand’anche la prova della Chiesa fosse cento volte più straziante, cento volte più crudele, il Signore ne è sempre il Maestro e il Re. A Lui è stato dato ogni potere, dinanzi a Lui si piega ogni ginocchio in cielo, sulla terra e nell’inferno, ivi compreso questa specie d’inferno, per ora indolore, che è la setta modernista. Essa non può nuocere oltre gli stretti limiti che il Signore le ha fissato e il Signore non le concede un certo potere di offuscare, falsare e scandalizzare in mille modi se non per il bene degli eletti e per accrescere lo splendore di grazia della Sua Chiesa. 

     

    Sacerdoti vinti dalla seduzione osino pure a dire a chiare note ciò che insinuano con molte reticenza; proclamino, se ne hanno il coraggio, facciano recitare e cantare un Credo aggiornato, e dicano: “Credo in una Chiesa mutevole, che deve mettersi al passo con la storia e convertirsi dai suoi peccati”. Quanto a noi, inseriti nella Tradizione di due millenni, continuiamo a credere alla Chiesa Santa, una attraverso i secoli, che non commette colpe e non deve convertirsi, benché non cessi di rendere più effettiva la conversione di coloro che ha generato alla vita soprannaturale; una Chiesa che non è mai in ritardo per portare ai peccatori la salvezza; una Chiesa, il cui movimento e il cui cammino non sono determinati dalla storia, ma dallo Spirito di Dio (la storia è un’occasione, non una causa efficiente).

    La Chiesa non pecca. Essa chiede perdono al Signore non per i peccati che ha commesso lei, ma per i peccati che commettono i suoi figli, nella misura in cui non l’ascoltano come madre. La Chiesa non è impura: essa si purifica non nel senso che si laverebbe dalle sue sozzure, ma nel senso che essa rende puri i figli che ha generati, ovvero nel senso che cresce in santità, partendo non dall’impurità, ma da un precedente grado di santità. La Chiesa non è mai deformata: essa si riforma… nel senso che essa non cessa mai di ricondurre i suoi figli all’integrità della dottrina, alla rettitudine dei costumi, al sentimento della nobiltà e della dignità nell’esercizio delle loro cariche. (…)

     

    La Chiesa nella quale crediamo è sempre pronta per tutte le ore del tempo di Salvezza; invulnerabile agli errori e ai peccati del mondo, d’una misericordia che niente stanca per le anime che ricorrono ad essa. Il suo viso e il suo cuore custodiscono inalterata l’immagine di Nostra Signora, la Vergine Madre di Dio, che è il suo rifugio, sua Madre e sua Regina.

    (R.T. Calmel O.P., Breve apologia della Chiesa di sempre, Editrice Ichthys 2007).

    Testo a cura di Marco Massignan



    [SM=g1740733]


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    00 27/09/2013 16:08
    Pubblicato in data 26/set/2013 da Don Leonardo


    I diritti di Dio e la liturgia.

    La liturgia della Chiesa dal Concilio Vaticano II ai nostri giorni. Conferenza di Mons. Nicola Bux e del Dottor Daniele Nigro, seguita da dibattito con i presenti, tenuta presso la sala san Michele arcangelo Giovedì 26 Settembre 2013

    DA NON PERDERE!!!!!




    [SM=g1740717]


    [SM=g1740722]



    [SM=g1740758] L'ATEISMO E' UNA DROGA PER L'INTELLETTO!!!!

    Gustatevi (e seriamente preoccupiamoci) della vera APOSTASIA che stiamo vivendo..... perchè se non "gustiamo" davvero gli interessi verso Dio, questa è la fine che faremo....
    Un grande mons. Livi spiega i fatti, spiega in cosa consiste questa apostasia e di come non ci sia nulla di nuovo in questa lotta di Satana contro Cristo e la Chiesa....
    ... e se di fatto non c'è nulla di nuovo in questa battaglia di Satana contro Cristo e la Chiesa, di nuovo c'è il fatto che i veri seguaci di Satana stanno diventando I CRISTIANI che rinnegano il Battesimo con lo sbattezzo mons. Livi lo spiega benissimo... e non è un caso che Papa Francesco insista da mesi sul Battesimo....

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    [Modificato da Caterina63 05/02/2014 08:59]
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    00 27/01/2014 14:22

      Sentire cum Ecclesia




    Padre-Roger-Thomas-CalmelTra i diversi mantra diffusi dai novatores degli ultimi 50 anni, v’è anche questo: sentire cum Ecclesia, spesso adoperato per piegare ad una falsa religione le coscienze dei cattolici incerti e pavidi. P. Calmel, teologo domenicano di alto profilo, audace e strenuo difensore della sacra tradito Ecclesiae, offre una illuminante messa a punto sull’autentico sentire cum Ecclesia che deve animare ogni vero figlio della Chiesa.  

    In attesa della vittoria di Cristo Re, i cattolici devono prendere delle decisioni dolorose e rifiutare ogni sorta di collaborazione con la rivoluzione. “Le carenze dell’autorità gerarchica, la potenza straordinaria delle autorità parallele, i sacrilegi nel culto, le eresie nell’insegnamento dottrinale” li obbligano a rispondere un non possumus a tutti gli inviti e a tutte le minacce. Ma – ci si chiede – non perderanno a causa di ciò il loro legame con la Chiesa? rimarranno figli della Chiesa? non rischiano di diminuire in loro il sentire cum Ecclesia che fa la forza del cattolico? Per rassicurarli, il Padre Calmel, in un articolo del gennaio 1975, tratta con lealtà queste questioni delicate che impongono ai cattolici il dovere della resistenza.

    Inizia col notare come i sacerdoti, religiosi e religiose che dicono aver preso «le parti di ciò che chiamano l’obbedienza», «in realtà seguono, generalmente senza grande entusiasmo, delle indicazioni ambigue;  subiscono,  “incassano” le innovazioni». Ciò è molto lontano dall’obbedienza cristiana. Spesso «sono abusati piuttosto che colpevoli». Tuttavia, qualsiasi cosa dicano, «la loro condotta fa il gioco della sovversione. Si sono piegati, in effetti, a delle innovazioni disastrose; delle innovazioni introdotte da nemici nascosti, delle trasformazioni equivoche e polivalenti, che non hanno altro scopo effettivo se non quello di sradicare una tradizione certa e solida, di debilitare e, finalmente, di cambiare pian piano la religione».

    Ora i cattolici che ci tengono ai costumi, alla dottrina, alla liturgia, in una parola, alla Chiesa di sempre, questi fedeli che credono che «la Chiesa condanna la rivoluzione e la condannerà sempre, che essa si chiami liberalismo o socialismo», «questi cristiani fedeli li accuseremo forse di disobbedienza?».

    Questi cattolici «rifiutano i compromessi; rifiutano d’entrare in complicità con una rivoluzione che è sicuramente modernista. Sociologicamente essi sono tenuti in disparte», sono umiliati, esclusi da ogni responsabilità. Tuttavia, senza amarezza, ci tengono che «la loro fedeltà sia penetrata d’umiltà e di fervore; non hanno gusto né per il settarismo, né per l’ostentazione. Stando al loro posto, essi cercano di mantenere ciò che la Chiesa ha loro trasmesso». In definitiva, questi cristiani fedeli non sono altro che degni figli della loro Madre:

    Facendo così non dubitiamo di essere figli della Chiesa. Non formiamo in nessun modo una piccola setta marginale; siamo della sola Chiesa cattolica, apostolica e romana. Prepariamo, facendo del nostro meglio, il giorno benedetto in cui, avendo l’autorità ritrovato se stessa, nella piena luce, la Chiesa sarà finalmente liberata dalle caligini soffocanti della prova attuale. Benché questo giorno tardi a venire, proviamo a non tralasciare niente del dovere essenziale di santificarci; facciamolo custodendo la Tradizione nello stesso spirito in cui l’abbiamo ricevuta: uno spirito di santità.

    Il Padre Calmel cita ancora ciò che gli diceva il suo amico Luigi Daménie, fondatore e direttore dell’Ordine Francese, verso la fine del 1969: «Dopo tutto, è la Chiesa che mi ha insegnato a fare come faccio: non patteggiare con ciò che distrugge la fede».

    Termina il suo articolo con una visione di speranza, fondata sulla sua fede irremovibile nella santità della Chiesa:

     […] Custodiamo la Tradizione con pazienza. Le forze moderniste occupanti non potranno imbavagliare per tanto tempo le sacre labbra della nostra Madre. Ella ci dirà ad alta voce che non abbiamo niente di meglio da fare che mantenere santamente la Tradizione. Patientia pauperum non peribit in finem (salmo 9). La pazienza dei poveri non sarà indefinitamente ingannata.

    Questa fiducia, beninteso, non esclude in alcun modo il combattimento, questa speranza non paralizza le iniziative. È per questo che nel numero seguente della rivista Itinéraires, Padre Calmel chiama i fedeli all’azione. Poiché «Le innovazioni postconciliari» sono «un sistema strategico d’occupazione», conviene fondare e mantenere modestamente dei fortini della fede:

    Avendo visto dove siamo, misuriamo quello che resta in nostro potere. Ciò che rimane in nostro potere è prima di tutto l’orazione e la vita nascosta in Dio; ciò che rimane in nostro potere è ancora ciò che la rivista Itinéraires ha tante volte preconizzato: senza scalpore e senza rumore costituire dei fortini di resistenza, di attaccamento pii e viventi alla Tradizione. Questi fortini sembreranno ridicoli; di fronte alla Chiesa apparente e occupante sembrano una difesa troppo debole. Che importa? La grazia di Dio non si misura con quello che appare. È in nostro potere compiere modeste opere di resistenza e di mantenerle. Dunque non dobbiamo esitare, con la grazia di Dio. Io parlo soprattutto della vita interiore, del colloquio che deriva dalla vita di preghiera, dal sacro studio umilmente guidato, dalla carità fraterna, dalla modestia. Possiamo riprendere a questo proposito tutte le raccomandazioni di san Paolo e indirizzarle a queste minuscole comunità nascenti, questi primi fortini di Salonicco o d’Efeso.

    Per ricapitolare il pensiero sia teologico sia pratico del P. Calmel, conviene rivisitare le ultime righe da lui scritte sulla rivista Itinéraires […]:

                La grazia fa sì che il desiderio della santificazione si mantenga al livello della fermezza della resistenza […] la grazia fa sì che nella resistenza risoluta, che è quella necessaria per rendere testimonianza, la pace interiore, lungi dal venir meno, si accresca. […] occorre nutrire l’orazione con la preghiera della Chiesa secondo i tempi liturgici; la conversazione interiore deve svolgersi alla luce dei misteri della fede conformemente del resto alla pratica del rosario; che la testimonianza sia resa per amore […].

     

    Tratto da : Père Jean-Dominique Fabre, Le père Roger-Thomas Calmel (1914-1975). Un fils de saint Dominique au XX siècle, Clovis 2012, pp. 597-600.




     


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 15/09/2014 13:03

     Intervista a mons. Antonio Livi: senza metafisica non c'è teologia


      Monsignor Antonio Livi, nato a Prato nel 1938, è uno dei più importanti teologi italiani. Allievo di Etienne Gilson (1884-1978), è iniziatore nel Novecento della scuola filosofica del senso comune, rappresentata dalla ISCA (International Science and Commonsense Association), che ha come organo ufficiale la rivista "Sensus communis - International Yearbook of Alethic Logic", di cui è fondatore e direttore. Docente, di antropologia, filosofia e di logica, socio ordinario della Pontificia Accademia di San Tommaso, è stato il Decano della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense dal 2002 al 2008 e Professore emerito di Filosofia della conoscenza nella Pontificia Università Lateranense dal 2008. Autore di diversi libri importanti, tra cui «Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica "scienza della fede" da un'equivoca "filosofia religiosa"», edito dalla Casa Editrice Leonardo da Vinci, della quale è anche il direttore editoriale. Molto gentilmente ha accettato di rilasciare un'intervista al nostro sito.

    Ritratto di mons. Antonio LiviRitratto di mons. Antonio Livi

    La metafisica è alla base della teologia cristiana

    Mons. Livi, prima di tutto, La ringraziamo per averci concesso quest’intervista. Vorremmo cominciare chiedendoLe se può spiegare in cosa consiste esattamente la metafisica.

     

    La metafisica non è un optional per l’intelligenza. Essa è l’essenza stessa della filosofia, in quanto esigenza razionale dell’uomo che desidera orientarsi nel mondo in cui vive e si domanda da dove viene, dove va e che ruolo gli spetta nella vita. La filosofia è ricerca di quella sapienza che è molto più necessaria per l’uomo di quanto non siano le conoscenze tecniche offerte dalle scienze particolari. Questa sapienza l’uomo la trova in sé stesso, inizialmente, nelle certezze fondamentali che costituiscono il “senso comune”, e poi anche nella religione naturale, che è presente in forme diverse tutte le civiltà. Ma un approccio propriamente scientifico (ossia rigoroso e dimostrativo) ai grandi temi della sapienza è pure necessario, e per questo la civiltà greca classica elaborò una “scienza dell’intero” che è appunto la metafisica. Essa fu ed è tuttora talmente ricca di vera sapienza naturale che il cristianesimo, quando si diffuse nel modo ellenistico, ne fece lo strumento privilegiato dell’interpretazione razionale della verità rivelata. Così nacque la teologia cristiana, che senza metafisica non può esistere, perché i dogmi della Chiesa cattolica - che la teologia è chiamata a interpretare razionalmente - sono tutti formulati in termini metafisici. Lo spiegò molto bene, agli inizi del Novecento, Réginald Garrigou-Lagrange (vedi il suo capolavoro, Il senso comune, la filosofia dell’essere e le formule dogmatiche, trad. it., Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2013).

    Nella stragrande maggioranza dei seminari, così come nelle università teologiche, nonché dalle cattedre episcopali, viene insegnato che la metafisica tomista è superata, perché ha un concetto dell’uomo come di un “animale razionale”. La “svolta antropologica”, invece, avrebbe restituito alla persona umana la dignità che le compete: essere il centro dell’universo. Qual è la sua opinione?

     

    Chi dice cose di questo tipo dimostra una sconfinata ignoranza delle cose di cui parla. In realtà, la dignità dell’uomo è stata difesa e attuta nella prassi sociale proprio dalla teologia cristiana, che ha elaborato già nell’età patristica l’originale e feconda nozione dell’uomo come “persona”. E questa preziosa nozione è di natura schiettamente metafisica, tant’è che coloro che la mettono da parte non hanno più argomenti per difendere la vita dalla prassi abortista e dalle leggi che la giustificano. Senza metafisica tutte le opinioni, anche le più assurde, sul nascituro sembrano convincenti e ammissibili, tanto che di fatto sono ammesse dalla cultura dominante. Quanto alla “svolta antropologica”, essa in realtà ha solo tolto alla teologia la nozione di Dio come creatore e redentore dell’uomo, facendo credere a qualche sprovveduto che è l’uomo e non Dio l’autore della legge morale.

    Uno delle sue opere più belle e più importanti è, senz’altro, «Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”». Può spiegare, per quando sia possibile farlo in un’intervista, come riconoscere la “scienza della fede” dalla “filosofia religiosa”»?

     

    La vera teologia è quella scienza che fa un cristiano che crede alla rivelazione divina, formalizzata nei dogmi della Chiesa, e tenta di illustrare razionalmente i contenuti di questa rivelazione, svolgendo così una missione culturale preziosa al servizio della fede di tutti noi. Quando invece uno studioso, cattolico o luterano che sia, prescinde dalla verità della rivelazione divina e mette i dubbio o interpreta arbitrariamente i dogmi della fede, le sue tesi sono mera “filosofia religiosa”. La “filosofia religiosa” si riconosce subito, perché è sempre un discorso ambiguo, spesso soltanto retorico, che tenta di imporre anche ai credenti una sapienza meramente umana, con la pretesa di possedere una conoscenza superiore rispetto alla fede dei “semplici” e persino rispetto al magistero della Chiesa (tecnicamente questo si chiama “gnosticismo”).

    Nouvelle théologie, faux théologiens

    La “nouvelle théologie” è vera o falsa teologia?

     

    La “nouvelle théologie” comprende studiosi e opinioni teologiche molto diverse. Alcune di queste opinioni sono state severamente condannate da Pio XII nell’enciclica Humani generis (1950). Altre sono state accettate dal magistero ecclesiastico, ma sempre come opinioni, che restano legittime nella misura in cui non escludono fanaticamente le opinioni diverse (ad esempio quelle della benemerita e sempre valida scuola tomistica).

    Le facciamo alcuni nomi molto noti nel mondo teologico contemporaneo: Pierre Teilhard de Chardin, Karl Rahner, Henri de Lubac, Jean Daniélou, Hans Urs von Balthasar, John Courtney Murray; Yves Congar, Dominique Chenu, Edward Schillebeeckx; Louis Bouyer, Bernhard Häring, Johann Baptist Metz e Hans Küng. Può dirci, fra costoro, chi è stato un autentico teologo e chi, invece, un ambiguo filosofo religioso?

     

    Si fa presto a rispondere: Pierre Teilhard de Chardin, Karl Rahner, Edward Schillebeeckx, Bernhard Häring, Johann Baptist Metz e Hans Küng sono tutti autori di teorie teologiche false, in quanto contrarie allo spirito e talvolta anche alla lettera del dogma cattolico. Le loro opere sono tutte espressioni della medesima filosofia religiosa di stampo immanentistico e progressistico, anche se ciascuno di essi ha lavorato in campi diversi. Degli altri autori da Lei citati si può dire che sono teologi seri, autori di opere importanti, anche se alcuni di loro hanno aderito talvolta a correnti di pensiero di orientamento fideistico. Ci sono poi altri nomi da ricordare tra i veri teologi, ad esempio lo svizzero Charles Journet e naturalmente il tedesco Joseph Ratzinger.

    "Falsi profeti" e "cattivi maestri"? No, grazie.

    Lei è stato protagonista di un’annosa polemica con Enzo Bianchi, il “priore” della comunità di Bose. In più di una occasione Lei ha messo in guardia i fedeli dai “falsi profeti” e dai “cattivi maestri”. Come riconoscere – e difendersi – da queste due pericolose categorie?

     

    Ripeto ancora una volta che il criterio cattolico per discernere il vero profeta dal falso profeta e il buon maestro dal cattivo maestro è la fedeltà ai dogma cattolico. Già san Paolo ammoniva i primi cristiani: «Se qualcuno propone un Vangelo diverso da quello che io vi ho annunciato, non unitevi a lui!». L’unico Maestro è Gesù, come Egli stesso ha formalmente dichiarato. Poi Gesù ha voluto affidare la rivelazione dei misteri della salvezza agli Apostoli, dicendo: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi disprezza me». Quindi, noi cattolici dobbiamo dare retta sempre e soltanto al magistero della Chiesa, ossia alla dottrina degli Apostoli e dei loro successori, una dottrina che costituisce una catena ininterrotta di fedele trasmissione degli insegnamenti e dei comandamenti di Cristo Maestro. Quando sentiamo teologi o “santoni” che criticano il magistero della Chiesa (quello solenne dei concili ecumenici e quello ordinario dei Papi), e propagandando una nuova Chiesa «senza dogmi e senza magistero», possiamo essere certi che si tratta di “cattivi maestri”. Dobbiamo evitare di diventarne discepoli, e se possiamo sarà bene anche dissuadere gli altri da credere che siano davvero la “voce dello Spirito”. Non occorre parlar male di nessuno: basta chiarire che ci sono forti e fondati motivi per credere al magistero della Chiesa, che sappiamo essere assistito infallibilmente dallo Spirito Santo, mentre non c’è assolutamente alcun motivo per credere a quelle persone, quale che sia l’appoggio del quale godono da parte dei mass media...

    Il "concilio mediatico" è forse quello dei teologi?

    Siamo nel cinquantesimo del Vaticano II. Il 21° concilio che cosa è stato, concretamente, per la Chiesa cattolica? Uno mezzo, un fine, una benedizione, un disastro, una svolta, oppure?

     

    Sono state dette tante cose sul Vaticano II in questi cinquant’anni. Io, come cattolico, non voglio parlarne se non come un momento di quella «evoluzione omogenea del dogma» (secondo l’espressione felice di Marin Sola) che assicura sempre ai fedeli la trasmissione fedele della dottrina di Cristo e la sua opportuna applicazione pastorale in ogni tempo. Questo concilio ecumenico non ha voluto introdurre alcuna variazione sostanziale nel dogma, ma solo aprire la strada a una nuova evangelizzazione, nei modi ritenuti più confacenti alla situazione culturale del mondo moderno. Le riforme conciliari, come quella della liturgia, sono state viste come utili alla pastorale anche da personalità ecclesiastiche di profonda spiritualità e di sicura ortodossia, come il cardinale Siri (vedi Giuseppe Siri, Dogma e liturgia, a cura di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2014). Certo, ci sono stati anche tanti orribili abusi liturgici, ma sono tutti contrari alla lettera e allo spirito dei decreti conciliari. Como sono contrari alla lettera e allo spirito dei decreti conciliari i discorsi di chi manipola il Vaticano II per imporre, sotto l’etichetta di “teologia conciliare”, la propria ideologia. Il Vaticano II è un momento del magistero ecclesiastico, che ha come unici titolari i vescovi in comunione con il Papa. Un concilio è autorevole perché un Papa lo ha convocato, un Papa lo ha presieduto e infine un Papa lo ha promulgato. Il Concilio non è un’assemblea di teologi, con una maggioranza (i progressisti) che ha vinto e una minoranza (i conservatori) che è stata sconfitta. Lo ha spiegato bene papa Benedetto XVI, quando ha voluto distinguere opportunamente tra il vero Concilio e il «concilio dei media». E qui torniamo al discorso dei falsi profeti e dei cattivi maestri, il cui imperdonabile peccato è di essersi sostituiti arbitrariamente, con l’uso accorto della retorica, a chi nella Chiesa ha autorità (divina) per insegnare, dirigere e santificare.

    Papa Francesco tra entusiasmo e perplessità

    Il personalissimo pontifico di papa Francesco – forse il primo vero “papa del Vaticano II” –, fatto più di gesti che di magistero, entusiasma molti, ma lascia perplessi altrettanti. Un papa può essere criticato? E, se la risposta è positiva, in che modo?

     

    Io non direi che l’attuale pontefice sia «il primo vero papa del Vaticano II». Stando alla realtà, ossia ai criteri dettati dalla dottrina teologica, il Vaticano II è stato fedelmente e pienamente attuato già dagli insegnamenti e dalle decisioni pastorali di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Non ha alcun senso affermare il contrario (come fanno falsi i teologi come Hans Küng e cattivi maestri come il cardinal Martini). Papa Francesco, quando ha parlato come maestro della fede, non ha mai contraddetto i suoi predecessori. I suoi due unici documenti dottrinali (l’enciclica Lumen fidei e l’esortazione apostolica Evangelii gaudium) non contengono alcun insegnamento in contrasto con quelli di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Se poi si vuole parlare di gesti e discorsi che non impegnano in alcun modo l’infallibilità, e quindi non vincolano in coscienza i fedeli cattolici, tutti sono liberi di commentarli positivamente o negativamente (sempre con il dovuto rispetto). Ma io raccomando a tutti di usare meglio il poco tempo che abbiamo a disposizione: ci dobbiamo dedicare soprattutto a conoscere, ad amare e a vivere sempre di più la nostra santa fede cattolica e i comandamenti divini, meditando la Sacra Scrittura e prestando attenzione ai documenti del Magistero, compendiati nel Catechismo della Chiesa Cattolica.

    Potrebbe dare dei consigli pratici sia ai “fedeli entusiasti”, affinché non cadano nella papolatria, e ai “fedeli perplessi”, affinché non inciampino nella disobbedienza?

     

    Vale per questa domanda quello che ho detto rispondendo alla domanda precedente. Preciso solo una cosa: la disobbedienza al papa si ha solo quando si agisce contro ciò che è stabilito dal Diritto canonico o è stato formalmente ordinato dall’autorità pontificia attraverso uno dei dicasteri della Santa Sede. Non c’è disobbedienza se un fedele cattolico assume opinioni e attua iniziative all’interno di quei precisi margini di libertà che la Chiesa gli riconosce.

    Matrimonio e famiglia, la pastorale deve insegnare la dottrina, non raggirarla

    Parliamo della famosa “relazione Kasper” dello scorso febbraio sulle situazioni irregolari di molte famiglie. Pensa che la “soluzione”, chiamiamola così, del cardinale tedesco sia quella giusta? Non Le pare – Le porgiamo la domanda in quanto teologo dogmatico – che si stia cercando di “raggirare” l’“ostacolo” dell’immutabilità dogmatica per mezzo della prassi pastorale?

     

    Se da una parte il cardinal Kasper (che come teologo è assai ambiguo e incoerente) vaneggia di una presunta “pastorale” che di fatto mette da parte il dogma sacramentario e il diritto canonico, altri cardinali teologicamente molto più credibili (tra gli altri, Carlo Caffarra, Mauro Piacenza e Walter Brandmüller) hanno chiarito a più riprese che nella Chiesa la pastorale è un’applicazione fedele e intelligente del dogma all’opera di santificazione dei fedeli. Non è una mera prassi di “accoglienza” e di benevolenza umana con le persone che sono in stato di peccato mortale e non ne vogliono uscire, cambiando vita e ricorrendo al sacramento della riconciliazione. La pastorale è incoraggiamento alla conversone, non connivenza con il peccato altrui (forse per rendere la propria coscienza meno avvertita circa i peccati propri).

    Infine, nel ringraziarla ancora calorosamente, le domandiamo – se ai prossimi sinodi sulla famiglia vincerà la “soluzione Kasper” – come dovrà comportarsi il piccolo gregge che vuole restare fedele al comandamento del suo vero e unico Buon Pastore?

     

    Escludo ne modo più categorico la possibilità che il Papa avalli un sinodo dei vescovi nel quale venga abolita la dottrina sacramentaria e canonica sul matrimonio e l’Eucaristia. Se ciò avvenisse, sarebbe davvero l’inizio di uno scisma nella Chiesa. Eventualità che nessun fedele cattolico può auspicare e tanto meno contribuire a che si verifichi. L’attivo contributo a far sì che ci siano eresia e scisma costituisce uno tra i peggiori peccati contro lo Spirito Santo. Se un legge il libro dell’Apocalisse si accorge che Dio prevede questi mali per la sua Chiesa: non solo le persecuzioni da “fuori”, ma anche gli attentati da “dentro”, come sono appunto l’eresia e lo scisma. Ma la Scrittura ci assicura anche che «le porte degli inferi non prevarranno». La Chiesa è di Cristo, ripeteva Benedetto XVI negli ultimi giorni del suo pontificato. Ciò significa che noi, semplici fedeli, nel tempo del nostro pellegrinaggio terreno non dobbiamo fare altro che essere personalmente fedeli, cioè vivere uniti a Cristo con la grazia santificante, e poi adoperarci con tutti i mezzi dell’apostolato affinché anche gli altri (quelli che possiamo orientare con il nostro esempio e la nostra parola) lo siano. Poi, lasciamo tutto nella mani della Provvidenza, e non pretendiamo di sostituirci ad essa.

    Questo è il sito personale del prof. Antonio Livi: http://www.antoniolivi.com/it/

    Sito ufficiale della Casa Editrice Leonardo da Vinci






    [Modificato da Caterina63 15/09/2014 13:03]
    Fraternamente CaterinaLD

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    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 22/03/2015 12:50

      Cornelio Fabro, poco noti e edificanti aspetti di un vero teologo


    Intervista alla segretaria che per decenni ne fu la più stretta collaboratrice

    Domenica delle Palme 2014



    Disputationes Theologicae ringrazia Suor Rosa Goglia - autrice di Cornelio Fabro, profilo biografico (Edivi, Segni 2010), libro particolarmente rivelatore della personalità del grande filosofo e teologo stimmatino - per la disponibilità con cui ha accettato di rispondere alle nostre domande. Ci scusiamo con Suor Rosa per il ritardo con cui esce questo suo contributo, ritardo dovuto alle incombenze legate alla nuova fondazione ecclesiastica; siamo particolarmente contenti di pubblicarlo visto appunto il suo notevole valore disvelatore del grande uomo di Dio che sta dietro l’alta produzione metafisica.




    1)  Cornelio Fabro passa alla storia come il grande metafisico, forse il più grande del secolo appena trascorso. Come viveva il suo essere teologo?
    Fabro è un pensatore radicale, non è un uomo di corrente o di scuola, egli si pone di fronte ai temi decisivi per l’esistenza e prende posizione. Il peso stesso dell’erudizione non appiattisce mai l’inquieta ricerca e la religiosa “cura dell’anima”. Non era un uomo immerso nell’accademismo astratto, la Commissione per il concorso a cattedra dell’Università di Bari lo definì «degno di molta considerazione per la sue doti teoretiche», ma non mancò di scorgere i suoi accenti «polemici» e «tendenziosi», evidentemente sul centrale “problema di Dio”. Il Cornelio Fabro filosofo è un tutt’uno col teologo e con l’uomo di Dio, per il quale il problema essenziale di Dio è il problema essenziale dell’uomo.

    In ogni suo scritto si legge l’indispensabile esigenza di restituire alla ragione la sua dimensione metafisica in grado di attingere il trascendente.

    2) Un aspetto poco conosciuto di questo grandissimo intellettuale è, in effetti, la sua passione per il creato…
    Nelle sue memorie ci parla della sua infanzia con gli animali domestici, le piccole sorgive nella zona di Flumignano (UD) suo paese natale, e si intuisce il ruolo che l’osservazione del creato ebbe fin dalla sua infanzia molto provata da serie malattie e conseguente immobilità. Frequenta per tre anni i corsi di Scienze naturali all’Università di Padova, si occupa di biologia, di embriologia, di genetica, di fisiologia comparata, di natura della vita e specialmente degli stretti rapporti tra biologia e filosofia. Per osservare la biologia marina caldeggiò la realizzazione di un laboratorio a Roma con acqua di mare, ricordiamo anche l’argomento della sua tesi di laurea in zoologia: “Modificazioni istologiche nell’utero del pescecane” e le sue innumerevoli visite alla stazione di zoologia di Napoli, ma anche allo zoo di Roma.


    3) Forse anche questi elementi hanno aiutato, sotto il profilo umano, il suo approccio realista?
    Rimane colpito da quel modus scientifico che riscontra nell’ambiente della ricerca e dal modo di affrontare i problemi che «ti costringe a fare i conti col reale», questa esperienza lo accompagnerà quando lascia il campo scientifico per dedicarsi alla filosofia.  Di qui il suo “realismo della res”, un tutt’uno col realismo gnoseologico.C. Fabro si confronta sempre con quella «realtà che ti prende e ti costringe a fare i conti con essa, senza fumosità pseudo teoriche e divagazioni formali semantiche». Da qui la sua avversione all’ideologismo e ai sistemi troppo razionalisti, che sono per lui «una forma d’immanentismo». Il suo impegno era ed è «ridare alle intelligenze il gusto della verità e consolidare negli animi il fondamento della libertà», e Cornelio Fabro usa la sua raffinatissima intelligenza di filosofo come un bisturi per individuare ed esaminare le fibre più interne, profonde e sottili del conoscere e dell’essere. Rispondendo all’esigenza teoretica di scandaglio della fondazione metafisica della cogitativa, come forma inferiore di razionalità e forma superiore di sensibilità, C. Fabro coglie tomisticamente quell’anello di congiunzione che si situa fra l’intelletto e la sensibilità e che spiega e legittima il realismo gnoseologico.

    A questi punti fermi si ancora il suo invito all’«immersione nella realtà», all’«elasticità concettuale», alla «conversio ad praesentiam». Ovviamente sarà la lettura dei suoi scritti ad ancorarci a queste solide basi.

    4) Gli ultimi decenni della sua produzione filosofico-teologica sono stati segnati anche nella cultura cattolica dall’ideologia dell’ “apertura al mondo”, apertura che, come riconobbe con accenni autocritici il Santo Padre Paolo VI, è divenuta un’invasione della Chiesa da parte del pensiero mondano…
    L’attitudine al compromesso del mondo cattolico lo feriva e gli causava dolore, più tardi si rese addirittura conto che il suo infarto nel marzo del ‘74 era legato all’atteggiamento del mondo cattolico, troppo disponibile a compromessi sulle tematiche del divorzio e dell’aborto. Vedeva l’Italia che si allontanava dai principi cristiani e vedeva che ciò avveniva con leggi firmate dai governi democristiani.

    Più in generale la sua sincerità lo portò sempre ad essere «contro i movimenti tiepidi di compromesso tra trascendenza cristiana e immanenza moderna», come pure sempre aborriva i gruppi di potere che per utilità nascondono la verità nella volontà e “unificano” ciò che non è nemmeno lontanamente assimilabile.

    5) Diversi uomini di Chiesa, anche autorevolissimi e anche di formazione moderna, hanno denunciato una gravissima deriva dottrinale nel mondo cattolico odierno. Cosa pensava Fabro di tale fenomeno?
    C. Fabro scrive a proposito degli errori filosofici moderni e della necessità che il clero li conosca per difendersene: «gli sbandamenti nella dottrina e nella morale cattolica seguiti al Concilio, forse tra i più aberranti e gravi nella storia delle eresie, che hanno coinvolto anche larghi strati della gerarchia, che non ha seguito spesso le direttive del Vicario di Cristo, dipendevano e dipendono da questo». Dipendono ossia dall’ignoranza della vera natura del «pensiero moderno», è l’«antropologia radicale» infatti ciò che mina alle basi la trascendenza e la metafisica, portando con sé gli «sbandamenti dottrinali» sopra citati.

    Citiamo Miccoli: «Il realismo metafisico di Fabro si è imposto all’invadenza dell’idealismo, del marxismo, dell’intuizionismo bergsoniano, dell’esistenzialismo, del pragmatismo e del nichilismo, come barriera e palizzata teoretica che si erge a confine di decisive questioni concernenti Dio, Uomo, Mondo in un linguaggio intransigente, intollerante, seccamente esegetico più che ecumenicamente ermeneutico…». Egli continua parlando di Fabro come «attento e sollecito a proteggere lo spazio sacro del divino nella linea della tradizione cattolica contro i profanatori del tempio e contro gli araldi di nuove proposte teoretiche e pratiche, che gli apparivano insidiose per la vita della Chiesa in quanto equivoche, eretiche, sovvertitrici della Fides Ecclesiae».

    6)  Come fu presa la sua sincerità?
    C. Fabro è contro ogni pragmatismo dottrinale, perché esso non è altro che «odio per l’intelligenza», la sua «implacabile e immediata sincerità» non può che portarlo a «quell’amore aspro e appassionato per la verità che non guarda in faccia a nessuno» scriverà l’illustre giuria di Bassano nel 1989.

    Per la sua sincerità dovette soffrire, si pensi al libro su K. Rahner; gli fu richiesto da alcuni colleghi che lo incoraggiarono, ma poi non fu sostenuto come si doveva quando comparvero le difficoltà, l’ostracismo, le lettere indignate. Ma lui sfidò i contestatori a pubblico dibattito in Gregoriana, evidentemente tutto restò lettera morta perché nessuno voleva confrontarsi, scrive Mario Composta, tutti conoscevano la fondatezza delle sue posizioni e la forza delle argomentazioni. Ancor più triste fu constatare che gli attacchi  vennero solo dal mondo cattolico, il mondo filosofico laico non s’immischiò nemmeno e gli strali più avvelenati vennero dai vicini, ma lui continuò a condannare fermamente la “svolta antropologica” del teologo tedesco.

    7)  E come vedeva il proprio combattimento filosofico-teologico, in ultima analisi la sua battaglia per la verità?
    Attribuiva a Dio la sua forza. Cito dal suo testamento spirituale: «Se non ho mai indietreggiato davanti alla verità è stato frutto della Sua (di Dio) assistenza misericordiosa, della protezione della Madonna, degli Angeli e dei miei santi patroni, delle anime che ho potuto dirigere e di quelle che ho assistito in punto di morte nel passaggio alla patria celeste». C’è l’aiuto di Dio e c’è la fiducia nel Signore e c’è accanto l’utilizzo responsabile della libertà ordinata dalla verità, vera «partecipazione all’opera creatrice di Dio». Nelle pieghe più intime dello spirito siamo chiamati dal Creatore a partecipare all’opera redentiva, che si fonda sull’onnipotenza divina, che ci dona una libertà scaturiente e sempre rinnovantesi. Ogni libertà è una nuova creazione nel divenire del nostro essere e quindi, nel tessuto sociale in cui siamo, partecipiamo all’opera creativa di Dio. Di qui la nostra responsabilità. Nel mondo dello spirito e nel mondo sociale ci sono questi virgulti di vera libertà - che sono come i germogli che vediamo in questa primavera - essi possono rimanere sconosciuti, non visti, non apprezzati agli occhi degli uomini, ma sono una forza e sono preziosi agli occhi di Dio e al bene dell’umanità.



    Don Stefano Carusi
    Pubblicato da Disputationes Theologicae 





    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 21/07/2015 23:09



    Mons. Landucci


     


     


    Paolo Risso





    Forte Apostolo della Verità:
    Mons. Pier Carlo Landucci

    Suo padre, avvocato Tito, era pretore. Sua madre una distinta signora. Entrambi di origine toscana. Il loro figlio, Pier Carlo, nacque a S. Vittoria in Matenano (Ascoli Piceno), dove il padre esercitava la sua “magistratura”, il 1° dicembre 1900, e fu portato al battesimo, con il nome di Pier Carlo, il giorno di Natale successivo.
    Quel giorno, mentre ricordava la nascita del Signore, la Chiesa accoglieva nel suo grembo uno dei figli che più l’avrebbero amata, servita e difesa. A cinque anni, Pier Carlo Landucci, rimane orfano del padre e, con la mamma, Teresa Naldini e un fratellino più piccolo, si stabiliscono a Firenze. La fede lo sostiene e ne fa un giovane di singolare dedizione a Gesù, purezza di vita e coraggio.

     

    L’ingegnere diventa prete

    È un piccolo genio: vivace, rigoroso, intelligentissimo e studioso. A soli 17 anni, già consegue la licenza liceale al “Galilei” di Firenze e con una media altissima e inizia a frequentare Ingegneria civile all’Università di Pisa, poi, dal 1919, stabilitosi a Roma, alla “Sapienza” dove si laurea il 31 luglio 1923. Per provvedere alle sue necessità, ha già cominciato ad insegnare matematica al Ginnasio-liceo S.Appolinare. Ha un ottimo direttore spirituale nel gesuita P. Garagnani, grazie al quale perfeziona la sua formazione cristiana, con un intenso amore a Gesù Eucaristico, alla Madonna e al Papa, iscrivendosi alla “Congregazione Mariana” della “Scaletta” presso S.Ignazio. Si avvia ormai a incentrare la vita in Gesù solo.
    Nel 1923, presta servizio militare come ufficiale nell’Arma del Genio, ma l’anno successivo è già docente di matematica alla Scuola Agraria di Cagliari. Presto rimane privo anche della mamma amatissima. Sempre più conquistato da Gesù, matura la vocazione al sacerdozio, cercando nella preghiera prolungata, di averne la certezza. Il 26 luglio 1926, il brillante ingegnere e professore lascia tutto e entra nel Seminario Romano, dove compie studi teologici seri e austeri e alimenta un’intensa intimità con Dio, sostenuto dall’affidamento continuo di sé e delle sue opere alla Madonna. Il 25 maggio 1929, è ordinato sacerdote. Seguono la licenza (22 novembre 1929), poi la laurea in teologia (8 luglio 1930).
    Nominato nel 1930, rettore della chiesa del “Corpus Domini”, dove c’è l’adorazione eucaristica quotidiana, e nel medesimo tempo, “minutante” alla Congregazione dei Seminari, don Pier Carlo si distingue per il suo straordinario amore all’Eucarestia e per le luminose capacità di confessore e di direttore spirituale: molte persone si affidano alla sua guida. Assai apprezzato dalle Autorità della Chiesa, nel 1935, è nominato Rettore del Pontificio Seminario Romano minore (Ginnasio-liceo), trovandosi a dirigere circa 250 persone tra allievi, professori e assistenti. L’anno dopo, è chiamato al Seminario Romano maggiore come direttore spirituale. Il Cardinal Vicario Marchetti Selvaggiani, presentandolo agli allievi del “Maggiore”, dichiara apertamente: “Vi porto il più dotto e il più santo dei sacerdoti che ho a Roma”. Ha soltanto 36 anni.
    La disponibilità totale, la preparazione e l’impegno, la dottrina rigorosa e densa, l’umiltà e l’amabilità, la luce che diffonde nelle anime, lo rendono singolarmente autorevole, ascoltato, amato e ricercato come maestro e padre. Tra i suoi allievi, diversi salirono ai vertici della chiesa (come il futuro Card. Pietro Palazzini), mentre il “capolavoro” della sua direzione spirituale in quegli anni è il chierico Bruno Marchesini (1915-1938), di Bologna, che Mons. Landucci conduce alla santità. Dopo la morte ne sciverà la biografia (“Verso l’altare”, Roma, 1941): oggi Bruno è avviato alla gloria degli altari.
    Nonostante tanta irradiazione, nel 1942, è costretto a ritirarsi in umiltà, povertà e silenzio in un piccolo appartamento di due stanzette presso le suore di Namur, nella clinica “Madonna della Fiducia”. Potrebbe essere “la notte oscura” dell’anima, invece è l’inizio di una straordinaria missione che lo porrà in modo eccezionale come lampada sul candelabro.
    Attingiamo dal volumetto del Card. Palazzini, dal titolo; ”Mons. P.C. Landucci, maestro, guida e padre. (L.D.C., Torino, 1990) e dagli scritti dello stesso protagonista, che abbiamo potuto avere, come tesoro prezioso.
    Rimanendo canonico Lateranense, ma libero da altri impegni, Mons. Landucci si dedica alla predicazione de esercizi spirituali al Clero, ai Seminari e agli Studentati religiosi, ai laici dell’Azione Cattolica, viaggiando anche per l’Italia, fino in Svizzera e a Malta. Si dedica pure al preziosissimo ministero delle Confessioni e della direzione spirituale, in primo luogo dei sacerdoti. Tiene molti corsi di esercizi anche ai Vescovi, raccomandato loro dalla Congregazione dei Seminari. Ogni anno, alla Verna, predica uno speciale corso di esercizi agli Ordinandi, con grande entusiasmo dei giovani medesimi. E’ così buono, che lui, pur non avendo un reddito sicuro, giunge a pagare di tasca sua le spese a giovani o preti poveri, purchè possano partecipare agli esercizi, come allo stesso modo, sacrificando del suo, sostiene confratelli in difficoltà. Chi ha avuto la grazia di avvicinarlo, riconoscerà per sempre che è stato “l’angelo del sacerdozio”.

     

    Sentinella della fede

    Contemporaneamente porta avanti un’intensa attività di scrittore come apostolo e difensore della Verità del Credo Cattolico, in un tempo che con il passare degli anni, appare spesso sconvolto da sbandamenti dottrinali e disciplinari. Dei suoi numerosi libri, citiamo solo alcuni assai significativi: Maria SS. nel Vangelo (Roma, 1944), Esiste Dio (Assisi, 1948) Il mistero dell’anima umana (Assisi, 1952), Cento problemi di fede (Assisi, 1953) La sacra vocazione (Roma, 1955), Problematica della miscredenza e della fede (Roma, 1968), Il prete contestato (Roma, 1969), Seminaristi e preti (Brescia, 1970), La Verità sull’origine e sull’evoluzione dell’uomo (Roma, 1984).
    Durante il Concilio Vaticano II, Mons. Pier Carlo Landucci viene scelto come “perito”: segue tutto con la massima attenzione e vigilanza. Proprio in quegli anni, comprende che il suo compito è quello di sentinella della fede, quindi dell’autentica teologia per segnalare in tempo gli errori, per ribadire, con la Chiesa, la Verità, l’unica Verità. Nelle parole e negli scritti, egli s’impegna a mettere il guardia contro le mine alle basi stesse della Fede, contro le deduzioni erronee di certa esegesi biblica, contro lo snaturamento dell’essenza e della pietà sacerdotale, contro le contraffazioni della formazione seminaristica.
    La luce sommamente chiarificatrice, la sicurezza di Verità gli viene soltanto dalla sua vita concentrata in Dio , vissuta in totale unità con Cristo, nell’adorazione a Lui, dall’amore appassionato all’Eucarestia, che come sacrificio e Comunione, è il tesoro più caro, l’unico vero tesoro della sua vita sacerdotale.
    “Quella sua Messa così raccolta e devota, quelle parole profonde, chiare, vitali, espresse con l’energia e la convinzione della verità fatta norma di vita, non le potremo dimenticare e il loro ricordo sarà per noi stimolo di santità – gli scrivono alcuni giovani ordinandi (maggio 1952). In coloro che lo ascoltano, rimane fortemente impresso il suo discorso sulla Passione e Morte di Cristo, proprio perché in certo pensiero contemporaneo in certi movimenti, egli vede e denuncia il rifiuto o la dimenticanza del Mistero centrale del Cattolicesimo, “la negazione di ogni colleganza ontologica, soprannaturale, meritoria tra la salvezza e l’immolazione di Gesù. Crolla la nozione fondamentale di redenzione, di riscatto, cardine della fede”. Così, “l’essenza della Messa come sacrificio è nettamente negata, perché le idee sacrificali sarebbero entrate nell’Eucarestia per condiscendenza alla mentalità pagana. È escluso così il Sacrificio incruento di Gesù sacramentalmente presente, e quindi è esclusa l’attualità sacrificale della Messa”.

     

    Fama di santità

    Sulla stessa linea, Mons. Landucci ha visto sgretolarsi il carattere sacro del sacerdote, come “alther Cristus”, quindi la sua stessa formazione in Seminario. Su questo tema, scende in campo con varie pubblicazioni: “La regola – scrive – deve restare il fondamento della vita dei giovani candidati al sacerdozio”, “invece oggi, l’uso e l’abuso della parola «carisma», è fatto senza alcuna distinzione, il che significa speculare sull’“equivoco””.
    È impossibile seguire tutti gli argomenti affrontati da Mons. Landucci in campo dottrinale e pastorale, perché non c’è tema su cui nei libri e negli articoli su riviste come Palestra del Clero, Studi cattolici, Tabor, Renovatio, ecc. …, non abbia portato la luce della Verità andando spesso contro-corrente, convinto che “la sapienza cristiana non consiste nel nuovo che cambia, ma nel Vero che resta , quel vero che la chiesa da sempre ripete alle anime”. Quante sofferenze interiori, quante lacrime siano costato a Mons. Pier Carlo Landucci, il suo orientamento teologico e ascetico è facile immaginarlo, ma tutto avvolge nella preghiera e nella “riparazione trionfatrice”, di cui è maestro incomparabile.
    “In ogni momento – scrive il Card. Palazzini nel volumetto citato (pp. 16-17) – dimostrò di conoscere l’angoscia e le povere esaltazioni di chi credeva che la Chiesa avesse inizio solo con il Concilio Vaticano II; le incertezze profonde fino allo smarrimento di chi, non solido nella teologia e non fermo nella preghiera, si sentiva stordito nel travaglio di tesi contrapposte. Medicò più di una di queste anime, assistè pazientemente anime turbate; riprese anche energicamente con l’energia cristiana dell’amore? E non fu mai tra gli equilibristi della teologia, i “prudentiores” a loro dire, che si barcamenano tra ideologie opposte. La Verità è una sola. Mons. Landucci prese posizione e con quella sua logica stringente andava fino in fondo. Era difficile contrabbatterlo, perciò si preferiva farlo tacere”.
    Così, con questo stile, senza mai cercare la sua gloria, ma solo a difendere la Verità della fede e la santità delle anime, sino all’ultimo. La mattina del 26 maggio 1986, preparato da una vita di santità, improvvisamente và incontro a Dio, lasciando scritto nel suo breve intenso testamento:
    Accetto e offro il dono della morte, in spirito di riparazione per me e di propiziazione per il Papa, la Chiesa e le anime”. Il Santo Padre Giovanni Paolo II, informato e vivamente commosso di questa offerta per lui, con lettera dell’11 novembre 1986, lo definisce “degno prelato” e “generoso ministro del Signore”.
    Umili e dotti fedeli, sacerdoti, Vescovi e Cardinali sono concordi nell’attestare la fama di santità. Nel 1994, la sua salma dal Veramo è stata traslata alla chiesa di S.Giovanni Battista de Rossi. Si muovono i primi passi “affinchè il Signore voglia glorificare qui in terra questo suo Servo, a splendore e conforto dei sacerdoti, per il decoro della Chiesa e consolazione dei fedeli”.
    Giovane ardente, ingegnere brillante, soprattutto maestro della fede e padre delle anime: don Pier Carlo Landucci attende la gloria degli altari.

    Pier Carlo Landucci di famiglia toscana (Arezzo), studiò a Firenze, Pisa e Roma dove si trasferì da giovane. Laureato (a 22 anni e mezzo) in Ingegneria civile nel 1923, fece un breve periodo di servizio militare quale sotto ufficiale nell’arma del genio.
    Pieno di fede e di pietà, sotto la direzione spirituale del p. A. Garagnani, diede alla sua giovinezza un’impronta cristiana energica e costante.
    Nominato professore di matematica alla Scuola Agraria di Cagliari, vi trascorse due anni durante i quali maturò la vocazione al Sacerdozio. Allorquando ne ebbe la certezza (come lui si esprime per lettera) entrò nel Pont. Seminario Romano, il 26 luglio 1926, e ne ricevette la formazione per 4 anni.
    Sacerdote nel 1929, l’anno seguente ricevette i primi incarichi pastorali mentre insegnava Filosofia delle scienze presso la Pont. Università Lateranenese.
    Direttore spirituale del Seminario Romano maggiore per 7 anni, vi profuse i doni dello Spirito Santo specialmente sapienza e consiglio, formando generazioni di preti generosi e attivi.
    Per 44 anni (1942-86) visse in due stanzette,dedito alla contemplazione ed al servizio dei confratelli nella confessione e direzione spirituale, inframezzate da predicazioni di esercizi al clero ed a laici impegnati.
    Avvolto da umiltà e serenità, fu strumento della divina missericordia per tante anime. Fu anche scrittore di opere ascetiche di notevole valore.
    Morì improvvisamente a Roma il 28 maggio 1986, ad 86 anni di età. È sepolto nella tomba dei canonici del Laterano
    .

    Ai devoti il compito di imitare le virtù e di affrettare con le preghiere l’inizio della Causa di Canonizzazione










    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)