DIFENDERE LA VERA FEDE

VIAGGIO APOSTOLICO IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY (5-13 LUGLIO 2015)

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    Caterina63
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    00 07/07/2015 20:30

    VIAGGIO APOSTOLICO
    DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY
    (5-13 LUGLIO 2015)

      

     

    Trasmissioni video in diretta dal CTV
    (Centro Televisivo Vaticano)  

    Live CTV

     

     

    Domenica, 5 luglio 2015

    9.00 Partenza in aereo dall’Aeroporto di Roma/Fiumicino per Quito (Ecuador)  
    15.00 Arrivo all’Aeroporto Internazionale “Mariscal Sucre” di Quito  
      Cerimonia di benvenuto
    [Arabo, FranceseIngleseItaliano, Polacco, PortogheseSpagnoloTedesco]
     

    Lunedì, 6 luglio 2015

    9.00 Partenza in aereo per Guayaquil  
      Arrivo all’Aeroporto Internazionale “José J. de Olmedo” di Guayaquil  
    10.30 Visita al Santuario della Divina Misericordia
    [Arabo, Francese, IngleseItaliano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    11.45 Santa Messa nel Parco de Los Samanes
    [AraboFranceseIngleseItaliano, Polacco, PortogheseSpagnoloTedesco]
     
    14.00 Pranzo al Collegio Javier con la Comunità dei Gesuiti e con il Seguito Papale  
    17.10 Partenza in aereo per Quito  
    18.00 Arrivo all’Aeroporto Internazionale “Mariscal Sucre” di Quito  
    19.00 Visita di Cortesia al Presidente della Repubblica nel Palazzo Presidenziale “Carondelet”  
    20.10 Visita alla Cattedrale di Quito
    [Arabo, FranceseIngleseItaliano, Polacco, PortogheseSpagnoloTedesco]
     
     

    Martedì, 7 luglio 2015

    9.00 Incontro con i Vescovi dell’Ecuador nel Centro Congressuale del Parco del Bicentenario  
    10.30 Santa Messa nel Parco del Bicentenario
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    16.30 Incontro con il Mondo della Scuola e dell'Università alla Pontificia Università Cattolica dell’Ecuador
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    18.00 Incontro con la Società Civile nella chiesa di San Francisco
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    19.15 Visita privata alla “Iglesia de la Compañia”  

    Mercoledì, 8 luglio 2015

    9.30 Visita alla Casa di Riposo delle Missionarie della Carità  
    10.30 Incontro con il Clero, i Religiosi, le Religiose e i Seminaristi nel Santuario Nazionale Mariano “El Quinche”
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    12.00 Partenza in aereo da Quito per La Paz (Bolivia)  
    16.15 Arrivo all’Aeroporto Internazionale di El Alto a La Paz  
      Cerimonia di benvenuto
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    18.00 Visita di Cortesia al Presidente dello Stato Plurinazionale di Bolivia nel Palazzo del Governo  
    19.00 Incontro con le Autorità Civili nella Cattedrale di La Paz
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    20.00 Partenza in aereo per Santa Cruz de la Sierra  
    21.15 Arrivo all’Aeroporto Internazionale Viru Viru a Santa Cruz de la Sierra  

    Giovedì, 9 luglio 2015

    10.00 Santa Messa nella piazza del Cristo Redentore
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    16.00 Incontro con i Sacerdoti, Religiosi, Religiose e Seminaristi nella scuola Don Bosco
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    17.30 Partecipazione al II Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari nel centro fieristico Expo Feria
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    Venerdì, 10 luglio 2015

    9.30 Visita al Centro di Rieducazione Santa Cruz – Palmasola
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    11.00

    Incontro con i Vescovi della Bolivia nella chiesa parrocchiale de La Santa Cruz

     
    12.45 Cerimonia di Congedo nell’Aeroporto Internazionale di Viru Viru  
    13.00 Partenza in aereo per Asunción (Paraguay)  
    15.00 Arrivo all’Aeroporto Internazionale “Silvio Pettirossi” di Asunción  
      Cerimonia di benvenuto  
    18.00 Visita di Cortesia al Presidente della Repubblica nel Palazzo de López  
    18.45 Incontro con le Autorità e con il Corpo Diplomatico nel giardino del Palazzo de López
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    Sabato, 11 luglio 2015

    8.30 Visita all'Ospedale Generale Pediatrico “Niños de Acosta Ñu”
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    10.30 Santa Messa sul piazzale del Santuario mariano di Caacupé
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    16.30 Incontro con Rappresentanti della Società Civile nello Stadio León Condou della scuola San José
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    18.15 Vespri con Vescovi, Sacerdoti, Diaconi, Religiosi, Religiose, Seminaristi e Movimenti cattolici nella Cattedrale Metropolitana dell’Assunta
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     

    Domenica, 12 luglio 2015

    8.15 Visita alla Popolazione del Bañado Norte (Cappella di San Juan Bautista)
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    10.00 Santa Messa nel campo grande di Ñu Guazú
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
      Angelus
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    13.00 Incontro con i Vescovi del Paraguay nel Centro Culturale della Nunziatura Apostolica  
    13.30 Pranzo con i Vescovi del Paraguay e con il Seguito Papale  
    17.00 Incontro con i Giovani sul lungofiume “Costanera”
    [Arabo, Francese, Inglese, Italiano, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco]
     
    19.00 Partenza in aereo per Roma  

    Lunedì, 13 luglio 2015

    13.45 Arrivo all’Aeroporto di Roma/Ciampino  

     

    Fuso orario
    Roma: +2h UTC
    Quito/Guayaquil: -5h UTC
    La Paz/Santa Cruz/Asunción: -4h UTC













    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 09/07/2015 17:51


     

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    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 10/07/2015 17:15
     UN CHIARIMENTO sul colpo di mano fatto dal presidente della Bolivia Evo Morales... il crocefisso-insulto e il tormentone mediatico

    fonte Radio Vaticana




    Il crocefisso inconsueto donato al Papa: un regalo insensato

    Il presidente Morales dona a Francesco un crocefisso a forma di falce e martello durante la visita del Papa al palazzo del governo a La Paz - AFP

    Il presidente Morales dona a Francesco un crocefisso a forma di falce e martello durante la visita del Papa al palazzo del governo a La Paz - AFP

    10/07/2015 14:43
     

    Tormentone mediatico

    "Spesso, durante i viaggi papali, nasce un tormentone mediatico, legato ad aspetti secondari, che serve per attrarre l'attenzione dei lettori ma, alla fine, non fa che oscurare i momenti più importanti dell'evento". Ad affermarlo è Luis Badilla Morales, giornalista latino-americano, responsabile del sito 'Il Simografo'. "E' il caso - spiega Badilla - della foto che ritrae il presidente boliviano Evo Morales mentre dona a Papa Francesco un crocefisso a forma di falce e martello, immagine, nelle ultime ore, diventata 'virale' nella rete. Da questo punto di vista, perciò, nulla di sorprendente".

    Sincretismo politico-religioso frutto di analfabetisno e ideologia

    "Resta invece da analizzare - continua il commentatore - la scelta del presidente Morales di regalare al Papa un oggetto così inconsueto. Senza mancare di rispetto al Capo di Stato sudamericano credo che il suo gesto si possa definire almeno insensato". "Questo modo di agire - prosegue Badilla - è tipico di un certo tipo di sinistra latino-americana e di quello che viene chiamato il socialismo del XXI secolo". "E' un fenomeno - prosegue Badilla - che io definirei sincretismo politico-religioso. Questi movimenti, infatti, sono molto attratti dalle radici cattoliche del continente latino-americano ma sono caratterizzati da una sorta di analfabetismo religioso. Non conoscono cioè, davvero, cos'è la Chiesa, cos'è il Vangelo e il Magistero pontificio". "Per fare un altro esempio - racconta il responsabile del sito 'Il Sismografo' - qualche mese fa, in Venezuela, davanti al presidente Maduro, è stato recitato un 'Padre Nostro' modificato, dove le parole 'Padre' e 'Dio' venivano sostituite con il nome del presidente defunto, Hugo Chávez, a cui si chiedeva la protezione dalla tentazione del capitalismo". "Molti anni fa - prosegue Badilla - circolò persino in questi ambiti l'immagine di un Cristo che imbracciava un kalshnikov e aveva sulle spalle uno zaino da guerrigliero. Non si tratta altro che di un sincretismo politico-religioso che è, in qualche modo, costitutivo di una certa sinistra latino-americana che, pur essendo di radice cattolica, si dimostra analfabeta dal punto di vista religioso e afflitta da fanatismo ideologico". "Il gesto del presidente Morales - conclude Badilla - poteva sembrare una provocazione. Per fortuna la reazione pacata del Papa nel riceverlo, pur venata di perplessità, e la sua unica frase 'Però questo non è buono', hanno chiuso rapidamente la vicenda".

    Un dono che non aiuta la beatificazione di p. Espinal

    Luis Badilla commenta anche la circostanza che l'inconsueto crocefisso, secondo fonti boliviane, sarebbe la riproduzione di un disegno del gesuita spagnolo padre Luis Espinal, missionario ucciso dai paramilitari in Bolivia nel 1980, sotto la dittatura, perché predicava il Vangelo. "Francesco ha reso omaggio al suo martirio, pregando sul luogo dell'omicidio. Ma certo, il regalo che il Papa ha ricevuto, non fa un buon servizio all'eventuale causa di beatificazione di Espinal. Ricordiamoci che i ritardi che hanno caratterizzato la beatificazione di mons. Romero sono dipesi, in gran parte, dalla strumentalizzazione della sua figura da parte di una certa sinistra latino-americana che aveva snaturato la profezia evangelica del suo martirio". "Qui - chiude Badilla - si corre lo stesso rischio".  


    (Fabio Colagrande)


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 13/07/2015 16:05

    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    INCONTRO CON I GIOVANI

    DISCORSO DEL SANTO PADRE

    Lungofiume "Costanera", Asunción (Paraguay)
    Domenica, 12 luglio 2015

    [Multimedia]





     

    Cari giovani, buon pomeriggio!

    Dopo aver letto il Vangelo, Orlando si è avvicinato per salutarmi e mi ha detto: “Ti chiedo di pregare per la libertà di ognuno di noi, di tutti”. E’ la benedizione che ha chiesto Orlando per ognuno di noi. E’ la benedizione che chiediamo adesso tutti insieme: la libertà. Perché la libertà è un dono che ci dà Dio, ma bisogna saperlo accogliere, bisogna saper avere il cuore libero. Perché tutti sappiamo che nel mondo ci sono tanti lacci che ci legano il cuore e non lasciano che il cuore sia libero. Lo sfruttamento, la mancanza di mezzi per sopravvivere, la dipendenza dalla droga, la tristezza… tutte queste cose ci tolgono la libertà. E allora tutti insieme… ringraziando Orlando che ha chiesto questa benedizione, avere il cuore libero, un cuore che possa dire quello che pensa e quello che sente: questo è un cuore libero!... E questo è ciò che adesso chiediamo tutti insieme, questa benedizione che Orlando ha chiesto per tutti. Ripetete con me [il Santo Padre pronuncia la preghiera frase per frase e i giovani ripetono]: Signore Gesù, dammi un cuore libero. Che non sia schiavo di tutte le trappole del mondo. Che non sia schiavo della comodità, dell’inganno. Che non sia schiavo della “bella vita”. Che non sia schiavo dei vizi. Che non sia schiavo di una falsa libertà, che è fare quello che mi piace in ogni momento.

    Grazie, Orlando, per averci fatto rendere conto che dobbiamo domandare un cuore libero. Chiedetelo tutti i giorni!

    Abbiamo ascoltato due testimonianze: quella di Liz e quella di Manuel. Liz ci insegna una cosa. Come Orlando ci ha insegnato a pregare per avere un cuore libero, Liz con la sua vita ci insegna che non bisogna essere come Ponzio Pilato, lavarsene le mani! Liz avrebbe potuto tranquillamente mettere sua mamma in un ricovero, sua nonna in un altro ricovero e vivere la sua vita da giovane, divertendosi, studiando quello che voleva. E ha detto: “No. La nonna, la mamma…”. E Liz è diventata serva, servitrice e, se volete ancora più forte, servente della mamma e della nonna. E lo ha fatto con affetto! A tal punto – diceva lei – che addirittura si sono scambiati i ruoli e lei ha finito per essere la mamma di sua mamma, nel modo in cui la curava. Sua mamma, con quella malattia così crudele che confonde le cose. E lei ha bruciato la sua vita, fino ad ora, fino a 25 anni, servendo sua mamma e sua nonna. Sola? No, Liz non era sola. Lei ha detto due cose che ci devono aiutare. Ha parlato di un angelo, di una zia che è stata come un angelo; e ha parlato dell’incontro con gli amici nei fine settimana, con la comunità giovanile di evangelizzazione, con il gruppo giovanile che alimentava la sua fede. E quei due angeli – la zia che l’assisteva e il gruppo giovanile – le davano più forza per andare avanti. E questo si chiama solidarietà. Come si chiama? [i giovani rispondono: “Solidarietà!”] Quando ci facciamo carico del problema dell’altro. E lei ha trovato lì un’oasi di pace per il suo cuore stanco. Ma c’è una cosa che ci sfugge. Lei non ha detto: “Faccio questo e basta”. Ha studiato. Ed è infermiera. E nel fare tutto questo, l’aiuto, la solidarietà che ha ricevuto da voi, dal vostro gruppo, che ha ricevuto da quella zia che era come un angelo, l’ha aiutata ad andare avanti. E oggi, a 25 anni, ha la grazia che Orlando ci faceva chiedere: ha un cuore libero. Liz mette in pratica il quarto comandamento: “Onora tuo padre e tua madre”. Liz esprime la sua vita - la brucia! - nel servizio a sua madre. E’ un grado altissimo di solidarietà, è un grado altissimo di amore. Una testimonianza. “Padre, allora è possibile amare?”. Qui avete qualcuno che ci insegna ad amare.

    Primo: libertà, cuore libero. Allora, tutti insieme [con i giovani]: “Primo: cuore libero”. Secondo: solidarietà per accompagnare. Solidarietà. Questo è ciò che ci insegna questa testimonianza.

    E Manuel non ha avuto una vita facile. Manuel non è un “cocco di mamma”, non è stato un “pupo”; non è stato un bambino e oggi un ragazzo dalla vita facile. Ha detto parole dure: “Sono stato sfruttato, sono stato maltrattato, a rischio di cadere nelle dipendenze… Ero solo”. Sfruttamento, maltrattamenti e solitudine. E invece di fare cose negative, invece di andare a rubare, si è messo a lavorare! Invece di vendicarsi della vita, ha guardato avanti! E Manuel ha usato una frase bella: “Ho potuto andare avanti, perché nella situazione in cui mi trovavo era difficile parlare di futuro”. Quanti giovani, voi, oggi hanno la possibilità di studiare, di sedersi a tavola con la famiglia tutti i giorni, hanno la possibilità che non manchi loro l’essenziale? Quanti di voi hanno queste cose? Tutti insieme, quelli che hanno questo, dicano: “Grazie Signore!” [giovani: “Grazie Signore!”]. Perché qui abbiamo avuto una testimonianza di un ragazzo che fin da bambino ha saputo che cos’era il dolore, la tristezza, che è stato sfruttato, maltrattato, che non aveva da mangiare e che era solo. Signore, salva i bambini e le bambine che si trovano in questa situazione! E per noi, Signore, grazie. “Grazie Signore!” [giovani: “Grazie Signore!”].

    Libertà del cuore - vi ricordate? -, libertà del cuore, quello che ci diceva Orlando. Servizio, solidarietà, quello che ci diceva Liz.Speranza, lavoro, lottare per la vita, andare avanti: quello che ci diceva Manuel.

    Come vedete, la vita non è facile per molti giovani. E questo voglio che lo comprendiate. Voglio che ve lo mettiate in testa. “Se per me la vita è relativamente facile, ci sono altri ragazzi per i quali non è relativamente facile”. Addirittura, ce ne sono alcuni che la disperazione spinge alla delinquenza, spinge al delitto, spinge a collaborare con la corruzione. A questi ragazzi, a queste ragazze, dobbiamo dire che noi siamo loro vicino, che vogliamo dare loro una mano, che volgiamo aiutarli, con solidarietà, con amore, con speranza.

    Ci sono due frasi che hanno detto i due che hanno parlato, Liz e Manuel. Due frasi, sono belle. Ascoltatele. Liz ha detto che ha incominciato a conoscere Gesù, conoscere Gesù, e questo è aprire la porta alla speranza. E Manuel ha detto: “Ho conosciuto Dio, mia fortezza”. Cioè, conoscere Dio, avvicinarsi a Gesù, è speranza e fortezza. E questo è ciò che abbiamo bisogno di trovare nei giovani oggi: giovani con speranza e giovani con fortezza. Non vogliamo giovani “smidollati”, giovani del “fin qui e non di più”, né sì né no. Non vogliamo giovani che si stancano subito e vivono stanchi, con la faccia annoiata. Vogliamo giovani forti. Vogliamo giovani con speranza e con fortezza. Perché? Perché conoscono Gesù, perché conoscono Dio. Perché hanno un cuore libero. Cuore libero! Ripetete! [i giovani ripetono ogni volta] Soldarietà! Lavoro! Speranza! Impegno! Conoscere Gesù! Conoscere Dio mia fortezza! Un giovane che vive così ha la faccia annoiata? [“No!”] Ha il cuore triste? [“No!”] Questa è la strada!

    Però per questo ci vuole sacrificio, bisogna andare controcorrente. Le Beatitudini che abbiamo letto poco fa sono il progetto di Gesù per noi. Ed è un progetto controcorrente. Gesù vi dice: «Beati i poveri in spirito». Non dice: “Beati i ricchi, quelli che accumulano soldi”. No. I poveri in spirito, quelli che sono capaci di avvicinarsi e comprendere chi è un povero. Gesù non dice: “Beati quelli che se la passano bene”, ma dice: “Beati quelli che hanno la capacità di affliggersi per il dolore degli altri”. E così di seguito… Io vi raccomando di leggere dopo, a casa, le Beatitudini, che si trovano nel capitolo quinto di San Matteo. In che capitolo sono? [giovani: “Quinto”] Di quale Vangelo? [“San Matteo”]. Leggetele e meditatele, che vi farà bene.

    Voglio ringraziare te, Liz; ti ringrazio, Manuel; e ti ringrazio, Orlando. Cuore libero, così dev’essere.

    E devo andarmene… [giovani: “No!”]. L’altro giorno, un prete per scherzo mi ha detto: “Sì, Lei continui pure a dire ai giovani di fare chiasso, continui pure... Ma poi, il chiasso che fanno i giovani dobbiamo gestirlo noi!”. Fate chiasso, ma aiutate anche a gestire e organizzare il chiasso che fate. Fate chiasso e organizzatelo bene! Un chiasso che ci dia un cuore libero, un chiasso che ci dia solidarietà, un chiasso che ci dia speranza, un chiasso che nasca dall’aver conosciuto Gesù e dal sapere che Dio, che ho conosciuto, è la mia fortezza. Questo è il chiasso che vi invito a fare.

    Dato che conoscevo le domande, perché me le avevano date prima, avevo scritto un discorso per voi, per darvelo, ma i discorsi sono noiosi…, e così lo consegno al Vescovo incaricato della Gioventù, perché lo pubblichi.

    E ora, prima di andarmene, [“No!”] vi chiedo: primo, di continuare a pregare per me; secondo, di continuare a fare chiasso; terzo, di aiutare a organizzare il chiasso che fate perché non faccia disastri.

    E tutti insieme adesso, in silenzio, eleviamo il cuore a Dio. Ognuno nel suo cuore, a bassa voce, ripeta le parole:

    Signore Gesù, ti ringrazio perché sono qui. Ti ringrazio di avermi dato fratelli come Liz, Manuel e Orlando. Ti ringrazio di avermi dato tanti fratelli che sono come loro, che ti hanno incontrato, Gesù, che ti conoscono, Gesù, che sanno che Tu, loro Dio, sei la loro fortezza. Gesù, ti prego per i ragazzi e le ragazze che non sanno che Tu sei la loro fortezza, e che hanno paura di vivere, paura di essere felici, hanno paura di sognare. Gesù, insegnaci a sognare, a sognare cose grandi, cose belle, cose che anche se sembrano quotidiane sono cose che allargano il cuore. Signore Gesù, dacci fortezza, dacci un cuore libero, dacci speranza, dacci amore, e insegnaci a servire. Amen.

    Ora vi dò la benedizione e vi chiedo, per favore, di pregare per me, e di pregare per tanti ragazzi e ragazze che non hanno la grazia che avete voi di aver conosciuto Gesù, che vi dà la speranza, vi dà un cuore libero e vi rende forti.

    [Benedizione]


    Discorso preparato dal Santo Padre:

    Cari giovani,

    mi dà grande gioia potermi incontrare con voi in questo clima di festa. Poter ascoltare le vostre testimonianze e condividere il vostro entusiasmo e amore per Gesù.

    Grazie a Mons. Ricardo Valenzuela, responsabile della pastorale giovanile, per le sue parole. Grazie, Manuel e Liz, per il coraggio nel condividere le vostre esperienze e le vostre testimonianze in questo incontro. Non è facile parlare di cose personali, meno ancora davanti a tanta gente. Voi avete condiviso il più grande tesoro che avete, le vostre storie, la vostra vita e come Gesù è entrato in essa. Per rispondere alle vostre domande mi piacerebbe sottolineare alcune delle cose che avete condiviso.

    Manuel, tu ci hai detto qualcosa come: “Oggi sento un gran desiderio di servire gli altri, ho voglia di superarmi”. Hai passato momenti molto difficili, situazioni molto dolorose, però oggi hai molta voglia di servire, di uscire, di condividere la vita con gli altri.

    Liz, non è per nulla facile fare da madre ai propri genitori e ancor meno quando uno è giovane, però, quanta saggezza e quanta maturità ci sono nelle tue parole quando ci hai detto: “Oggi gioco con lei, gli cambio i pannolini, sono tutte cose che oggi offro a Dio, e sto appena restituendo tutto quello che mia madre ha fatto per me”.

    Voi giovani paraguayani siete davvero coraggiosi!

    Avete anche condiviso con gli altri come avete fatto per poter andare avanti, dove avete trovato le forze. Ambedue avete detto: “Nella parrocchia”. Negli amici della parrocchia e nei ritiri spirituali che lì venivano organizzati. Due chiavi molto importanti: gli amici e i ritiri spirituali.

    Gli amici. L’amicizia è uno dei doni più grandi che una persona, che un giovane può avere e può offrire. È vero. Com’è difficile vivere senza amici! E notate che sarà una delle cose più belle che Gesù dice: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Uno dei segreti più grandi del cristiano si radica nell’essere amici, amici di Gesù. Quando uno vuole bene a qualcuno, gli sta accanto, se ne prende cura, lo aiuta, gli dice quello che pensa, sì, ma non lo abbandona. Così si comporta Gesù con noi, non ci abbandona mai. Gli amici si sopportano, si accompagnano, si proteggono. Così è il Signore con noi. Ci sopporta.

    I ritiri spirituali. Sant’Ignazio fa una famosa meditazione chiamata delle due bandiere. Descrive da un lato la bandiera del demonio e dall’altro la bandiera di Cristo. Un po’ come due squadre con maglie diverse, e ci domanda in quale ci piacerebbe giocare.

    Con questa meditazione, ci fa immaginare come sarebbe appartenere a una o all’altra squadra. Sarebbe come domandarci: Con chi vuoi giocare nella vita? E dice Sant’Ignazio che il demonio per reclutare giocatori promette a quelli che giocheranno con lui ricchezza, onori, gloria, potere. Saranno famosi. Tutti li adoreranno.

    Dall’altra parte, ci presenta lo stile di gioco di Gesù. Non come qualcosa di fantastico. Gesù non ci presenta una vita da stelle, da celebrità, ma al contrario ci dice che giocare con Lui è un invito all’umiltà, all’amore, al servizio verso il prossimo. Gesù non ci mente. Ci prende sul serio.

    Nella Bibbia, il demonio viene chiamato il padre della menzogna. Quello che ti prometteva, o meglio ti faceva credere che facendo determinate cose saresti felice. E poi ti rendevi conto che non eri per niente felice, che eri andato dietro a qualcosa che lungi dal procurarti la felicità, ti ha fatto sentire più vuoto, più triste. Amici: il diavolo è un “venditore di fumo”. Ti promette, ti promette, ma non ti dà nulla, non mantiene mai nulla di ciò che promette. È un cattivo pagatore. Ti fa desiderare cose che non dipendono da lui, che tu le ottenga o no. Ti fa riporre la speranza in qualcosa che non ti renderà mai felice. Questo è il suo gioco, la sua strategia. Parlare molto, promettere molto e non fare nulla. E’ un gran “venditore di fumo” perché tutto quello che ci propone è frutto della divisione, del competere con gli altri, dello schiacciare la testa agli altri per ottenere le nostre cose. È un “venditore di fumo” perché, per raggiungere tutto questo, l’unica strada è mettere da parte i tuoi amici, non sopportare nessuno. Perché tutto si basa sull’apparenza. Ti fa credere che il tuo valore dipende da quanto possiedi.

    Al contrario, abbiamo Gesù, che ci offre il suo gioco. Non ci vede fumo, non ci promette apparentemente grandi cose. Non ci dice che la felicità si trova nella ricchezza, nel potere, nell’orgoglio. Al contrario. Ci mostra che la strada è un’altra. Questo Direttore Tecnico dice ai suoi giocatori: Beati, felici i poveri in spirito, quelli che piangono, i miti, quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, quelli che lavorano per la pace, i perseguitati per la giustizia. E termina dicendo loro, rallegratevi per tutto questo (cfr Mt 5,1-12).

    Perché? Perché Gesù non ci mente. Ci indica una via che è vita e verità. Egli è la grande prova di questo. È il suo stile, il suo modo di vivere la vita, l’amicizia, la relazione con il Padre. Ed è ciò a cui ci invita. A sentirci figli. Figli amati.

    Lui non ti vende fumo. Perché sa che la felicità, quella vera, quella che riempie il cuore, non si trova nei vestiti costosi che indossiamo, nelle scarpe che ci mettiamo, nell’etichetta di una determinata marca. Egli sa che la felicità vera sta nell’essere sensibili, nell’imparare a piangere con quelli che piangono, nello stare vicini a quelli che sono tristi, nel dare una mano, un abbraccio. Chi non sa piangere, non sa ridere e pertanto non sa vivere. Gesù sa che in questo mondo di così tanta competizione, invidia e aggressività, la vera felicità deriva dall’imparare ad essere pazienti, a rispettare gli altri, a non condannare né giudicare nessuno. Chi si arrabbia perde, dice il proverbio. Non consegnate il cuore alla rabbia, al rancore. Felici coloro che hanno misericordia. Felici coloro che sanno mettersi nei panni dell’altro, che hanno la capacità di abbracciare, di perdonare. Tutti abbiamo qualche volta sperimentato questo. Tutti in qualche occasione ci siamo sentiti perdonati. Com’è bello! E’ come tornare in vita, è come avere una nuova opportunità. Non c’è niente di più bello che avere nuove opportunità. È come se la vita cominciasse di nuovo. Per questo, felici quelli che sono portatori di nuova vita, di nuove opportunità. Felici quelli che lavorano per questo, che lottano per questo. Sbagli ne facciamo tutti, errori, a migliaia. Per questo, felici quelli che sono capaci di aiutare gli altri nei loro errori, nei loro sbagli. Che sono veri amici e non abbandonano nessuno. Essi sono i puri di cuore, quelli che riescono a vedere oltre le contrarietà immediate e superano le difficoltà. Felici quelli che vedono soprattutto il buono che c’è negli altri.

    Liz, tu hai nominato Chikitunga, questa Serva di Dio paraguayana. Hai detto che era come tua sorella, tua amica, il tuo modello. Ella, come tanti altri, ci mostra che il cammino delle Beatitudini è un cammino di pienezza, un cammino possibile, reale. Che riempie il cuore. Essi sono i nostri amici e modelli che hanno ormai terminato di giocare in questo “campo”, ma diventano quei giocatori indispensabili che uno osserva per dare il meglio di sé. Essi sono la prova che Gesù non è un “venditore di fumo”, che la sua proposta è di pienezza. Ma, soprattutto, è una proposta di amicizia, di vera amicizia, quell’amicizia di cui tutti abbiamo bisogno. Amici nello stile di Gesù. Però non per rimanere in noi stessi, ma per andare “in campo”, per andare a fare altri amici. Per “contagiare” l’amicizia di Gesù nel mondo, dovunque vi trovate, al lavoro, nello studio, nel divertimento, in whatsapp, facebook otwitter. Quando andate a ballare, o bevendo una buona bibita. In piazza o giocando una partita nel campo del quartiere. Là è dove stanno gli amici di Gesù. Non vendendo fumo, ma con perseveranza. La perseveranza di sapere che siamo felici, perché abbiamo un Padre nei cieli.






    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    VISITA ALLA POPOLAZIONE DEL BAÑADO NORTE

    DISCORSO DEL SANTO PADRE

    Cappella di San Juan Bautista, Asunción (Paraguay)
    Domenica, 12 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    Care sorelle e cari fratelli, buongiorno!

    Sono molto contento di farvi visita questa mattina. Non potevo trovarmi in Paraguay senza venire da voi, senza stare in questa vostra terra.

    Ci incontriamo in questa Parrocchia intitolata alla Santa Famiglia e vi confesso che da quando ho cominciato a pensare a questa visita, da quando ho cominciato il percorso da Roma fino a qui, pensavo alla Santa Famiglia. E quando pensavo a voi, mi ricordavo della Santa Famiglia. Vedere i vostri volti, i vostri figli, i vostri nonni. Ascoltare le vostre storie e tutto quello che avete realizzato per stare qui, tutte le lotte che avete fatto per avere una vita degna, un tetto. Tutto quello che fate per superare l’inclemenza del tempo, le inondazioni di queste ultime settimane, tutto questo mi riporta alla memoria la piccola famiglia di Betlemme. Una lotta che non vi ha rubato il sorriso, la gioia, la speranza. Un darsi da fare che non vi ha tolto la solidarietà, al contrario, l’ha stimolata e l’ha fatta crescere.

    Mi voglio soffermare su Giuseppe e Maria a Betlemme. Essi dovettero lasciare la propria terra, i propri cari, i propri amici. Dovettero lasciare le proprie cose e andare in un’altra terra. Una terra in cui non conoscevano nessuno, non avevano casa, né famiglia. In quel momento, quella giovane coppia ebbe Gesù. In quel contesto, in una stalla preparata come poterono, quella giovane coppia ci ha regalato Gesù. Erano soli, in una terra estranea, loro tre. All’improvviso, cominciò ad apparire gente: dei pastori, persone come loro che avevano dovuto lasciare la propria realtà allo scopo di trovare migliori opportunità familiari. Anche la loro vita era legata alle inclemenze del tempo, e ad altri tipi di inclemenze.

    Quando si resero conto della nascita di Gesù, si accostarono, si fecero prossimi, vicini. Diventarono subito la famiglia di Maria e Giuseppe. La famiglia di Gesù.

    Questo è ciò che accade quando Gesù appare nella nostra vita. Questo è ciò che la fede suscita. La fede ci rende prossimi, ci fa prossimi della vita degli altri, ci avvicina alla vita degli altri. La fede suscita il nostro impegno con gli altri, la fede suscita la nostra solidarietà: una virtù umana e cristiana, che voi avete e che molti, molti hanno e che dobbiamo imparare. La nascita di Gesù risveglia la nostra vita. Una fede che non si fa solidarietà, è una fede morta, una fede falsa. “No, io sono molto cattolico, sono molto cattolica, vado a Messa tutte le domeniche”. Ma, mi dica, signore, signora, che cosa succede là a Bañado? “Ah, non so… sì… no… non so, sì…, so che c’è gente là, ma non so…”. Per quanto vai a Messa la domenica, se non hai un cuore solidale, se non sai che cosa succede nel tuo popolo, la tua fede è molto debole, o è malata, o è morte. È una fede senza Cristo. La fede senza solidarietà è una fede senza Cristo, è una fede senza Dio, è una fede senza fratelli. E allora viene quel detto, che spero di ricordare bene, ma che ritrae questo problema di una fede senza solidarietà: “Un Dio senza popolo, un popolo senza fratelli, un popolo senza Gesù”. Questa è la fede senza solidarietà. E Dio si mise in mezzo al popolo che Lui aveva scelto per accompagnarlo, e mandò il suo Figlio a questo popolo per salvarlo, per aiutarlo. Dio si fece solidale con quel popolo, e Gesù non ebbe alcun problema a scendere, umiliarsi, abbassarsi, fino a morire per ognuno di noi, per questa solidarietà da fratello, solidarietà che nasce dall’amore che aveva per suo Padre e dall’amore che aveva per noi. Ricordatevi: quando una fede non è solidale, o è debole, o è malata, o è morta. Non è la fede di Gesù.

    Come vi dicevo, il primo ad essere solidale fu il Signore, che scelse di vivere tra di noi, scelse di vivere in mezzo a noi. Io vengo qui come quei pastori che c’erano a Betlemme. Voglio farmi prossimo. Voglio benedire la vostra fede, voglio benedire le vostre mani, voglio benedire la vostra comunità. Sono venuto a rendere grazie con voi, perché la fede si è fatta speranza ed è una speranza che stimola l’amore. La fede che Gesù suscita è una fede con la capacità di sognare il futuro e di lottare per esso nel presente. Proprio per questo voglio incoraggiarvi a continuare ad essere missionari di questa fede, a continuare a contagiare questa fede per queste strade, per questi sentieri. Questa fede che ci fa solidali tra di noi, con il nostro Fratello maggiore Gesù, e la nostra Madre, la Vergine. Facendovi prossimi specialmente dei più giovani e degli anziani. Facendovi sostegno delle giovani famiglie e di coloro che stanno attraversando momenti di difficoltà. Forse il messaggio più forte che voi potete dare agli altri è questa fede solidale. Il diavolo vuole che litighiate tra di voi, e così vi divide e vi rovina e vi ruba la fede. Solidarietà di fratelli per difendere la fede! E inoltre che questa fede solidale sia un messaggio per tutta la città!

    Voglio pregare per le vostre famiglie, e pregare la Sana Famiglia perché il suo modello, la sua testimonianza continui ad essere luce sul cammino, stimolo nei momenti difficili, e che ci faccia la grazia di un dono, che domandiamo insieme, tutti: che la Santa Famiglia ci doni “pastori”, che ci doni preti, vescovi, capaci di accompagnare, di sostenere e di stimolare la vita delle vostre famiglie. Capaci di far crescere quella fede solidale che non è mai vinta.

    Vi invito a pregare insieme e vi chiedo anche di non dimenticarvi di pregare per me.

    E recitiamo insieme una preghiera al nostro Padre che ci fa fratelli, ci ha mandato il nostro Fratello maggiore, il suo Figlio Gesù, e ci ha dato una Madre che ci accompagnerà.

    Padre nostro…

    Benedizione.

    E andate avanti! E non lasciate che il diavolo vi divida! Addio!



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 13/07/2015 16:09


    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    CELEBRAZIONE DEI VESPRI CON VESCOVI, SACERDOTI, DIACONI, 
    RELIGIOSI E RELIGIOSE, SEMINARISTI E MOVIMENTI CATTOLICI

    MEDITAZIONE DEL SANTO PADRE

    Cattedrale Metropolitana dell'Assunta, Asunción (Paraguay)
    Sabato, 11 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    Che bello pregare tutti insieme i Vespri! Come non sognare una Chiesa che rifletta e ripeta l’armonia delle voci e del canto nella vita quotidiana? E lo facciamo in questa Cattedrale, che tante volte ha dovuto ricominciare di nuovo; questa Cattedrale è segno della Chiesa e di ognuno di noi: a volte le tempeste da fuori e da dentro ci obbligano a buttar giù ciò che abbiamo costruito e cominciare di nuovo, ma sempre con la speranza riposta in Dio; e se guardiamo questo edificio, senza dubbio non ha deluso i paraguayani, perché Dio non delude mai e per questo lo lodiamo con gratitudine.

    La preghiera liturgica, con la sua struttura e la sua forma ritmata, vuole esprimere la Chiesa tutta, sposa di Cristo, che cerca di conformarsi al suo Signore. Ognuno di noi nella nostra preghiera vogliamo diventare più somiglianti a Gesù.

    La preghiera fa emergere quello che stiamo vivendo o che dovremmo vivere nella vita quotidiana, almeno la preghiera che non vuole essere alienante o solo decorativa. La preghiera ci dà impulso per mettere in atto o verificarci in ciò che recitavamo nei salmi: siamo noi le mani di Dio che «dall’immondizia rialza il povero» (Sal 112[113],7) e siamo noi a lavorare perché la tristezza della sterilità si trasformi nella gioia del terreno fertile. Noi che cantiamo che «agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli» (Sal 116,15), siamo quelli che lottiamo, ci diamo da fare, difendiamo il valore di ogni vita umana, dal concepimento fino a che gli anni sono molti e la forza poca. La preghiera è riflesso dell’amore che sentiamo per Dio, per gli altri, per il mondo creato; il comandamento dell’amore è la miglior configurazione con Gesù del discepolo missionario. Stare attaccati a Gesù dà profondità alla vocazione cristiana, che, coinvolta nel “fare” di Gesù – che è molto più che delle attività –, cerca di assomigliare a Lui in tutto ciò che compie. La bellezza della comunità ecclesiale nasce dall’adesione di ciascuno dei suoi membri alla persona di Gesù, formando un “insieme vocazionale” nella ricchezza della varietà armonica.

    Le antifone dei cantici evangelici di questo fine settimana ci ricordano l’invio dei Dodici da parte di Gesù. Sempre è bene crescere in questa coscienza di lavoro apostolico in comunione. E’ bello vedervi collaborare pastoralmente, sempre a partire dalla natura e dalla funzione ecclesiale di ogni vocazione e ogni carisma. Desidero esortare tutti voi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici e seminaristi, vescovi, ad impegnarvi in questa collaborazione ecclesiale, specialmente intorno ai piani pastorali delle diocesi e alla missione continentale, cooperando con tutta la vostra disponibilità al bene comune. Se la divisione tra noi provoca sterilità (cfr Esort. ap.Evangelii gaudium, 98-101), non c’è dubbio che dalla comunione e dall’armonia nasca la fecondità, perché sono profondamente consonanti con lo Spirito Santo.

    Tutti abbiamo limiti, nessuno può riprodurre Gesù Cristo nella sua totalità, e sebbene ogni vocazione si configura principalmente con alcuni raggi della vita e dell’opera di Gesù, ce ne sono alcuni comuni e irrinunciabili. Abbiamo appena lodato il Signore perché «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (Fil 2,6), e questa è una caratteristica di ogni vocazione cristiana, «non ritenne un privilegio l’essere come Dio»: chi è chiamato da Dio non si vanta, non va in cerca di riconoscimenti né di applausi effimeri, non sente di esser salito di categoria e non tratta gli altri come se fosse su un piedestallo.

    Il primato di Cristo è descritto chiaramente nella liturgia della Lettera gli Ebrei; noi abbiamo appena letto quasi il finale di tale Lettera: “Renderci perfetti come il pastore grande delle pecore” (cfr 13,20-21) e questo comporta riconoscere che ogni consacrato si configura a Colui che nella sua vita terrena, tra «preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime» (Eb 5,7) raggiunse la perfezione quando imparò, soffrendo, che cosa significava obbedire; e anche questo fa parte della chiamata.

    Terminiamo di recitare i nostri Vespri. Il campanile di questa Cattedrale è stato rifatto più volte; il suono delle campane precede e accompagna in molte occasioni la nostra preghiera liturgica: fatti nuovi da Dio ogni volta che preghiamo, saldi come un campanile,gioiosi di predicare le meraviglie di Dio, condividiamo il Magnificat e lasciamo al Signore di fare – che Lui faccia – mediante la nostra vita consacrata, grandi cose nel Paraguay.



    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    SANTA MESSA

    OMELIA DEL SANTO PADRE

    Piazzale del Santuario mariano di Caacupé, Paraguay
    Sabato, 11 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    Trovarmi qui con voi è sentirmi a casa, ai piedi di nostra Madre la Vergine dei Miracoli di Caacupé. In un santuario noi figli ci incontriamo con nostra Madre e tra noi ricordiamo che siamo fratelli. E’ un luogo di festa, di incontro, di famiglia. Veniamo a presentare le nostre necessità, veniamo a ringraziare, a chiedere perdono e a cominciare di nuovo. Quanti battesimi, quante vocazioni sacerdotali e religiose, quanti fidanzamenti e matrimoni sono nati ai piedi di nostra Madre! Quante lacrime quanti addii! Veniamo sempre con la nostra vita, perché qui siamo a casa e la cosa migliore è sapere che c’è qualcuno che ci aspetta.

    Come tante altre volte, siamo venuti perché vogliamo rinnovare le nostre energie per vivere la gioia del Vangelo.

    Come non riconoscere che questo Santuario è una parte vitale del popolo paraguayano, di voi? Così lo sentono, così lo pregano, così lo cantano: «Nel tuo Eden di Caacupé, è il tuo popolo Vergine pura che ti dà il suo amore e la sua fede». E oggi siamo qui come Popolo di Dio, ai piedi di nostra Madre, a darle il nostro amore e la nostra fede.

    Nel Vangelo abbiamo appena ascoltato l’annuncio dell’Angelo a Maria che le dice: «Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te». Rallegrati, Maria, rallegrati. Davanti a questo saluto, lei restò sconcertata e si domandava che cosa volesse dire. Non capiva molto che cosa stava succedendo. Ma comprese che veniva da Dio e disse “sì”. Sì al sogno di Dio, sì al progetto di Dio, sì alla volontà di Dio.

    Un “sì” che, come sappiamo, non fu per niente facile da vivere. Un “sì” che non la riempì di privilegi o distinzioni, ma che, come le dirà Simeone nella sua profezia: «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35). Eccome l’ha trafitta! Per questo la amiamo tanto e troviamo in lei una vera Madre che ci aiuta a tenere vive la fede e la speranza in mezzo a situazioni complicate. Seguendo la profezia di Simeone, ci farà bene ripercorrere brevemente tra momenti difficili della vita di Maria.

    1. La nascita di Gesù. «Non c’era posto per loro» (Lc 2,7). Non avevano una casa, un’abitazione per accogliere il loro figlio. Non c’era spazio per poterlo dare alla luce. E nemmeno la famiglia vicina, erano soli. L’unico posto disponibile era una stalla di animali. E nella sua memoria sicuramente risuonavano le parole dell’Angelo: «Rallegrati, Maria, il Signore è con te». E lei avrebbe potuto chiedersi: Dov’è adesso?

    2. La fuga in Egitto. Dovettero partire, andare in esilio. Là non solo non avevano un posto, una famiglia, ma anche la loro vita era in pericolo. Dovettero mettersi in cammino e andare in terra straniera. Furono migranti perseguitati per l’avidità e l’avarizia dell’imperatore. E anche là lei avrebbe potuto chiedersi: Dov’è quello che mi ha detto l’Angelo?

    3. La morte sulla croce. Non deve esistere una situazione più difficile per una madre che accompagnare la morte di suo figlio. Sono momenti strazianti. Ed ecco vediamo Maria, ai piedi della croce, come ogni madre, salda, senza venir meno, che accompagna suo Figlio fino all’estremo della morte e della morte di croce. E anche lì lei avrebbe potuto domandarsi: Dov’è quello che mi ha detto l’Angelo? E poi la vediamo che tiene uniti e sostiene i discepoli.

    Contempliamo la sua vita, e ci sentiamo compresi, capiti. Possiamo sederci a pregare e usare un linguaggio comune davanti a una serie di situazioni che viviamo ogni giorno. Ci possiamo identificare in molte situazioni della sua vita. Raccontarle le nostre realtà perché lei le comprende.

    Lei è la donna di fede, è la Madre della Chiesa, lei ha creduto. La sua vita è testimonianza che Dio non delude, che Dio non abbandona il suo Popolo, anche se ci sono momenti o situazioni in cui sembra che Lui non ci sia. Lei è stata la prima discepola che ha accompagnato il suo Figlio e ha sostenuto la speranza degli apostoli nei momenti difficili. Stavano chiusi con non so quante chiavi, per paura, nel cenacolo. E’ stata la donna che stava attenta e ha saputo dire – quando sembrava che la gioia e la festa stava finendo –: “Vedi, non hanno vino” (cfr Gv 2,3). E’ stata la donna che ha saputo andare e stare con sua cugina «circa tre mesi» (Lc 1,56), perché non fosse sola nel suo parto. Questa è la nostra Madre, così buona, così generosa, così accompagnatrice della nostra vita.

    E tutto questo lo sappiamo dal Vangelo, ma sappiamo anche che, in questa terra, è la Madre che è stata al nostro fianco in tante situazioni difficili. Questo Santuario custodisce gelosamente la memoria di un popolo che sa che Maria è Madre e che è stata e rimane accanto ai suoi figli.

    E’ stata e rimane nei nostri ospedali, nelle nostre scuole, nelle nostre case. E’ stata e rimane con noi nel lavoro e nel cammino. E’ stata e rimane alla mensa di ogni casa. E’ stata e rimane nella formazione della Patria, facendo di noi una Nazione. Sempre con una presenza discreta e silenziosa. Nello sguardo di un’effigie, di un’immaginetta o di una medaglia. Sotto il segno di un rosario, sappiamo che non siamo soli, che lei ci accompagna.

    E perché? Perché Maria semplicemente ha voluto rimanere in mezzo al suo Popolo, con i suoi figli, con la sua famiglia. Seguendo sempre Gesù, dalla parte della folla. Come buona madre non ha abbandonato i suoi, ma al contrario sempre si è fatta trovare là dove il figlio poteva avere bisogno di lei. E questo, solo perché è Madre.

    Una Madre che ha imparato ad ascoltare e a vivere in mezzo a tante difficoltà da quel: «Non temere», «il Signore con te» (Lc1,30.28). Una Madre che continua a dirci: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). E’ il suo invito costante e continuo: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Non ha un programma proprio, non viene a dirci nulla di nuovo, anzi, le piace stare zitta, soltanto la sua fede accompagna la nostra fede.

    E voi lo sapete, avete fatto esperienza di questo che stiamo condividendo. Tutti voi, tutti i paraguayani hanno la memoria viva di un Popolo che ha fatto carne queste parole del Vangelo. E vorrei riferirmi in modo speciale a voi donne e madri paraguayane, che con gran coraggio e abnegazione, avete saputo rialzare un Paese distrutto, sprofondato, sommerso da una guerra iniqua. Voi avete la memoria, avete il patrimonio genetico di quelle che hanno ricostruito la vita, la fede, la dignità del vostro Popolo, insieme a Maria. Avete vissuto situazioni molto ma molto difficili, che secondo una logica comune sarebbero contrarie ad ogni fede. Voi, invece, spinte e sostenute dalla Vergine, avete continuato a credere, anche «sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18). Quando tutto sembrava crollare, insieme a Maria vi dicevate: Non temiamo, il Signore è con noi, è col nostro Popolo, con le nostre famiglie, facciamo quello che Lui ci dice. E lì avete trovato ieri e trovate oggi la forza per non lasciare che questa terra finisca nel caos. Dio benedica questa tenacia, Dio benedica e conforti la vostra fede, Dio benedica la donna paraguayana, la più gloriosa d’America.

    Come Popolo, siamo venuti alla nostra casa, alla casa della Patria paraguayana, ad ascoltare ancora una volta queste parole che ci fanno tanto bene: «Rallegrati, … il Signore è con te». E’ un appello a non perdere la memoria, a non perdere le radici, le tante testimonianze che avete ricevuto di gente credente e messa a rischio dalle sue lotte. Una fede che si è fatta vita, una vita che si è fatta speranza e una speranza che ci porta a precedere nella carità. Sì, configurati a Gesù, continuate a precedere nell’amore. Siate voi i portatori di questa fede, di questa vita, di questa speranza. Voi paraguaiani siate costruttori di questo oggi e di questo domani.

    Tornando a guardare l’immagine di Maria, vi invito a dire insieme: «Nel tuo Eden di Caacupé, è il tuo popolo Vergine pura che ti dà il suo amore e la sua fede». [Lo ripete insieme alla folla] Prega per noi, Santa Madre di Dio, affinché siamo degni di ottenere le promesse e le grazie del nostro Signore Gesù Cristo. Amen.

       





    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 13/07/2015 16:17

    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    VISITA AL SANTUARIO DELLA DIVINA MISERICORDIA DI GUAYAQUIL

    SALUTO DEL SANTO PADRE

    Ecuador
    Lunedì
    , 6 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    Buongiorno! Vi invito a recitare insieme l’Ave Maria…

    Adesso vado a celebrare la messa e porto tutti voi nel cuore! Chiederò per ciascuno di voi, dirò al Signore: ‘Tu conosci il nome di quelli che stavano lì’. Chiederò a Gesù, per ciascuno di voi, tanta misericordia: che vi ricopra con la sua misericordia, che abbia cura di voi. E alla Vergine che sia sempre accanto a voi. (al vostro fianco).

    E ora, prima di andare, perché sono di passaggio – per la Messa mi dice il Signor Arcivescovo che il tempo corre, vi do la benedizione, ma … no, non vi chiederò nulla … però vi chiedo per favore di pregare per me. Me lo promettete?

    Vi benedica Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo. Grazie per la testimonianza cristiana.




    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    SANTA MESSA 
    PER LE FAMIGLIE

    OMELIA DEL SANTO PADRE

    Parque de los Samanes, Guayaquil (Ecuador)
    Lunedì, 6 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    Il brano del Vangelo che abbiamo ora ascoltato (Gv 2,1-11) rappresenta il primo segno prodigioso che si realizza nella narrazione del Vangelo di Giovanni. La preoccupazione di Maria, divenuta supplica a Gesù: “Non hanno più vino” – Gli dice –, e il riferimento a “l’ora” si comprenderanno dopo, nei racconti della Passione.

    Ed è bene che sia così, perché questo ci permette di scorgere l’ansia di Gesù di insegnare, accompagnare, guarire e rallegrare a partire da quell’appello di sua madre: “Non hanno più vino”.

    Le nozze di Cana si rinnovano in ogni generazione, in ogni famiglia, in ognuno di noi e nei nostri sforzi perché il nostro cuore riesca a trovare stabilità in amori duraturi, in amori fecondi, in amori gioiosi. Facciamo spazio a Maria, “la madre”, come afferma l’Evangelista. E facciamo ora insieme a lei l’itinerario di Cana.

    Maria è attenta, è attenta in quelle nozze già iniziate, è sollecita verso le necessità degli sposi. Non si isola in sé stessa, centrata nel proprio mondo, al contrario, l’amore la fa “essere verso” gli altri. Nemmeno cerca le amiche per commentando quello che sta succedendo e criticare la cattiva preparazione delle nozze. E perché sta attenta, con la sua discrezione, si rende conto che manca il vino. Il vino è segno di gioia, di amore, di abbondanza. Quanti adolescenti e giovani percepiscono che nelle loro case ormai da tempo non c’è più di quel vino! Quante donne sole e rattristate si domandano quando l’amore se n’è andato, quando l’amore è colato via dalla loro vita! Quanti anziani si sentono lasciati fuori dalle feste delle loro famiglie, abbandonati in un angolo e ormai senza il nutrimento dell’amore quotidiano dei loro figli, dei loro nipoti, pronipoti! La mancanza di quel vino può essere anche la conseguenza della mancanza di lavoro, delle malattie, delle situazioni problematiche che le nostre famiglie in tutto il mondo attraversano. Maria non è una madre che “pretende”, nemmeno è una suocera che vigila per divertirsi delle nostre inesperienze, dei nostri errori o delle disattenzioni. Maria, semplicemente, è madre! È presente, attenta e premurosa. E’ bello ascoltare questo: Maria è Madre. Provate a dirlo tutti insieme con me? Forza: Maria è Madre! Ancora: Maria è Madre! Ancora: Maria è Madre! 

    Maria però, in quel momento in cui si accorge che manca il vino, si rivolge con fiducia a Gesù. Questo significa che Maria prega. Non va dal maggiordomo, ma presenta direttamente la difficoltà degli sposi a suo Figlio. La risposta che riceve sembra scoraggiante: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora».(v. 4). Ma intanto lei ha posto il problema nelle mani di Dio. La sua premura per le necessità degli altri anticipa “l’ora” di Dio. E Maria è parte di quell’ora, dal presepe fino alla croce. Lei, che seppe «trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286), e ci ricevette come figli quando una spada le trafiggeva il cuore. Ella ci insegna a porre le nostre famiglie nelle mani di Dio; ci insegna a pregare, alimentando la speranza che ci indica che le nostre preoccupazioni sono anche preoccupazioni di Dio.

    E pregare ci fa sempre uscire dal recinto delle nostre preoccupazioni, ci fa andare oltre quello che ci fa soffrire, quello che ci agita o che ci manca, e ci aiuta a metterci nei panni degli altri. La famiglia è una scuola dove il pregare ci ricorda anche che c’è un “noi”, che esiste un prossimo vicino, evidente, che vive sotto lo stesso tetto, che condivide con noi la vita e ha delle necessità.

    E, alla fine, Maria agisce. Le parole: “Fate quello che vi dirà” (v. 5), rivolte a quelli che servivano, sono un invito rivolto anche a noi, a metterci a disposizione di Gesù, che è venuto per servire e non per essere servito. Il servizio è il criterio del vero amore. Chi ama serve, si mette al servizio degli altri. E questo si impara specialmente nella famiglia, dove ci facciamo per amore servitori gli uni degli altri. In seno alla famiglia, nessuno è escluso, tutti valgono lo stesso. Mi ricordo che una volta chiesero a mia mamma quale dei suoi cinque figli – perché noi siamo cinque fratelli – quale dei suoi cinque figli amava di più. E lei disse [mostra la mano]: “Come le dita, se mi pungono questo mi fa male lo stesso come se mi pungono questo”. Una madre ama i suoi figli come sono. E in una famiglia i fratelli si amano come sono. Nessuno è scartato.

    Lì nella famiglia «si impara a chiedere permesso senza prepotenza, a dire “grazie” come espressione di sentito apprezzamento per le cose che riceviamo, a dominare l’aggressività o l’avidità, e lì si impara anche a chiedere scusa quando facciamo qualcosa di male, quando litighiamo. Perché in ogni famiglia ci sono litigi. Il problema è dopo, chiedere perdono. Questi piccoli gesti di sincera cortesia aiutano a costruire una cultura della vita condivisa e del rispetto per quanto ci circonda» (Enc. Laudato si’, 213). La famiglia è l’ospedale più vicino: quando uno è malato lo curano lì, finché si può. La famiglia è la prima scuola dei bambini, è il punto di riferimento imprescindibile per i giovani, è il miglior asilo gli anziani. La famiglia costituisce la grande ricchezza sociale, che altre istituzioni non possono sostituire, che dev’essere aiutata e potenziata, per non perdere mai il giusto senso dei servizi che la società presta ai suoi cittadini. In effetti, questi servizi che la società presta ai suoi cittadini non sono una forma di elemosina, ma un autentico “debito sociale” nei confronti dell’istituzione familiare, che è la base e che tanto apporta al bene comune.

    La famiglia forma anche una piccola Chiesa, la chiamiamo “Chiesa domestica”, che, oltre a dare la vita, trasmette la tenerezza e la misericordia divina. Nella famiglia la fede si mescola al latte materno: sperimentando l’amore dei genitori si sente più vicino l’amore di Dio.

    E nella famiglia – di questo siamo tutti testimoni – i miracoli si fanno con quello che c’è, con quello che siamo, con quello che uno ha a disposizione; e molte volte non è l’ideale, non è quello che sogniamo e neppure quello che “dovrebbe essere”. C’è un particolare che ci deve far pensare: il vino nuovo, quel vino così buono come dice il maestro di tavola alle nozze di Cana, nasce dalle giare della purificazione, vale a dire, dal luogo dove tutti avevano lasciato il loro peccato; nasce dal peggio: «dove abbondò il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20). In ciascuna delle nostre famiglie e nella famiglia comune che formiamo tutti, nulla si scarta, niente è inutile. Poco prima di cominciare l’Anno Giubilare della Misericordia, la Chiesa celebrerà il Sinodo Ordinario dedicato alle famiglie, per maturare un vero discernimento spirituale e trovare soluzioni e aiuti concreti alle molte difficoltà e importanti sfide che la famiglia oggi deve affrontare. Vi invito ad intensificare le vostre preghiere per questa intenzione, perché persino quello che a noi sembra impuro – come l’acqua delle giare –, che ci scandalizza o ci spaventa, Dio – facendolo passare attraverso la sua “ora” – lo possa trasformare in miracolo. La famiglia oggi ha bisogno di questo miracolo.

    Tutta questa storia ebbe inizio perché “non avevano più vino”, e tutto si è potuto compiere perché una donna – la Vergine – è stata attenta, ha saputo porre nelle mani di Dio le sue preoccupazioni, ed ha agito saggiamente e con coraggio. Però c’è un particolare, non è da meno il dato finale: hanno gustato il vino migliore. E questa è la buona notizia: il vino migliore è quello che sta per essere bevuto, la realtà più amabile, la più profonda e la più bella per la famiglia deve ancora arrivare. Viene il tempo in cui gustiamo l’amore quotidiano, in cui i nostri figli riscoprono lo spazio che condividiamo e gli anziani sono presenti nella letizia di ogni giorno. Il vino migliore è ‘in speranza’, sta per venire per ogni persona che accetta il rischio di amare. E nella famiglia bisogna correre il rischio dell’amore, bisogna arrischiarsi ad amare. E il migliore dei vini sta per venire, anche se tutte le possibili variabili e le statistiche dicessero il contrario. Il vino migliore sta per venire per quelli che oggi vedono crollare tutto. Sussurratevelo fino a crederci: il vino migliore sta per arrivare. Sussurratevelo ciascuno nel suo cuore: il vino migliore sta per venire. E sussurratelo ai disperati e a quelli con poco amore: abbiate pazienza, abbiate speranza, fate come Maria, pregate, agite, aprite il cuore, perché il migliore dei vini sta per venire. Dio si avvicina sempre alle periferie di coloro che sono rimasti senza vino, di quelli che hanno da bere solo lo scoraggiamento; Gesù ha una preferenza per versare il migliore dei vini a quelli che per una ragione o per l’altra ormai sentono di avere rotto tutte le anfore.

    Come ci invita a fare Maria, facciamo “quello che Dio ci dice” (cfr Gv 2,5). Fate quello che Lui vi dice. E siamo grati perché in questo nostro tempo e in questa nostra ora, il vino nuovo, il migliore, ci fa recuperare la gioia della famiglia, la gioia di vivere in famiglia. Così sia.


     

    Che Dio vi benedica, vi accompagni. Prego per la famiglia di ognuno di voi, e voi fate lo stesso come fece Maria. E, per favore, vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me. Arrivederci!




    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    VISITA ALLA CATTEDRALE DI QUITO

    SALUTO DEL SANTO PADRE 
    ALLE PERSONE RIUNITE NELLA PIAZZA DELLA CATTEDRALE

    Ecuador
    Lunedì
    , 6 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    Discorso preparato dal Santo Padre

    Cari fratelli,

    Vengo a Quito come pellegrino, per condividere con voi la gioia di evangelizzare. Sono partito dal Vaticano salutando l’immagine di santa Marianna di Gesù, che dall’abside della Basilica di San Pietro veglia sul cammino che il Papa tante volte compie. Ad essa ho raccomandato anche i frutti di questo viaggio, chiedendole che tutti noi possiamo imparare dal suo esempio. Il suo sacrificio e la sua eroica virtù si rappresentano con un giglio. Tuttavia, nella statua dietro la Basilica di San Pietro viene ritratta con un intero mazzo di fiori, perché presenta al Signore, nel cuore della Chiesa, insieme al suo, i fiori di tutti voi, quelli di tutto l’Equador.

    I santi ci invitano a imitarli, a porsi alla loro scuola, come hanno fatto santa Narcisa di Gesù e la beata Mercedes di Gesù Molina, interpellate dall’esempio di santa Marianna. A quanti oggi sono qui e soffrono o hanno sofferto come orfani, a coloro che, pur essendo ancora piccoli, hanno dovuto badare ai fratelli, a quanti si impegnano ogni giorno nel curare gli ammalati o gli anziani, dico che così fece santa Marianna e così la imitarono Narcisa e Mercedes. Non è difficile se Dio è con noi. Esse non hanno compiuto cose eccezionali agli occhi del mondo. Solo hanno amato molto e lo hanno dimostrato nel quotidiano fino a toccare la carne sofferente di Cristo nel popolo (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 24). E non l’hanno fatto da sole, ma insieme ad altri.

    Per costruire questa cattedrale, i lavori di trasporto, di intaglio e di muratura sono stati fatti secondo le nostre usanze, quelle dei popoli autoctoni; un lavoro di tutti a favore della comunità, un lavoro anonimo, senza cartelli pubblicitari né applausi. Voglia Dio che, come le pietre di questa cattedrale, anche noi ci poniamo sulle spalle le necessità degli altri, aiutando a edificare o restaurare la vita di tanti fratelli che non hanno forze per costruirla o l’hanno vista crollare.

    Oggi sono qui con voi, che mi donate il giubilo dei vostri cuori: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie» (Is 52,7). E’ la bellezza che siamo chiamati a diffondere, come buon profumo di Cristo: la nostra preghiera, le nostre buone opere, il nostro sacrificio per i più bisognosi. È la gioia di evangelizzare, e voi «sapendo queste cose siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13,17).

    Dio vi benedica!


    Parole pronunciate dal Santo Padre dopo la visita alla Cattedrale di Quito:

    Do la mia benedizione a ognuno di voi, alle vostre famiglie, a tutte le persone care e a questo grande e nobile popolo ecuadoriano, perché non ci siano differenze, non ci sia esclusione, non ci siano persone scartate, tutti siano fratelli, tutti vengano inclusi, e nessuno resti fuori da questa grande nazione ecuadoriana. A ognuno di voi, alle vostre famiglie, do la benedizione.

    Ma prima recitiamo insieme l’Ave Maria.

    [Ave Maria]

    Che la benedizione di Dio Onnipotente, del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.

    E vi chiedo per favore di pregare per me. Buona notte e a domani.




    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    SANTA MESSA PER L'EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI

    OMELIA DEL SANTO PADRE

    Parque Bicentenario, Quito (Ecuador)
    Martedì, 7 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    La parola di Dio ci invita a vivere l’unità perché il mondo creda.

    Immagino quel sussurro di Gesù nell’ultima cena come un grido, in questa Messa che celebriamo nella Piazza del Bicentenario. Immaginiamoli insieme. il Bicentenario di quel grido di indipendenza dell’America Ispanofona. Quello è stato un grido nato dalla coscienza della mancanza di libertà, di essere spremuti e saccheggiati, «soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 213).

    Vorrei che oggi queste due grida concordassero nel segno della bella sfida dell’evangelizzazione. Non con parole altisonanti, o termini complicati, ma una concordia che nasca “dalla gioia del Vangelo”, che «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento» (ibid., 1), dalla coscienza isolata. Noi qui riuniti, tutti insieme alla mensa con Gesù, diventiamo un grido, un clamorenato dalla convinzione che la sua presenza ci spinge verso l’unità e «segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile» (ibid., 14).

    Padre, che siano una cosa sola perché il mondo creda” (cfr Gv 17,21): così Gesù manifestò il suo desiderio guardando il cielo. Nel cuore di Gesù sorge questa domanda in un contesto di invio: «Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo» (Gv 17,18). In quel momento, il Signore sta sperimentando nella propria carne il peggio di questo mondo, che ama comunque alla follia: intrighi, sfiducia, tradimento, però non si nasconde, non si lamenta. Anche noi constatiamo quotidianamente che viviamo in un mondo lacerato dalle guerre e dalla violenza. Sarebbe superficiale ritenere che la divisione e l’odio riguardano soltanto le tensioni tra i Paesi o i gruppi sociali. In realtà, sono manifestazioni di quel “diffuso individualismo” che ci separa e ci pone l’uno contro l’altro (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 99), frutto della ferita del peccato nel cuore delle persone, le cui conseguenze si riversano anche sulla società e su tutto il creato. Proprio a questo mondo che ci sfida, con i suoi egoismi, Gesù ci invia, e la nostra risposta non è fare finta di niente, sostenere che non abbiamo mezzi o che la realtà ci supera. La nostra risposta riecheggia il grido di Gesù e accetta la grazia e il compito dell’unità.

    A quel grido di libertà che proruppe poco più di 200 anni fa non mancò né convinzione né forza, ma la storia ci dice che fu decisivo solo quando lasciò da parte i personalismi, l’aspirazione ad un’unica autorità, la mancanza di comprensione per altri processi di liberazione con caratteristiche diverse, ma non per questo antagoniste.

    E l’evangelizzazione può essere veicolo di unità di aspirazioni, di sensibilità, di sogni e persino di certe utopie. Certamente lo può essere e questo noi crediamo e gridiamo. Già ho avuto modo di dire: «Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci a portare i pesi gli uni degli altri» (ibid., 67). L’anelito all’unità suppone la dolce e confortante gioia di evangelizzare, la convinzione di avere un bene immenso da comunicare, e che, comunicandolo, si radica; e qualsiasi persona che abbia vissuto questa esperienza acquisisce una sensibilità più elevata nei confronti delle necessità altrui (cfr ibid., 9). Da qui, la necessità di lottare per l’inclusione a tutti i livelli, lottare per l’inclusione a tutti i livelli!, evitando egoismi, promuovendo la comunicazione e il dialogo, incentivando la collaborazione. «Bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze … Affidarsi all’altro è qualcosa di artigianale, la pace è artigianale» (ibid., 244). E’ impensabile che risplenda l’unità se la mondanità spirituale ci fa stare in guerra tra di noi, alla sterile ricerca di potere, prestigio, piacere o sicurezza economica. E questo sulle spalle dei più poveri, dei più esclusi, dei più indifesi, di quelli che non perdono la loro dignità a dispetto del fatto che la colpiscono tutti i giorni.

    Questa unità è già un’azione missionaria “perché il mondo creda”. L’evangelizzazione non consiste nel fare proselitismo – il proselitismo è una caricatura dell’evangelizzazione – ma nell’attrarre con la nostra testimonianza i lontani, nell’avvicinarsi umilmente a quelli che si sentono lontani da Dio e dalla Chiesa, avvicinarsi a quelli che si sentono giudicati e condannati a priori da quelli che si sentono perfetti e puri. Avvicinarci a quelli che hanno paura o agli indifferenti per dire loro: «Il Signore chiama anche te ad essere parte del suo popolo e lo fa con grande rispetto e amore» (ibid., 113). Perché il nostro Dio ci rispetta persino nella nostra bassezza e nel nostro peccato. Questa chiamata del Signore con che umiltà e con che rispetto lo descrive il testo dell’Apocalisse: Vedi? Sto alla porta e chiamo; se vuoi aprire…; non forza, non fa saltare la serratura, semplicemente suona il campanello, bussa dolcemente e aspetta. Questo è il nostro Dio!

    La missione della Chiesa, come sacramento di salvezza, è coerente con la sua identità di Popolo in cammino, con la vocazione di incorporare nel suo sviluppo tutte le nazioni della terra.

    Quanto più intensa è la comunione tra di noi, tanto più sarà favorita la missione (cfr Giovanni Paolo II, Pastores gregis, 22) Porre la Chiesa in stato di missione ci chiede di ricreare la comunione, dunque non si tratta solo di un’azione verso l’esterno; noi siamo missionari anche verso l’interno e verso l’esterno manifestandoci come si manifesta «una madre che va incontro, una casa accogliente, una scuola permanente di comunione missionaria» (Documento di Aparecida, 370).

    Questo sogno di Gesù è possibile perché ci ha consacrato: «per loro io consacro me stesso – dice -, perché anch’essi siano consacrati nella verità» (Gv 17,19). La vita spirituale dell’evangelizzatore nasce da questa verità così profonda, che non si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo – una spiritualità piuttosto diffusa -; Gesù ci consacra per suscitare un incontro con Lui, da persona a persona, un incontro che alimenta l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione evangelizzatrice (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 78).

    L’intimità di Dio, per noi incomprensibile, ci si rivela con immagini che ci parlano di comunione, comunicazione, donazione, amore. Per questo l’unione che chiede Gesù non è uniformità ma la «multiforme armonia che attrae» (ibid., 117). L’immensa ricchezza del diverso, il molteplice che raggiunge l’unità ogni volta che facciamo memoria di quel Giovedì santo, ci allontana da tentazioni di proposte integraliste, più simili a dittature, ideologie o settarismi. La proposta di Gesù è concreta, non è un’idea, è concreta: “Va’ e fa’ lo stesso”, dice a quell’uomo che gli chiede: “Chi è il mio prossimo?”, dopo aver raccontato la parabola del buon samaritano: “Va’ e fa’ lo stesso”.

    La proposta di Gesù non è neppure un aggiustamento fatto a nostra misura, nel quale siamo noi a porre le condizioni, scegliamo le parti in causa ed escludiamo gli altri. Una religiosità di élite… Gesù prega perché formiamo parte di una grande famiglia, nella quale Dio è nostro Padre e tutti noi siamo fratelli. Nessuno è escluso, e questo non trova il suo fondamento nell’avere gli medesimi gusti, le stesse preoccupazioni, gli talenti. Siamo fratelli perché, per amore, Dio ci ha creato e ci ha destinati, per pura sua iniziativa, ad essere suoi figli (cfr Ef 1,5). Siamo fratelli perché «Dio ha infuso nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio, che grida: Abbà!, Padre!» (Gal 4,6). Siamo fratelli perché, giustificati dal sangue di Cristo Gesù (cfr Rm 5,9), siamo passati dalla morte alla vita diventando «coeredi» della promessa (cfr Gal 3,26-29; Rm 8,17). Questa è la salvezza che Dio compie e che la Chiesa annuncia con gioia: fare parte di un “noi” che porta fino al “noi” divino.

    Il nostro grido, in questo luogo che ricorda quel primo grido di libertà, attualizza quello di san Paolo: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16). E’ tanto urgente e pressante come quello che manifestava il desiderio di indipendenza. Ha un fascino simile, ha lo stesso fuoco che attrae. Fratelli, abbiate i sentimenti di Gesù! Siate una testimonianza di comunione fraterna che diventa risplendente!

    E che bello sarebbe che tutti potessero ammirare come noi ci prendiamo cura gli uni degli altri, come ci diamo mutuamente conforto e come ci accompagniamo! Il dono di sé è quello che stabilisce la relazione interpersonale che non si genera dando  “cose”, ma dando sé stessi. In qualsiasi donazione si offre la propria persona. “Darsi” significa lasciare agire in sé stessi tutta la potenza dell’amore che è lo Spirito di Dio e in tal modo aprirsi alla sua forza creatrice. E darsi anche nei momenti più difficili, come in quel Giovedì Santo di Gesù in cui Lui sapeva come si tessevano i tradimenti e gli intrighi, ma si donò, si donò, si donò a noi con il suo progetto di salvezza. L’uomo donandosi si incontra nuovamente con sé stesso, con la sua vera identità di figlio di Dio, somigliante al Padre e, in comunione con Lui, datore di vita, fratello di Gesù, del quale rende testimonianza. Questo significa evangelizzare, questa è la nostra rivoluzione – perché la nostra fede è sempre rivoluzionaria – questo è il nostro più profondo e costante grido.


    Parole pronunciate a braccio alla fine della Messa

    Cari fratelli,

    vi ringrazio per questa celebrazione, questo esserci riuniti intorno all’altare del Signore, che ci chiede che siamo uno, che siamo veramente fratelli, che la Chiesa sia una casa di fratelli. Che Dio vi benedica. E vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me.





    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 13/07/2015 16:25


    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    INCONTRO CON IL MONDO DELLA SCUOLA E DELL'UNIVERSITÀ

    DISCORSO DEL SANTO PADRE

    Pontificia Università Cattolica dell’Ecuador, Quito
    Martedì
    , 7 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    Fratelli nell’Episcopato, 
    Signor Rettore,
    Distinte autorità,
    Cari professori e alunni,
    Amici e amiche!

    Provo una grande gioia nel trovarmi questo pomeriggio insieme a voi in questa Pontificia Università dell’Ecuador, che da quasi settant’anni realizza e attualizza la fruttuosa missione educatrice della Chiesa al servizio degli uomini e delle donne della Nazione. Vi ringrazio per le gentili parole con cui mi avete accolto e mi avete trasmesso le inquietudini e le speranze che sorgono in voi davanti alla sfida, personale e sociale, dell’educazione. Ma vedo che ci sono alcuni nuvoloni all’orizzonte, spero che non venga la tempesta, non più di una pioggerella.

    Nel Vangelo abbiamo ascoltato come Gesù, il Maestro, insegnava alla folla e al piccolo gruppo dei discepoli, adeguandosi alla loro capacità di comprensione. Lo faceva con parabole, come quella del seminatore (Lc 8,4-15). Il Signore è stato sempre “plastico” nel modo di insegnare. In modo che tutti potessero capire. Gesù non cercava di “sdottorare”. Al contrario, vuole arrivare al cuore dell’uomo, al suo ingegno, alla sua vita, affinché questa dia frutto.

    La parabola del seminatore ci parla di coltivare. Ci indica i tipi di terreno, i tipi di semina, i tipi di frutto e la relazione che tra essi si crea. Già dalla Genesi, Dio sussurra all’uomo questo invito: coltivare e custodire (cfr Gen 2,15).

    Non gli dà solamente la vita, gli dà la terra, il creato. Non gli dà solamente una compagna e infinite possibilità. Gli fa anche un invito, gli dà una missione. Lo invita a far parte della sua opera creatrice e gli dice: coltiva! Ti do le sementi, ti do la terra, l’acqua, il sole, ti do le tue mani e quelle dei tuoi fratelli. Ecco, è anche tuo. E’ un regalo, è un dono, è un’offerta. Non è qualcosa di acquistato, non è qualcosa che si compra. Ci precede e ci succederà.

    E’ un dono dato da Dio affinché con Lui possiamo farlo nostro. Dio non vuole un creato per sé, per guardare sé stesso. Tutto al contrario. Il creato è un dono che dev’essere condiviso. E’ lo spazio che Dio ci dà per costruire con noi, per costruire un “noi”. Il mondo, la storia, il tempo, è il luogo dove andiamo a costruire il noi con Dio, il noi con gli altri, il noi con la terra. La nostra vita nasconde sempre questo invito, un invito più o meno consapevole, che permane sempre.

    Notiamo però una particolarità. Nel racconto della Genesi, insieme alla parola “coltivare”, immediatamente ne dice un’altra: “custodire”, avere cura. Una si comprende a partire dall’altra. Una mano va verso l’altra. Non coltiva chi non ha cura e non ha cura chi non coltiva.

    Non solo siamo invitati ad essere parte dell’opera creatrice coltivandola, facendola crescere, sviluppandola, ma siamo anche invitati ad averne cura, a proteggerla, custodirla. Oggi questo invito si impone a noi con forza. Non come una semplice raccomandazione, ma come un’esigenza che nasce «per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla…per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra» (Enc. Laudato si’, 2).

    Esiste una relazione fra la nostra vita e quella della nostra madre terra. Fra la nostra esistenza e il dono che Dio ci ha dato. «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (ibid., 48). Però così come diciamo “si degradano”, allo stesso modo possiamo dire “si sostengono e si possono trasfigurare”. E’ una relazione che custodisce una possibilità, tanto di apertura, di trasformazione, di vita, quanto di distruzione e di morte.

    Una cosa è certa: non possiamo continuare a girare le spalle alla nostra realtà, ai nostri fratelli, alla nostra madre terra. Non ci è consentito ignorare quello che sta succedendo attorno a noi come se determinate situazioni non esistessero o non avessero nulla a che vedere con la nostra realtà. Non ci è lecito, di più, non è umano entrare nel gioco della cultura dello scarto.

    Ancora una volta, si ripete con forza questa domanda di Dio a Caino: “Dov’è tuo fratello?”. Io mi chiedo se la nostra risposta continuerà ad essere: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9).

    Io vivo a Roma, e d’inverno fa freddo. Succede che molto vicino al Vaticano si trovi, al mattino, un anziano morto di freddo. Non fa notizia in nessun giornale, in nessuna cronaca. Un povero che muore di freddo e di fame oggi non fa notizia, però se le borse delle principali capitali del mondo scendono di due o tre punti si monta un grande scandalo mondiale. Io mi domando: Dov’è tuo fratello? E vi chiedo di farvi ancora, ciascuno, questa domanda, e di farla all’Università, alla vostra Università Cattolica: Dov’è tuo fratello?

    In questo contesto universitario sarebbe bello interrogarci sulla nostra educazione di fronte a questa terra che grida verso il cielo.

    Le nostre scuole sono un vivaio, una possibilità, terra fertile per curare, stimolare e proteggere. Terra fertile assetata di vita.

    Mi chiedo insieme con voi educatori: vegliate sui vostri studenti aiutandoli a sviluppare uno spirito critico, uno spirito libero, in grado di prendersi cura del mondo d’oggi? Uno spirito che sia in grado di trovare nuove risposte alle molte sfide che la società oggi pone all’umanità? Siete in grado di incoraggiarli a non ignorare la realtà che li circonda? A non ignorare ciò che succede intorno? Siete capaci di stimolarli a questo? A questo scopo bisogna farli uscire dall’aula, la loro mente bisogna che esca dall’aula, il loro cuore bisogna che esca dall’aula. Come entra nei diversi programmi universitari o nelle diverse aree di lavoro educativo la vita intorno a noi con le sue domande, i suoi interrogativi, le sue questioni? Come generiamo e accompagniamo il dibattito costruttivo, che nasce dal dialogo in vista di un mondo più umano? Il dialogo, quella parola-ponte, quella parola che crea ponti.

    E c’è una riflessione che ci coinvolge tutti: le famiglie, le scuole, i docenti: come possiamo aiutare i nostri giovani a non identificare il diploma universitario come un sinonimo di statuspiù elevato, sinonimo di soldi, di prestigio sociale. Non sono sinonimi. Come li aiutiamo a identificare questa preparazione come un segno di maggiore responsabilità per i problemi di oggi, rispetto alla cura dei più poveri, rispetto alla salvaguardia dell’ambiente.

    E voi, cari giovani che siete qui, presente e futuro dell’Ecuador, siete quelli che dovete fare chiasso. Con voi, che siete seme di trasformazione di questa società, vorrei chiedermi: sapete che questo tempo di studio, non è solo un diritto, ma anche un privilegio che voi avete? Quanti amici, conoscenti o sconosciuti, vorrebbero un posto in questo luogo e per diverse circostanze non lo hanno avuto? In quale misura il nostro studio ci aiuta e ci porta a solidarizzare con loro? Fatevi queste domande, cari giovani.

    Le comunità educative hanno un ruolo vitale, un ruolo essenziale nella costruzione della cittadinanza e della cultura. Attenzione: non basta fare analisi, descrivere la realtà; è necessario dar vita ad ambiti, a luoghi di ricerca vera e propria, a dibattiti che generino alternative ai problemi esistenti, specialmente oggi, che è necessario andare al concreto.

    Di fronte alla globalizzazione del paradigma tecnocratico che tende a credere«che ogni acquisto di potenza sia semplicemente progresso, accrescimento di sicurezza, di utilità, di benessere, di forza vitale e di pienezza di valori, come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia» (Enc. Laudato si’, 105), oggi a voi, a me, a tutti, ci viene chiesto che con urgenza ci affrettiamo a pensare, a cercare, a discutere sulla nostra situazione attuale – e dico urgenza –; che ci incoraggiamo a pensare su quale tipo di cultura vogliamo o pretendiamo non solo per noi ma per i nostri figli e i nostri nipoti. Questa terra l’abbiamo ricevuta in eredità, come un dono, come un regalo. Faremmo bene a chiederci: come la vogliamo lasciare? Quali indicazioni vogliamo imprimere all'esistenza? «A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo?» (ibid., 160), perché studiamo?

    Le iniziative individuali sono sempre buone e fondamentali, ma ci viene chiesto di fare un ulteriore passo avanti: ci incoraggiano a guardare la realtà in modo organico e non frammentario; a porci domande che includono tutti noi, dal momento che tutti «sono relazionati tra loro» (ibid., 138). Non c’è diritto all’esclusione.

    Come Università, come istituzioni educative, come docenti e studenti, la vita ci sfida a rispondere a queste due domande: perché questa terra ha bisogno di noi? Dov’è tuo fratello?

    Lo Spirito Santo ci ispiri e ci accompagni, perché Egli ci ha chiamato, ci ha invitato, ci ha dato l’opportunità e, al tempo stesso, la responsabilità di dare il  meglio di noi. Ci dia la forza e la luce di cui abbiamo bisogno. È lo stesso Spirito che il primo giorno della creazione aleggiava sulle acque cercando di trasformare, cercando di dare la vita. È lo stesso Spirito che ha dato ai discepoli la forza della Pentecoste. È lo stesso Spirito che non ci abbandona e diventa un tutt’uno con noi per trovare nuovi modi di vita. Che sia Lui il nostro compagno e maestro di viaggio. Grazie!


     

    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    INCONTRO CON LA SOCIETÀ CIVILE

    DISCORSO DEL SANTO PADRE

    Chiesa di San Francisco, Quito (Ecuador)
    Martedì, 7 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    Cari amici,

    Buona sera, e scusate se mi metto di fianco, ma ho bisogno della luce sul foglio, non vedo bene. Sono lieto di essere con voi, uomini e donne che rappresentate e dinamizzate la vita sociale, politica ed economica del paese.

    Appena prima di entrare in chiesa, il Signor Sindaco mi ha consegnato le chiavi della città. Quindi posso dire che qui, a San Francisco de Quito, sono di casa. La vostra dimostrazione di fiducia e di affetto, nell’aprirmi le porte, mi permette di introdurre alcune chiavi del vivere insieme come cittadini a partire da questo essere di casa, cioè a partire dall’esperienza della vita familiare.

    La nostra società vince quando ogni persona, ogni gruppo sociale, si sente veramente a casa. In una famiglia, i genitori, i nonni, i bambini sono di casa; nessuno è escluso. Se uno ha una difficoltà, anche grave, anche quando “se l’è cercata”, gli altri vengono in suo aiuto, lo sostengono; il suo dolore è di tutti. Mi viene in mente l’immagine di quelle donne, mogli, le ho viste a Buenos Aires nei giorni di visita fare la coda per entrare nel carcere, per vedere loro figlio, o loro marito, che non si era comportato bene, per dirlo in linguaggio semplice, ma non li abbandonano perché rimangono sempre di casa. Come ci insegnano queste donne! Nella società, non dovrebbe succedere lo stesso? E, tuttavia, le nostre relazioni sociali o il gioco politico, nel senso più ampio della parola – non dimentichiamo che la politica, diceva Paolo VI, è una delle forme più alte di carità – spesso questo nostro agire si basa sulla competizione, che produce lo scarto. La mia posizione, la mia idea, il mio progetto sono rafforzati se sono in grado di battere l'altro, di impormi, di scartarlo. E così costruiamo una cultura dello scarto che oggi ha assunto dimensioni mondiali, di ampiezza... È essere famiglia questo? Nelle famiglie, tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono. Litigano, ma c’è qualcosa che non si smuove: quel legame familiare. I litigi di famiglia dopo sono riconciliazioni. Le gioie e i dolori di ciascuno sono fatti propri da tutti. Questo sì è essere famiglia! Se potessimo riuscire a vedere l'avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri. Che bello sarebbe! Amiamo la nostra società, o rimane qualcosa di lontano, qualcosa di anonimo, che non ci coinvolge, non ci tocca, non ci impegna? Amiamo il nostro Paese, la comunità che stiamo cercando di costruire? La amiamo solo nei concetti discussi nel mondo delle idee? Sant’Ignacio – permettetemi l’annuncio pubblicitario – sant’Ignazio ci diceva negli Esercizi che l’amore si dimostra più nelle opere che nelle parole. Amiamola, la società, più con le opere che con le parole! In ogni persona, nel concreto, nella vita che condividiamo. E inoltre ci diceva che l’amore sempre si comunica, tende alla comunicazione, mai all’isolamento. Due criteri che ci possono aiutare a guardare la società con altri occhi. Non solo a guardarla: a sentirla, a sentirla, a pensarla, a toccarla, a progettarla.

    A partire da questo affetto, scaturiranno gesti semplici che rafforzano i legami personali. In diverse occasioni ho fatto riferimento all’importanza della famiglia come cellula della società. In famiglia, le persone ricevono i valori fondamentali dell’amore, della fraternità e del reciproco rispetto, che si traducono in valori sociali essenziali, e sono la gratuità, la solidarietà e la sussidiarietà. Dunque, partendo da questo essere di casa, guardando la famiglia, pensiamo alla società attraverso questi valori sociali che assorbiamo a casa, in famiglia: la gratuità, la solidarietà, la sussidiarietà.

    La gratuità. Per i genitori tutti i figli, anche se ciascuno ha la sua indole, sono ugualmente degni d’amore. Invece, quando il bambino si rifiuta di condividere quello che riceve gratuitamente da loro, dai genitori, rompe questa relazione, o entra in crisi, fenomeno più comune. Le prime reazioni, che a volte sono precedenti alla consapevolezza stessa della madre, incominciano quando la madre è in gravidanza: il bimbo incomincia ad avere comportamenti strani, incomincia a voler rompere, perché nella sua psiche si accende una spia rossa: attenzione che c’è competizione, attenzione che non sei più l’unico. E’ curioso. L'amore dei genitori lo aiuta ad uscire dal suo egoismo per imparare a vivere insieme con colui o colei che arriva e con gli altri, per imparare a rinunciare per aprirsi all’altro. A me piace chiedere ai bambini: “Se hai due caramelle e viene un amico, che fai?” Generalmente mi dicono: “Gliene do una”. Generalmente. “E se hai una caramella e viene il tuo amico, che fai?” Lì sono incerti, e vanno dal “gliela do”, al “la dividiamo”, al “ma la metto in tasca”. Il bambino che impara ad aprirsi all’altro. Nell’ambito sociale questo significa che la gratuità non è un complemento ma un requisito necessario per la giustizia. La gratuità è requisito necessario per la giustizia. Quello che siamo e abbiamo ci è stato donato per metterlo al servizio degli altri - gratis lo abbiamo ricevuto, gratis lo diamo -; il nostro compito consiste nel farlo fruttificare in opere buone. I beni sono destinati a tutti, e per quanto uno ostenti la sua proprietà – che è legittimo – pesa su di essi un’ipoteca sociale. Sempre. Così si supera il concetto economico di giustizia, basato sul principio di compravendita, con il concetto di giustizia sociale, che difende il diritto fondamentale dell’individuo a una vita degna.

    E, sempre a proposito della giustizia, lo sfruttamento delle risorse naturali, così abbondanti in Ecuador, non deve ricercare il guadagno immediato. Essere custodi di questa ricchezza che abbiamo ricevuto ci impegna con la società nel suo insieme e con le generazioni future, alle quali non potremo lasciare in eredità questo patrimonio senza una cura adeguata dell’ambiente, senza una coscienza di gratuità che scaturisce dalla contemplazione del creato. Ci accompagnano oggi qui fratelli di popoli indigeni provenienti dall’Amazzonia ecuadoriana. Quella zona è una delle «più ricche di varietà di specie, di specie endemiche, poco frequenti o con minor grado di protezione efficace. Ci sono luoghi che richiedono una cura particolare a motivo della loro enorme importanza per l’ecosistema mondiale [poiché ha] una biodiversità di grande complessità, quasi impossibile da conoscere completamente, ma quando quella zona viene bruciata o distrutta per aumentare le coltivazioni, in pochi anni si perdono innumerevoli specie, o tali aree si trasformano in aridi deserti»(Enc. Laudato si’, 37-38). E là l’Ecuador – insieme ad altri Paesi della fascia amazzonica – ha l'opportunità di praticare la pedagogia di una ecologia integrale. Noi abbiamo ricevuto il mondo in eredità dai nostri genitori, ma ricordiamo anche che lo abbiamo ricevuto come un prestito dai nostri figli e dalle generazioni future alle quali lo dobbiamo consegnare. E migliorato! E questo è gratuità!

    Dalla fraternità vissuta in famiglia, nasce il secondo valore: la solidarietà nella società, che non consiste solo nel dare ai bisognosi, ma nell’essere responsabili l’uno dell'altro. Se vediamo nell'altro un fratello, nessuno può rimanere escluso, nessuno può rimanere separato.

    L’Ecuador, come molte nazioni latinoamericane, sperimenta oggi profondi cambiamenti sociali e culturali, nuove sfide che richiedono la partecipazione di tutti i soggetti interessati. La migrazione, la concentrazione urbana, il consumismo, la crisi della famiglia, la disoccupazione, le sacche di povertà producono incertezze e tensioni che costituiscono una minaccia per la convivenza sociale. Le norme e le leggi, così come i progetti della comunità civile, devono cercare l’inclusione, per favorire spazi di dialogo, spazi di incontro e quindi lasciare al ricordo doloroso qualunque tipo di repressione, il controllo illimitato e la sottrazione di libertà. La speranza di un futuro migliore richiede di offrire reali opportunità ai cittadini, soprattutto ai giovani, creando occupazione, con una crescita economica che arrivi a tutti, e non rimanga nelle statistiche macroeconomiche, creando uno sviluppo sostenibile che generi un tessuto sociale forte e ben coeso. Se non c’è solidarietà questo è impossibile. Ho accennato ai giovani e alla mancanza di lavoro. A livello mondiale è allarmante. Paesi europei che erano ad alto livello alcuni decenni fa, adesso stanno subendo nella popolazione giovanile – dai 25 anni in giù – un 40/50% di disoccupazione. Se non c’è solidarietà questo non si risolve. Dicevo ai Salesiani [a Torino]: “Voi, che Don Bosco ha fondato per educare, oggi, educazione di emergenza per quei giovani che non hanno lavoro!”. Perché? Emergenza per prepararli a piccoli lavori che diano loro la dignità di poter portare il pane a casa. A questi giovani disoccupati, che sono quelli che chiamiamo i “né né”: né studiano né lavorano, che prospettiva rimane? Le dipendenze, la tristezza, la depressione, il suicidio – non si pubblicano integralmente le statistiche sui suicidi giovanili – o arruolarsi in progetti di follia sociale, che almeno presentino loro un ideale? Oggi ci è chiesto di curare, in modo speciale, con solidarietà, questo terzo settore di esclusione della cultura dello scarto. Il primo sono i bambini, perché o non li si vuole – ci sono paesi sviluppati che hanno una natalità quasi dello zero per cento –, o li si uccide prima che nascano. Poi gli anziani, che si abbandonano e li si lascia e si dimentica che sono la saggezza e la memoria del loro popolo. Li si scarta. E adesso è venuto il turno dei giovani. A chi hanno lasciato il posto? Ai servitori dell’egoismo, del dio denaro che sta al centro di un sistema che ci schiaccia tutti.

    Infine, il rispetto per l’altro che si apprende in famiglia, si traduce in ambito sociale nella sussidiarietà. Dunque: gratuità, solidarietà, sussidiarietà. Accettare che la nostra scelta non è necessariamente l'unica legittima è un sano esercizio di umiltà. Riconoscendo ciò che c’è di buono negli altri, anche con i loro limiti, vediamo la ricchezza che caratterizza la diversità e il valore di complementarietà. Gli uomini, i gruppi hanno il diritto di compiere il loro cammino, anche se questo a volte porta a commettere errori. Nel rispetto della libertà, la società civile è chiamata a promuovere ogni persona e agente sociale così che possa assumere il proprio ruolo e contribuire con la propria specificità al bene comune. Il dialogo è necessario, essenziale per arrivare alla verità, che non può essere imposta, ma cercata con sincerità e spirito critico. In una democrazia partecipativa, ciascuna delle forze sociali, i gruppi indigeni, gli afro-ecuadoriani, le donne, le aggregazioni civili e quanti lavorano per la collettività nei servizi pubblici, sono protagonisti essenziali in tale dialogo, non sono spettatori. Le pareti, i cortili e i chiostri di questo luogo lo dicono con maggiore eloquenza: appoggiatosu elementi della cultura Inca e Caranqui, la bellezza delle loro forme e proporzioni, l’audacia dei loro stili diversi combinati in maniera mirabile, le opere d'arte che vengono chiamate “scuola di Quito”, riassumono un ampio dialogo, con successi ed errori, della storia ecuadoriana. L’oggi è pieno di bellezza, e se è vero che in passato ci sono stati sbagli e soprusi, come negarlo?, anche nelle nostre storie personali, come negarlo?, possiamo dire che l’amalgama irradia tanta esuberanza che ci permette di guardare al futuro con grande speranza.

    Anche la Chiesa vuole collaborare nella ricerca del bene comune, con le sue attività sociali, educative, promuovendo i valori etici e spirituali, essendo segno profetico che porta un raggio di luce e di speranza a tutti, specialmente ai più bisognosi. Molti mi chiederanno: Padre, perché parla tanto dei bisognosi, delle persone bisognose, delle persone escluse, delle persone ai margini della strada? Semplicemente perché questa realtà e la risposta a questa realtà sta nel cuore del Vangelo. E proprio perché l’atteggiamento che prendiamo di fronte a questa realtà è inscritto nel protocollo sul quale saremo giudicati, in Matteo 25.

    Grazie perché siete qui, perché mi ascoltate, vi chiedo per favore di portare le mie parole di incoraggiamento ai gruppi che voi rappresentate nei diversi settori della società. Che il Signore conceda alla società civile che voi rappresentate di essere sempre l’ambito adatto per vivere come a casa, per vivere questi valori della gratuità, della solidarietà e della sussidiarietà. Grazie!

     

     

     


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 13/07/2015 16:27


    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    INCONTRO CON IL CLERO, I RELIGIOSI, LE RELIGIOSE E I SEMINARISTI

    DISCORSO DEL SANTO PADRE

    Santuario Nazionale Mariano “El Quinche”, Ecuador
    Mercoledì, 8 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    Buongiorno, fratelli e sorelle,

    In questi due giorni, 48 ore, in cui sono stato a contatto con voi, ho notato che c’era qualcosa di particolare – scusatemi -, qualcosa di particolare nel popolo ecuadoriano. In tutti i luoghi dove vado, sempre l’accoglienza è gioiosa, contenta, cordiale, religiosa, ricca di pietà, in ogni parte. Ma qui c’era qualcosa nella religiosità, nel modo, per esempio, di chiedere la benedizione - dal più vecchio fino al “bebé”, che la prima cosa che impara è fare così – c’era qualcosa di diverso… E anch’io ho avuto la tentazione, come il Vescovo di Sucumbios, di domandare: Qual è la ricetta di questo popolo? Qual è? Ci pensavo su e pregavo… Ho chiesto a Gesù più volte nella preghiera: Che cos’ha questo popolo di diverso? E stamattina, pregando, mi si è presentata alla mente quella Consacrazione al Sacro Cuore.

    Penso che devo dirvelo come un messaggio di Gesù: tutto questo che voi avete di  ricchezza, di  ricchezza spirituale, di religiosità, di profondità, viene dall’aver avuto il coraggio – perché sono stati momenti molto difficili – il coraggio di consacrare la nazione al Cuore di Cristo, quel Cuore divino e umano che ci ama tanto. E io vi vedo un po’ così: divini e umani. Di sicuro siete peccatori, anch’io però… Ma il Signore perdona tutto…

    Custodite questo! E poi, pochi anni dopo, la consacrazione al Cuore di Maria. Non dimenticate: quella consacrazione è una pietra miliare nella storia dell’Ecuador, e da quella consacrazione sento come se venisse questa grazia che voi avete, questa religiosità, questa cosa vi rende diversi.

    Oggi devo parlare a voi sacerdoti, seminaristi, religiose, religiosi e dirvi qualcosa. Ho un discorso preparato… ma non ho voglia di leggere… Così lo do al presidente della conferenza dei religiosi perché lo pubblichi poi.

    E pensavo alla Vergine, pensavo a Maria. Le due parole di Maria – qui mi sta mancando la memoria, non so se ne ha dette altre… -: “Si faccia in me”. Sì, certo, chiese spiegazioni sul perché era stata scelta lei, all’Angelo. Ma dice: “Si faccia in me”. E l’altra parola: “Fate quello che Lui vi dirà”. Maria non ha mai voluto essere protagonista. E’ stata discepola per tutta la vita. La prima discepola di sua Figlio. Ed era cosciente che tutto ciò che lei aveva portato era pura gratuità di Dio. Coscienza di gratuità. Per questo “si faccia”, “fate” che si manifesti la gratuità di Dio. Religiose, religiosi, sacerdoti, seminaristi, tutti i giorni ritornate, fate questo camino di ritorno alla gratuità con cui Dio vi ha scelti. Voi non avete pagato l’ingresso per entrare in seminario, per entrare nella vita religiosa. Non ve lo siete meritato. Se qualche religioso, sacerdote o seminarista o suora che c’è qui crede di esserselo meritato, alzi la mano! Tutto gratuito. E tutta la vita di un religioso, di una religiosa, di un sacerdote e di un seminarista che va per questa strada – e già che ci siamo diciamo: e dei vescovi – deve andare per questa strada della gratuità, ritornare tutti i giorni: “Signore, oggi ho fatto questo, mi è andato bene questo, ho avuto questa difficoltà… Ma tutto questo, tutto viene da Te, tutto è gratis”. La gratuità. Siamo oggetto della gratuità di Dio. Se dimentichiamo questo, lentamente ci andiamo facendo importanti. “E guardate questo, che opere sta facendo…”; “guardate, questo lo hanno fatto vescovo del tal posto importante…”; “questo lo hanno fatto monsignore”; “questo…”. e così lentamente ci allontaniamo da ciò che è la base, e da cui Maria non si allontanò mai: la gratuità di Dio.

    Un consiglio da fratello: tutti i giorni, magari alla sera è meglio, prima di andare a dormire, uno sguardo a Gesù e dirgli: Mi hai dato tutto gratis. E rimettersi a posto. Allora quando mi cambiano di destinazione o quando c’è una difficoltà, non protesto, perché tutto è gratis, non merito nulla! Questo ha fatto Maria.

    San Giovanni Paolo II, nella Redemptoris Mater – che vi raccomando di leggere. Sì, prendetela, leggetela. Certo, san Giovanni Paolo II aveva uno stile di pensiero circolare, era professore, ma era un uomo di Dio, e dunque bisogna leggerla più volte per tirar fuori tutto il succo che contiene – dice che forse Maria – non ricordo bene la frase, sto citando, ma voglio citare il fatto – nel momento della croce, della sua fedeltà, avrebbe avuto voglia di dire: “E questo mi avevano detto che avrebbe salvato Israele! Mi hanno ingannato”. Non lo disse. Non si permise nemmeno di pensarlo, perché era la donna che sapeva che aveva ricevuto tutto gratuitamente. Consiglio di fratello e di padre: tutte le sere ricollocatevi nella gratuità. E dite: “Si faccia, grazie perché ogni cosa me l’hai data Tu”.

    Una seconda cosa che vorrei dirvi è di conservare la salute, ma soprattutto aver cura di non cadere in una malattia, una malattia che è abbastanza pericolosa, o molto pericolosa per quelli che il Signore ha chiamato gratuitamente a seguirlo e a servirlo. Non cadete nell’“alzheimer spirituale”, non perdete la memoria, soprattutto la memoria del posto da cui siete stati tratti. Quella scena del profeta Samuele, quando viene mandato a ungere il re di Israele. Va a Betlemme, alla casa di un signore che si chiama Jesse, che ha sette o otto figli, non so, e Dio gli dice che tra quei figli si trova il re. E chiaramente, li vede e dice: “Dev’essere questo”, perché il maggiore era grande, alto, prestante, sembrava coraggioso… E Dio gli dice: “No, non è lui”. Lo sguardo di Dio è diverso da quello degli uomini. E così fa passare tutti i figli e Dio gli dice: “No, non è”. Il profeta si trova a non saper che fare, e allora domanda al padre: “Non ne hai altri?” . E gli risponde: “Sì, c’è il più piccolo, là, a pascolare le capre e le pecore”. “Fallo chiamare”. E arriva il ragazzino, che poteva avere 17, 18 anni, non so, e Dio gli dice: “E’ lui”. Lo hanno preso da dietro il gregge. E un altro profeta, quando Dio gli dice di fare certe cose come profeta: “Ma chi sono io se mi hanno preso da dietro il gregge?”. Non dimenticatevi da dove siete stati tratti. Non rinnegate le radici!

    San Paolo si vede che intuiva questo pericolo di perdere la memoria e al suo figlio più amato, il vescovo Timoteo, che aveva ordinato, dà consigli pastorali, ma ce n’è uno che tocca il cuore: “Non dimenticarti della fede che avevano tua nonna e tua madre!”, cioè: “Non dimenticarti da dove sei stato tratto, non dimenticarti delle tue radici, non sentirti promosso!”. La gratuità è una grazia che non può convivere con la promozione, e quando un sacerdote, un seminarista, un religioso, una religiosa entra “in carriera” – intendo in carriera umana –, incomincia ad ammalarsi di alzheimer spirituale e comincia a perdere la memoria del posto da cui è stato tratto.

    Due principi per voi sacerdote, consacrati e consacrate: tutti i giorni rinnovate il sentimento che tutto è gratis, il sentimento di gratuità della elezione di ognuno di voi – nessuno di noi la merita – e chiedete la grazia di non perdere la memoria, di non sentirsi più importante. E’ molto triste quando si vede un sacerdote o un consacrato, una consacrata, che a casa sua parlava in dialetto, o parlava un’altra lingua, una di queste nobili lingue antiche che hanno i popoli – quante ne ha l’Ecuador! – ed è molto triste quando si dimenticano della lingua, è molto triste quando non la vogliono parlare. Questo significa che si sono dimenticati del posto da dove sono stati tratti. Non dimenticate questo. Chiedete la grazia della memoria. E questi sono i due principi che volevo sottolineare. E questi due principi, se li vivete – ma tutti i giorni, è un lavoro di tutti i giorni, tutte le sere ricordare quei due principi e chiedere la grazia – questi due principi, se li vivete, vi daranno, nella vita, vi faranno vivere con due atteggiamenti.

    Primo, il servizio. Dio mi ha scelto, mi ha tratto, perché? Per servire. E il servizio che è peculiare a me. Non che: “ho il mio tempo”, “ho le mie cose”, “ho questo…”, “no, ormai chiudo il negozio”, “sì, dovrei andare a benedire le case ma… sono stanco… oggi c’è una bella telenovela alla televisione, e allora…” – per le suore! –. Dunque: servizio, servire, servire. E non fare altre cose, e servire quando siamo stanchi e servire quando la gente ci dà fastidio.

    Mi diceva un vecchio prete, che fu per tutta la vita professore in scuole e università, insegnava letteratura, lettere – un genio –, quando andò in pensione chiede al provinciale che lo mandasse in un quartiere povero, di quei quartieri che si formano con la gente che viene, che emigrano cercando lavoro, gente molto semplice. E questo religioso una volta alla settimana andava nella sua comunità e parlava, era molto intelligente; e la comunità era una comunità di facoltà di teologia; parlava con gli altri preti di teologia allo stesso livello, ma un giorno dice a uno: “Voi che siete… Chi insegna il trattato sulla Chiesa qui?”. Il professore alza la mano: “Io”. “Ti mancano due tesi”. “Quali?” “Il santo Popolo fedele di Dio è essenzialmente olimpico – cioè fa quello che vuole – eontologicamente molesto”. E questo contiene molta sapienza, perché chi prende la strada del servizio deve lasciarsi molestare senza perdere la pazienza, perché è al servizio, nessun momento gli appartiene, nessun momento gli appartiene. Sono qui per servire: servire in ciò che devo fare, servire davanti al Tabernacolo, pregando per il mio popolo, pregando per il mio lavoro, per la gente che Dio mi ha affidato.

    Servizio. Mescolalo con la gratuità, e allora… ciò che dice Gesù: “Quello che hai ricevuto gratis, dallo gratis”. Per favore, per favore! Non commerciate la grazia! Per favore, la nostra pastorale sia gratuita. Ed è così brutto quando uno perde questo senso di gratuità e diventa… Sì, fa cose buone, però ha perso questo.

    E il secondo, il secondo atteggiamento che si vede in un consacrato, una consacrata, un sacerdote che vive questa gratuità e questa memoria – questi due principi che ho detto all’inizio, gratuità e memoria, è la gioia, l’allegria. E’ un regalo di Gesù, questo, ed è un regalo che Lui dà se glielo chiediamo, e se non ci dimentichiamo di queste due colonne della nostra vita sacerdotale o religiosa, che sono appunto il senso di gratuità, rinnovato tutti i giorni, e il non perdere la memoria del posto da cui siamo stati tratti.

    Questo io vi auguro. “Sì, Padre, Lei ci ha detto che forse la ricetta del nostro popolo era quella: siamo così grazie al Sacro Cuore”. Sì, certo, ma io vi propongo un’altra ricetta nella stessa linea, nella direzione del Cuore di Gesù: senso di gratuità. Lui si fece nulla, si abbassò, si umiliò, si fece povero per arricchirci con la sua povertà. Pura gratuità. E senso della memoria: facciamo memoria delle meraviglie che il Signore ha compiuto nella nostra vita.

    Che il Signore conceda questa grazia a tutti voi, la conceda a tutti noi qui presenti, e che continui – stavo per dire “a premiare” –, continui a benedire questo popolo ecuadoriano, che voi dovete servire, che voi siete chiamati a servire, lo continui a benedire con questa peculiarità così speciale che ho notato da subito quando sono arrivato qui. Che Gesù vi benedica, e che la Vergine vi protegga.

    * * *

    Preghiamo tutti insieme il Padre, che ci ha dato tutto gratuitamente, che mantiene viva in noi la memoria di Gesù.

    [Padre nostro…]

    [Benedizione]

    E per favore, per favore, vi chiedo di pregare per me, perché anch’io sento tante volte la tentazione di dimenticarmi della gratuità con la quale Dio mi ha scelto e di dimenticarmi del posto da cui sono stato tratto.

    Pregate per me!


    Discorso preparato dal Santo Padre:

    Cari fratelli e sorelle,

    porto ai piedi di Nostra Signora del Quinche quanto vissuto in questi giorni della mia visita; desidero affidare al suo cuore gli anziani e gli infermi, con i quali ho condiviso un momento presso la casa delle Sorelle della Carità, e anche tutti gli altri incontri che ho avuto in precedenza. Li lascio nel cuore di Maria, ma li deposito anche nei cuori di voi sacerdoti, religiosi e religiose, seminaristi, affinché, chiamati a lavorare nella vigna del Signore, siate custodi di tutto quanto questo popolo dell’Ecuador vive, soffre e gioisce.

    Ringrazio Mons. Lazzari, il Padre Mina e la sorella Sandoval per le loro parole, che mi danno lo sunto per condividere con tutti voi alcune cose nella comune sollecitudine per il Popolo di Dio.

    Nel Vangelo, il Signore ci invita ad accogliere la missione senza porre condizioni. È un messaggio importante che non è bene dimenticare e che, in questo Santuario dedicato alla Vergine della Presentazione, risuona con un accento particolare. Maria è un esempio di discepola per noi che, come lei, abbiamo ricevuto una vocazione. La sua risposata fiduciosa: «Avvenga per me secondo la tua Parola» (Lc 1,38), ci ricorda le sue parole alle nozze di Cana: «Qualsiasi cosa vi dica fatela» (Gv 2,5). Il suo esempio è un invito a servire come lei.

    Nella Presentazione della Vergine possiamo trovare alcuni suggerimenti per la chiamata di ognuno di noi. La Vergine Bambina è stata un dono di Dio per i suoi genitori e per tutto il popolo che aspettava la liberazione. È un fatto che si ripete frequentemente nella Scrittura: Dio risponde al grido del suo popolo, inviando un bambino, debole, destinato a portare la salvezza e che, allo stesso tempo, rinnova la speranza dei genitori anziani. La parola di Dio ci dice che nella storia di Israele i giudici, i profeti, i re sono un dono del Signore per far giungere la sua tenerezza e la sua misericordia al suo popolo. Sono segno della gratuità di Dio: è Lui che li ha eletti, scelti e inviati. Questo ci libera dall’autoreferenzialità, ci fa comprendere che non ci apparteniamo più, che la nostra vocazione ci chiede di rinunciare ad ogni egoismo, ad ogni ricerca di guadagno materiale o di compensazione affettiva, come ci ha detto il Vangelo. Non siamo mercenari, ma servitori; non siamo venuti per essere serviti, ma per servire e lo facciamo con pieno distacco, senza bastone e senza bisaccia.

    Alcune tradizioni concernenti il titolo di Nostra Signora del Quinche ci dicono che Diego de Robles realizzò l’immagine su incarico degli indigeni Lumbicí. Diego non lo faceva per devozione, lo faceva per un beneficio economico. Dato che non poterono pagarlo, la portò a Oyacachi e la barattò per delle tavole di cedro. Diego inoltre non accolse la richiesta di quella gente di fare anche un altare all’immagine, finché, cadendo da cavallo, si trovò in pericolo e sentì la protezione della Vergine. Ritornò al villaggio e fece il piedistallo dell’immagine. Anche ciascuno di noi ha fatto l’esperienza di un Dio che ci viene incontro all’incrocio, che nella nostra condizione di persone cadute, abbattute, ci chiama. Che la vanagloria e la mondanità non ci facciano dimenticare da dove Dio ci ha riscattati!, che Maria del Quinche ci faccia scendere dalle nostre ambizioni, dai nostri interessi egoistici, dalle eccessive attenzioni verso noi stessi!

    L’«autorità» che gli apostoli ricevono da Gesù non è per il loro vantaggio: i nostri doni sono destinati a rinnovare e edificare la Chiesa. Non rifiutate di condividere, non fate resistenza a dare, non rinchiudetevi nella comodità, siate sorgenti che tracimano e rinfrescano, specialmente gli oppressi dal peccato, dalla delusione, dal rancore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 272).

    Il secondo punto che mi richiama la Presentazione della Vergine è la perseveranza. Nella suggestiva iconografia mariana di questa festa, la Vergine Bambina si allontana dai suoi genitori salendo la scalinata del tempio. Maria non guarda indietro e, con chiaro riferimento al monito evangelico, cammina decisa in avanti. Anche noi, come i discepoli nel Vangelo, ci mettiamo in cammino per portare ad ogni popolo e luogo la Buona Notizia di Gesù. Perseveranza nella missione significa non andare girando di casa in casa, cercando dove ci trattino meglio, dove ci siano più mezzi e comodità. Richiede di unire la nostra sorte a quella di Gesù sino alla fine. Alcune relazioni delle apparizioni della Vergine del Quinche ci dicono che una “signora con un bambino in braccio” visitò per alcuni pomeriggi di seguito gli indigeni di Oyacachi quando questi cercavano rifugio dagli assalti degli orsi. Varie volte Maria andò incontro ai suoi figli; loro non le credevano, dubitavano di questa signora, però restarono ammirati dalla sua perseveranza nel ritornare ogni pomeriggio al calar del sole. Perseverare, anche se ci respingono, anche se viene la notte e crescono lo smarrimento e i pericoli. Perseverare in questo sforzo, sapendo che non siamo soli, che è il Popolo Santo di Dio che cammina.

    In qualche modo, nell’immagine della Vergine bambina che sale al Tempio, possiamo vedere la Chiesa che accompagna il discepolo missionario. Insieme a lei ci sono i suoi genitori, che le hanno trasmesso la memoria della fede e ora generosamente la offrono al Signore perché possa continuare la sua strada; c’è la sua comunità rappresentata nel “seguito delle vergini”, nelle “sue compagne”, con le lampade accese (cfr Sal 44,15) e nelle quali i Padri della Chiesa vedono una profezia di tutti quelli che, imitando Maria, cercano con sincerità di essere amici di Dio, e ci sono i sacerdoti che la aspettano per riceverla e che ci ricordano che nella Chiesa i pastori hanno la responsabilità di accogliere con tenerezza e di aiutare a discernere ogni spirito e ogni chiamata.

    Camminiamo uniti, sostenendoci gli uni gli altri, e chiediamo con umiltà il dono della perseveranza nel suo servizio.

    Nostra Signora del Quinche è stata occasione di incontro, di comunione, per questo luogo che dai tempi dell’Impero Inca si era costituito come un insediamento multietnico. Com’è bello quando la Chiesa persevera nel suo sforzo per essere casa e scuola di comunione, quando generiamo quello che mi piace definire la cultura dell’incontro!

    L’immagine della Presentazione ci dice che, una volta benedetta dai sacerdoti, la Vergine bambina si sedette sui gradini dell’altare e poi, alzatasi in piedi, danzò. Penso alla gioia che si esprime nelle immagini del banchetto di nozze, degli amici dello sposo, della sposa adornata con i suoi gioielli. È la gioia di chi ha scoperto un tesoro e ha lasciato tutto per averlo. Incontrare il Signore, vivere nella sua casa, partecipare alla sua intimità, impegna all’annuncio del Regno e a portare la salvezza a tutti. Attraversare le soglie del Tempio esige di trasformarci come Maria in templi del Signore e metterci in cammino per portarlo ai fratelli. La Vergine, come prima discepola missionaria, dopo l’annuncio dell’Angelo, partì senza indugio verso un villaggio della Giudea, per condividere questa immensa esultanza, la stessa che fece sussultare san Giovanni Battista nel grembo di sua madre. Chi ascolta la sua voce “sussulta di gioia” e diventa a sua volta predicatore della sua gioia. La gioia di evangelizzare muove la Chiesa, la fa uscire, come Maria.

    Anche se sono molte le ragioni che si considerano per il trasferimento del santuario da Oyacachi a questo luogo, mi fermo su una in particolare: “Qui è ed è stato più accessibile, è più comodo e vicino a tutti”. Così ha inteso l’Arcivescovo di Quito, Fra Luis López de Solís, quando ordinò di edificare un Santuario capace di convocare e accogliere tutti. Una Chiesa in uscita è una Chiesa che si avvicina, che si adatta per non essere distante, che esce dalla sua comodità e ha il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo (Esort. ap. Evangelii gaudium,  20).

    Ritorneremo ora alle nostre responsabilità, interpellati dal santo Popolo che ci è stato affidato. Tra queste, non dimentichiamo di aver cura, di animare e di educare la devozione popolare che si tocca con mano in questo Santuario ed è tanto diffusa in molti Paesi latinoamericani. Il popolo fedele ha saputo esprimere la fede col proprio linguaggio, manifestare i suoi più profondi sentimenti di dolore, dubbio, gioia, fallimento, gratitudine con diverse forme di pietà: processioni, veglie, fiori, canti che si trasformano in una magnifica espressione di fiducia nel Signore e di amore a sua Madre, che è anche la nostra.

    A Quinche, la storia degli uomini e la storia di Dio confluiscono nella storia di una donna, Maria. E in una casa, la nostra casa, la sorella madre terra. Le tradizioni di questo titolo evocano i cedri, gli orsi, la fenditura nella roccia che qui è stata la prima casa della Madre di Dio. Ci parlano del passato di uccelli che avevano attorniato il luogo, e dell’oggi dei fiori che adornano i dintorni. Le origini di questa devozione ci portano in tempi quando era più semplice «la serena armonia con il creato […] per contemplare il Creatore, che vive tra di noi e in ciò ci circonda, e la cui presenza non deve essere costruita» (Enc. Laudato si’, 225), ma che ci si rivela nel mondo creato, nel suo Figlio amato, nell’Eucaristia che permette ai cristiani di sentirsi membra vive della Chiesa e di partecipare attivamente alla sua missione (cfr Documento di Aparecida, 264), in Nostra Signora del Quinche, che accompagnò da qui gli albori del primo annuncio della fede ai popoli indigeni. A lei affidiamo la nostra vocazione; che renda ciascuno di noi dono per il nostro popolo, che ci dia la perseveranza nell’impegno e nell’entusiasmo di uscire a portare il Vangelo di suo figlio Gesù – uniti ai nostri pastori – fino ai confini, fino alle periferie del nostro caro Ecuador.





    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 13/07/2015 16:30

    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    PARTECIPAZIONE AL II INCONTRO MONDIALE DEI MOVIMENTI POPOLARI

    DISCORSO DEL SANTO PADRE

    Centro fieristico Expo Feria, Santa Cruz de la Sierra (Bolivia)
    Giovedì, 9 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    Sorelle e fratelli, buon pomeriggio!

    Qualche mese fa ci siamo incontrati a Roma ed ho presente quel primo nostro incontro. Durante questo periodo vi ho portato nel mio cuore e nelle mie preghiere. Sono contento di rivedervi qui, a discutere sui modi migliori per superare le gravi situazioni di ingiustizia che soffrono gli esclusi in tutto il mondo. Grazie, Signor Presidente Evo Morales, perché accompagna così risolutamente questo Incontro.

    Quella volta a Roma ho sentito qualcosa di molto bello: fraternità, decisione, impegno, sete di giustizia. Oggi, a Santa Cruz de la Sierra, ancora una volta sento lo stesso. Grazie per tutto ciò. Ho saputo anche dal cardinale Turkson presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che molti nella Chiesa si sentono più vicini ai movimenti popolari. Me ne rallegro molto! Vedere la Chiesa con le porte aperte a tutti voi, mettersi in gioco, accompagnare, e programmare in ogni diocesi, ogni Commissione di Giustizia e Pace, una reale collaborazione, permanente e impegnata con i movimenti popolari. Vi invito tutti, Vescovi, sacerdoti e laici, comprese le organizzazioni sociali nelle periferie urbane e rurali, ad approfondire tale incontro.

    Dio ci consente di rivederci nuovamente oggi. La Bibbia ci ricorda che Dio ascolta il grido del suo popolo e anch’io desidero unire la mia voce alla vostra: le famose “tre t”: terra, casa e lavoro per tutti i nostri fratelli e sorelle. L’ho detto e lo ripeto: sono diritti sacri. Vale la pena, vale la pena di lottare per essi. Che il grido degli esclusi si oda in America Latina e in tutta la terra.

    1. Prima di tutto, iniziamo riconoscendo che abbiamo bisogno di un cambiamento. Ci tengo a precisare, affinché non ci sia fraintendimento, che parlo dei problemi comuni a tutti i latino-americani e, in generale, a tutta l'umanità. Problemi che hanno una matrice globale e che oggi nessuno Stato è in grado di risolvere da solo. Fatto questo chiarimento, propongo di porci queste domande:

    - Sappiamo riconoscere, sul serio, che le cose non stanno andando bene in un mondo dove ci sono tanti contadini senza terra, molte famiglie senza casa, molti lavoratori senza diritti, molte persone ferite nella loro dignità?

    - Riconosciamo che le cose non stanno andando bene quando esplodono molte guerre insensate e la violenza fratricida aumenta nei nostri quartieri? Sappiamo riconoscere che le cose non stanno andando bene quando il suolo, l'acqua, l'aria e tutti gli esseri della creazione sono sotto costante minaccia?

    E allora, se riconosciamo questo, diciamolo senza timore: abbiamo bisogno e vogliamo un cambiamento.

    Voi nelle vostre lettere e nei nostri incontri - mi avete informato sulle molte esclusioni e sulle ingiustizie subite in ogni attività di lavoro, in ogni quartiere, in ogni territorio. Sono molti e diversi come molti e diversi sono i modi di affrontarli. Vi è, tuttavia, un filo invisibile che lega ciascuna delle esclusioni. Non sono isolate, sono unite da un filo invisibile. Possiamo riconoscerlo? Perché non si tratta di problemi isolati. Mi chiedo se siamo in grado di riconoscere che tali realtà distruttive rispondono ad un sistema che è diventato globale. Sappiamo riconoscere che tale sistema ha imposto la logica del profitto ad ogni costo, senza pensare all’esclusione sociale o alla distruzione della natura?

    Se è così, insisto, diciamolo senza timore: noi vogliamo un cambiamento, un vero cambiamento, un cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità, i villaggi .... E non lo sopporta più la Terra, la sorella Madre Terra, come diceva san Francesco.

    Vogliamo un cambiamento nella nostra vita, nei nostri quartieri, nel salario minimo, nella nostra realtà più vicina; e pure un cambiamento che tocchi tutto il mondo perché oggi l'interdipendenza planetaria richiede risposte globali ai problemi locali. La globalizzazione della speranza, che nasce dai Popoli e cresce tra i poveri, deve sostituire questa globalizzazione dell’esclusione e dell’indifferenza!

    Oggi vorrei riflettere con voi sul cambiamento che vogliamo e di cui vi è necessità. Sapete che recentemente ho scritto circa i problemi del cambiamento climatico. Ma questa volta, voglio parlare di un cambiamento nell’altro senso. Un cambiamento positivo, un cambiamento che ci faccia bene, un cambiamento che potremmo dire redentivo. Perché ne abbiamo bisogno. So che voi cercate un cambiamento e non solo voi: nei vari incontri, nei diversi viaggi, ho trovato che esiste un’attesa, una ricerca forte, un desiderio di cambiamento in tutti i popoli del mondo. Anche all'interno di quella minoranza in diminuzione che crede di beneficiare di questo sistema regna insoddisfazione e soprattutto tristezza. Molti si aspettano un cambiamento che li liberi da questa tristezza individualista che rende schiavi.

    Il tempo, fratelli, sorelle, il tempo sembra che stia per giungere al termine; non è bastato combattere tra di noi, ma siamo arrivati ad accanirci contro la nostra casa. Oggi la comunità scientifica accetta quello che già da molto tempo denunciano gli umili: si stanno producendo danni forse irreversibili all’ecosistema. Si stanno punendo la terra, le comunità e le persone in modo quasi selvaggio. E dopo tanto dolore, tanta morte e distruzione, si sente il tanfo di ciò che Basilio di Cesarea – uno dei primi teologi della Chiesa – chiamava lo “sterco del diavolo”. L’ambizione sfrenata di denaro che domina. Questo è lo “sterco del diavolo”. E il servizio al bene comune passa in secondo piano. Quando il capitale diventa idolo e dirige le scelte degli esseri umani, quando l’avidità di denaro controlla l’intero sistema socioeconomico, rovina la società, condanna l’uomo, lo fa diventare uno schiavo, distrugge la fraternità interumana, spinge popolo contro popolo e, come si vede, minaccia anche questa nostra casa comune, la sorella madre terra.

    Non voglio dilungarmi a descrivere gli effetti negativi di questa sottile dittatura: voi li conoscete. E non basta nemmeno segnalare le cause strutturali del dramma sociale e ambientale contemporaneo. Noi soffriamo un certo eccesso diagnostico che a volte ci porta a un pessimismo parolaio o a crogiolarci nel negativo. Vedendo la cronaca nera di ogni giorno, siamo convinti che non si può fare nulla, ma solo prendersi cura di sé e della piccola cerchia della famiglia e degli affetti.

    Cosa posso fare io, raccoglitore di cartoni, frugatrice tra le cose, raccattatore, riciclatrice, di fronte a problemi così grandi, se appena guadagno quel tanto per mangiare? Cosa posso fare io artigiano, venditore ambulante, trasportatore, lavoratore escluso se non ho nemmeno i diritti dei lavoratori? Cosa posso fare io, contadina, indigeno, pescatore che appena appena posso resistere all’asservimento delle grandi imprese? Che cosa posso fare io dalla mia borgata, dalla mia baracca, dal mio quartiere, dalla mia fattoria quando sono quotidianamente discriminato ed emarginato? Che cosa può fare questo studente, questo giovane, questo militante, questo missionario che calca quartieri e luoghi con un cuore pieno di sogni, ma quasi nessuna soluzione ai suoi problemi? Potete fare molto. Potete fare molto! Voi, i più umili, gli sfruttati, i poveri e gli esclusi, potete fare e fate molto. Oserei dire che il futuro dell'umanità è in gran parte nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzare e promuovere alternative creative nella ricerca quotidiana delle “tre t”, d’accordo? - lavoro, casa, terra - e anche nella vostra partecipazione attiva ai grandi processi di cambiamento, cambiamenti nazionali, cambiamenti regionali e cambiamenti globali. Non sminuitevi!

    2. Voi siete seminatori di cambiamento. Qui in Bolivia ho sentito una frase che mi piace molto: “processo di cambiamento”. Il cambiamento concepito non come qualcosa che un giorno arriverà perché si è imposta questa o quella scelta politica o perché si è instaurata questa o quella struttura sociale. Sappiamo dolorosamente che un cambiamento di strutture che non sia accompagnato da una sincera conversione degli atteggiamenti e del cuore finisce alla lunga o alla corta per burocratizzarsi, corrompersi e soccombere. Bisogna cambiare il cuore. Per questo mi piace molto l’immagine del processo, i processi, dove la passione per il seminare, per l’irrigare con calma ciò che gli altri vedranno fiorire sostituisce l’ansia di occupare tutti gli spazi di potere disponibili e vedere risultati immediati. La scelta è di generare processi e non di occupare spazi. Ognuno di noi non è che parte di un tutto complesso e variegato che interagisce nel tempo: gente che lotta per un significato, per uno scopo, per vivere con dignità, per “vivere bene”, dignitosamente, in questo senso.

    Voi, da parte dei movimenti popolari, assumete i compiti di sempre, motivati​ dall’amore fraterno che si ribella contro l’ingiustizia sociale. Quando guardiamo il volto di quelli che soffrono, il volto del contadino minacciato, del lavoratore escluso, dell’indigeno oppresso, della famiglia senza casa, del migrante perseguitato, del giovane disoccupato, del bambino sfruttato, della madre che ha perso il figlio in una sparatoria perché il quartiere è stato preso dal traffico di droga, del padre che ha perso la figlia perché è stata sottoposta alla schiavitù; quando ricordiamo quei “volti e nomi” ci si stringono le viscere di fronte a tanto dolore e ci commuoviamo, tutti ci commuoviamo. Perché “abbiamo visto e udito” non la fredda statistica, ma le ferite dell’umanità sofferente, le nostre ferite, la nostra carne. Questo è molto diverso dalla teorizzazione astratta o dall’indignazione elegante. Questo ci tocca, ci commuove e cerchiamo l’altro per muoverci insieme. Questa emozione fatta azione comunitaria non si comprende unicamente con la ragione: ha un “più” di senso che solo la gente capisce e che dà la propria  particolare mistica ai veri movimenti popolari.

    Voi vivete ogni giorno, impregnati, nell’intrico della tempesta umana. Mi avete parlato delle vostre cause, mi avete reso partecipe delle vostre lotte, già da Buenos Aires, e vi ringrazio. Voi, cari fratelli, lavorate molte volte nella dimensione piccola, vicina, nella realtà ingiusta che vi è imposta, eppure non vi rassegnate, opponendo una resistenza attiva al sistema idolatrico che esclude, degrada e uccide. Vi ho visto lavorare instancabilmente per la terra e l’agricoltura contadina, per i vostri territori e comunità, per la dignità dell’economia popolare, per l’integrazione urbana delle vostre borgate e dei vostri insediamenti, per l’autocostruzione di abitazioni e lo sviluppo di infrastrutture di quartiere, e in tante attività comunitarie che tendono alla riaffermazione di qualcosa di così fondamentale e innegabilmente necessario come il diritto alle “tre t”: terra, casa e lavoro.

    Questo attaccamento al quartiere, alla terra, all’occupazione, al sindacato, questo riconoscersi nel volto dell’altro, questa vicinanza del giorno per giorno, con le sue miserie – perché ci sono, le abbiamo – e i suoi eroismi quotidiani, è ciò che permette di esercitare il mandato dell’amore non partendo da idee o concetti, bensì partendo dal genuino incontro tra persone, perché abbiamo bisogno di instaurare questa cultura dell’incontro, perché non si amano né i concetti né le idee, nessuno ama un concetto, un’idea, si amano le persone. Il darsi, l’autentico darsi viene dall’amare uomini e donne, bambini e anziani e le comunità: volti, volti e nomi che riempiono il cuore. Da quei semi di speranza piantati pazientemente nelle periferie dimenticate del pianeta, da quei germogli di tenerezza che lottano per sopravvivere nel buio dell’esclusione, cresceranno alberi grandi, sorgeranno boschi fitti di speranza per ossigenare questo mondo.

    Vedo con gioia che lavorate nella dimensione di prossimità, prendendovi cura dei germogli; ma, allo stesso tempo, con una prospettiva più ampia, proteggendo il bosco. Lavorate in una prospettiva che non affronta solo la realtà settoriale che ciascuno di voi rappresenta e nella quale è felicemente radicato, ma cercate anche di risolvere alla radice i problemi generali di povertà, disuguaglianza ed esclusione.

    Mi congratulo con voi per questo. E’ indispensabile che, insieme alla rivendicazione dei vostri legittimi diritti, i popoli e le loro organizzazioni sociali costruiscano un’alternativa umana alla globalizzazione escludente. Voi siete seminatori del cambiamento. Che Dio vi conceda coraggio, gioia, perseveranza e passione per continuare la semina! Siate certi che prima o poi vedremo i frutti. Ai dirigenti chiedo: siate creativi e non perdete mai il vostro attaccamento alla prossimità, perché il padre della menzogna sa usurpare nobili parole, promuovere mode intellettuali e adottare pose ideologiche, ma se voi costruite su basi solide, sulle esigenze reali e sull’esperienza viva dei vostri fratelli, dei contadini e degli indigeni, dei lavoratori esclusi e delle famiglie emarginate, sicuramente non sbaglierete.

    La Chiesa non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo. Molti sacerdoti e operatori pastorali svolgono un compito enorme accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo, al fianco di cooperative, sostenendo l’imprenditorialità, costruendo alloggi, lavorando con abnegazione nel campo della salute, dello sport e dell’educazione. Sono convinto che la collaborazione rispettosa con i movimenti popolari può potenziare questi sforzi e rafforzare i processi di cambiamento.

    Teniamo sempre nel cuore la Vergine Maria, umile ragazza di un piccolo villaggio sperduto nella periferia di un grande impero, una madre senza tetto che seppe trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù con un po’ di panni e una montagna di tenerezza. Maria è un segno di speranza per la gente che soffre le doglie del parto fino a quando germogli la giustizia. Prego la Vergine Maria, così venerata dal popolo boliviano, affinché faccia sì che questo nostro Incontro sia lievito di cambiamento.

    3. Infine vorrei che pensassimo insieme alcuni compiti importanti per questo momento storico, perché vogliamo un cambiamento positivo per il bene di tutti i nostri fratelli e sorelle, questo lo sappiamo. Vogliamo un cambiamento che si arricchisca con lo sforzo congiunto dei governi, dei movimenti popolari e delle altre forze sociali, ed anche questo lo sappiamo. Ma non è così facile da definire il contenuto del cambiamento, si potrebbe dire il programma sociale che rifletta questo progetto di fraternità e di giustizia che ci aspettiamo. Non è facile definirlo. In tal senso, non aspettatevi da questo Papa una ricetta. Né il Papa né la Chiesa hanno il monopolio della interpretazione della realtà sociale né la proposta di soluzioni ai problemi contemporanei. Oserei dire che non esiste una ricetta. La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nel quadro di popoli che camminano cercando la propria strada e rispettando i valori che Dio ha posto nel cuore.

    Vorrei, tuttavia, proporre tre grandi compiti che richiedono l’appoggio determinante dell’insieme di tutti i movimenti popolari:

    3.1. Il primo compito è quello di mettere l’economia al servizio dei popoli: gli esseri umani e la natura non devono essere al servizio del denaro. Diciamo NO a una economia di esclusione e inequità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa economia distrugge la Madre Terra.

    L’economia non dovrebbe essere un meccanismo di accumulazione, ma la buona amministrazione della casa comune. Ciò significa custodire gelosamente la casa e distribuire adeguatamente i beni tra tutti. Il suo scopo non è solo assicurare il cibo o un “decoroso sostentamento”. E nemmeno, anche se sarebbe comunque un grande passo avanti, garantire l’accesso alle “tre t” per le quali voi lottate. Un'economia veramente comunitaria, direi una economia di ispirazione cristiana, deve garantire ai popoli dignità, «prosperità senza escludere alcun bene» (Giovanni XXIII, Lett. enc. Mater et Magistra [15 maggio 1961], 3: AAS 53 (1961), 402). Quest’ultima frase la disse il Papa Giovanni XXIII cinquant’anni fa. Gesù dice nel Vangelo che a chi avrà dato spontaneamente un bicchier d’acqua a un assetato, ne sarà tenuto conto nel Regno dei cieli. Ciò comporta le “tre t”, ma anche l’accesso all’istruzione, alla salute, all’innovazione, alle manifestazioni artistiche e culturali, alla comunicazione, allo sport e alla ricreazione. Un’economia giusta deve creare le condizioni affinché ogni persona possa godere di un’infanzia senza privazioni, sviluppare i propri talenti nella giovinezza, lavorare con pieni diritti durante gli anni di attività e accedere a una pensione dignitosa nell’anzianità. Si tratta di un’economia in cui l’essere umano, in armonia con la natura, struttura l’intero sistema di produzione e distribuzione affinché le capacità e le esigenze di ciascuno trovino espressione adeguata nella dimensione sociale. Voi, e anche altri popoli, riassumete questa aspirazione in un modo semplice e bello: “vivere bene” – che non è lo stesso che “passarsela bene”.

    Questa economia è non solo auspicabile e necessaria, ma anche possibile. Non è un’utopia o una fantasia. È una prospettiva estremamente realistica. Possiamo farlo. Le risorse disponibili nel mondo, frutto del lavoro intergenerazionale dei popoli e dei doni della creazione, sono più che sufficienti per lo sviluppo integrale di «ogni uomo e di tutto l’uomo» (Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], 14: AAS 59 (1967), 264). Il problema, invece, è un altro. Esiste un sistema con altri obiettivi. Un sistema che oltre ad accelerare in modo irresponsabile i ritmi della produzione, oltre ad incrementare nell’industria e nell’agricoltura metodi che danneggiano la Madre Terra in nome della “produttività”, continua a negare a miliardi di fratelli i più elementari diritti economici, sociali e culturali. Questo sistema attenta al progetto di Gesù, contro la Buona Notizia che ha portato Gesù.

    L’equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è semplice filantropia. E’ un dovere morale. Per i cristiani, l’impegno è ancora più forte: è un comandamento. Si tratta di restituire ai poveri e ai popoli ciò che appartiene a loro. La destinazione universale dei beni non è un ornamento discorsivo della dottrina sociale della Chiesa. E’ una realtà antecedente alla proprietà privata. La proprietà, in modo particolare quando tocca le risorse naturali, dev’essere sempre in funzione dei bisogni dei popoli. E questi bisogni non si limitano al consumo. Non basta lasciare cadere alcune gocce quando i poveri agitano questo bicchiere che mai si versa da solo. I piani di assistenza che servono a certe emergenze dovrebbero essere pensati solo come risposte transitorie, occasionali. Non potrebbero mai sostituire la vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale.

    In questo cammino, i movimenti popolari hanno un ruolo essenziale, non solo nell’esigere o nel reclamare, ma fondamentalmente nel creare. Voi siete poeti sociali: creatori di lavoro, costruttori di case, produttori di generi alimentari, soprattutto per quanti sono scartati dal mercato mondiale.

    Ho conosciuto da vicino diverse esperienze in cui i lavoratori riuniti in cooperative e in altre forme di organizzazione comunitaria sono riusciti a creare un lavoro dove c’erano solo scarti dell’economia idolatrica. E ho visto che alcuni sono qui. Le imprese recuperate, i mercatini liberi e le cooperative di raccoglitori di cartone sono esempi di questa economia popolare che emerge dall’esclusione e, a poco a poco, con fatica e pazienza, assume forme solidali che le danno dignità. Come è diverso questo rispetto al fatto che gli scartati dal mercato formale siano sfruttati come schiavi!

    I governi che assumono come proprio il compito di mettere l’economia al servizio della gente devono promuovere il rafforzamento, il miglioramento, il coordinamento e l’espansione di queste forme di economia popolare e di produzione comunitaria. Ciò implica migliorare i processi di lavoro, provvedere infrastrutture adeguate e garantire pieni diritti ai lavoratori di questo settore alternativo. Quando Stato e organizzazioni sociali assumono insieme la missione delle “tre t” si attivano i principi di solidarietà e di sussidiarietà che permettono la costruzione del bene comune in una democrazia piena e partecipativa.

    3.2. Il secondo compito è quello di unire i nostri popoli nel cammino della pace e della giustizia.

    I popoli del mondo vogliono essere artefici del proprio destino. Vogliono percorrere in pace la propria marcia verso la giustizia. Non vogliono tutele o ingerenze in cui il più forte sottomette il più debole. Chiedono che la loro cultura, la loro lingua, i loro processi sociali e le loro tradizioni religiose siano rispettati. Nessun potere di fatto o costituito ha il diritto di privare i paesi poveri del pieno esercizio della propria sovranità e, quando lo fanno, vediamo nuove forme di colonialismo che compromettono seriamente le possibilità di pace e di giustizia, perché «la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli, in particolare il diritto all’indipendenza» (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 157).

    I popoli dell’America Latina hanno partorito dolorosamente la propria indipendenza politica e, da allora, portano avanti quasi due secoli di una storia drammatica e piena di contraddizioni cercando di conquistare la piena indipendenza.

    In questi ultimi anni, dopo tante incomprensioni, molti Paesi dell’America Latina hanno visto crescere la fraternità tra i loro popoli. I governi della regione hanno unito le forze per far rispettare la propria sovranità, quella di ciascun Paese e quella della regione nel suo complesso, che in modo così bello, come i nostri antichi padri, chiamano la “Patria Grande”. Chiedo a voi, fratelli e sorelle dei movimenti popolari, di avere cura e di accrescere questa unità. Mantenere l’unità contro ogni tentativo di divisione è necessario perché la regione cresca in pace e giustizia.

    Nonostante questi progressi, ci sono ancora fattori che minano lo sviluppo umano equo e limitano la sovranità dei paesi della "Patria Grande" e di altre regioni del pianeta. Il nuovo colonialismo adotta facce diverse. A volte, è il potere anonimo dell’idolo denaro: corporazioni, mutuanti, alcuni trattati chiamati “di libero commercio” e l’imposizione di mezzi di “austerità” che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri. Come Vescovi latino-americani lo denunciamo molto chiaramente nel Documento di Aparecida, quando affermano che «le istituzioni finanziarie e le imprese transnazionali si rafforzano fino al punto di subordinare le economie locali, soprattutto indebolendo gli Stati, che appaiono sempre più incapaci di portare avanti progetti di sviluppo per servire le loro popolazioni» (V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano [2007], Documento conclusivo, 66). In altre occasioni, sotto il nobile pretesto della lotta contro la corruzione, il traffico di droga e il terrorismo - gravi mali dei nostri tempi che richiedono un intervento internazionale coordinato - vediamo che si impongono agli Stati misure che hanno poco a che fare con la soluzione di queste problematiche e spesso peggiorano le cose.

    Allo stesso modo, la concentrazione monopolistica dei mezzi di comunicazione che cerca di imporre alienanti modelli di consumo e una certa uniformità culturale è un altro modalità adottata dal nuovo colonialismo. Questo è  il colonialismo ideologico. Come dicono i Vescovi dell’Africa, molte volte si pretende di convertire i paesi poveri in «pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Ecclesia in Africa [14 settembre 1995], 52: AAS 88 [1996], 32-33; cfr Lett. enc.Sollicitudo rei socialis [30 dicembre 1987], 22: AAS 80 [1988], 539).

    Occorre riconoscere che nessuno dei gravi problemi dell’umanità può essere risolto senza l’interazione tra gli Stati e i popoli a livello internazionale. Ogni atto di ampia portata compiuto in una parte del pianeta si ripercuote nel tutto in termini economici, ecologici, sociali e culturali. Persino il crimine e la violenza si sono globalizzati. Pertanto nessun governo può agire al di fuori di una responsabilità comune. Se vogliamo davvero un cambiamento positivo, dobbiamo accettare umilmente la nostra interdipendenza, cioè la nostra sana interdipendenza. Ma interazione non è sinonimo di imposizione, non è subordinazione di alcuni in funzione degli interessi di altri. Il colonialismo, vecchio e nuovo, che riduce i paesi poveri a semplici fornitori di materie prime e manodopera a basso costo, genera violenza, povertà, migrazioni forzate e tutti i mali che abbiamo sotto gli occhi... proprio perché mettendo la periferia in funzione del centro le si nega il diritto ad uno sviluppo integrale. E questo, fratelli, è inequità, e l’inequità genera violenza che nessuna polizia, militari o servizi segreti sono in grado di fermare.

    Diciamo NO, dunque, a vecchie e nuove forme di colonialismo. Diciamo SÌ all’incontro tra popoli e culture. Beati coloro che lavorano per la pace.

    Qui voglio soffermarmi su una questione importante. Perché qualcuno potrà dire, a buon diritto, “quando il Papa parla di colonialismo dimentica certe azioni della Chiesa”. Vi dico, a malincuore: si sono commessi molti e gravi peccati contro i popoli originari dell’America in nome di Dio. Lo hanno riconosciuto i miei predecessori, lo ha detto il CELAM, il Consiglio Episcopale Latinoamericano, e lo voglio dire anch’io. Come san Giovanni Paolo II, chiedo che la Chiesa «si inginocchi dinanzi a Dio ed implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli» (Bolla Incarnationis mysterium [29 novembre 1998], 11: AAS 91 [1999], 140). E desidero dirvi, vorrei essere molto chiaro, come lo era san Giovanni Paolo II: chiedo umilmente perdono, non solo per le offese della propria Chiesa, ma per i crimini contro le popolazioni indigene durante la cosiddetta conquista dell’America. E insieme a questa richiesta di perdono, per essere giusti, chiedo anche che ricordiamo migliaia di sacerdoti e vescovi, che opposero fortemente alla logica della spada con la forza della Croce. Ci fu peccato, ci fu peccato e abbondante, ma non abbiamo chiesto perdono, e per questo chiediamo perdono, e chiedo perdono, però là, dove ci fu il peccato, dove ci fu abbondante peccato, sovrabbondò la grazia mediante questi uomini che difesero la giustizia dei popoli originari.

    Chiedo anche a tutti voi, credenti e non credenti, di ricordarvi di tanti vescovi, sacerdoti e laici che hanno predicato e predicano la Buona Notizia di Gesù con coraggio e mansuetudine, rispetto e in pace - ho detto vescovi, sacerdoti e laici; non mi voglio dimenticare delle suore, che anonimamente percorrono i nostri quartieri poveri portando un messaggio di pace e di bene -, che nel loro passaggio per questa vita hanno lasciato commoventi opere di promozione umana e di amore, molte volte a fianco delle popolazioni indigene o accompagnando i movimenti popolari anche fino al martirio. La Chiesa, i suoi figli e figlie, sono una parte dell’identità dei popoli dell’America Latina. Identità che, sia qui che in altri Paesi, alcuni poteri sono determinati a cancellare, talvolta perché la nostra fede è rivoluzionaria, perché la nostra fede sfida la tirannia dell’idolo denaro. Oggi vediamo con orrore come il Medio Oriente e in altre parti del mondo si perseguitano, si torturano, si assassinano molti nostri fratelli a causa della loro fede in Gesù. Dobbiamo denunciare anche questo: in questa terza guerra mondiale “a rate” che stiamo vivendo, c’è una sorta – forzo il termine – di genocidio in corso che deve fermarsi.

    Ai fratelli e alle sorelle del movimento indigeno latinoamericano, lasciatemi esprimere il mio più profondo affetto e congratularmi per la ricerca dell’unione dei loro popoli e delle culture; unione che a me piace chiamare “poliedro”: una forma di convivenza in cui le parti mantengono la loro identità costruendo insieme una pluralità che, non mette in pericolo, bensì rafforza l’unità. La loro ricerca di questo multiculturalismo, che combina la riaffermazione dei diritti dei popoli originari con il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati, ci arricchisce e ci rafforza tutti.

    3.3. Il terzo compito, forse il più importante che dobbiamo assumere oggi, è quello di difendere la Madre Terra.

    La casa comune di tutti noi viene saccheggiata, devastata, umiliata impunemente. La codardia nel difenderla è un peccato grave. Vediamo con delusione crescente che si succedono uno dopo l’altro vertici internazionali senza nessun risultato importante. C’è un chiaro, preciso e improrogabile imperativo etico ad agire che non viene soddisfatto. Non si può consentire che certi interessi – che sono globali, ma non universali – si impongano, sottomettano gli Stati e le organizzazioni internazionali e continuino a distruggere il creato. I popoli e i loro movimenti sono chiamati a far sentire la propria voce, a mobilitarsi, ad esigere – pacificamente ma tenacemente – l’adozione urgente di misure appropriate. Vi chiedo, in nome di Dio, di difendere la Madre Terra. Su questo argomento mi sono debitamente espresso nella Lettera enciclica Laudato si', che credo vi sarà consegnata alla fine.

    4. Per terminare, vorrei dire ancora una volta: il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E' soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento. Io vi accompagno. E ciascuno, ripetiamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessun popolo senza sovranità, nessuna persona senza dignità, nessun bambino senza infanzia, nessun giovane senza opportunità, nessun anziano senza una venerabile vecchiaia. Proseguite nella vostra lotta e, per favore, abbiate molta cura della Madre Terra. Credetemi, sono sincero, lo dico dal cuore: prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio nostro Padre di accompagnarvi e di benedirvi, che vi colmi del suo amore e vi difenda nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci fa stare in piedi: quella forza è la speranza. E una cosa importante: la speranza non delude! E, per favore, vi chiedo di pregare per me. E se qualcuno di voi non può pregare, con tutto rispetto, gli chiedo che mi pensi bene e mi mandi “buona onda”. Grazie!





    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 13/07/2015 16:48

    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO
    IN OCCASIONE DELLA CONSEGNA DELLE DECORAZIONI 
    ALLA VERGINE DI COPACABANA, PATRONA DELLA BOLIVIA

    Santa Cruz de la Sierra (Bolivia)
    Venerdì, 10 luglio 2015

    [Multimedia]






     

    La mattina di venerdì 10 luglio Papa Francesco, profondamente grato per le onorificenze che il presidente dello Stato plurinazionale di Bolivia gli ha conferito, le ha lasciate, in riconoscimento della nobiltà e della pietà del popolo boliviano, alla Vergine di Copacabana, affinché, guardandole, ella si prenda cura con grande tenerezza materna di questo amato popolo e lo custodisca con lui. Durante la messa, celebrata nella cappella della residenza privata dell’arcivescovo emerito di Santa Cruz de la Sierra, il Pontefice ha donato entrambe le onorificenze e ha pronunciato le seguenti parole.

    Il Signor Presidente della Nazione, in un gesto di cordialità, ha avuto la delicatezza di offrirmi due onorificenze a nome del popolo boliviano. Ringrazio per l’affetto del popolo boliviano e ringrazio per questa finezza, questa delicatezza del Signor Presidente, e vorrei lasciare queste due onorificenze alla Patrona della Bolivia, Madre di questa nobile Nazione, affinché Ella si ricordi sempre del suo popolo e dalla Bolivia, dal suo Santuario, dove vorrei che rimanessero, si ricordi anche del Successore di Pietro e di tutta la Chiesa, e dalla Bolivia se ne prenda cura.

    Il Papa ha poi recitato la seguente preghiera.

    Madre del Salvatore, Madre nostra, tu, Regina di Bolivia, dall’alto del tuo Santuario a Copacabana, soddisfa le suppliche e i bisogni dei tuoi figli, specialmente dei più poveri e abbandonati, e li proteggi.

    Ricevi come ossequio del cuore della Bolivia e del mio affetto filiale i simboli dell’amore e della vicinanza che — a nome del Popolo boliviano — mi ha consegnato con affetto cordiale e generoso il Signor Presidente Evo Morales Ayma, in occasione di questo Viaggio Apostolico, che ho affidato alla tua sollecita intercessione.

    Ti prego affinché queste onorificenze, che lascio qui in Bolivia ai tuoi piedi, e che ricordano la nobiltà del volo del Condor nei cieli delle Ande e il commemorato sacrificio di Padre Luis Espinal, S.I., siano emblemi dell’amore perenne e della perseverante gratitudine del Popolo boliviano alla tua sollecita e forte tenerezza.

    In questo momento affido al tuo cuore le mie preghiere per tutte le richieste dei tuoi figli che ho ricevuto in questi giorni: ti supplico di ascoltarle; concedi loro il tuo incoraggiamento e la tua protezione e mostra a tutta la Bolivia la tua tenerezza di donna e di Madre di Dio, che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

     

      (ottima mossa, Santo Padre!)



    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    VISITA AL CENTRO DI RIEDUCAZIONE SANTA CRUZ - PALMASOLA

    DISCORSO DEL SANTO PADRE

    Santa Cruz de la Sierra (Bolivia)
    Venerdì, 10 luglio 2015

    [Multimedia]



     

    Cari fratelli e sorelle,

    Non potevo lasciare la Bolivia senza venire a trovarvi, senza condividere la fede e la speranza che nascono dall'amore offerto sulla croce. Grazie per avermi accolto. So che vi siete preparati e avete pregato per me. Vi ringrazio tanto.

    Nelle parole di Mons. Jesús Juárez e nelle testimonianze dei fratelli che sono intervenuti, ho potuto constatare come il dolore non è in grado di spegnere la speranza nel profondo del cuore, e che la vita continua a germogliare con forza in circostanze avverse.

    Chi c’è davanti a voi? Potreste domandarvi. Vorrei rispondere alla domanda con una certezza della mia vita, con una certezza che mi ha segnato per sempre. Quello che sta davanti a voi è un uomo perdonato. Un uomo che è stato ed è salvato dai suoi molti peccati. Ed è così che mi presento. Non ho molto da darvi o offrirvi, ma quello che ho e quello che amo, sì, voglio darvelo, voglio condividerlo: è Gesù, Gesù Cristo, la misericordia del Padre.

    Egli è venuto a mostrarci, a rendere visibile l’amore che Dio ha per noi. Per te, per te, per te, per me. Un amore attivo, reale. Un amore che ha preso sul serio la realtà dei suoi. Un amore che guarisce, perdona, rialza, cura. Un amore che si avvicina e restituisce dignità. Una dignità che possiamo perdere in molti modi e forme. Ma Gesù è un ostinato in questo: ha dato la vita per questo, per restituirci l’identità perduta. Per rivestirci con tutta la sua forza di dignità.

    Mi viene alla memoria un’esperienza che può aiutarci: Pietro e Paolo, discepoli di Gesù, sono stati anche prigionieri. Sono stati anche privati della libertà. In quella circostanza, c’è stato qualcosa che li ha sostenuti, qualcosa che non li ha lasciati cadere nella disperazione, non li ha lasciati cadere nell’oscurità che può scaturire dal non senso. E’ stata la preghiera. E’ stato pregare. Preghiera personale e comunitaria. Loro hanno pregato e per loro pregavano. Due movimenti, due azioni che insieme formano una rete che sostiene la vita e la speranza. Ci preserva dalla disperazione e ci stimola a continuare a camminare. Una rete che sostiene la vita, la vostra e quella dei vostri famigliari. Tu parlavi di tua madre [si riferisce a una testimonianza]. La preghiera delle madri, la preghiera delle mogli, la preghiera dei figli, e la vostra: questo è una rete, che porta avanti la vita.

    Perché quando Gesù entra nella vita, uno non resta imprigionato nel suo passato, ma inizia a guardare il presente in un altro modo, con un’altra speranza. Uno inizia a guardare se stesso, la propria realtà con occhi diversi. Non resta ancorato in quello che è successo, ma è in grado di piangere e lì trovare la forza di ricominciare. E se in qualche momento ci sentiamo tristi, stiamo male, abbattuti, vi invito a guardare il volto di Gesù crocifisso. Nel suo sguardo tutti possiamo trovare posto. Tutti possiamo affidare a Lui le nostre ferite, i nostri dolori, anche i nostri errori, i nostri peccati, tante cose in cui noi possiamo aver sbagliato. Nelle piaghe di Gesù, trovano posto le nostre piaghe. Perché tutti siamo piagati, in un nodo o nell’altro. E portare le nostre piaghe alle piaghe di Gesù, perché? Per essere curate, lavate, trasformate, risuscitate. Egli è morto per voi, per me, per darci la mano e sollevarci. Parlate, parlate con i sacerdoti che vengono, parlate... Parlate con i fratelli e le sorelle che vengono, parlate. Parlate con tutti quelli che vengono a parlarvi di Gesù. Gesù vuole risollevarci sempre.

    E questa certezza ci spinge a lavorare per la nostra dignità. La reclusione non è lo stesso di esclusione – che sia chiaro – perché la reclusione è parte di un processo di reinserimento nella società. Sono molti gli elementi che giocano contro di voi in questo posto – lo so bene, e tu ne hai menzionati alcuni con molta chiarezza [si riferisce a una testimonianza]-: il sovraffollamento, la lentezza della giustizia, la mancanza di terapie occupazionali e di politiche riabilitative, la violenza, la mancanza di facilitazioni per gli studi universitari… E ciò rende necessaria una rapida ed efficace alleanza fra le istituzioni per trovare risposte.

    Tuttavia, mentre si lotta per questo, non possiamo dare tutto per perso. Ci sono cose che possiamo già fare ora.

    Qui, in questo Centro di Riabilitazione, la convivenza dipende in parte da voi. La sofferenza e la privazione possonorendere il nostro cuore egoista e dar luogo a conflitti, ma abbiamo anche la capacità di trasformarle in occasione di autentica fraternità. Aiutatevi tra di voi. Non abbiate paura di aiutarvi fra di voi. Il diavolo cerca la lite, cerca la rivalità, la divisione, le fazioni. Non fate il suo gioco! Lottate per andare avanti, uniti.

    Mi piacerebbe chiedervi anche di portare i miei saluti ai vostri famigliari – alcuni sono qui. È tanto importante la presenza e l’aiuto della famiglia! I nonni, il padre, la madre, i fratelli, la moglie, i figli. Ci ricordano che vale la pena vivere e lottare per un mondo migliore.

    Infine, una parola di incoraggiamento a tutti coloro che lavorano in questo Centro: ai dirigenti, agli agenti della Polizia penitenziaria, a tutto il personale. Voi fate un servizio pubblico fondamentale. Avete un compito importante in questo processo di reinserimento. Il compito di rialzare e non di abbassare; di dare dignità e non di umiliare; di incoraggiare e non di affliggere. Un processo che chiede di abbandonare una logica di buoni e cattivi per passare a una logica centrata sull’aiutare la persona. E questa logica di aiuto alla persona vi salverà da ogni tipo di corruzione e migliorerà le condizioni per tutti. Poiché un processo vissuto così ci nobilita, ci incoraggia e ci rialza tutti.

    Prima di darvi la benedizione vorrei che pregassimo in silenzio un momento, in silenzio ciascuno nel suo cuore. Ciascuno sa come farlo...

    Per favore, vi chiedo di continuare a pregare per me, perché ho anch’io i miei errori e devo fare penitenza. Grazie.

    E che Dio nostro Padre guardi il nostro cuore. E che Dio nostro Padre che ci ama ci dia la sua forza, la sua pazienza, la sua tenerezza di Padre, ci benedica. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

    E non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    INCONTRO CON LE AUTORITÀ E CON IL CORPO DIPLOMATICO

    DISCORSO DEL SANTO PADRE

    Giardino del Palazzo de López, Asunción (Paraguay)
    Venerdì, 10 luglio 2015

    [Multimedia]


     


     

    Signor Presidente,
    Autorità della Repubblica,
    Membri del Corpo Diplomatico,
    Signore e Signori!

    Saluto cordialmente Vostra Eccellenza, Signor Presidente della Repubblica, e La ringrazio per le deferenti parole di benvenuto e di affetto che mi ha rivolto, anche a nome del Governo, delle alte Magistrature dello Stato e del caro popolo paraguaiano. Saluto anche i distinti membri del Corpo Diplomatico e, tramite loro, faccio giungere i miei sentimenti di rispetto e apprezzamento ai loro rispettivi Paesi.

    Un “grazie” speciale a tutte le persone e istituzioni che hanno collaborato con impegno e dedizione nella preparazione di questo viaggio e perché mi senta a casa. E non è difficile sentirsi a casa in questa terra così accogliente. Il Paraguay è conosciuto come il cuore dell’America, e non solo per la posizione geografica, ma anche per il calore dell’ospitalità e la vicinanza delle sue genti.

    Fin dai suoi primi passi come nazione indipendente e fino a poco tempo fa, la storia del Paraguay ha conosciuto la sofferenza terribile della guerra, dello scontro fratricida, della mancanza di libertà e della violazione dei diritti umani. Quanto dolore e quanta morte! Ma sono ammirevoli la tenacia e lo spirito di reazione del popolo paraguayano per superare le tante avversità e continuare gli sforzi per costruire una nazione prospera e pacifica. Qui – nel giardino di questo palazzo che è stato testimone della storia paraguaiana: da quando era solo la riva del fiume e lo usavano i guaranì, fino agli ultimi avvenimenti contemporanei - voglio rendere omaggio a quelle migliaia di semplici paraguaiani, i cui nomi non compariranno nei libri di storia, ma che sono stati e rimangono veri protagonisti del loro popolo. E voglio riconoscere con emozione e ammirazione il ruolo svolto dalla donna paraguaiana in quei momenti così drammatici della storia, specialmente quella guerra iniqua che portò quasi a distruggere la fraternità dei nostri popoli. Sulle loro spalle di madri, mogli e vedove hanno portato il peso più grande, sono state in grado di portare avanti le loro famiglie e il loro Paese, infondendo nelle nuove generazioni la speranza di un domani migliore. Dio benedica la donna paraguaiana, la più gloriosa d’America.

    Un popolo che dimentica il suo passato, la sua storia, le sue radici, non ha futuro, è un popolo secco. La memoria, poggiata saldamente sulla giustizia, libera da sentimenti di vendetta e di odio, trasforma il passato in fonte di ispirazione per costruire un futuro di convivenza e di armonia, rendendoci consapevoli della tragedia e dell’assurdità della guerra. Mai più guerra tra fratelli! Costruiamo sempre la pace! Anche una pace del giorno per giorno, una pace della vita quotidiana, a cui tutti partecipiamo evitando gesti arroganti, parole offensive, atteggiamenti prepotenti, e promuovendo invece la comprensione, il dialogo e la collaborazione.

    Da alcuni anni, il Paraguay è impegnato nella costruzione di un progetto democratico solido e stabile. Ed è giusto riconoscere con soddisfazione i molti progressi fatti su questa strada grazie allo sforzo di tutti, anche in mezzo a grandi difficoltà e incertezze. Vi incoraggio a continuare a lavorare con tutte le forze per consolidare le strutture e le istituzioni democratiche che rispondono alle giuste aspirazioni dei cittadini. La forma di governo adottata nella vostra Costituzione: «democrazia rappresentativa, partecipativa e pluralista», basata sulla promozione e il rispetto dei diritti umani, ci tiene lontano dalla tentazione della democrazia formale, che Aparecida definiva come quella che si accontentava di essere «fondata sulla correttezza dei processi elettorali» (Documento di Aparecida, 74). Questa è una democrazia formale.

    In tutti gli ambiti della società, ma soprattutto nell’attività pubblica, si deve potenziare il dialogo come mezzo privilegiato per favorire il bene comune, sulla base della cultura dell’incontro, del rispetto e del riconoscimento delle legittime differenze e delle opinioni degli altri. Non dobbiamo rimanere nella conflittualità; l’unità è sempre superiore al conflitto; è un esercizio interessante decantare nell’amore per la patria e nell’amore per il popolo ogni prospettiva che nasce dalle convinzioni di una scelta partigiana o ideologica. E questo stesso amore dev’essere l’impulso a crescere ogni giorno di più in gestioni trasparenti che lottino vigorosamente contro la corruzione. So che esiste oggi una ferma volontà di eliminare la corruzione.

    Cari amici, nella volontà di servizio e di lavoro per il bene comune, i poveri e i bisognosi devono occupare un posto prioritario. Si stanno compiendo molti sforzi perché il Paraguay progredisca sulla via della crescita economica. Ci sono stati passi importanti nei campi dell’istruzione e della sanità. Non si fermi tale sforzo di tutti gli attori sociali, fino a quando non ci saranno più bambini senza accesso all’istruzione, famiglie senza casa, lavoratori senza un lavoro dignitoso, contadini senza una terra da coltivare e tante persone costrette a migrare verso un futuro incerto; finché non ci saranno più vittime della violenza, della corruzione o del narcotraffico. Uno sviluppo economico che non tiene conto dei più deboli e sfortunati, non è vero sviluppo. La misura del modello economico dev’essere la dignità integrale della persona, soprattutto la persona più vulnerabile e indifesa.

    Signor Presidente, cari amici. Anche a nome dei miei fratelli Vescovi del Paraguay, desidero assicurare l’impegno e la collaborazione della Chiesa Cattolica nello sforzo comune di costruire una società equa e inclusiva, nella quale si possa vivere insieme in pace e armonia. Perché tutti, anche i Pastori della Chiesa, siamo chiamati a preoccuparci della costruzione di un mondo migliore (cfrEvangelii gaudium, 183). Ci spinge a questo la certezza della nostra fede in Dio, che ha voluto farsi uomo e, vivendo con noi, condividere la nostra sorte. Cristo ci apre la via della misericordia, che, poggiando sulla giustizia, va oltre, e illumina la carità, in modo che nessuno si tenga ai margini di questa grande famiglia che è il Paraguay, che ama e vuole servire.

    Con l’immensa gioia di trovarmi in questa terra consacrata alla Vergine di Caacupé – e voglio anche ricordare in modo speciale i miei fratelli paraguaiani di Buenos Aires, della mia diocesi precedente: essi hanno la parrocchia della Vergine dei Miracoli di Caacupé –, imploro la benedizione del Signore su tutti voi, sulle vostre famiglie e su tutto l’amato popolo paraguaiano. Che il Paraguay sia fecondo, come indica il fiore della passiflora nel manto della Vergine, e come quella cinta con i colori paraguaiani che ha l’immagine, così resti abbracciato alla Madre di Caacupé. Tante grazie!




    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    VISITA ALL'OSPEDALE GENERALE PEDIATRICO “NIÑOS DE ACOSTA ÑU”

    DISCORSO DEL SANTO PADRE

    Asunción (Paraguay)
    Sabato, 11 luglio 2015

    [Multimedia]






     

    Signor Direttore,
    cari bambini,
    membri del personale, 
    amici tutti,

    grazie per la vostra accoglienza tanto calorosa. Grazie per questo tempo che mi concedete per stare con voi.

    Cari bambini, voglio farvi una domanda, vediamo se mi aiutate. Mi hanno detto che siete molto intelligenti, per questo mi sono deciso. Gesù si è arrabbiato qualche volta? Vi ricordate quando? So che è una domanda difficile, perciò vi aiuterò. E’ stato quando impedirono che i bambini si avvicinassero a Lui. E’ l’unica volta in cui il Vangelo di Marco usa questa espressione (cfr 10,13-15). Qualcosa di simile alla nostra espressione: si riempì di rabbia. Voi, qualche volta vi siete arrabbiati? Bene, allo stesso modo fece Gesù, quando non gli permisero di stare vicino ai bambini, vicino a voi. Gli venne molta rabbia. I bambini sono tra i prediletti di Gesù. Non è che non voglia bene ai grandi, ma si sentiva felice quando poteva stare con loro. Godeva molto della loro amicizia e compagnia. Ma non solo amava averli vicino, ma anche di più. Li portava come esempio. Disse ai discepoli: «Se non … diventerete come i bambini non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3).

    I bambini stavano in disparte, i grandi non li lasciavano avvicinare, ma Gesù li chiamò, li abbracciò e li pose in mezzo perché tutti imparassimo a essere come loro. Oggi direbbe la stessa cosa a noi. Ci guarda e dice: imparate da loro. Dobbiamo imparare da voi, dalla vostra fiducia, gioia, tenerezza. Dalla vostra capacità di lotta, dalla vostra fortezza. Dalla vostra imbattibile capacità di resistenza. Sono veri lottatori! Vero mamme? Vero papà e nonni? Vedere voi, ci dà forza, ci dà forza per avere fiducia, per andare avanti.

    Mamme, papà, nonni, so che non è per niente facile stare qui. Ci sono momenti di grande dolore, di incertezza. Ci sono momenti di angoscia forte che opprime il cuore e ci sono momenti di grande gioia. I due sentimenti convivono, sono dentro di noi. Ma non c’è miglior rimedio che la vostra tenerezza, la vostra vicinanza. E mi dà gioia sapere che tra voi famiglie vi aiutate, vi stimolate, vi sostenete a vicenda per andare avanti e attraversare questo momento.

    Potete contare sull’appoggio dei medici, degli infermieri e di tutto il personale di questa casa. Grazie per questa vocazione di servizio, di aiutare non solo a curare ma ad accompagnare il dolore dei vostri fratelli.

    Non dimentichiamolo: Gesù sta vicino ai suoi figli. Sta bene vicino, nel cuore. Non esitate a pregarlo, non esitate a parlare con Lui, a condividere le vostre domande, i dolori. Lui c’è sempre, ma sempre, e non vi lascerà cadere.

    E di una cosa siamo sicuri e ancora una volta lo confermo. Dove c’è un bambino c’è la madre. Dove c’è Gesù c’è Maria, la Vergine di Caacupe. Chiediamo a Lei che vi protegga col suo manto, che interceda per voi e le vostre famiglie.

    E non dimenticatevi di pregare per me. Sono sicuro che le vostre preghiere arrivano al cielo.



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 13/07/2015 17:01

    VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
    IN ECUADOR, BOLIVIA E PARAGUAY 

    (5-13 LUGLIO 2015)

    SANTA MESSA

    OMELIA DEL SANTO PADRE

    Campo Grande di Ñu Guazú, Asunción (Paraguay)
    Domenica, 12 luglio 2015

    [Multimedia]


     

    “Il Signore ci darà la pioggia e la nostra terra darà il suo frutto”, così dice il Salmo (cfr 84,13). Questo siamo invitati a celebrare, quella misteriosa comunione tra Dio e il suo Popolo, tra Dio e noi. La pioggia è segno della sua presenza nella terra lavorata dalle nostre mani. Una comunione che dà sempre frutto, dà sempre vita. Questa fiducia scaturisce dalla fede, sapere che possiamo contare sulla sua grazia, che sempre trasformerà e irrigherà la nostra terra.

    Una fiducia che si impara, che si educa. Una fiducia che si va formando nel seno di una comunità, nella vita di una famiglia. Una fiducia che diventa testimonianza nei volti di tanti che ci stimolano a seguire Gesù, ad essere discepoli di Colui che non delude mai. Il discepolo si sente invitato a fidarsi, si sente invitato da Gesù ad essergli amico, a condividere il suo destino, a condividere la sua vita. «Non vi chiamo più servi, vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv15,15). I discepoli sono coloro che imparano a vivere nella fiducia dell’amicizia di Gesù.

    E il Vangelo ci parla di questo discepolato. Ci presenta la carta d’identità del cristiano. La sua lettera di presentazione, le sue credenziali.

    Gesù chiama i suoi discepoli e li invia dando loro regole chiare, precise. Li sfida con una serie di atteggiamenti, comportamenti che devono avere. Non sono poche le volte che ci possono sembrare esagerati o assurdi; atteggiamenti che sarebbe più facile leggere simbolicamente o “spiritualmente”. Ma Gesù è molto chiaro. Non dice loro: «Fate in qualche modo» o «fate quello che potete».

    Ricordiamo insieme queste raccomandazioni: “Non prendete per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, ne denaro… rimanete nella casa dove vi daranno alloggio” (cfr Mc 6,8-11). Sembrerebbe qualcosa di impossibile.

    Potremmo concentrarci sulle parole «pane», «denaro», «borsa», «bastone», «sandali», «tunica». E sarebbe legittimo. Ma mi sembra che ci sia una parola-chiave, che potrebbe passare inosservata di fronte all’impatto di quelle che ho appena enumerato. Una parola centrale nella spiritualità cristiana, nell’esperienza di discepolato: ospitalità. Gesù, come buon maestro, pedagogo, li invia a vivere l’ospitalità. Dice loro: “Rimanete dove vi accoglieranno”. Li manda ad imparare una delle caratteristiche fondamentali della comunità credente. Potremmo dire che il cristiano è colui che ha imparato ad ospitare, che ha imparato ad accogliere.

    Gesù non li invia come potenti, come proprietari, capi, o carichi di leggi e di norme; al contrario, indica loro che il cammino del cristiano è semplicemente trasformare il cuore, il proprio, e aiutare a trasformare quello degli altri. Imparare a vivere in un altro modo, con un’altra legge, sotto un’altra normativa. E’ passare dalla logica dell’egoismo, della chiusura, dello scontro, della divisione, della superiorità, alla logica della vita, della gratuità, dell’amore. Dalla logica del dominio, dell’oppressione, della manipolazione, alla logica dell’accogliere, del ricevere e del prendersi cura.

    Sono due le logiche che sono in gioco, due modi di affrontare la vita e di affrontare la missione.

    Quante volte pensiamo la missione sulla base di progetti o programmi. Quante volte immaginiamo l’evangelizzazione intorno a migliaia di strategie, tattiche, manovre, trucchi, cercando di convertire le persone con le nostre argomentazioni. Oggi il Signore ce lo dice molto chiaramente: nella logica del Vangelo non si convince con le argomentazioni, le strategie, le tattiche, ma semplicemente imparando ad accogliere, a ospitare.

    La Chiesa è madre dal cuore aperto che sa accogliere, ricevere, specialmente chi ha bisogno di maggiore cura, chi è in maggiore difficoltà. La Chiesa, come la voleva Gesù, è la casa dell’ospitalità. E quanto bene possiamo fare se ci incoraggiamo ad imparare questo linguaggio dell’ospitalità, questo linguaggio del ricevere, dell’accogliere! Quante ferite, quanta disperazione si può curare in una dimora dove uno possa sentirsi accolto! Per questo bisogna tenere le porte aperte, soprattutto le porte del cuore.

    Ospitalità con l’affamato, con l’assetato, con lo straniero, con il nudo, con il malato, con il prigioniero (cfr Mt 25,34-37), con il lebbroso, con il paralitico. Ospitalità con chi non la pensa come noi, con chi non ha fede o l’ha perduta, e magari per colpa nostra. Ospitalità con il perseguitato, con il disoccupato. Ospitalità con le culture diverse, di cui questa terra paraguaiana è così ricca. Ospitalità con il peccatore, perché ognuno di noi pure lo è.

    Tante volte ci dimentichiamo che c’è un male che precede i nostri peccati, che viene prima. C’è una radice che causa tanti ma tanti danni, che distrugge silenziosamente tante vite. C'è un male che, poco a poco, si fa un nido nel nostro cuore e “mangia” la nostra vitalità: la solitudine. Solitudine che può avere molte cause, molti motivi. Quanto distrugge la vita e quanto ci fa male! Ci separa dagli altri, da Dio, dalla comunità. Ci rinchiude in noi stessi. Perciò quello che è proprio della Chiesa, di questa madre, non è principalmente gestire cose, progetti, ma imparare a vivere la fraternità con gli altri. È la fraternità accogliente la migliore testimonianza che Dio è Padre, perché «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv13,35).

    In questo modo Gesù, ci apre ad una nuova logica. Un orizzonte pieno di vita, di bellezza, di verità, di pienezza.

    Dio non chiude mai gli orizzonti, Dio non è mai passivo di fronte alla vita, non è mai passivo di fronte alla sofferenza dei suoi figli. Dio non si lascia mai vincere in generosità. Per questo ci manda il suo Figlio, lo dona, lo consegna, lo condivide; affinché impariamo il cammino della fraternità, il cammino del dono. È definitivamente un nuovo orizzonte, è una nuova parola per tante situazioni di esclusione, di disgregazione, di chiusura, di isolamento. È una Parola che rompe il silenzio della solitudine.

    E quando siamo stanchi o ci diventa pesante il compito di evangelizzare, è bene ricordare che la vita che Gesù ci offre risponde alle necessità più profonde delle persone, perché tutti siamo stati creati per l’amicizia con Gesù e per l’amore fraterno (cfr Esort. ap.Evangelii gaudium, 265).

    Una cosa è certa: non possiamo obbligare nessuno a riceverci, ad ospitarci; è certo ed è parte della nostra povertà e della nostra libertà. Ma è altrettanto certo che nessuno può obbligarci a non essere accoglienti, ospitali verso la vita del nostro popolo. Nessuno può chiederci di non accogliere e abbracciare la vita dei nostri fratelli, soprattutto la vita di quelli che hanno perso la speranza e il gusto di vivere. Com’è bello immaginare le nostre parrocchie, comunità, cappelle, dove ci sono i cristiani, non con le porte chiuse, ma come veri centri di incontro tra noi e Dio. Come luoghi di ospitalità e di accoglienza.

    La Chiesa è madre, come Maria. In lei abbiamo un modello. Accogliere, come Maria, che non ha dominato né si è impadronita della Parola di Dio, ma, al contrario, l’ha ospitata,l’ha portata in grembo e l’ha donata.

    Accogliere come la terra che non domina il seme, ma lo riceve, lo nutre e lo fa germogliare.

    Così vogliamo essere noi cristiani, così vogliamo vivere la fede in questo suolo paraguaiano, come Maria, accogliendo la vita di Dio nei nostri fratelli con fiducia, con la certezza che “il Signore ci darà la pioggia e la nostra terra darà il suo frutto”. Così sia.






    ANGELUS

    Campo Grande di Ñu Guazú 
    Domenica, 12 luglio 2015

    [Multimedia]


     

    Ringrazio l’Arcivescovo di Asunción, Mons. Edmundo Ponziano Valenzuela Mellid, e l’Arcivescovo [ortodosso] del Sudamerica, Tarasios, per le cortesi parole.

    Al termine di questa celebrazione rivolgiamo il nostro sguardo fiducioso alla Vergine Maria, Madre di Dio e Madre nostra. Ella è il dono di Gesù al suo popolo. Ce l’ha data come madre nell’ora della croce e della sofferenza. È frutto dell’oblazione di Cristo per noi. E, da allora, è sempre stata e sempre sarà con i suoi figli, specialmente i più piccoli e bisognosi. Lei è entrata nella trama della storia dei nostri popoli e delle loro genti. Come in molti altri Paesi dell’America Latina, la fede dei paraguaiani è impregnata di amore alla Vergine. Andate con fiducia dalla vostra madre, le aprite il vostro cuore, e le confidate le vostre gioie e i vostri dolori, le vostre speranze e le vostre sofferenze. La Vergine vi consola e con la tenerezza del suo amore accende in voi la speranza. Non cessate di invocare Maria e di confidare in lei, madre di misericordia per tutti i suoi figli senza distinzione.

    Alla Vergine, che perseverò con gli Apostoli in attesa dello Spirito Santo (cfr At 1,13-14), chiedo anche che vegli sulla Chiesa e rafforzi i vincoli fraterni tra tutti i suoi membri. Con l’aiuto di Maria, la Chiesa sia casa di tutti, una casa che sappia ospitare, una madre per tutti i popoli.

    Cari fratelli, vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me. So molto bene quanto si ama il Papa in Paraguay. Anch’io vi porto nel mio cuore e prego per voi e per il vostro Paese.

    Ed ora vi invito a recitare l’Angelus alla Vergine.

    BENEDIZIONE: Il Signore vi benedica e vi protegga; faccia risplendere il suo volto su di voi e vi conceda la sua misericordia; volga il suo sguardo su di voi e vi conceda pace. E la benedizione di Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo discenda su di voi e con voi rimanga sempre.





    il Papa di ritorno a Roma ha portato le rose per ringraziare Maria, la Salus Populi Romani per il viaggio....




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)