DIFENDERE LA VERA FEDE

L’APOSTOLICITÀ DELLA CHIESA E LA SUCCESSIONE APOSTOLICA

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    Caterina63
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    00 21/02/2014 11:24

    COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE
    L’APOSTOLICITÀ DELLA CHIESA E LA SUCCESSIONE APOSTOLICA
    *

    (1973)

     

    Proemio

    Il presente studio vorrebbe chiarire il concetto di successione apostolica, da una parte perché la presentazione della dottrina cattolica al riguardo appaia di maggiore utilità per la vita della Chiesa cattolica, e d’altra parte perché lo esige il dialogo ecumenico.

    Il dialogo ecumenico, infatti, è avviato un po’ dappertutto nel mondo, con prospettive d’un avvenire fruttuoso, qualora i cattolici vi parteciperanno nella fedeltà alla loro identità cattolica. Vorremmo dunque presentare la dottrina della Chiesa cattolica relativa alla successione apostolica, allo scopo di confortare i nostri fratelli nella fede e per contribuire allo sviluppo e alla maturazione del dialogo ecumenico.

    Enumeriamo alcune difficoltà nelle quali più spesso ci si imbatte:

    - Che cosa si può ricavare dalla testimonianza del Nuovo Testamento, considerato scientificamente? Come dimostrare la continuità tra il Nuovo Testamento e la Tradizione della Chiesa?

    - Qual è la funzione dell’imposizione delle mani nella successione apostolica?

    - Non è forse la tendenza, in certi ambienti, a ridurre la successione apostolica all’apostolicità comune a tutta la Chiesa, o, al contrario, a ridurre l’apostolicità della Chiesa alla successione apostolica?

    A monte di tutti questi interrogativi si pone il problema dei rapporti tra la Scrittura, la Tradizione e le dichiarazioni solenni della Chiesa.

    Ogni riflessione è subordinata alla visione della Chiesa che, per volontà del Padre, sgorga tutt’intera dal mistero del Cristo nella sua Pasqua, animata dallo Spirito e organicamente strutturata. Noi intendiamo collocare la funzione propria ed essenziale della successione apostolica nella Chiesa intera che confessa la fede apostolica e che rende testimonianza al suo Signore.

    Ci appoggiamo alla Sacra Scrittura, che ha per noi il duplice valore di documento storico e di documento ispirato. Come documento storico, il Nuovo Testamento racconta i fatti principali della missione di Gesù e della Chiesa del primo secolo; come documento ispirato, esso attesta questi fatti fondamentali, li interpreta e manifesta il loro vero significato interiore e la loro coerenza dinamica. Come espressione del pensiero di Dio nelle parole degli uomini, la Scrittura ha valore direttivo per il pensiero della Chiesa di Cristo in ogni tempo.

    Una lettura della Scrittura che riconosca ad essa, in quanto libro ispirato, un carattere normativo per la Chiesa di tutti i tempi, è necessariamente una lettura all’interno della Tradizione della Chiesa, che ha riconosciuto la Scrittura come ispirata e normativa. Questo riconoscimento del carattere normativo della Scrittura implica fondamentalmente il riconoscimento della Tradizione, in seno alla quale la Scrittura si è maturata ed è stata considerata ed accettata come ispirata. Il suo carattere normativo e il suo rapporto alla Tradizione si condizionano, dunque, scambievolmente. Ne segue che ogni considerazione propriamente teologica della Scrittura è, al tempo stesso, considerazione ecclesiale.

    L’insieme del documento ha dunque questo punto metodologico di partenza: ogni tentativo di ricostruzione, che pretendesse isolare le fasi particolari della costituzione degli scritti neotestamentari e separarli dal loro vivo accoglimento da parte della Chiesa, è in sé contraddittorio.

    Questo metodo teologico, che vede nella Scrittura un insieme indivisibile legato alla vita e al pensiero della comunità, in seno alla quale è conosciuta e riconosciuta come Scrittura, non significa per nulla neutralizzare il punto di vista della storia in nome d’un apriorismo ecclesiastico che dispenserebbe da una lettura rispondente all’esigenze del metodo storico.

    Il metodo adottato permette di percepire i limiti d’un puro storicismo: esso sa bene che un’analisi puramente storica d’un libro preso isolatamente e separato dalla storia del suo influsso non può dimostrare con certezza che il cammino della fede nella storia è il solo possibile. Ma questi limiti della dimostrabilità storica, della quale non è consentito dubitare, non distruggono affatto il valore e il peso proprio della conoscenza storica. Al contrario, il fatto dell’accettazione della Scrittura come tale, che per la Chiesa primitiva ha valore costitutivo, deve sempre essere di nuovo pesato nel suo significato: bisogna cioè ripensare il rapporto fra le parti nelle loro differenze, con l’unità dell’insieme. Ciò implica pure che non si può ridurre la Scrittura stessa a una serie di abbozzi messi uno accanto all’altro, ciascuno dei quali sarebbe alla base di un progetto di vita orientato su Gesù di Nazareth, ma che bisogna comprenderla come espressione di un cammino storico che manifesta l’unità e la cattolicità della Chiesa.

    In questo cammino, che comprende tre grandi tappe: il tempo precedente alla Pasqua, il tempo apostolico e quello post-apostolico [1], ogni momento ha la sua propria importanza, ed è significativo che gli uomini apostolici di cui parla la Dei Verbum (n. 18), abbiano potuto elaborare una parte degli scritti del Nuovo Testamento. Allora appare chiaramente in che maniera la comunità di Gesù Cristo ha risolto il problema di rimanere apostolica pur essendo diventata post-apostolica. Esiste per conseguenza un carattere normativo specifico della parte post-apostolica del Nuovo Testamento per il tempo della Chiesa dopo gli Apostoli, edificata certamente sugli Apostoli, i quali hanno essi stessi Cristo per fondamento.

    Negli scritti post-apostolici, la Scrittura stessa rende testimonianza alla Tradizione, e già comincia a manifestarsi il Magistero nel richiamo all’insegnamento degli Apostoli (cf. Act 2, 42; 2 Pt 1, 20). Questo Magistero avrà la sua piena fioritura nel secondo secolo, nel momento in cui si espliciterà pienamente il concetto di successione apostolica.

    Insieme, Scrittura e Tradizione, meditate e autenticamente interpretate dal Magistero, ci trasmettono fedelmente l’insegnamento di Cristo, nostro Dio e Salvatore, e regolano la dottrina che la Chiesa ha la missione di proclamare a tutti i popoli e di applicare ad ogni generazione fino alla fine dei secoli.

    In questa prospettiva propriamente teologica — secondo la dottrina del Vaticano II — noi abbiamo redatto gli enunziati seguenti circa la successione apostolica e sulla valutazione dei ministeri che esistono nelle Chiese e Comunità non aventi ancora piena comunione con la Chiesa cattolica.

    I. L’apostolicità della Chiesa e il sacerdozio comune

    1. I Simboli di fede confessano che la Chiesa è apostolica. Ciò non significa soltanto che essa continua a confessare la fede apostolica, ma che è decisa a vivere sotto la norma della Chiesa primitiva, espressa dai primi testimoni del Cristo e retta dallo Spirito Santo, che il Signore le ha donato dopo la sua risurrezione. Le Lettere e gli Atti degli Apostoli ci mostrano la presenza efficace di questo Spirito nella Chiesa intera, non solo per quanto concerne la sua diffusione, ma più ancora nella trasformazione dei cuori: egli li rende conformi agli intimi sentimenti di Cristo. Stefano martire ripete le parole di perdono del Signore morente; Pietro e Giovanni, flagellati, gioiscono d’essere stati degni di soffrire per lui; Paolo porta le stigmate (Gal 6, 17), vuol essere configurato alla morte di Cristo (Phil 3, 10), non vuol conoscere altro che il crocifisso (1 Cor 1, 23; 2, 2), e comprende la sua esistenza come un’assimilazione al sacrificio espiatorio della croce (Phil 2, 17; Col 1, 24).

    2. Quest’assimilazione ai sentimenti del Cristo e soprattutto alla sua morte sacrificale per il mondo costituisce il significato ultimo di ogni vita che vuol essere cristiana, spirituale, apostolica.

    Perciò la Chiesa primitiva adatta il vocabolario sacerdotale dell’Antico Testamento a Cristo, agnello pasquale della Nuova Alleanza (1 Cor 5, 7) e — per riferimento a lui — ai cristiani la cui vita si specifica in rapporto al mistero pasquale. Convertiti dalla predicazione del Vangelo, essi sono convinti di vivere un sacerdozio santo e regale, trasposizione spirituale di quello dell’antico popolo (1 Pt 2, 5. 9; cf. Ex 19, 6; Is 61, 6), resa possibile dall’intervento dell’offerta sacrificale di Colui che ricapitola in sé tutti gli antichi sacrifici ed apre la strada verso il sacrificio totale ed escatologico della Chiesa (cf. S. Agostino, De Civitate Dei, X, c. 6).

    Di fatto i cristiani, pietra viva del nuovo edificio che è la Chiesa fondata su Cristo, offrono a Dio un culto nella novità dello Spirito, culto personale, giacché si tratta d’offrire la vita «in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rom 12, 1; cf. 1 Pt 2, 5), e insieme comunitario, perché tutti insieme rappresentano quell’«edificio spirituale», quel «sacerdozio santo» e «regale» (1 Pt 2, 9), il cui scopo è di offrire «sacrifici spirituali, graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 2, 5).

    Questo sacerdozio ha insieme una dimensione morale — deve essere esercitato ogni giorno ed in ogni atto della vita quotidiana —, una dimensione escatologica, in vista dell’eternità futura giacché Cristo ha fatto di noi «un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1, 6; cf. 5, 10; 20, 6), e una dimensione propriamente cultuale, poiché l’Eucaristia di cui vivono è paragonata da San Paolo ai sacrifici dell’Antica Legge ed anche — per con­trasto — a quelli dei pagani (1 Cor 10, 16-21).

    3. Ora, per la costituzione, l’animazione e la conservazione di questo sacerdozio dei cristiani, Cristo ha istituito un ministero, attraverso il segno e la strumentalità del quale egli comunica al suo popolo, nel corso della storia, i frutti della sua vita, della sua morte e della sua risurrezione. I primi fondamenti di questo ministero sono stati gettati fin dalla vocazione dei Dodici, che al tempo stesso rappresentano il nuovo Israele nella sua completezza e dopo la Pasqua saranno i testimoni privilegiati inviati per annunziare il Vangelo della salvezza, sono i capi del nuovo popolo, i collaboratori di Dio per l’edificazione del suo tempio (cf. 1 Cor 3, 9). La funzione di questo ministero è essenziale ad ogni generazione di cristiani. Deve dunque trasmettersi a partire dagli Apostoli attraverso una successione ininterrotta. Se si può dire che la Chiesa intera è stabilita sul fondamento degli Apostoli (Eph 2, 20;Ap 21, 14), bisogna anche e inseparabilmente affermare che questa apostolicità comune a tutta la Chiesa è legata alla successione apostolica ministeriale, che costituisce una struttura ecclesiale inalienabile al servizio di tutti i cristiani.








     

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 21/02/2014 11:25

    II. L’originalità del fondamento apostolico della Chiesa

    Il fondamento apostolico ha come suo carattere proprio l’essere insieme storico e spirituale.

    È storico nel senso che è posto da un atto di Cristo durante la sua vita terrestre: la chiamata dei Dodici fin dall’inizio del ministero pubblico di Gesù, la loro investitura per rappresentare il nuovo Israele e per essere associati sempre più strettamente al suo cammino pasquale che culmina nella croce e nella risurrezione (Mc 1, 17; 3, 14; Lc 22, 28; Io 15, 16). La risurrezione non rovescia ma conferma la struttura apostolica prepasquale. Cristo fa dei Dodici, in maniera speciale, i testimoni della sua risurrezione secondo lo stesso ordine che egli ha istituito prima della sua morte: la più antica confessione di fede nel Risorto include Pietro e i Dodici come testimoni privilegiati della risurrezione (1 Cor 15, 5). Coloro che Gesù aveva associati a sé dall’inizio del suo ministero fino alle soglie della sua Pasqua, possono testimoniare pubblicamente che proprio quello stesso Gesù è risuscitato (Io 15, 27). Dopo la defezione di Giuda e anche prima della Pentecoste, prima cura degli Undici è di far partecipare al loro ministero apostolico uno dei discepoli che hanno accompagnato Gesù dal tempo del suo battesimo, affinché sia insieme con essi testimone della sua risurrezione (Act 1, 17; 22 s.). Lo stesso Paolo, chiamato dal Risorto medesimo e così inserito nel fondamento della Chiesa, è consapevole di aver bisogno della comunione coi Dodici.

    Tale fondamento non è solamente storico, ma anche spirituale. La Pasqua di Cristo, anticipata nella Cena, istituisce il popolo della nuova alleanza e avvolge quindi tutta la storia umana. La missione di evangelizzazione, di governo, di riconciliazione e di santificazione, affidata ai primi testimoni, non può essere ristretta al tempo della loro vita.

    Per quanto concerne l’Eucaristia, la Tradizione, le cui linee fondamentali si stabiliscono già fin dal primo secolo (cf. Lc e Io), afferma che mediante questa partecipazione degli Apostoli alla Cena è stato loro conferito il potere di presiedere la celebrazione eucaristica. Il ministero apostolico è in tal modo un’istituzione escatologica. La sua origine spirituale trasparisce nella preghiera del Cristo, ispirata dallo Spirito Santo, nella quale egli discerne, come nelle grandi svolte della sua vita, la volontà del Padre (Lc 6, 12 s.). La partecipazione spirituale degli Apostoli al mistero del Cristo si completa nel dono pieno dello Spirito Santo, dopo la Pasqua (Io 20, 22; Lc 24, 44-49), e li introduce in una comprensione più profonda del mistero di lui (Io 16, 13-15). Così, per essere compreso in se stesso, il kèrigma non dev’essere separato né astratto dalla fede a cui i Dodici e Paolo hanno aderito nella loro conversione al Signore Gesù, né dalla testimonianza che ne hanno data con tutta la loro vita.

    III. Gli Apostoli e la successione apostolica nella storia

    I documenti del Nuovo Testamento mostrano una diversità nell’organizzazione delle comunità al principio della Chiesa, ancor viventi gli Apostoli, ma egualmente una tendenza del ministero di insegnamento e di direzione ad affermarsi e a rafforzarsi nel periodo successivo.

    Gli uomini che dirigevano le comunità quando gli Apostoli erano ancora vivi o dopo la loro morte portano nei testi del Nuovo Testamento diversi nomi: presbytèroi-episkopoi, e sono descritti comepoimèneshégoumenoiproistamenoikyberneseis. Ciò che caratterizza questi presbytèroi-episkopoi per rapporto al resto della Chiesa è il loro ministero apostolico d’insegnamento e di direzione. Quale che sia la maniera con cui sono stati scelti, per autorità o in dipendenza dai Dodici o da Paolo, essi partecipano all’autorità degli Apostoli istituiti da Cristo, i quali conservano per sempre la loro caratteristica unica.

    Nel corso del tempo questo ministero ha conosciuto uno sviluppo, prodottosi in forza d’una conseguenza e di una necessità interne, e favorito da fattori esterni, soprattutto la difesa contro gli errori e la mancanza di unità fra le comunità. Ma quando le comunità furono private della presenza degli Apostoli e tuttavia vollero continuare a riferirsi alla loro autorità, fu necessario che venissero mantenute e continuate in maniera adeguata le funzioni degli Apostoli in seno a tali comunità e di fronte ad esse.

    Già negli scritti neotestamentari che riflettono il passaggio dall’epoca apostolica a quella post-apostolica si delinea uno sviluppo che, nel secondo secolo, porta alla stabilizzazione e al riconoscimento generale del ministero del vescovo. Le tappe di questo sviluppo si scorgono negli ultimi scritti del corpus paolino e in altri testi che si riallacciano all’autorità degli Apostoli. Ciò che gli Apostoli avevano rappresentato per le comunità al tempo della fondazione della Chiesa, venne riconosciuto come essenziale per la struttura della Chiesa o per le comunità particolari, attraverso la riflessione del tempo post-apostolico al suo inizio. Il principio dell’apostolicità della Chiesa, acquisito in questa riflessione, portò con sé il riconoscimento del ministero d’insegnamento e di direzione come istituzione derivata da Cristo attraverso e mediante gli Apostoli. La Chiesa vive nella certezza che, prima di lasciare questo mondo, Gesù ha mandato gli Undici in missione universale, con la promessa di rimanere con loro tutti i giorni sino alla fine del mondo (Mt 28, 10-20). Il tempo della Chiesa, tempo di questa missione universale, resta dunque esso stesso compreso in questa presenza di Cristo, che è la medesima nel tempo apostolico e in quello post-apostolico, e che prende la forma d’un unico ministero apostolico.

    Le tensioni tra comunità e soggetto d’un ministero d’autorità non possono essere totalmente evitate, come si vede già negli scritti del Nuovo Testamento. Paolo s’è applicato, da un lato, a comprendere il Vangelo con e nella comunità, e a trovare norme di vita cristiana; d’altro lato, però, egli si poneva di fronte ad essa col suo potere apostolico, quando trattavasi della verità del Vangelo (cf. Gal) e dei principi insostituibili di vita cristiana (cf. 1 Cor 7, ecc.). Similmente, il ministero di direzione non deve mai tagliarsi fuori dalla comunità ed elevarsi al disopra di essa, ma deve compiere il proprio servizio in seno ad essa e per essa. Tuttavia ricevendo la direzione apostolica — quella degli Apostoli medesimi o quella dei ministri che ad essi succedono — le comunità neotestamentarie si sottomettono alla direzione del ministero, riferito — per loro tramite — all’autorità del Signore stesso.

    La scarsità di documenti non permette di precisare come si vorrebbe i passaggi operatisi. La fine del primo secolo ha conosciuto una situazione in cui gli Apostoli, i loro collaboratori immediati e infine i loro successori danno vita a collegi locali di presbytèroi e di episkopoi. Al principio del secondo secolo l’immagine del vescovo unico a capo delle comunità appare vigorosamente nelle lettere di sant’Ignazio, il quale afferma ancora che tale istituzione si trova stabilita «fino ai confini della terra» (Ad Ephesios, 3,2). Durante il secondo secolo questa istituzione è riconosciuta in maniera esplicita, nel solco della lettera di Clemente, come veicolo della successione apostolica. L’ordinazione con l’imposizione delle mani, attestata dalle Lettere pastorali, appare all’interno del processo di chiarificazione come un passo importante per la tutela della tradizione apostolica e per la garanzia della successione nel ministero. I documenti del terzo secolo (Tradizione d’Ippolito) mostrano che essa era specificamente acquisita, e considerata come istituzione necessaria.

    Clemente e Ireneo sviluppano una dottrina del governo pastorale e della Parola, facendo derivare dall’unità della Parola, della missione e del ministero l’idea della successione apostolica, divenuta base permanente della maniera con cui la Chiesa cattolica comprende se stessa.

     



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       IV. Aspetto spirituale della successione apostolica


    Se, dopo questo prospetto storico, cerchiamo di comprendere la dimensione spirituale della successione apostolica, bisogna anzitutto sottolineare che, pur rappresentando con autorità il Vangelo e manifestandosi fondamentalmente come un servizio verso la Chiesa nella sua totalità (2 Cor 4, 5), il ministero ordinato esige dal ministro che egli renda presente Cristo umiliato (2 Cor 6, 4 ss.) e crocifisso (cf. Gal 2, 19 s.; 6, 14; 1 Cor 4, 9 ss.).


    La Chiesa che egli serve è, nella sua totalità come in ciascuno dei suoi membri, animata e mossa dallo Spirito, giacché ogni battezzato è «ammaestrato dallo Spirito» (1 Thess 4, 9; cf. Hebr 8, 11 ss.; Ier31, 33 ss.; 1 Io 2, 20; Io 6, 45). Il ministero sacerdotale, quindi, non potrà se non ricordargli con autorità quanto incoativamente è già incluso nella sua fede battesimale, ma la cui pienezza egli non potrà mai esaurire quaggiù. Allo stesso modo il fedele dovrà nutrire la propria fede e la propria vita cristiana con la mediazione sacramentale della vita divina. La norma della fede — che nel suo carattere formale noi designiamo come «regola di fede» — è a lui immanente per l’azione dello Spirito, pur rimanendo trascendente per rapporto all’uomo, poiché non può mai essere puramente individuale essendo essenzialmente ecclesiale e cattolica.


    In questa regola di fede l’immediatezza dello Spirito divino ad ogni persona è quindi necessariamente legata alla forma comunitaria di questa fede. L’affermazione di San Paolo, che «nessuno può dire "Gesù è Signore" se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12, 3) è sempre valida: senza la conversione che solo lo Spirito accorda ai cuori, nessuno è in grado di riconoscere Gesù nella sua qualità di Figlio di Dio, e solo chi lo conosce come Figlio conoscerà veramente colui che egli chiama «Padre» (cf. Io 14, 7; 8, 19; ecc.). Dunque, poiché lo Spirito ci comunica la conoscenza del Padre mediante Gesù, la fede cristiana è trinitaria: la sua forma pneumatica include necessariamente questocontenuto, che si esprime e si realizza in maniera sacramentale nel battesimo trinitario.


    La regola di fede, cioè il tipo della catechesi battesimale nella quale si estrinseca il contenuto trinitario, costituisce, in quanto unione della forma e del contenuto, il perno permanente dell’apostolicità e della cattolicità della Chiesa. Essa realizza l’apostolicità in quanto lega gli araldi della fede alla regola cristo-pneumatologica: essi non parlano in nome proprio, ma testimoniano ciò che hanno ascoltato (cf.Io 7, 18; 16, 13 ss.; ecc.).


    Gesù Cristo si rivela come Figlio in quanto annunzia ciò che viene dal Padre. Lo Spirito si rivela come lo Spirito del Padre e del Figlio perché non prende del suo, ma li rivela e richiama quanto viene dal Figlio (Io 16, 13 s.). Ciò diventa, nel prolungamento del Signore e del suo Spirito, il carattere distintivo della successione apostolica. Il Magistero della Chiesa si distingue tanto da un puro magistero di dottori quanto da un potere autoritario. Qualora il magistero della fede passasse ai professori, la fede sarebbe legata ai lumi individuali, e così assoggettata in gran parte allo spirito del tempo. E qualora la fede dipendesse dal potere dispotico di certe persone individuali o collettive, chiunque di loro fosse a decretare ciò che è normativo, la verità sarebbe rimpiazzata da un potere arbitrario. Al contrario, il vero magistero apostolico è legato alla Parola del Signore e così introduce nella libertà di lui quanti l’ascoltano.


    Nulla, nella Chiesa, sfugge alla mediazione apostolica: né i pastori né il gregge, né gli enunziati di fede né le norme di vita cristiana. Il ministero ordinato si trova anche doppiamente riferito a tale mediazione, essendo esso stesso sottoposto da una parte alla regola delle origini cristiane, e dall’altra — come dice Agostino — obbligato a lasciarsi istruire dalla comunità dei credenti che lui stesso ha l’obbligo di istruire.


    Da quanto fin qui detto ricaveremo due conclusioni:


    1. Nessun predicatore del Vangelo ha il diritto di escogitare un piano di annunzio evangelico secondo le proprie ipotesi. Egli annunzia la fede della Chiesa apostolica e non la propria personalità o le proprie esperienze religiose. Ciò comporta che ai due elementi menzionati della regola di fede — forme e contenuto — viene ad aggiungersene un terzo: la regola di fede esige un testimone inviato, che non s’autorizzi da se stesso e che nessuna comunità particolare è capace di autorizzare, e ciò in forza della trascendenza della Parola. L’autorizzazione non può venirgli se non sacramentalmente attraverso quelli che sono già inviati. Certo, lo Spirito suscita sempre liberamente nella Chiesa differenti carismi di evangelizzazione e di servizio, animando tutti i cristiani alla testimonianza della loro fede, ma queste attività devono essere esercitate in riferimento ai tre elementi della regola di fede ora menzionati (cf.Lumen Gentium, n. 12).


    2. La missione che in tal modo — ancora una volta secondo il principio trinitario — fa parte della regola di fede, si riferisce alla cattolicità della fede, che è una conseguenza della sua apostolicità e al tempo stesso la condizione della sua permanenza. Nessun individuo e nessuna comunità isolata, infatti, hanno il potere di inviare. Solo il legame al tutto (kat’holon) — la cattolicità nello spazio e nel tempo — garantisce la permanenza nella missione. Così la cattolicità spiega ancora che il fedele, in quanto membro della Chiesa, è introdotto alla partecipazione immediata della vita trinitaria attraverso lamediazione non solo dell’Uomo-Dio, ma anche della Chiesa, a lui intimamente associata.


    Questa mediazione della Chiesa deve, in virtù della dimensione cattolica della sua verità e della sua vita, effettuarsi in maniera normativa, cioè mediante un ministero che le è conferito come forma costitutiva. Questo non dovrà soltanto riferirsi a un’epoca storicamente finita (rappresentata eventualmente da una serie di documenti); ma in questo riferimento dev’essere munito del potere di rappresentare esso stesso l’origine, il Cristo vivente, mediante un annunzio del Vangelo ufficialmente autorizzato e mediante la celebrazione, con autorità, di atti sacramentali, prima di tutto dell’Eucaristia.


    V. La successione apostolica e la sua trasmissione


    Poiché la Parola divina fatta carne è essa stessa l’annunzio e il principio della comunicazione della vita divina che ci si manifesta in essa, il ministero della Parola nella sua pienezza è anche ministero dei sacramenti della fede, prima di tutto dell’Eucaristia, nei quali la Parola, il Cristo, non cessa d’essere per gli uomini avvenimento attuale di salvezza. L’autorità pastorale è la responsabilità del ministero apostolico verso l’unità della Chiesa e il suo sviluppo, di cui la Parola è sorgente e di cui i sacramenti sono al tempo stesso manifestazione e luogo fondamentale di realizzazione.


    La successione apostolica è dunque quest’aspetto della natura e della vita della Chiesa, che mostra la dipendenza attuale della comunità in rapporto a Cristo attraverso i suoi inviati. Il ministero apostolico è in tal modo il sacramento della presenza operante di Cristo e dello Spirito in seno al popolo di Dio, senza che però venga minimizzato l’influsso immediato del Cristo e dello Spirito su ogni fedele.


    Il carisma della successione apostolica è ricevuto nella comunità visibile della Chiesa. Esso suppone che colui che viene inserito nel corpo dei ministri abbia la fede della Chiesa. Ma questo non basta. Il dono del ministero viene accordato in un’azione che è segno visibile ed efficace del dono dello Spirito, azione che ha come strumenti uno o alcuni degli stessi ministri già inseriti nella successione apostolica.


    La trasmissione del ministero apostolico avviene dunque mediante l’ordinazione, che comprende un rito con un segno sensibile e un’invocazione a Dio (epiclèsi) affinché voglia accordare all’ordinando il dono del suo Spirito Santo insieme coi poteri necessari all’adempimento del suo compito. Fin dal Nuovo Testamento questo segno sensibile è l’imposizione delle mani (cf. Lumen Gentium, n. 21). Il rito dell’ordinazione sta a manifestare che quanto avviene in colui che è ordinato non è di origine umana, e che la Chiesa non dispone a suo piacimento del dono dello Spirito.


    Consapevole che la propria esistenza è legata all’apostolicità, e che il ministero trasmesso mediante l’ordinazione inserisce l’ordinato nella confessione apostolica della verità del Padre, la Chiesa ha giudicato necessaria alla successione apostolica nel senso stretto della parola l’ordinazione data e ricevuta nella fede che essa stessa vi ripone.


    La successione apostolica del ministero riguarda tutta la Chiesa, ma non procede dalla Chiesa presa globalmente, bensì da Cristo agli Apostoli e, negli Apostoli, a tutti i vescovi sino alla fine dei tempi.


    VI. Elementi per una valutazione dei ministeri non cattolici


    Questa sintesi finora compiuta del modo come i cattolici comprendono la successione apostolica ci consente di presentare le linee generali per una valutazione dei ministeri non cattolici. In tale contesto è indispensabile avere sott’occhi le differenze di origine, le evoluzioni di queste Chiese e Comunità, è la concezione che esse hanno di se stesse.


    1. Malgrado la diversa valutazione che esse fanno dell’ufficio di Pietro, la Chiesa cattolica, la Chiesa ortodossa e le altre Chiese che hanno conservata la realtà della successione apostolica, sono unite in una medesima comprensione fondamentale della sacra mentalità della Chiesa, sviluppatasi fin dal Nuovo Testamento attraverso i Padri comuni, in particolare sant’Ireneo. Queste Chiese considerano l’inserimento sacramentale nel ministero ecclesiale, realizzato attraverso l’imposizione delle mani con l’invocazione dello Spirito Santo, come la forma indispensabile per la trasmissione della successione apostolica, che sola fa perseverare la Chiesa nella dottrina e nella comunione. Questa unanimità nella coerenza mai interrotta tra Scrittura, Tradizione e sacramento, costituisce il motivo per cui la comunione tra queste Chiese e la Chiesa cattolica non è mai cessata del tutto e può essere oggi ravvivata.


    2. Dialoghi fruttuosi si continuano con le Comunioni anglicane che hanno conservata l’imposizione delle mani, la cui interpretazione è cambiata. Non è qui possibile anticipare gli eventuali risultati di questo dialogo che indaga in quale misura gli elementi costitutivi dell’unità sono inclusi nella conservazione del rito dell’imposizione delle mani e delle correlative preghiere.


    3. Le Comunità uscite dalla Riforma del sec. XVI si differenziano tra loro al punto che la descrizione dei loro rapporti con la Chiesa cattolica dev’essere considerata secondo le sfumature di ogni caso particolare. Tuttavia si possono individuare alcune linee comuni.


    Il movimento comune della Riforma ha negato il legame tra la Scrittura e la Tradizione della Chiesa in favore della normatività della sola Scrittura. Anche se in seguito ci si richiama in diversa maniera alla Tradizione, tuttavia non si riconosce ad essa la medesima dignità di cui godeva nell’antica Chiesa. Poiché il sacramento dell’ordine è l’espressione sacramentale indispensabile della comunione nella Tradizione, la proclamazione della sola Scriptura ha comportato l’oscuramento dell’antica nozione della Chiesa e del suo sacerdozio. E così, di fatto, attraverso i secoli si è spesso rinunziato all’imposizione delle mani sia da parte di uomini già ordinati, sia da parte di altri. Là dov’è stata praticata, non sempre ha avuto il medesimo significato che nella Chiesa della Tradizione. Questa divergenza nel modo di introdurre nel ministero e di interpretarlo non è che il sintomo più rilevante della differente comprensione delle nozioni di Chiesa e di Tradizione.


    Numerosi promettenti approcci [2] hanno cominciato a ristabilire dei contatti con questa Tradizione, anche se la rottura non è ancora effettivamente superata. In tali circostanze l’intercomunione eucaristica resta per il momento impossibile [3], perché la continuità sacramentale nella successione apostolica fin dalle origini costituisce per le Chiese ortodosse, come pure per la Chiesa cattolica, un elemento indispensabile della comunione ecclesiale.


    Questa costatazione non significa affatto che le qualità ecclesiali e spirituali dei ministeri e delle Comunità protestanti siano per questo da tenere in poco conto. I ministri hanno edificato e nutrito le comunità. Mediante il battesimo, mediante lo studio e la predicazione della Parola, mediante la preghiera comune e la celebrazione della Cena, col loro zelo, essi hanno guidato gli uomini verso la fede nel Signore, aiutandoli così a trovare la via della salvezza. Ci sono dunque in queste comunità elementi che certamente appartengono all’apostolicità dell’unica Chiesa di Cristo [4].


    Anche se l’unione con la Chiesa cattolica non può effettuarsi se non sacramentalmente — e mai con mezzi puramente giuridici o amministrativi [5] —, è evidente che la qualità spirituale di questi ministeri non può mai essere trascurata. Un tale atto sacramentale dovrebbe integrare nella Catholica i valori esistenti, e il suo rito dovrebbe indubbiamente esprimere che vengono assunti carismi già reali.




    *Documento del gruppo di lavoro sui ministeri approvato «in forma generica» dalla Commissione Teologica Internazionale


     


    [1] La presenza personale degli Apostoli caratterizza l’epoca apostolica; essa tuttavia non potrebb’essere delimitata da un’esatta cronologia, essendo gli Apostoli scomparsi nelle varie Chiese in epoche diverse. Il tempo post-apostolico è qui inteso come il periodo che va dalla morte degli Apostoli fino al compimento degli scritti canonici, che spesso si presentano sotto il nome e con l’autorità degli Apostoli a motivo della continuità col loro messaggio che essi rendono attuale.


    [2] Si vedano i risultati di alcuni dialoghi bilaterali.


    [3] Per l’ospitalità eucaristica in casi particolari cf. il Direttorio Ecumenico, n. 38 e ss.


    [4] Cf. la Cost. Dogmatica Lumen Gentium, n. 15, e il Decreto Unitatis Redintegratio, nn. 3 e 19-23.


    [5] Se si volesse rimpiazzare questo rito con un semplice decreto, qualunque sia l’autorità che lo emani si rischierebbe di sostituire il dono sacramentale, di cui non si può disporre a piacimento, col potere proprio dei ministri.




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 18/10/2014 14:04


    Dagli Atti del Concilio Vaticano II: Notificazioni del Segretario Generale, 16 novembre 1964 - Nota explicativa praevia in calce alla Lumen Gentium

     
    DAGLI ATTI DEL SS. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II 

    NOTIFICAZIONI

    Fatte dall’Ecc.mo Segretario Generale del Ss. Concilio
    nella CXXIII Congregazione Generale del 16 novembre 1964

    È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina che è esposta nello Schema sulla Chiesa e viene sottoposta alla votazione.
     
    Al quesito sulla valutazione dei Modi riguardanti il capitolo terzo dello Schema sulla Chiesa la Commissione Dottrinale ha risposto in questi termini:
     
    "Come di per sé evidente, il testo del Concilio deve essere sempre interpretato secondo le regole generali, a tutti note".
     
    Con l’occasione, la Commissione Dottrinale rimanda alla sua Dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui qui trascriviamo il testo:
     
    "Tenendo conto della procedura conciliare e della finalità pastorale del presente Concilio, questo S. Sinodo definisce come vincolante per la Chiesa soltanto quello che in materia di fede e di morale avrà apertamente dichiarato come tale.
     
    "Le altre cose che il S. Sinodo propone, in quanto dottrina del Supremo Magistero della Chiesa, tutti e ciascun fedele devono accoglierle e aderirvi secondo la mente dello stesso S. Sinodo, quale si deduce sia dalla materia trattata sia dal tenore dell’espressione verbale, secondo le norme dell’interpretazione teologica".
     
    Su mandato dell’Autorità Superiore viene poi trasmessa ai Padri una nota esplicativa previa ai Modi circa il capitolo terzo dello Schema sulla Chiesa; secondo la mente e il giudizio di questa nota dev’essere spiegata e intesa la dottrina esposta nel detto capitolo terzo.
     
    Nota esplicativa previa 
     
    La Commissione ha stabilito di premettere all’esame dei "Modi" le seguenti osservazioni generali.
     
    1. "Collegio" non si intende in senso « strettamente giuridico », cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandata la loro potestà al loro presidente, ma di un gruppo stabile, la cui struttura e autorità deve essere dedotta dalla Rivelazione. Perciò nella risposta al modus 12 si dice esplicitamente dei Dodici che il Signore li costituì « a modo di collegio o "gruppo" (coetus) stabile ». Cfr. anche il modus 53, c. Per la stessa ragione, per il collegio dei vescovi si usano con frequenza anche le parole "ordine" (ordo) o "corpo" (corpus). Il parallelismo fra Pietro e gli altri apostoli da una parte, e il sommo Pontefice e i vescovi dall'altra, non implica la trasmissione della potestà straordinaria degli apostoli ai loro successori, né, com'è chiaro, "uguaglianza" (aequalitatem) tra il capo e le membra del collegio, ma solo "proporzionalità" (proportionalitatem) fra la prima relazione (Pietro apostoli) e l'altra (papa vescovi). Perciò la commissione ha stabilito di scrivere nel n. 22 non "medesimo" (eodem) ma "pari" modo. Cfr. modus 57.
     
    2. Si diventa "membro del collegio" in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le membra. Cfr. n. 22.

    Nella consacrazione è data una "ontologica" partecipazione ai "sacri uffici", come indubbiamente consta dalla tradizione, anche liturgica. Volutamente è usata la parola "uffici" (munerum), e non "potestà" (potestatum), perché quest'ultima voce potrebbe essere intesa di potestà esercitabile di fatto (ad actum expedita). Ma perché si abbia tale potestà esercitabile di fatto, deve intervenire la "determinazione" canonica o "giuridica" (iuridica determinatio) da parte dell'autorità gerarchica. E questa determinazione della potestà può consistere nella concessione di un particolare ufficio o nell'assegnazione dei sudditi, ed è concessa secondo le norme approvate dalla suprema autorità. Una siffatta ulteriore norma è richiesta "dalla natura delle cose", trattandosi di uffici, che devono essere esercitati da "più soggetti", che per volontà di Cristo cooperano in modo gerarchico. È evidente che questa "comunione" è stata applicata nella vita della Chiesa secondo le circostanze dei tempi, prima di essere per così dire codificata "nel diritto". Perciò è detto espressamente che è richiesta la comunione "gerarchica" col capo della Chiesa e con le membra. "Comunione" è un concetto tenuto in grande onore nella Chiesa antica (ed anche oggi, specialmente in Oriente). Per essa non si intende un certo vago "sentimento", ma una "realtà organica", che richiede una forma giuridica e che è allo stesso tempo animata dalla carità. La commissione quindi, quasi d'unanime consenso, stabilì che si scrivesse: « nella comunione "gerarchica" ». Cfr. Mod. 40 ed anche quanto è detto della "missione canonica", sotto il n. 24.

    I documenti dei recenti romani Pontefici circa la giurisdizione dei vescovi vanno interpretati come attinenti questa necessaria determinazione delle potestà.
     
    3.  Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto essere: «anche esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale ». Ciò va necessariamente ammesso, per non porre in pericolo la pienezza della potestà del romano Pontefice. Infatti il collegio necessariamente e sempre si intende con il suo capo, "il quale nel collegio conserva integro l'ufficio di vicario di Cristo e pastore della Chiesa universale". In altre parole: la distinzione non è tra il romano Pontefice e i vescovi presi insieme, ma tra il romano Pontefice separatamente e il romano Pontefice insieme con i vescovi. E siccome il romano Pontefice e il "capo" del collegio, può da solo fare alcuni atti che non competono in nessun modo ai vescovi, come convocare e dirigere il collegio, approvare le norme dell'azione, ecc. Cfr. Modo 81. Il sommo Pontefice, cui è affidata la cura di tutto il gregge di Cristo, giudica e determina, secondo le necessità della Chiesa che variano nel corso dei secoli, il modo col quale questa cura deve essere attuata, sia in modo personale, sia in modo collegiale. Il romano Pontefice nell'ordinare, promuovere, approvare l'esercizio collegiale, procede secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa. Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto essere: «anche esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale ». Ciò va necessariamente ammesso, per non porre in pericolo la pienezza della potestà del romano Pontefice. Infatti il collegio necessariamente e sempre si intende con il suo capo, "il quale nel collegio conserva integro l'ufficio di vicario di Cristo e pastore della Chiesa universale". In altre parole: la distinzione non è tra il romano Pontefice e i vescovi presi insieme, ma tra il romano Pontefice separatamente e il romano Pontefice insieme con i vescovi. E siccome il romano Pontefice e il "capo" del collegio, può da solo fare alcuni atti che non competono in nessun modo ai vescovi, come convocare e dirigere il collegio, approvare le norme dell'azione, ecc. Cfr. Modo 81. Il sommo Pontefice, cui è affidata la cura di tutto il gregge di Cristo, giudica e determina, secondo le necessità della Chiesa che variano nel corso dei secoli, il modo col quale questa cura deve essere attuata, sia in modo personale, sia in modo collegiale. Il romano Pontefice nell'ordinare, promuovere, approvare l'esercizio collegiale, procede secondo la propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa.
     
    4. Il sommo Pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può esercitare la propria potestà in ogni tempo a sua discrezione, come è richiesto dallo stesso suo ufficio. Ma il collegio, pur esistendo sempre, non per questo permanentemente agisce con azione "strettamente" collegiale, come appare dalla tradizione della Chiesa. In altre parole: Non sempre è «in pieno esercizio», anzi non agisce con atto strettamente collegiale se non ad intervalli e "col consenso del capo". Si dice « col consenso del capo », perché non si pensi a una "dipendenza", come nei confronti di chi è "estraneo"; il termine "consenso" richiama, al contrario, la "comunione" tra il capo e le membra e implica la necessità dell'atto", il quale propriamente compete al capo. La cosa è esplicitamente affermata nel n. 22 ed è ivi spiegata. La formula negativa "se non" (nonnisi) comprende tutti i casi, per cui è evidente che le "norme" approvate dalla suprema autorità devono sempre essere osservate. Cfr. modus 84.

    Dovunque appare che si tratta di "unione" dei vescovi "col loro capo", e mai di azione dei vescovi "indipendentemente" dal papa. In tal caso, infatti, venendo a mancare l'azione del capo, i vescovi non possono agire come collegio, come appare dalla nozione di "collegio". Questa gerarchica comunione di tutti i vescovi col sommo Pontefice è certamente abituale nella tradizione.

    N. B.- Senza la comunione gerarchica l'ufficio sacramentale ontologico, che si deve distinguere dall'aspetto canonico giuridico, "non può" essere esercitato. La commissione ha pensato bene di non dover entrare in questioni di "liceità" e "validità", le quali sono lasciate alla discussione dei teologi, specialmente per ciò che riguarda la potestà che di fatto è esercitata presso gli Orientali separati e che viene spiegata in modi diversi.

    † Pericle Felici
    Arcivescovo titolare di Samosata
    Segretario Generale del Ss. Concilio


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)