DIFENDERE LA VERA FEDE

Il Canone Romano, il Concilio di Trento, la Preghiera: De sanctissimo sacrificio missae

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    Caterina63
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    00 29/07/2012 22:12

    Archivio di 30Giorni

    La consacrazione è preghiera


     


    di Lorenzo Cappelletti

    Benedetto XVI durante la messa 
in <I>Coena Domini</I> del Giovedì Santo nella Basilica di San Giovanni 
in Laterano, il 9 aprile 2009

    Benedetto XVI durante la messa in Coena Domini del Giovedì Santo nella Basilica di San Giovanni in Laterano, il 9 aprile 2009

    Ripubblichiamo un articolo apparso esattamente dieci anni fa sulla nostra rivista, in cui si ripercorreva brevemente la storia della composizione del decreto dogmatico del Concilio di Trento sul santissimo sacrificio della messa, approvato nel settembre 1562.

    L’iter di composizione del decreto evidenziava che il cosiddetto Canone Romano (l’attuale Preghiera eucaristica I) fu dichiarato immune da ogni errore, di fronte alle contestazioni dei riformatori, in quanto non raccoglie niente altro che le parole stesse del Signore, la tradizione apostolica e patristica.

    Lo scorso anno, papa Benedetto XVI, nell’omelia della messa “In Coena Domini” del Giovedì Santo, commentando il Canone Romano, ha fatto una sottolineatura importante riguardo a esso, dicendo che in tutte le sue parti è preghiera.
    Riascoltiamo le sue parole, come sempre più chiare di qualunque commento: «Il racconto dell’istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo:
    “Qui” pridie. Questo “Qui” aggancia l’intero racconto alla precedente parola della preghiera: “… diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio il Signore nostro Gesù Cristo” [… ut nobis Corpus et Sanguis fiat dilectissimi Filii tui Domini nostri Iesu Christi. Qui pridie…].
    In questo modo il racconto è connesso con la preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a sé stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera. E soltanto nella preghiera si realizza l’atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo».


    Viene da chiedersi se questo criterio non possa e non debba essere esteso, cioè se nella Chiesa ci possa essere altro modo di attuazione di qualsivoglia potestas (compresa la potestas iurisdictionis) che non sia preghiera.

    In quell’articolo – scritto nel travagliato periodo intercorso tra la prima e la seconda Guerra del Golfo e sotto l’impressione di avvenimenti che fra l’altro avevano fatto conoscere a tutti l’esistenza della antichissima comunità cattolica dell’Iraq – si diceva inoltre che, a fronte di tante contestazioni dei “vicini”, la conferma della apostolicità della fede contenuta nel Canone Romano era venuta a Trento nell’estate 1562 da un vescovo proveniente dall’Iraq (la terra dei Caldei). Ci colpiva e ci colpisce ancora che un antico predecessore dei patriarchi dei Caldei Raphaël Bidawid, morto nel 2003, e dell’attuale Emmanuel Delly – che nelle pagine di questo numero fa sentire ancora la voce di quella piccola e inerme comunità – avesse espresso una così immediata unità nella fede e nella preghiera tale da superare in un colpo solo qualunque estraneità di lingua e cultura. E già allora nell’articolo si faceva cenno alla Cina, ancor più lontana dell’Iraq eppure già così vicina.

    [SM=g1740771]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 29/07/2012 22:23

    Archivio di 30Giorni

    «Niente in esso è contenuto che non elevi a Dio l’animo di coloro che offrono il santo sacrificio»


    Così nel decreto dogmatico De sanctissimo sacrificio missae il Concilio di Trento parla del Canone Romano


    di Lorenzo Cappelletti

    Dal decreto dogmatico del Concilio di Trento sul Santissimo Sacrificio della Messa

    «E, dato che le cose sante è bene che siano amministrate santamente e questo sacrificio è la cosa più santa fra tutte, la Chiesa cattolica, perché fosse offerto e ricevuto degnamente e con reverenza, da molti secoli ha stabilito il sacro Canone, così immune da qualunque errore che niente in esso è contenuto che non profumi di grandissima santità e pietà e che non elevi a Dio l’animo di coloro che offrono il sacrificio. Infatti esso è composto in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli, e anche da ciò che è stato piamente stabilito da santi pontefici»


    <I>Incipit</I> del Canone Romano, Messale Romano del 1502, Tesoro di Sant’Orso, Aosta

    Incipit del Canone Romano, Messale Romano del 1502, Tesoro di Sant’Orso, Aosta

    Il primo atto della Sessione XXII celebrata il 17 settembre 1562 a Trento, nella quale sarebbero stati approvati la dottrina e le norme sul sacrificio della messa, fu un atto ecumenico apparentemente estraneo a quella questione: la lettura della dichiarazione di obbedienza del patriarca di Mosul Ebed Iesu. Per ricevere conferma della sua elezione da papa Paolo IV era venuto a Roma alla fine dell’anno precedente dall’odierno Iraq meridionale. Costui altri non era che il lontano predecessore di Raphaël Bidawid, l’odierno patriarca dei Caldei [morto nel 2003; l’attuale patriarca è Emmanuel Delly, ndr].

    Non era uno stinco di santo, eppure fu lui a unire ufficialmente da quel momento Bagdhad a Roma. Affermava – ce ne dà notizia il cardinale Da Mula incaricato di prestargli accoglienza – che dalla sua sede dipendevano più di 200mila cristiani, che loro, i Caldei, avevano ricevuto la fede dagli apostoli Tommaso e Taddeo, e da Mari loro discepolo, che possedevano tutti i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, e inoltre le traduzioni di molti padri greci e latini e altri scritti ignoti ai latini che risalivano all’età apostolica; che presso di loro si praticava la confessione auricolare, si avevano quasi gli stessi sacramenti della Chiesa romana (
    iisdem fere quibus nos), si veneravano le immagini dei santi e si pregava per i defunti come si faceva a Roma. E, quanto al Canone, che usavano quasi lo stesso Canone che si usava a Roma (Canone iisdem fere verbis in celebranda missa).


    Quando fu letta la sua dichiarazione, peraltro, il nostro Ebed Iesu, rifornito di ricchi doni (amplis muneribus), era già tornato in patria, poiché la sua presenza vi era indispensabile, diceva. Gli storici dicono che «il vero motivo per cui non si fece vedere a Trento era il fatto che egli non capiva nessuna lingua occidentale» (Hubert Jedin). Non avrebbe capito nulla di quanto si sarebbe detto proprio in quella sessione del sacrificio della messa e del Canone. D’altronde i Caldei non lo mettevano in discussione. Il cardinale Da Mula, anzi, concludeva così la lettera di presentazione sopra ricordata: «I vani argomenti degli eretici sono refutati anche per il fatto che la dignità della Chiesa e la dottrina della salvezza oppugnata da gente a noi vicina, da mille e cinquecento anni è rimasta la medesima presso gente così lontana da noi, in mezzo a tanti mutamenti, a cambiamenti di re e di regni, sotto la pesante e costante persecuzione degli infedeli attraverso ingiustizie e malversazioni, in mezzo alla barbarie». Niente di più attuale se si pensa non solo all’Iraq, ma anche alla Cina.

    I protestanti, in effetti, rifiutavano quella messa e soprattutto quel Canone che Ebed Iesu aveva riconosciuto tanto familiare. E di questo rifiuto avevano fatto una bandiera.  In termini generali – scriveva il benedettino Gregory Dix, in un’opera composta all’epoca della Seconda guerra mondiale, ma che rimane un classico della storia della liturgia – «il corpo di Cristo aveva preso l’aspetto di una grande macchina tutta umana di salvezza attraverso sacramenti messi in opera per motivi tutti umani da uomini che agivano in nome e con la tecnica di un Cristo assente. Macchina che era venuta crescendo in modo assai complicato. [...] Tutta la sua forza e la sua energia erano assorbite dal mantenere sé stessa in funzione. [...] La vita della Chiesa era in mano alla macchina e la macchina funzionava, ma altro non si può dire».

    La diffusione di ogni genere di abusi ne era l’immediata conseguenza, tanto che il Concilio stesso stabilì una speciale commissione che, in ordine alla celebrazione della messa, provvide a raccoglierne un centinaio: le chiacchiere coi fedeli prima della celebrazione e il compiacersi di gesti teatrali da parte dei sacerdoti, il piazzarsi in faccia al sacerdote celebrante da parte dei fedeli, e così via. Ma un conto era evidenziare degli abusi, un conto era abolire il prefazio, sostituire il
    Padre nostro con una parafrasi moraleggiante, soprattutto abolire il Canone, per la ragione che esso avrebbe introdotto il culto pagano nella Chiesa. Lutero paragonava il Canone Romano all’altare che Acaz mise al posto dell’altare di bronzo nel Tempio di Salomone (cfr. 2Re 16, 7-18): «L’empio Acaz tolse l’altare di bronzo e lo sostituì con un altro fatto venire da Damasco. Parlo del lacero e abominevole Canone raccolta di omissioni e di immondezze: lì la messa ha preso a diventare un sacrificio, lì furono aggiunti l’offertorio e orazioni mercenarie, lì furono inserite in mezzo al Sanctus e al Gloria in excelsis sequenze e frasi. [...] E neppure oggi si smette di fare aggiunte a questo Canone». Gli altri riformatori scrivevano di peggio.


    La difesa del Canone

    Il Concilio di Trento prese le difese del Canone.
    A Bologna, nel periodo travagliato eppure fecondo in cui il Concilio, o meglio parte di esso, vi si stabilì per neanche un anno fra il 1547 e il 1548 (causa un’epidemia di tifo a Trento, dove il Concilio si era aperto nel dicembre del 1545), i teologi cominciarono innanzitutto col difendere la forma della messa così come si era venuta storicamente formando, sulla base del principio guida (che fortunatamente non sarà più abbandonato) così sintetizzato da un altro grande liturgista, Burkhard Neunheuser: «Riformare, però senza perdere il contatto col periodo precedente, cioè continuando la tradizione medievale».
    Principio che non si risolveva in una petizione di principio.

    Infatti, scrive Dix, «le implicazioni del testo della liturgia potevano essere ignorate nell’insegnamento e nella pratica del tempo, ma esso ancora racchiudeva, come in uno scrigno, non l’insegnamento medievale, ma quelle antiche e semplici verità sull’eucaristia che Gregorio Magno aveva preservato e Alcuino aveva fedelmente trasmesso». Fu un atto di umiltà e di saggezza, anche perché – di questo ci si è resi conto solo molto tempo dopo – molti dei testi patristici, su cui ci si basava da entrambe le parti, erano corrotti e molti, come «i così importanti padri siriaci, erano del tutto sconosciuti» (Dix).

    Magari non a Ebed Iesu.

    Certo, il Canone Romano contiene passi un po’ difficili (obscuriora loca), dirà lo schema di decreto scaturito da quei primi dibattiti e abbisogna di una spiegazione. Ma il Concilio, che era tornato a Trento nel 1551, subì una nuova interruzione a partire dall’aprile 1552. Per un biennio, nelle previsioni. In realtà il Concilio si riaprì solo dopo dieci anni e quello schema rimase allo stato di crisalide.
    Fu durante l’estate del 1562, quando già Ebed Iesu se ne era ritornato fra i Caldei, che si intensificò il lavoro. Jedin: «A Trento ci si rendeva conto che la dottrina del sacrificio della messa, che era allora in programma, non era inferiore per significato religioso e per importanza ecclesiastica alla dottrina della giustificazione che il Concilio aveva definito quindici anni prima, forse addirittura la sorpassava. Si trattava di comprendere il mistero centrale della fede, nel quale si attua costantemente l’unione della Chiesa col suo capo».

    Cominciata il 20 luglio, la discussione serrata portò a un primo “progetto d’agosto” giudicato però troppo lungo. Qualche canonista sosteneva addirittura che era superfluo esporre la dottrina sul sacrificio della messa: sarebbe bastato difendere il Canone della messa per dire la dottrina cattolica sul sacrificio. Ma si decise tuttavia di mantenere la struttura del “progetto di agosto”, che, in analogia col decreto
    De iustificatione, prevedeva una serie di capitoli dottrinali seguiti da canoni. Così i padri ricevettero fra il 4 e il 5 settembre un nuovo schema, il “progetto di settembre” che verrà approvato nella seduta solenne del 17 settembre, quella con cui si apriva il nostro articolo, e che si chiuse «molto tardo. Et tutti stracchi», dicono le cronache, i padri tornarono alle loro dimore. Fatica non vana. Il vero e proprio grido con cui il vescovo di Ventimiglia aveva concluso l’omelia della messa d’apertura di quella sessione era stato ascoltato: «Salvaci, Signore, noi periamo!».


    <I>La sessione conclusiva 
del Concilio di Trento nel 1563</I>, 
dipinto di Nicolò Dorigati, 1692-1748

    La sessione conclusiva del Concilio di Trento nel 1563, dipinto di Nicolò Dorigati, 1692-1748

    Un’aggiunta non superflua

    Fra il 5 settembre e il 17, peraltro, ci furono delle aggiunte, fra cui una aggiunta essenziale (vedi box) al capitolo IV, per le insistenze e le preghiere allo Spirito Santo di qualche padre e di qualche teologo. Il capitolo IV, ancora nell’ultimo schema, parlava del Canone come istituzione ecclesiastica, senza alcun riferimento alla sua antichità né alla tradizione da cui scaturiva. Ora invece, nel testo definitivo, senza impegnarsi giustamente nello specificare la data e le parti della sua composizione, e facendola pur sempre risalire alla Chiesa (Ecclesia catholica sacrum Canonem instituit), il Concilio dice però il Canone istituito «da molti secoli» e formato «dalle parole stesse del Signore», da «ciò che è stato tramandato dagli apostoli» e «da ciò che è stato piamente stabilito da santi pontefici».

    È per questo (
    enim si legge nel testo latino), cioè perché raccoglie il deposito della tradizione, che è immune da ogni errore. E solo così può essere condannato, nel corrispondente canone 6, chi ne chiede l’abrogazione. Non contenendo errori («infatti esso è composto in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli, e anche da ciò che è stato piamente stabilito da santi pontefici»), proprio per questo (ideoque) non deve essere abrogato.



    Delle parti oscure del Canone e della loro spiegazione di cui nello schema del 1552, nel testo finale non si parla più. Bisognerebbe capire perché. «Per ragioni di brevità» – scrive, in un articolo postconciliare eppure già datato sul Canone Romano, Jerome P. Theisen – e sembra sottintendere “purtroppo!”. Theisen lamenta che il Concilio di Trento, particolarmente riguardo al Canone, abbia avuto una reazione puramente difensiva, non sia stato creativo e verboso, come piace oggi.
    Per favore, riflettere sul seguente passaggio preconciliare, ma solo per data, di Dix: «Il vantaggio della Controriforma fu che essa conservò il testo di una liturgia che in sostanza risaliva a molto prima dello sviluppo medievale. Con questo preservò quelle primitive formulazioni in cui riposava la vera soluzione delle difficoltà medievali, anche se ci volle del tempo prima che la Chiesa postridentina ne facesse uso per lo scopo. I protestanti al contrario abbandonarono l’intero testo della liturgia e specialmente quegli elementi in essa che erano un genuino documento di quella Chiesa primitiva che essi affermavano di restaurare. Introdussero al suo posto forme che derivavano e esprimevano la tradizione medievale dalla quale scaturiva il loro stesso movimento».
    Eterogenesi dei fini.

    [SM=g1740771]

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    00 29/07/2012 22:25

    I progetti e il testo definitivo del Concilio sul Canone Romano


    Il decreto dogmatico De sanctissimo sacrificio missae consta di nove capitoli dottrinali e nove disposizioni normative. Del Canone trattano il capitolo IV e le disposizioni 6 e 9


    di Lorenzo Cappelletti


    Progetto del 1552

    Capitolo IV
    «Totum missae Canonem sacra synodus asserit sanctissime esse constitutum, nec quicquam continere, quod pietatem et religionem non spiret. Quod si quae forte sint obscuriora loca et quae explicationis lucem desiderent, qualia permulta in scripturis reperiuntur, consultis orthodoxis patribus, qui ea suis expositionibus illustrarunt, pie et catholice intelligi debent. Ideo nonnisi pernicioso ac pravo consilio abrogari quidam Canonem missae suadent vel tamquam erroribus, mendaciis et seductionibus scatentem impie traducunt. Propterea religiose et sapienter etiam observatur, ut consecrationis verba et maxima pars Canonis tacite et submissa voce a sacerdote recitentur. Hac enim secreti ratione et maiestas huius ineffabilis mysterii rectius servatur et populus excitatur ut de eo reverentius et maiori cum devotione cogitet».

    Traduzione: «Il santo sinodo afferma che l’intero Canone della messa è composto in modo santissimo e che nulla contiene che non promani pietà e religione. E se per caso ci sono dei passaggi un po’ oscuri che richiedono una spiegazione che li chiarifichi (come se ne trovano non pochi anche nelle Sacre Scritture), una volta vagliati i padri ortodossi che li illustrarono con le esposizioni che ne fecero, devono essere compresi piamente e cattolicamente. Perciò non è che un’opinione pericolosa e distorta quella di taluni che fanno pressioni perché il Canone della messa sia abrogato e che empiamente insegnano che è pieno di errori, falsità e distorsioni. Ne consegue anche che religiosamente e saggiamente è prescritto che le parole della consacrazione e la gran parte del Canone siano recitate dal sacerdote in segreto e sottovoce. Infatti con questa segretezza la maestà di questo ineffabile mistero è meglio custodita e il popolo è spinto a pensare ad esso con più reverenza e devozione».


    Progetto del settembre 1562

    Capitolo IV

    «Porro cum sancta sancte administrari conveniat, sitque hoc omnium sanctissimum sacrificium: ecclesia catholica, ut digne reverenterque offerretur ac perciperetur, sacrum Canonem instituit, ita ab omni errore purum, ut nihil in eo contineatur quod non maxime sanctitatem et pietatem quandam redoleat mentemque offerentium in Deo erigat».

    Traduzione: «Inoltre, dato che le cose sante è bene che siano amministrate santamente e questo sacrificio è la cosa più santa fra tutte, la Chiesa cattolica, perché fosse offerto e ricevuto degnamente e con reverenza, ha stabilito il sacro Canone, così immune da qualunque errore che niente in esso è contenuto che non profumi di grandissima santità e pietà e che non elevi a Dio l'animo di coloro che lo offrono».

    Disposizione 6
    «Si quis dixerit canonem missae errores continere ideoque abrogandum esse, anathema sit».

    Traduzione: «Se qualcuno dirà che il Canone della messa contiene errori e per questo va abrogato, sia scomunicato».

    Disposizione 9
    «Si quis dixerit Ecclesiae romanae ritum, quo submissa voce verba consecrationis proferuntur, damnandum esse; aut lingua tantum vulgari missam celebrari debere; aut aquam non miscendam esse vino in calice, eo quod sit contra Christi institutionem, anathema sit».

    Traduzione: «Se qualcuno dirà che il rito della Chiesa romana secondo il quale le parole della consacrazione si pronunciano sottovoce va condannato; o che la messa debba essere celebrata solo in lingua volgare; o che l'acqua nel calice non va mischiata al vino perché questo sarebbe contro l'istituzione di Cristo, sia scomunicato».


    Testo definitivo approvato nella XXII Sessione solenne (17 settembre 1562)
    Capitolo IV

    «Et cum sancta sancte administrari conveniat, sitque hoc omnium sanctissimum sacrificium: ecclesia catholica, ut digne reverenterque offerretur ac perciperetur, sacrum Canonem multis ante seculis instituit, ita ab omni errore purum, ut nihil in eo contineatur quod non maxime sanctitatem et pietatem quandam redoleat mentemque offerentium in Deo erigat. Is enim constat cum ex ipsis Domini verbis, tum ex apostolorum traditionibus ac sanctorum quoque pontificum piis institutionibus».

    Traduzione: «E, dato che le cose sante è bene che siano amministrate santamente e questo sacrificio è la cosa più santa fra tutte, la Chiesa cattolica, perché fosse offerto e ricevuto degnamente e con reverenza, da molti secoli ha stabilito il sacro Canone, così immune da qualunque errore che niente in esso è contenuto che non profumi di grandissima santità e pietà e che non elevi a Dio l’animo di coloro che offrono il sacrificio. Infatti esso è composto in parte dalle parole stesse del Signore, in parte da ciò che è stato tramandato dagli apostoli, e anche da ciò che è stato piamente stabilito da santi pontefici».

    Disposizione 6
    «Si quis dixerit canonem missae errores continere ideoque abrogandum esse, anathema sit».

    Traduzione: «Se qualcuno dirà che il Canone della messa contiene errori e per questo va abrogato, sia scomunicato».

    Disposizione 9
    «Si quis dixerit Ecclesiae romanae ritum, quo submissa voce pars canonis et verba consecrationis proferuntur, damnandum esse; aut lingua tantum vulgari missam celebrari debere; aut aquam non miscendam esse vino in calice, eo quod sit contra Christi institutionem, anathema sit».

    Traduzione: «Se qualcuno dirà che il rito della Chiesa romana secondo il quale parte del Canone e le parole della consacrazione si pronunciano sottovoce va condannato; o che la messa debba essere celebrata solo in lingua volgare; o che l'acqua nel calice non va mischiata al vino perché questo sarebbe contro l'istituzione di Cristo, sia scomunicato».

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    00 29/07/2012 22:29

    IL CANONE E IL CONCILIO DI TRENTO

    Breve nota sulla traduzione italiana del Canone Romano


     


    di Lorenzo Bianchi

    L’inizio del Canone Romano, Sacramentario gelasiano, detto di Gellone (secolo VIII), Bibliothèque nationale de France, Parigi

    L’inizio del Canone Romano, Sacramentario gelasiano, detto di Gellone (secolo VIII), Bibliothèque nationale de France, Parigi

    Nella riforma liturgica avvenuta a seguito del Concilio ecumenico Vaticano II, il testo del Canone detto “Romano”, cioè quello in uso da tempo immemorabile presso la Chiesa di Roma, non ha subito modifiche nella sua forma, se non alcune importanti variazioni di papa Paolo VI nel nuovo Ordo Missae riformato, pubblicato con la costituzione apostolica Missale Romanum del 3 aprile 1969. Le variazioni introdotte da Paolo VI riguardano in particolare la formula di consacrazione sia del pane che del vino.
    Tranne queste variazioni di Paolo VI, il testo che oggi appare nel Messale in latino di cui, il 20 aprile 2000 è stata approvata la terza edizione successiva alla riforma liturgica postconciliare, è identico al testo che il Concilio di Trento ha definito, nella sessione XXII (17 settembre 1562), come dogmaticamente immune da errori e non modificabile.

    Il testo del Canone è in uso fin dai primissimi tempi della Chiesa, noto in redazioni originariamente in lingua greca e in lingua siriaca; la versione latina comincia ad apparire a partire dalla seconda metà del IV secolo, quando nella Chiesa di Roma il latino sostituisce il greco nella celebrazione del sacrificio della messa, e risale sostanzialmente nella sua attuale forma all’epoca di papa Gregorio Magno (fine VI secolo).

    Il Canone è anche l’ultima parte della messa a essere stata tradotta, a seguito della riforma postconciliare, nelle lingue attuali. Le prime richieste di poter utilizzare nella celebrazione della messa traduzioni del Canone nelle varie lingue volgari risalgono già alla fine del 1966. In particolare la prima richiesta partì dalla Conferenza episcopale olandese, e il 21 ottobre 1966 venne incaricato di esaminare la questione il Consilium ad exsequendam constitutionem de sacra liturgia, di cui era segretario monsignor Annibale Bugnini. Il 13 febbraio 1967 le varie commissioni delle principali lingue vennero incaricate dal Consilium di preparare le traduzioni, «letterali e fedeli».

    Intanto, l’istruzione della Congregazione dei Riti Tres abhinc annos del 4 maggio 1967 concedeva alle Conferenze episcopali la facoltà di usare la lingua volgare nel Canone. Le prime traduzioni furono inizialmente respinte, poiché risultate troppo libere e semplificate, dalla Congregazione per la Dottrina della fede, che in particolare tramite il Consilium richiese che si rendesse «fedelmente il testo del Canone Romano, senza variazioni o omissioni o inserzioni» che le differenziassero dal testo latino (comunicazione del Consilium alle conferenze episcopali del 10 agosto 1967, approvata da Paolo VI il 4 agosto precedente); nello stesso tempo si faceva presente il «desiderio del Santo Padre che i messali... portino sempre a lato della versione in lingua volgare il testo latino, su doppia colonna, o a pagine rispondenti, e non in fascicoli o libri separati»: desiderio che di fatto trovò molte resistenze, tanto che Paolo VI il 10 novembre 1969 dovette dispensare da tale principio, stabilendo che la parte latina fosse stampata in appendice al Messale (ma anche questa disposizione verrà di fatto ignorata).

    Dalla documentazione dell’epoca sembra trasparire quasi una faticosa resistenza del Papa di fronte a richieste di variazioni spesso giustificate con «gravi motivi pastorali», e nello stesso tempo una sorta di malumore dei traduttori a fronte delle precisazioni del Papa (cfr. ad esempio quanto dice lo stesso Annibale Bugnini in La riforma liturgica (1948-1975), CLV-Edizioni liturgiche, Roma 1983, p. 116: «Il Consilium era perplesso...», e p. 117: «Le Conferenze, e soprattutto le Commissioni liturgiche, non rimasero molto entusiaste: vi vedevano quasi un atto di sfiducia nel loro lavoro, al quale veniva preferita la traduzione dei messalini, letterariamente spesso scadente»).

    Alla fine, comunque, si giunse all’approvazione della prima traduzione, quella francese, che il 31 ottobre 1967 venne inviata come modello alle Conferenze episcopali.
    Poco dopo, il 13 gennaio 1968, fu approvata la prima versione italiana che andò in uso dalla domenica Laetare, 24 marzo 1968.

    Tutte queste prime traduzioni riguardano evidentemente il testo del Canone senza le variazioni introdotte da Paolo VI.
    Nell’attuale traduzione italiana, la chiarezza del testo latino ha talvolta perso qualcosa: sarebbe forse opportuno correggere, in occasione della traduzione della terza edizione del Messale latino, imprecisioni nella lettera all’apparenza minime ma che rendono in qualche caso differente anche il contenuto.

    Un esempio è la parte del Canone in cui si prega per i ministri celebranti.
    Dice il testo latino:

    «Nobis quoque peccatoribus famulis tuis, de multitudine miserationum tuarum sperantibus, partem aliquam et societatem donare digneris, cum tuis sanctis Apostolis et Martyribus: cum Ioanne, Stephano, Matthia, Barnaba, Ignatio, Alexandro, Marcellino, Petro, Felicitate, Perpetua, Agatha, Lucia, Agnete, Caecilia, Anastasia, et omnibus Sanctis tuis: intra quorum nos consortium, non aestimator meriti, sed veniae, quaesumus, largitor admitte».
    Messale ambrosiano (fine XI-inizio XII secolo), Biblioteca Ambrosiana, Milano

    Messale ambrosiano (fine XI-inizio XII secolo), Biblioteca Ambrosiana, Milano

    Traduce il Messale italiano:
    «Anche a noi, tuoi ministri, peccatori, ma fiduciosi nella tua infinita misericordia, concedi, o Signore, di aver parte nella comunità dei tuoi santi apostoli e martiri: Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino e Pietro, Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia e tutti i santi: ammettici a godere della loro sorte beata non per i nostri meriti, ma per la ricchezza del tuo perdono».

    Il testo latino presenta due espressioni, “aestimator meriti” e “largitor veniae”, riferite al Signore, dove “aestimator” e “largitor” sono i soggetti, e “meriti” e “veniae” gli oggetti. “Aestimator” è colui che fa la stima, la valutazione puntuale, colui che conta le cose una per una: è il termine che si usa, ad esempio, per il cambiavalute. “Largitor”, al contrario, è colui che distribuisce con abbondanza, senza preoccuparsi di ricevere in cambio.

    È ben chiaro dal testo che la contrapposizione è tra i due atteggiamenti del Signore; e non tra i due oggetti, il merito e il perdono (la misericordia gratuita).
    I traduttori italiani invece, forse intendendo il “non” latino riferito a “meriti” e non anche ad “aestimator” (che non viene tradotto), hanno trasformato la frase, creandone una nuova in cui la contrapposizione appare spostata fra i due oggetti (“meriti” e “veniae”). Si è introdotta in tal modo come una opposizione dialettica tra i meriti dell’uomo e il perdono, la misericordia, del Signore; così che i meriti possono sembrare, allo stesso modo che nell’idea protestante, contrapposti alla grazia. Cosa che non è, essendo i meriti delle opere buone innanzitutto frutto della grazia del Signore (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2008).

    In questo caso, molto più vicina al testo latino è ad esempio la traduzione francese del Messale, che riporta: «accueille-nous dans leur compagnie, sans nous juger sur le mérite, mais en accordant ton pardon». In italiano questa parte potrebbe dunque essere trasposta alla lettera con «senza misurare il merito, ma elargendo con abbondanza il tuo perdono». Una traduzione come questa o simile a questa manterrebbe infatti, conformemente al testo latino, il riferimento dell’antitesi all’atteggiamento del Signore, cui viene chiesto di giudicare non secondo una rigida applicazione della legge, ma secondo la misericordia. Non dunque, ripetiamo, i meriti considerati in alternativa alla grazia, ma innanzitutto come dono di Dio secondo quanto da bambini abbiamo imparato a ripetere nell’Atto di speranza: «Mio Dio, spero dalla tua bontà, per le tue promesse e per i meriti di Gesù Cristo, nostro Salvatore, la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere, che io debbo e voglio fare. Signore, che io non resti confuso in eterno».

    [SM=g1740771]


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 06/08/2012 16:19
    Oblatio munda

    Osservazioni critiche
    sul nuovo ordinamento delle lezioni nella Messa
    di mons. Klaus Gamber






    Alcuni anni fa, un gruppo di riformatori liturgici ha preparato un nuovo Lezionario per la messa e ha saputo farlo rendere obbligatorio dall'autorità ecclesiastica. Questo lavoro di alcuni innovatori ha preso il posto di un ordinamento che vigeva da più di mille anni nella Chiesa romana, e di conseguenza lo ha eliminato.
    Era di per sé positivo il fatto che le pericopi del Missale Romanum tridentino venissero arricchite da ulteriori letture. È noto, del resto, che già al tempo dell'Epistolario di san Girolamo, e ancor prima, il rito romano disponeva di una scelta di letture alternative. Talune di queste pericopi aggiuntive, ad esempio alcune per i mercoledì e venerdì per annum, si erano conservate soprattutto nei paesi di lingua tedesca e nel patriarcato di Aquileia fino ai messali a stampa di epoca pretridentina.

    Dal punto di vista del rito romano tradizionale, quindi, non vi sarebbe stato nulla da eccepire sul fatto che anche per i giorni feriali si approntassero letture proprie e per le domeniche si stabilissero cicli di letture aggiuntive. È noto che le pericopi domenicali vennero fissate in epoca relativamente tarda, come mostra le lista delle epistole conservata a Würzburg, la quale risale al secolo VIII.

    A parte il fatto che il nuovo Lezionario ha eliminato il precedente, e che è stata così interrotta bruscamente un'antichissima tradizione, il liturgista è costretto a rilevare che, nella scelta delle nuove pericopi, sono stati determinanti alcuni opinabili criteri di natura esegetica, mentre sono stati troppo poco rispettati quei criteri liturgici in base ai quali erano sempre stati scelti nella Chiesa i brani per le letture. Lo Stonner parla persino di occasionali "modificazioni poetiche che il testo biblico può subire nella liturgia". Decisive sovente erano le parole con cui un brano cominciava e quelle con cui finiva, poiché l'incipit e la conclusione di una pericope hanno grande importanza. Inammissibile dovrebbe pertanto essere giudicata la chiusa "Allora si aprirono loro gli occhi ed essi si accorsero di essere nudi", come oggi si può udire in una delle letture della Prima Domenica di Quaresima (anno A), soprattutto se si consideri che, subito dopo, il popolo deve dire "Rendiamo grazie a Dio".

    Un tempo, nella scelta dei brani del Vangelo si aveva cura di badare che in essi non mancasse mai il nesso con la celebrazione del mistero eucaristico - come Pius Parsch sottolinea continuamente nel suo Anno della salvezza. Nell'introduzione egli scrive: "Nel Vangelo il Cristo si manifesta e ci parla. Ravvisiamo nel Vangelo non tanto un insegnamento, quanto una epifania (manifestazione) del Cristo. Così il Vangelo perlopiù indica l'azione principale della celebrazione del mistero".

    Il nuovo Lezionario, invece, serve - coerentemente con lo spirito che informa il culto protestante - in primo luogo all'ammaestramento e alla "edificazione" dell'assemblea. Il Novus Ordo, evidentemente, è stato preparato da esegeti, non da liturgisti.

    Gli esegeti non hanno però pensato al fatto che la maggior parte dei fedeli non è in grado di comprendere tanti brani veterotestamentari perché non ha praticamente alcuna conoscenza della storia della salvezza precedente la venuta del Cristo, e che pertanto il Pentateuco o il Libro dei Re a loro dice ben poco. Per lo stesso motivo il popolo non afferra, lascia scorrer via anche la maggior parte delle nuove letture tratte dall'Antico Testamento.

    Gli studiosi della liturgia conoscono (o si suppone che dovrebbero conoscere) i vari lezionari che sono o sono stati in uso nella Chiesa orientale e in quella occidentale. Dovrebbero sapere in base a quali leggi si scelgono le pericopi. Stupisce assai che abbiano trascurato quasi del tutto gli antichi lezionari, alcuni dei quali risalgono ai secoli IV e V. Quale dovizia di ispirazione vi avrebbero trovato! Ma pare piuttosto che consapevolmente abbiano voluto rinnegare la tradizione.

    Al secolo V risale la parte più antica del Grande lezionario della Chiesa di Gerusalemme, tramandatoci da manoscritti georgiani. Tutti i segni di un'alta antichità reca la lista copta dei Vangeli; purtroppo non è stata ancora studiata tutta una serie di antichi lezionari provenienti dall'Egitto. Del più antico ordinamento siriaco di pericopi ha trattato il Baumstark. Quanto all'Occidente, sono da ricordare - tra le testimonianze più antiche - la lista dei Vangeli di Aquileia, e l'antico lezionario campano tramandatoci dal famoso Codice Fuldense (lista di Epistole) e in molti evangeli anglosassoni (lista dei vangeli); infine, una liste di epistole che nella sua forma originaria risale a san Pier Crisologo (morto nel 450). Alquanto più recenti sono i lezionari tramandatici nelle antiche chiese ambrosiana, gallicana e mozarabica.
    Quanto alla Chiesa romana, molto probabilmente già san Girolamo (morto nel 419/420) approntò un libro di epistole, il Liber comitis, documentato per la prima volta nel 471. Esso potrebbe essersi tramandato, in forma appena modificata, nella già ricordata lista delle epistole di Würzburg, e costituisce il fondamento delle pericopi non evangeliche del Missale Romanum insieme con la antica lista romana dei vangeli (Capitulare evangeliorum), che però era più ricca di quanto sarebbe risultata nel messale posteriore.

    Come nelle altre riforme liturgiche postconciliari, anche nella preparazione dei nuovi lezionari è stata interrotta un'antichissima tradizione (in parte di 1550 anni), senza sostituirla con nulla di migliore. Anche dal punto di vista pastorale, sarebbe stato più prudente conservare l'antico ordinamento del Missale Romanum e, nel quadro di una riforma, consentire la scelta di altre letture ad libitum.

    Questa sarebbe stata una vera riforma, ossia un vero ritorno alla forma originaria, e non sarebbe andata distrutta una ricchezza accumulata nei secoli. Così invece si è abbandonata la tradizione della Chiesa sia occidentale che orientale, e si è imboccata la pericolosa via dello sperimentalismo precludendo la possibilità di ritornare in un qualunque momento, senza difficoltà, al passato.

    Perché meravigliarsi, dunque, se parroci "progressisti" tralignano e, in luogo delle letture bibliche della messa, fanno leggere brani di Marx o Mao, o addirittura brani di giornale? Distruggere tutta un'antica compagine è relativamente facile: cosa ardua crearne una nuova.

     


    Tratto da Klaus Gamber, La riforma della liturgia romana. Cenni storici. Problematica,
    trad. it., "Documento 10" (suppl. a "Una Voce Notiziario" n° 53-54, 1980),
    Roma, 1980, pp. 49-52


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    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Caterina63
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    00 17/08/2012 11:37

    "Tamquam cor in pectore": il tabernacolo eucaristico prima e dopo il Concilio di Trento

    Sull'altare maggiore il tabernacolo era come il cuore spirituale e spaziale della Chiesa

    di p. Uwe Michael Lang

     

     

     

    foto: Duomo di Siena, Tabernacolo di Lorenzo di Pietro, detto "Il Vecchietta"

     

     

    Tamquam cor in pectore: il tabernacolo eucaristico prima e dopo il Concilio di Trento

    "Il tabernacolo sull'altare maggiore era come il cuore spirituale e spaziale della Chiesa"

    di p. Uwe Michael Lang


    Negli ultimi anni la ricerca storica ha dedicato notevole attenzione al rapporto che esiste tra liturgia e architettura. Molti studiosi si sono concentrati sulla tarda antichità e sul Medio Evo, ma l'interesse si sta volgendo anche verso i periodi del Rinascimento e della Riforma cattolica prima e dopo il Concilio di Trento (1545 - 1563), come risulta evidente dagli atti di una conferenza tenuta al Kunsthistorisches Institut a Firenze nel 2003. Il redattore del volume, Joerg Stabenow, identifica due sviluppi principali che trasformarono gl'interni tipici delle chiese nei secoli XV e XVI.


    Il primo rimosse quegli elementi che dividevano l'edificio sacro in diverse sezioni, creando così uno spazio unificato. Per contrasto, si strutturarono le chiese medievali con un complesso sistema di pareti divisorie, soprattutto la cancellata che separava la navata dal coro. Il secondo interessò il tabernacolo che, collocato in posizione centrale sull'altare maggiore, venne adottato come forma ordinaria di riserva eucaristica, divenendo il punto focale dell'architettura sacra di stile barocco.


    Il termine "tabernaculum" era già usato nel Medio Evo per indicare il ricettacolo per il Santissimo Sacramento. Guglielmo Durando rileva nel suo libro "Rationale divinorum officiorum" del 1282 - e che ebbe un grande influsso nel suo tempo - che, a imitazione dell'Arca dell'Alleanza e della Tenda del convegno (Esodo 25 -26, 33, 7 -11 e altrove), "in alcune chiese è posta un'arca o tabernacolo (archa seu tabernaculum), in cui si custodisce il Corpo del Signore con reliquie". L'associazione biblica è significativa, poiché la Tenda del convegno rappresentava la presenza di Dio fra il popolo d'Israele nel deserto. Inoltre, il prologo del Vangelo di Giovanni afferma che il Verbo divino " si fece carne e venne ad abitare (letteralmente: "piantò la sua tenda") in mezzo a noi" (Gv. 1, 14). Infine, nell'Apocalisse viene evocata la Gerusalemme celeste con le parole: "Ecco la tenda di Dio con gli uomini!", che nella Vulgata latina recita: "Ecce tabernaculum Dei cum hominibus!" (Ap. 21, 3).


    L'ubicazione di un tabernacolo eucaristico fisso sull'altare maggiore è generalmente associata alle riforme liturgiche che si effettuarono dopo il Concilio di Trento, soprattutto da parte di San Carlo Borromeo, i cui sforzi per rinnovare la vita religiosa nella sua Arcidiocesi di Milano divennero esemplari per tutta la Chiesa Cattolica. Tuttavia, tale pratica era già stata promossa da Vescovi riformatori prima di Trento e si può rintracciare nella Toscana del XV secolo.


    In diverse chiese di questa regione italiana erano stati introdotti tabernacoli su altare maggiore, come la cattedrale di Volterra (1471) e la cattedrale di Prato (1487); forse l'esempio più noto è il trasferimento del vecchio tabernacolo del Vecchietta all'altare maggiore della Cattedrale di Siena nel 1506, dove prese il posto della "Maestà" di Duccio. La nuova disposizione fu vigorosamente promossa da Gian Matteo Giberti, Vescovo di Verona dal 1524 al 1543. Le "Consitutiones" di Giberti, pubblicate nel 1542 con l'approvazione di Papa Paolo III, miravano ad una riforma della vita ecclesiastica nella sua diocesi e anticiparono in molti modi gli sviluppi post-tridentini.


    Una parte importante del programma pastorale di Giberti era proprio la collocazione della riserva del Santissimo Sacramento sull'altare maggiore al centro della chiesa, dove veniva esposto alla venerazione di clero e laici. Nelle sue "Consitutiones" scriveva il vescovo, evocando vari versetti di salmi: "E come gli occhi di una schiava alla mano della sua padrona (Ps. 123, 2), così siano gli occhi di coloro che stanno intorno alla mensa del Signore (Ps. 128, 3), rivolti sempre con timore e tremore verso l'altissimo e preziosissimo sacramento, che è lì sull'altare maggiore; piangano di gioia e si rallegrino piamente nelle loro lacrime, e vedranno com'è buono il Signore (cfr. Ps. 34, 9)".


    Con uno schema simile, Pier Francesco Zini nella sua biografia del Giberti, pubblicata a Venezia nel 1555 col titolo "Boni pastoris exemplum ac specimen singulare", scrive che il tabernacolo sull'altare maggiore trova una posizione che è "come il cuore nel petto" (tamquam cor in pectore). Si voleva che il tabernacolo fosse il cuore della chiesa sia in senso spaziale che spirituale. Giberti applicò questo principio alla sua cattedrale di Verona e lo prescrisse per tutte le Chiese parrocchiali della sua Diocesi.


    Il Concilio di Trento, che si celebrò dal 1545 al 1563, non diede alcuna direttiva specifica sull'architettura e gli arredi delle Chiese. Tuttavia i decreti conciliari, affermando il tradizionale insegnamento della Chiesa, diedero chiare indicazioni teologiche sulla costruzione delle nuove Chiese e sulla ristrutturazione di quelle già esistenti. I canoni del Decreto sull'Eucaristia, datato 11 ottobre 1551, frutto della XIII sessione del Concilio, riconfermarono la posizione cattolica di fronte alla critica protestante, soprattutto quella di Martin Lutero che sosteneva che Cristo era presente nel sacramento dell'Eucaristia soltanto durante la vera e propria celebrazione liturgica, quando veniva ricevuto con fede dai comunicandi.


    I canoni tridentini ribadirono la dottrina del IV Concilio Laterano del 1215 sulla presenza reale e permanente di Cristo sotto la forma del pane e del vino dopo la loro consacrazione da parte del sacerdote. Ne consegue la necessità di una custodia appropriata e sicura delle ostie consacrate dopo la Messa, utilizzate anche per portare la Santa Comunione agli ammalati. Il canone sette parla in termini apparentemente generali della riserva della Santissima Eucaristia "in sacrario". Nell'uso medievale, il termine "sacrarium" poteva indicare qualsiasi luogo per la riserva eucaristica, compresa la sacrestia. Comunque, nel contesto di Trento, si può ritenere che molti Padri conciliari intendessero per "sacrarium" il tabernacolo d'altare. Un'interpretazione che era già corrente, come si evince dal Sinodo convocato dal Cardinale Reginald Pole, Legato della Santa Sede in Inghilterra, e tenuto a Westminster nel dicembre del 1555 e gennaio del 1556. Il sinodo decretò che la Santissima Eucaristia dovesse essere custodita "o al centro dell'altare o alla sua estremità".


    Il Concilio di Trento accentuò anche il ruolo dei vescovi nel realizzare le riforme ecclesiastiche e dispose la pubblicazione di libri liturgici revisionati, opera che fu condotta dai papi negli anni successivi. Tali fattori portarono ad una standardizzazione della vita liturgica, che fece sì che il nuovo modo di ccustodire l'Eucaristia sull'altare maggiore si diffondesse in tutto il mondo cattolico.


    Gli storici si sono spesso concentrati sul contributo dato da San Carlo Borromeo (1538 - 1584) allo sviluppo dell'architettura e degli arredi sacri post-tridentini. Borromeo è stato presentato come un modello di Vescovo riformatore, ponendo in atto i decreti tridentini nell'Arcidiocesi di Milano con diligenza esemplare. Senza ridurre il ruolo di questo grande Vescovo, sembrebbe appropriato collocare il suo operato in un più ampio contesto culturale. Il tabernacolo sull'altare maggiore non fu affatto un'innovazione del Borromeo, abbiamo visto infatti che il pensiero teologico che sosteneva tale pratica era già in circolazione da diverso tempo.


    Le idee del Borromeo sull'architettura sacra sono espresse in modo succinto nelle sue "Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae" del 1577, composto da un gruppo di autori sotto i suoi auspici. Sulla questione della riserva eucaristica, le "Instructiones" si riferiscono ai decreti del primo Sinodo provinciale di Milano tenuto nel 1565, che stabiliva che in tutte le chiese in cui si custodiva il Santissimo Sacramento, compresa la Cattedrale, questo fosse collocato sull'altare maggiore, a meno che un caso di necessità o una grave ragione non lo impedissero.


    L'Arcivescovo di Milano diede l'esempio trasferendo il Santissimo Sacramento dalla sacrestia all'altare maggiore della sua Cattedrale. Le "Instructiones" del Borromeo furono largamente recepite nel periodo post-tridentino, mentre vi era ancora qualche flessibilità sul luogo della riserva eucaristica. Vale la pena notare che il "Cerimoniale Episcoporum" del 1600 raccomandava che il Santissimo Sacramento non si tenesse sull'altare maggiore o su altro altare al quale il vescovo dovesse celebrare la Messa solenne o i Vespri. Tuttavia, non penso che ciò indichi una critica del tabernacolo sull'altare maggiore, come invece ritiene Christoph Jobst nel suo studio magistrale sul tema. La prescrizione non riguarda la disposizione generale della Chiesa, ma le rubriche di celebrazioni specifiche. Al massimo, si potrebbe dedurre che nelle liturgie pontificali si riflettesse l'antica consuetudine della riserva eucaristica separata dall'altare.


    Il rituale romano del 1614 ha un paragrafo pertinente nei "Praenotanda" sul Santissimo Sacramento dell'Eucaristia, che recita: "Il tabernacolo sia opportunamente coperto da un baldacchino, e null'altro vi sia contenuto. Sia collocato sull'altare maggiore o su altro altare dove si possa vedere facilmente e possa così rendersi degna adorazione a questo grande Sacramento".


    Anche qui c'è flessibilità sulla ubicazione del tabernacolo: può stare sull'altare maggiore o su altro altare della Chiesa che sia appropriato per la venerazione del Sacramento. Istruzioni simili si possono trovare negli atti di molti Sinodi diocesani e provinciali tenutisi nella prima metà del secolo XVII. Per esempio, il Sinodo di Costanza nel 1609 decretò che il Santissimo Sacramento fosse custodito " o sull'altare stesso, secondo l'uso romano, o alla sinistra del coro presso l'altare". In ogni modo, l'ubicazione del tabernacolo sull'altare principale secondo "l'uso romano" fu adottato gradualmente in tutta Europa come parte della Riforma tridentina.


    A questo sviluppo contribuì una serie di fattori: innanzi tutto, la chiara e sicura riaffermazione del Concilio della dottrina cattolica della presenza reale di fronte alla critica protestante; secondariamente, la crescente popolarità delle devozioni eucaristiche (Benedizione col Santissimo Sacramento, processioni eucaristiche, la devozione delle Quarantore); in terzo luogo, la fioritura dell'arte e architettura barocche non solo in Europa ma in tutto il mondo cattolico, con un'attenzione speciale nell'esprimere visibilmente le verità di fede, soprattutto la presenza reale; e per ultimo, la standardizzazione dei libri liturgici dopo il Concilio di Trento, con la pratica romana presa a modello per l'intera Chiesa.


    E' evidente che tale sviluppo, visto nel suo contesto culturale e artistico, non ebbe inizio con il Concilio di Trento, ma fu parte di una tendenza comune nel Rinascimento e nell'architettura sacra barocca di creare uno spazio unificato, nel quale il tabernacolo sull'altare maggiore era effettivamente, secondo le parole del biografo del Giberti, "tamquam cor in pectore".

     

    The Institute of Sacred Architecture, vol. 15 - spring 2009
    http://www.sacredarchitecture.org/articles/tamquam_cor_in_pectore_the_eucharistic_tabernacle_before_and_after_the_coun/

    traduzione italiana a cura di d. Giorgio Rizzieri

    (12/08/2012)


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