DIFENDERE LA VERA FEDE

Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: due VERI AMICI

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    Caterina63
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    00 27/11/2008 08:43


    Tratto da Zenit.org del /5/2005 /spanish/visualizza.phtml?sid=70353 - Codice: ZS05050411

    Pubblichiamo la conferenza "Le quattordici encicliche del Santo Padre Giovanni Paolo II", pronunciata dal Cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, al convegno organizzato dalla Pontificia Università Lateranense dedicato ai venticinque anni del pontificato, il 9 maggio 2003.

    Traduzione dallo spagnolo di Totus tuus network – Ω Nessun diritto riservato – Riproduzione raccomandata......

    * * *

    Sarebbe assurdo pensare che in mezz’ora si possa parlare delle quattordici encicliche del Nostro Santo Padre. Bisognerebbe esaminarle ciascuna dettagliatamente per poter capire la struttura dell’insieme e per captare i loro temi centrali e la linea del loro insegnamento. In mezz’ora si può solo proporre una panoramica approssimativa e superficiale. La scelta dei punti che sottolineiamo è necessariamente unilaterale e potrebbe essere fatta anche in modo diverso. Inoltre, una valutazione congiunta dovrebbe anche includere gli altri testi magisteriali del Papa, che spesso sono di grande trascendenza ed appartengono senza dubbio all’insieme delle affermazioni dottrinali del Santo Padre.

    Detto ciò, le encicliche devono essere divise per gruppi di tematiche affini. Conviene anzitutto ricordare il trittico trinitario degli anni 1979-1986, che comprende le encicliche "Redemptor hominis", "Dives in misericordia" e "Dominum et vivificantem".

    Alla decade 1981-1991 appartengono le tre encicliche sociali: "Laborem exercens", "Sollicitudo rei socialis" e "Centesimus annus". Ci sono poi le encicliche che trattano temi di ecclesiologia: "Slavorum apostoli" (1985), "Redemptoris missio" (1990) e "Ut unum sint" (1995). Nell’ambito ecclesiologico si può anche collocare l’ultima – ad ora – enciclica del Papa: "Ecclesia de Eucharistia" (2003), così come, in un certo senso, anche l’enciclica mariana "Redemptoris Mater" (1987).

    Già nella sua prima enciclica il Papa aveva unito intimamente i temi della madre Chiesa e della Madre della Chiesa, allargandoli all’ambito storico-teologico e pneumatologico: "Supplico soprattutto Maria, la celeste Madre della Chiesa, affinché si degni in questa preghiera del nuovo Avvento dell'umanità di perseverare con noi che formiamo la Chiesa, cioè il Corpo mistico del suo Figlio unigenito.

    Io spero che, grazie a tale preghiera, potremo ricevere lo Spirito Santo che scende su di noi e divenire in questo modo testimoni di Cristo ‘fino agli estremi confini della terra’" ("Redemptor hominis", 22). Nella mariologia, per il Papa, si incontrano tutti i grandi temi della fede: non c’è enciclica che non si concluda con un riferimento alla Madre del Signore. Infine, abbiamo tre grandi testi dottrinali, che possono essere collocati nell’ambito antropologico: "Veritatis splendor" (1993), "Evangelium vitae" (1995) e "Fides et ratio" (1998).

    La prima enciclica "Redemptor hominis", è la più personale, il punto di partenza di tutte le altre. Sarebbe facile dimostrare che tutti i temi successivi si trovano anticipati in essa: il tema della verità ed il vincolo tra verità e libertà viene affrontato secondo tutta l’importanza che ha, in un mondo che vuole libertà ma considera la verità una pretesa e il contrario della libertà.

    Lo zelo ecumenico del Papa si può già apprezzare in questo primo grande testo magisteriale. I principali tratti dell’enciclica eucaristica – Eucarestia e sacrificio, sacrificio e redenzione, Eucarestia e penitenza – sono già esposti nelle loro grandi linee. L’imperativo "non ucciderai", che è il grande tema della "Evangelium vitae", è annunciato con grande forza al mondo. Come abbiamo visto, l’orientamento del cristiano verso il futuro, tipica del Papa, è in relazione con il tema mariano.

    Per il Papa, il vincolo tra la Chiesa e Cristo non è un vincolo con il passato, un orientamento all’indietro, bensì il vincolo tra di chi è e da’ futuro, che invita la Chiesa ad aprirsi ad un nuovo periodo della sua fede. Il suo impegno personale, la sua speranza, ma anche il suo profondo desiderio che il Signore ci conceda un nuovo presente di fede e di pienezza di vita, una nuova Pentecoste, risulta evidente quando, quasi come un’esplosione, prorompe in un’invocazione: "la Chiesa del nostro tempo sembra ripetere con sempre maggiore fervore e con santa insistenza: "Vieni, o Santo Spirito!". Vieni! Vieni!" ("Redemptor hominis", 1Cool.

    Tutti questi temi che, come abbiamo già detto, anticipano tutta l’opera magisteriale del Papa, sono collegati da una visione la cui direzione fondamentale dobbiamo cercare di descrivere. In occasione degli Esercizi che, come cardinale arcivescovo di Cracovia, predicò nel 1976 a Paolo VI e alla Curia romana, spiegava che gli intellettuali cattolici polacchi, nei primi anni del dopoguerra, avevano inizialmente cercato di confutare - contro il materialismo marxista già divenuto dottrina ufficiale – il valore assoluto della materia.

    Ma il centro del dibattito si spostò subito: non versava già più sulle basi filosofiche delle scienze naturali (benché questo tema mantenesse sempre la sua importanza), ma sull’antropologia. Il nucleo della discussione divenne: cos’è l’uomo? La questione antropologica non è una teoria filosofica sull’uomo; ha un carattere esistenziale.

    La questione della Redenzione soggiace a tale questione. Come può vivere l’uomo? Chi ha la risposta sull’uomo? Una questione molto concreta: chi può insegnarci a vivere, il materialismo, il marxismo o il cristianesimo?

    Così, la questione antropologica è una questione scientifica e razionale ma, al contempo, è anche una questione pastorale: come possiamo mostrare agli uomini la strada che porta alla vita e aiutare anche i non credenti a capire che i loro interrogativi sono anche i nostri e che, di fronte al dilemma dell’uomo di ieri e di oggi, Pietro aveva ragione quando disse al Signore: "Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna" (Gv 6,6Cool. Filosofia, pastorale e fede della Chiesa si fondono in questa tensione antropologica.

    Nella sua prima enciclica, "Redemptor hominis", Giovanni Paolo II ha riassunto, per così dire, i frutti del cammino percorso fin da allora in qualità di pastore della Chiesa e di pensatore del nostro tempo. Quella prima enciclica gravita attorno alla questione dell’uomo. L’espressione: "L’uomo […] è la prima fondamentale via della Chiesa" (Ib., 14) è diventata quasi un lemma.

    Tuttavia, citandola, ci dimentichiamo spesso che poco prima il Papa aveva detto: "Gesù Cristo è la via principale della Chiesa. Egli stesso è la nostra via "alla casa del Padre", ed è anche la via a ciascun uomo" (Ib., 13). Di conseguenza, anche la formula dell’uomo come prima via della Chiesa, prosegue così: "via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell'Incarnazione e della Redenzione" (Ib., 14).

    Per il Papa, antropologia e cristologia sono inseparabili. Proprio Cristo ci ha rivelato cos’è l’uomo e dove deve andare per trovare la vita. Questo Cristo non è solo un modello dell’esistenza umana, un esempio di come si deve vivere, ma "si è unito in certo modo ad ogni uomo" (Ibid.). Cristo tocca la nostra interiorità, la radice della nostra esistenza, trasformandosi così, dall’interiorità, nella via per ogni uomo. Rompe l’isolamento dell’io; è garanzia della dignità indistruttibile di ogni persona e, nello stesso tempo, è Colui che supera l’individualismo in una comunicazione alla quale aspira tutta la natura dell’uomo.

    Per il Papa, l’antropocentrismo è allo stesso tempo cristocentrismo e viceversa. Contro l’opinione secondo la quale solo attraverso le forme primitive dell’essere umano (partendo dal basso, per dirla così) si può spiegare cos’è l’uomo, il Papa sostiene che solamente partendo dall’uomo perfetto si può capire cos’è l’uomo: e da questo punto di vista si può intravedere la via dell’essere umano.

    continua................
    [Modificato da Caterina63 17/01/2011 19:06]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 27/11/2008 08:44
    A questo proposito, avrebbe potuto far riferimento a […] che diceva: "La soluzione scientifica del problema umano non deriva esclusivamente dallo studio dei fossili, ma da un’attenta osservazione delle caratteristiche e delle possibilità dell’uomo di oggi, che determineranno l’uomo di domani".

    Naturalmente, Giovanni Paolo II va molto oltre questa diagnosi: in definitiva, possiamo capire cos’è l’uomo solo guardando a Colui che realizza pienamente la natura dell’uomo, che è immagine di Dio, il Figlio di Dio, Dio da Dio e Luce da Luce. Ciò corrisponde perfettamente all’orientamento intrinseco della prima enciclica, la quale, nel successivo Magistero pontificio, si è sviluppata formando, congiuntamente ad altre due encicliche, il trittico trinitario. La questione dell’uomo non si può disgiungere dalla questione di Dio. La tesi di Guardini, secondo la quale conosce l’uomo soltanto chi conosce Dio, trova una chiara conferma in questa fusione dell’antropologia con la questione di Dio.

    Diamo ora uno sguardo alle altre due tavole del trittico trinitario.

    Il tema di Dio Padre sembra velato, per così dire, in primo luogo sotto il titolo "Dives in misericordia".

    Si può credere che l’idea di trattare questa tematica sia venuta al papa dalla religiosa di Cracovia Faustina Kowalska, che successivamente ha elevato all'onore degli altari. Mettere al centro della fede e della vita cristiana la misericordia di Dio è stato il grande desiderio di questa santa donna. Con la forza della sua vita spirituale, ella pose in risalto la novità del cristianesimo proprio nel nostro tempo, segnato dall’irreligiosità delle sue ideologie. Basta ricordare che Seneca, un pensatore del mondo romano per molti aspetti piuttosto vicino al cristianesimo, disse una volta: "La compassione è una debolezza, una malattia". Mille anni dopo, san Bernardo di Chiaravalle, con lo spirito dei Santi Padri, trovò la mirabile formula: "Dio non può patire, ma può compatire".

    Ritengo molto indovinato che il Santo Padre abbia centrato la sua enciclica su Dio Padre sul tema della misericordia divina. Il primo sottotitolo dell’enciclica è: "Chi vede me, vede il Padre" (Gv 14, 9). Vedere Cristo significa vedere il Dio misericordioso. Conviene sottolineare che in questa enciclica la digressione sulla terminologia biblica della misericordia divina nell'Antico Testamento occupa niente meno che tre pagine. In essa si spiega anche la parola "rahamin", che proviene dal termine "rehem" (ventre materno) e conferisce alla misericordia di Dio i tratti dell’amore materno.

    L’altro punto centrale dell’enciclica è la sua profonda interpretazione della parabola del Figliol Prodigo, nella quale l’immagine del padre risplende in tutta la sua grandezza e bellezza.

    Voglio anche dedicare poche parole all’Enciclica sullo Spirito Santo, nella quale si tratta il tema della verità e della coscienza. Secondo il Papa l’autentico dono dello Spirito Santo è "il dono della verità della coscienza e il dono della certezza della redenzione" ("Dominum et vivificantem", 31).

    Pertanto, nella radice del peccato c’è la menzogna, il rifiuto della verità.

    "La ‘disobbedienza’, come dimensione originaria del peccato, significa rifiuto di questa fonte, per la pretesa dell'uomo di diventare fonte autonoma ed esclusiva nel decidere del bene e del male" (Ib., 36). La prospettiva fondamentale dell’enciclica "Veritatis splendor" appare qui già molto chiaramente. E’ evidente che il Papa, proprio nell’enciclica sullo Spirito Santo, non si ferma nella diagnosi della nostra situazione di pericolo, bensì effettua tale diagnosi per preparare il cammino alla terapia. Nella conversione, l’affanno della coscienza si trasforma in amore che sana, che sa soffrire: "Il dispensatore nascosto di questa forza salvatrice è lo Spirito Santo" (Ib., 45).

    Ho ampiamente commentato – forse troppo ampiamente – il trittico trinitario, perché contiene tutto il programma delle encicliche successive e le mette in relazione con la fede in Dio. Ora non avrò altra scelta che limitarmi ad alcuni tratti schematici delle altre encicliche.

    Le tre grandi encicliche sociali applicano l’antropologia del Papa alla problematica sociale del nostro tempo. Giovanni Paolo II sottolinea il primato dell’uomo sui mezzi di produzione, il primato del lavoro sul capitale ed il primato dell’etica sulla tecnica. Al centro c’è la dignità dell’uomo, che è sempre un fine e giammai un mezzo. A partire da qui si chiariscono le grandi questioni attuali della problematica sociale in contrapposizione critica tanto con il marxismo che con il liberalismo.

    Le encicliche ecclesiologiche meriterebbero una profonda riflessione, che qui non posso fare. "Ecclesia de Eucharistia" considera la Chiesa dal di dentro e dall’alto, e coglie così la sua capacità di creare comunione; "Redemptoris Mater" tratta della prefigurazione della Chiesa in Maria e del mistero della sua maternità; la altre tre encicliche di questo gruppo presentano i due grandi ambiti relazionali nei quali vive la Chiesa: il dialogo ecumenico - come ricerca dell’unità dei battezzati in obbedienza al mandato del Signore, secondo la logica intrinseca della fede, che è stata inviata al mondo da Dio come forza d’unità – è il primo ambito relazionale che il papa, con tutta la forza del suo zelo ecumenico, introduce nella coscienza della Chiesa con la "Ut unum sint".

    Anche la "Slavorum apostoli" è un testo ecumenico di particolare bellezza. Da una parte si colloca nella relazione tra Oriente e Occidente; dall’altra, mostra il vincolo tra la fede e la cultura, e la capacità che ha la fede di creare cultura poiché giunge al fondo e sperimenta una nuova dimensione dell’unità.

    L’altro ambito relazionale riguarda gli uomini che professano religioni non cristiane o vivono senza religione, per annunciare loro Gesù, del quale Pietro disse ai farisei: "In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (Atti 4,12). Nella "Redemptoris missio" il Papa spiega la relazione tra il dialogo e l’annuncio. Mostra che la missione, l’annuncio di Cristo a tutti quelli che non lo conoscono, continua ad essere sempre un obbligo, poiché ogni uomo spera nel suo interiore in Colui che è nello stesso tempo Dio e uomo, nel "Redentore dell’uomo".

    Vediamo, infine, le tre grandi encicliche nelle quali la tematica antropologica si sviluppa sotto diversi aspetti.

    La "Veritatis splendor" non solo affronta la crisi interna della teologia morale nella Chiesa, ma appartiene al dibattito etico di dimensioni mondiali che oggi è divenuto una questione di vita o di morte per l’umanità.

    Contro una teologia morale che nel secolo XIX si era ridotta in modo sempre più preoccupante a casuistica, già nei decenni anteriori al Concilio si era messo in moto un deciso movimento di opposizione. La dottrina morale cristiana si sarebbe dovuta formulare nuovamente dalla sua grande prospettiva positiva a partire dal nucleo della fede, senza considerarla come un elenco di proibizioni.

    L’idea dell’imitazione di Cristo e il principio dell’amore si svilupparono quali direttrici fondamentali a partire da cui avrebbero potuto organizzarsi i diversi elementi della dottrina. La volontà di lasciarsi ispirare dalla fede come nuova luce che rende trasparente la dottrina morale aveva portato ad allontanarsi dalla versione giusnaturalista della morale in favore di una costruzione di taglio biblico e storico-salvifico.

    Il Concilio Vaticano II aveva confermato e riaffermato queste messe a fuoco. Ma l’intenzione di costruire una morale puramente biblica risultò impossibile di fronte alle domande concrete dell’epoca. Il puro biblicismo, precisamente nella teologia morale, non è un percorso possibile. Così, in modo sorprendentemente rapido, dopo una breve fase nella quale si cercò di dare alla teologia morale un’ispirazione biblica, si cercò una spiegazione puramente razionale dell’ethos, ma il ritorno al pensiero giusnaturalista risultò impossibile; la corrente antimetafisica, che talvolta aveva contribuito all’intenzione biblicista, faceva sì che il diritto naturale sembrasse un modello antiquato ed inadeguato.

    Si restò alla mercé di una razionalità positivista che non riconosceva più il bene in quanto tale. "Il bene è sempre – diceva allora un teologo morale – solo meglio di…": il calcolo delle conseguenze restava il criterio. Morale è ciò che sembra più positivo, tenendo conto delle conseguenze prevedibili. Non sempre il consequenzialismo fu applicato in modo così radicale. Ma alla fine si giunse ad una costruzione tale da dissolvere quanto è morale, poiché il bene in quanto tale non esiste. Per quel tipo di razionalità neppure la Bibbia ha qualcosa da dire. La Sacra Bibbia può dare motivazioni, ma non contenuti.

    Ma se le cose stessero così, il cristianesimo come "via" – quale dovrebbe e vorrebbe essere – avrebbe un esito disastroso. E se prima, dall’ortodossia si era giunti all’ortoprassi, ora l’ortoprassi si trasforma in una tragica ironia: perché in fondo non esiste.

    Il Papa, al contrario, tornò con grande decisione a dare legittimità alla prospettiva metafisica, che è solo una conseguenza della fede nella creazione. Una volta di più, partendo dalla fede nella creazione, riesce a collegare e fondere l’antropocentrismo e il teocentrismo: "la ragione trae la sua verità e la sua autorità dalla legge eterna, che non è altro che la stessa sapienza divina.
    […] La legge naturale infatti, […] altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio" " ("Veritatis splendor", 40).

    Proprio perché il Papa è favorevole alla metafisica in virtù della fede nella creazione può anche comprendere la Bibbia come Parola presente, unire la costruzione metafisica e biblica dell’ethos. Una perla dell’enciclica, significativa tanto filosoficamente che teologicamente, è il grande passaggio sul martirio. Se non c’è più nulla per cui valga la pena di morire, allora anche la vita risulta vuota. Solo se esiste il bene assoluto, per il quale vale la pena di morire, ed il male eterno che mai si trasforma in bene, l’uomo è confermato nella sua dignità e ci troviamo protetti dalla dittatura delle ideologie.

    Questo punto è fondamentale anche per l’enciclica "Evangelium vitae", che il Papa ha scritto dietro richiesta pressante dell’Episcopato mondiale, ma che è anche espressione della sua appassionata lotta per il rispetto assoluto della dignità della vita umana.

    La vita umana, quando è trattata come mera realtà biologica, si trasforma in oggetto del calcolo delle conseguenze. Ma il Papa, con la fede della Chiesa, vede l’immagine di Dio nell’uomo, in ogni uomo, sia piccolo o grande, sia debole o forte, sia utile o sembri inutile. Cristo, il Figlio dello stesso Dio fatto uomo, è morto per ogni uomo. Ciò conferisce ad ogni uomo un valore infinito, una dignità assolutamente intoccabile.

    Proprio perché nell’uomo c’è qualcosa in più di mero "bios", anche la sua vita biologica risulta di infinito valore. Non rimane a disposizione di chiunque perché è rivestita della dignità di Dio. Non ci sono conseguenze, per quanto nobili siano, che possano giustificare esperimenti sull’uomo.

    Dopo tutte le crudeli esperienze di abuso dell’uomo, benché le motivazioni possano sembrare molto elevate dal punto di vista morale, tali parole erano e sono necessarie. Risulta evidente che la fede è la difesa dell’umanità. Nella situazione di ignoranza metafisica in cui ci troviamo, e che a sua volta diviene atrofia morale, la fede si mostra come l’umano che salva. Il Papa, come portavoce della fede, difende l’uomo da una morale che minaccia di schiacciarlo.

    Per ultima, dobbiamo considerare la grande enciclica "Fides et ratio", sulla fede e la filosofia. Il tema della verità, che segna tutta l’opera magisteriale del Santo Padre, si sviluppa qua in tutta la sua drammaticità. Affermare la conoscibilità della verità, ossia annunciare il messaggio cristiano come verità riconosciuta, è cosa che oggi viene vista come un attacco alla tolleranza e al pluralismo. Anche verità si trasforma in un termine proibito.

    Ma proprio qui entra in gioco, ancora una volta, la dignità dell’uomo. Se l’uomo non è capace di giungere alla verità, allora tutto ciò che pensa e fa è puro convenzionalismo, mera tradizione. Come abbiamo visto, non gli resta che il calcolo delle conseguenze. Ma chi può realmente abbracciare con lo sguardo le conseguenze delle azioni umane? Se così è, tutte le religioni sono solo tradizioni, e naturalmente anche l’annuncio della fede cristiana è una pretesa colonialista o imperialista.

    Il cristianesimo non è in contraddizione con la dignità dell’uomo unicamente se le fede è verità, perché non danneggia nessuno; ancora più, è il bene quel che dobbiamo ripeterci continuamente. Come risultato delle grandi scoperte nell’ambito delle scienze naturali e della tecnica, la ragione ha perso valore davanti ai grandi interrogativi dell’uomo: su Dio, sulla morte, sull’eternità, sulla vita morale.

    Il positivismo si stende sull’occhio interiore dell’uomo come una cateratta. Ma se questi interrogativi, che alla fine sono decisivi per la nostra vita, restano relegati all’ambito della pura soggettività e, pertanto, in definitiva, dell’arbitrarietà, siamo divenuti ciechi per quanto concerne la nostra realtà di uomini.

    Partendo dalla fede, il Papa chiede alla ragione che abbia il coraggio di riconoscere le verità fondamentali.

    Se la fede non ha la luce della ragione, si riduce a pura tradizione, e con ciò dichiara la sua profonda arbitrarietà. La fede non ha bisogno del coraggio della ragione per se stessa. Non è contro essa, ma la spinge a pretendere da se le grandi cose per le quali è stata creata. Sapere aude: con questo imperativo Kant descrisse la natura dell’illuminismo.

    Si potrebbe dire che il Papa fa appello in un modo nuovo a una ragione divenuta metafisicamente pusillanime: Sapere aude! Pretendi da te stessa di poter fare grandi cose. A ciò sei destinata. La fede – così ci dice il Papa – non vuole fare in modo di tacitare la ragione, ma la vuole liberare dal velo della cateratta che, di fronte ai grandi interrogativi dell’umanità, è ampiamente distesa su di essa.

    Una volta di più, si vede che la fede difende l’uomo nella sua realtà di essere umano. Josef Pieper una volta ha espresso questo pensiero: "Nell’epoca finale della storia, sotto la signoria della sofistica e di una pseudo filosofia corrotta, la vera filosofia si potrà unire nell’unità primordiale con la teologia" ed affermò che così, alla fine della storia, "la radice di tutte le cose e il senso ultimo dell’esistenza – che vuol dire: l’oggetto specifico della filosofia – sarà visto e considerato solo da quanti credono".

    Orbene, noi non siamo, nella misura in cui si può sapere, alla fine della storia. Ma corriamo il pericolo di negare alla ragione la sua autentica grandezza. E il Papa considera, giustamente, che la fede è chiamata a spingere la ragione ad avere nuovamente il coraggio della verità. Senza la ragione la fede rovina, senza la fede la ragione corre il rischio di atrofizzarsi, E’ in gioco l’uomo. Ma perché l’uomo sia redento c’è bisogno del Redentore. Abbiamo bisogno di Cristo, uomo, che è uomo e Dio, "senza confusione né divisione" in unica persona, "Redemptor hominis".

    *********

    [SM=g27985]
    [Modificato da Caterina63 17/01/2011 19:06]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 27/11/2008 08:48




    Scrisse così Giovanni Paolo II
    Ricordo, in particolare, l'allora giovanissimo professor Ratzinger. Accompagnava al Concilio il cardinale Joseph Frings, arcivescovo di Colonia, in qualità di esperto di teologia. Fu successivamente nominato arcivescovo di Monaco da papa Paolo VI, che lo creò cardinale, e partecipò al Conclave che mi affidò il ministero petrino. Quando morì il cardinale Franjo Seper, gli chiesi di succedergli nell'incarico di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Rendo grazie a Dio per la presenza e l'aiuto del cardinale Ratzinger, che è un amico fidato


    (Giovanni Paolo II, "Alzatevi, andiamo!", Mondadori 2004)

    [SM=g27985]

    SE AMATE VERAMENTE GIOVANNI PAOLO II NON GRIDATE "SANTO SUBITO" E POI NON APPLICATE IL SUO MAGISTERO.....E' UNA OFFESA ALLA SUA VERA SANTITA'....

    Romani 16:17-18 - Or io vi esorto, fratelli, a guardarvi da quelli che fomentano le divisioni e gli scandali contro la dottrina che avete appreso, e ritiratevi da loro; costoro infatti non servono il nostro Signore Gesù Cristo ma il proprio ventre, (cioè il loro proprio interesse) e con dolce e lusinghevole parlare seducono i cuori dei semplici.

    ...........



    IL GUERRIERO SCONFITTO DALLA STORIA

    Marcello Veneziani

    3 aprile 2005


    Tutti vi parlano e più vi parleranno del Grande Papa e della Grande Impronta che ha lasciato sul mondo e sulla storia del nostro tempo. Tutti vi raccontano e vi racconteranno le sue grandi imprese, i suoi viaggi trionfali nel mondo, le folle osannanti e plaudenti, il suo pontificato lunghissimo e larghissimo, nel tempo e nello spazio. Io vi parlerò invece delle sue sconfitte, e delle sue imprese fallite, della sua maestosa solitudine, del suo pontificato difficile e sofferto.

    Questo Papa ha fronteggiato la crisi più radicale che possa abbattersi su un Santo Padre: la scristianizzazione del mondo, a cominciare dall’Occidente. Ha navigato in un mondo e in un tempo in cui Dio si è ritirato, e la cristianità è stata presa a morsi e rimorsi, dal cinismo imperante, dal nichilismo e dall’ateismo pratico, e dal fanatismo islamico. A tutti i Papi era accaduto di fronteggiare nemici pagani e musulmani, eretici e satanici, miscredenti e carogne, a volte anche interne alla Chiesa. Ma non era mai accaduto di dover fronteggiare oltre i suddetti, anche uno spiegamento così profondo, così esteso, d’indifferenza, irrisione e ironia verso la fede cristiana. A Giovanni Paolo II questo è accaduto. La sua lotta da Papa contro l’Allegra Disperazione dell’Occidente è durata 27 anni ed è stata coronata da un magnifico insuccesso. E’ stato il Papa dell’Europa che si unisce e tramonta.

    L’insuccesso più vistoso e più superficiale ha riguardato la pace. I suoi appelli, per definizione dei media “accorati”, non sono mai stati accolti, le guerre hanno continuato con i loro massacri, in ogni parte del mondo, a causa di amici e nemici della cristianità, oltre i semplici conoscenti. I suoi appelli rivolti agli europei di ricordare nell’atto costitutivo le radici cristiane dell’Europa sono caduti vergognosamente nel vuoto. Duemila anni di storia europea, di civiltà, di mentalità e di usi, cultura e costume, sono stati ritenuti irrilevanti. L’Europa è nata così da un parricidio.

    Il suo costante appello in difesa della famiglia, contro l’aborto e la disgregazione, per la natalità d’Occidente, in difesa delle famiglie con padre, madre e figli contro le unioni omosessuali, per la dignità della donna contro la mercificazione del sesso e la liberazione sessuale, sono caduti tutti in un increscioso e sterminato oblio, appena interrotto da sorrisini di compatimento, ironie più o meno feroci, con aria di sufficienza. La difesa dei valori religiosi, del senso della vita e della morte, del dolore e della fede, della tradizione cattolica e dell’ispirazione cristiana, si sono inabissate nell’indaffarata indifferenza dei contemporanei, nel deserto che cresce, nell’edonismo più ottuso e diffuso. E’ duro il mestiere di Papa in queste condizioni.

    Le sue encicliche sulla solidarietà, i suoi appelli alla generosità verso i poveri, all’economia sociale e al senso comunitario si sono scontrati con un sordido egoismo e individualismo mercantile, la volontà di potenza, il desiderio sfrenato di profitto e di possesso. E poi il dialogo interreligioso che il Papa ha avviato con cocciuta ostinazione e santa pazienza, è stato tragicamente spezzato dai fanatici dell’Islam, da orde di integralisti e fondamentalisti, anche occidentali. Quanti appelli del Papa a fermare la violenza, a non uccidere, a non decapitare, a non ammazzare, a non praticare la pena di morte, la tortura e la persecuzione, sono risuonati nel vuoto dei mass media come vane litanie, esercizi di pura e astratta precettistica?

    No, signori, il Papa che salutiamo per l’ultima volta non esce trionfante dal mondo, come voi lo descrivete. Esce sconfitto, umiliato, disatteso; amatissimo e popolarissimo, certamente, ma non per questo ascoltato. Un fragoroso silenzio ha accompagnato la sua missione pastorale. Tanto è clamoroso il chiasso intorno alla sua figura quanto è sconfortante il mutismo intorno ai suoi principi. Mai un Papa ha parlato così tanto e a così tanta gente e mai è stato così inascoltato. Il pensiero debole del relativismo etico dispone di poteri forti; il pensiero forte di Papa Woytila ha avuto invece dalla sua poteri fragili e sommessi.

    Dovremmo allora concludere che il suo papato si conclude con un maestoso fallimento? No, il contrario.

    Sappiamo quanto ha contato il Papa nella storia del secolo, anzi del millennio, quanto ha pesato nella caduta del comunismo, nella nascita dell’Europa, nell’incontro dei popoli, nel vigore del messaggio cristiano, nel passaggio di millennio. Sappiamo che la sua impronta storica e mediatica è stata potente, ma la sua impronta pastorale e religiosa è stata impotente. Giovanni Paolo II è stato un Vinto, come Gesù Cristo. E tutto questo non induce ad un bilancio amaro e fallimentare. Per il Vicario di Cristo in terra, la sconfitta di Dio sul campo della storia è una vittoria nei cuori e in eterno, per chi crede. Il Papa ha perso, ma la sua non è una sconfitta infruttuosa: darà frutti. In terra e in Cielo. Ci sono sconfitte che grandeggiano assai più di oscene e pacchiane vittorie. Ci sono perdenti che vincono in cielo quel che perdono in terra, non solo per clemenza divina, ma perché hanno accumulato tesori nella banca dei cieli. Perché la verità non è di questo mondo, per quanto sia giusto cercarla ad ogni costo anche qui, in questa fettina di terra e di tempo. Il Papa ha perso, come i martiri e i santi, i veri eroi e i profeti inascoltati.
    [Modificato da Caterina63 17/01/2011 19:07]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 17/01/2011 19:10
    Al termine dell'Angelus del 16.1.2011, prima di salutare i vari gruppi presenti, il Papa ha espresso la sua gioia per la prossima beatificazione di Giovanni Paolo II .

    Cari fratelli e sorelle, come sapete, il 1° maggio prossimo avrò la gioia di proclamare Beato il Venerabile Papa Giovanni Paolo II, mio amato predecessore. La data scelta è molto significativa:  sarà infatti la ii Domenica di Pasqua, che egli stesso intitolò alla Divina Misericordia, e nella cui vigilia terminò la sua vita terrena. Quanti lo hanno conosciuto, quanti lo hanno stimato e amato, non potranno non gioire con la Chiesa per questo evento. Siamo felici!

    si legga anche:

    PRIMO MAGGIO 2011 BEATIFICAZIONE DI GIOVANNI PAOLO II

                               Pope Benedict XVI delivers his weekly Angelus blessing to the crowd gathered below in Saint Peter's square at the Vatican January 16, 2011.

                      Amici

    [Modificato da Caterina63 29/04/2011 14:04]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    Caterina63
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    00 29/04/2011 11:44

    Benedetto XVI racconta la sua amicizia con Giovanni Paolo II (R.V.)


     



    Su segnalazione di Sonny leggiamo:

    Benedetto XVI racconta la sua amicizia con Giovanni Paolo II

    Fervono i preparativi a Roma e in Vaticano per la Beatificazione di Giovanni Paolo II. Si prevede la partecipazione di centinaia di migliaia di pellegrini. Domani alle 11.30 si svolgerà nella Sala Stampa della Santa Sede un briefing di presentazione degli eventi legati all’avvenimento. Sabato sera, il cardinale vicario Agostino Vallini presiederà una veglia di preghiera al Circo Massimo a partire dalle 21.00. Domenica primo maggio, Benedetto XVI celebrerà in Piazza San Pietro, alle 10.00, la Messa in cui proclamerà Beato Papa Wojtyla. Oggi vi riproponiamo un’intervista rilasciata da Benedetto XVI alla TV pubblica polacca e trasmessa il 16 ottobre 2005, in cui parlava della sua amicizia con Giovanni Paolo II, nata nel conclave del 1978. L’intervista è del padre gesuita polacco Andrea Majewski:




    INTERVISTA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI ALLA TV POLACCA IN OCCASIONE DEL 27° ANNIVERSARIO DELL'ELEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II.

    Domanda: Il 16 ottobre del 1978, il cardinale Karol Wojityla diventò Papa e da quel giorno Giovanni Paolo II, per oltre 26 anni, da Successore di San Pietro, come è Lei adesso, ha guidato la Chiesa assieme ai vescovi e ai cardinali. Tra i cardinali vi era anche la Vostra Santità, persona singolarmente apprezzata e stimata dal suo predecessore; persona di cui il Pontefice Giovanni Paolo II ebbe a scrivere nel libro “Alzatevi, andiamo” - e qui cito – “Ringrazio Iddio per la presenza e l’aiuto del cardinale Ratzinger. E’ un amico provato”, ha scritto Giovanni Paolo II.
    Padre Santo come è iniziata questa amicizia e quando Vostra Santità ha conosciuto il cardinale Karol Wojityla?


    Papa Benedetto XVI: Personalmente lo ho conosciuto soltanto nei due pre-conclave e conclave del ’78. Avevo naturalmente sentito parlare del cardinale Wojityla, inizialmente soprattutto nel contesto della corrispondenza fra vescovi polacchi e tedeschi nel ’65. I cardinali tedeschi mi hanno raccontato come era grandissimo il merito e il contributo dell’arcivescovo di Cracovia e che era proprio l’anima di questa corrispondenza realmente storica. Da amici universitari avevo anche sentito della sua filosofia e della grandezza della sua figura di pensatore. Ma come ho detto l’incontro personale la prima volta si è realizzato per il conclave del ’78. Dall’inizio ho sentito una grande simpatia e, grazie a Dio, immeritatamente, il cardinale di quel tempo mi ha donato fin dall’inizio la sua amicizia. Sono grato per questa fiducia che mi ha donato, senza i miei meriti. Soprattutto vedendolo pregare, ho visto e non solo capito, ho visto che era un uomo di Dio. Questa era l’impressione fondamentale: un uomo che vive con Dio, anzi in Dio. Mi ha poi impressionato la cordialità, senza pregiudizi, con la quale si è incontrato con me. In questi incontri del pre-conclave dei cardinali, ha preso diverse volte la parola e qui ho avuto anche la possibilità di sentire la statura del pensatore. Senza grandi parole, era così nata un’amicizia che veniva proprio dal cuore e, subito dopo la sua elezione, il Papa mi ha chiamato diverse volte a Roma per colloqui e alla fine mi ha nominato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.

    Domanda: dunque non è stata una sorpresa questa nomina e questa convocazione a Roma?

    Papa Benedetto XVI: Per me era un po’ difficile, perché dall’inizio del mio episcopato a Monaco, con la solenne consacrazione a vescovo nella cattedrale di Monaco, vi era per me un obbligo, quasi un matrimonio con questa diocesi ed avevano anche sottolineato che dopo decenni ero il primo vescovo originario della diocesi. Mi sentivo quindi molto obbligato e legato a questa diocesi. C’erano poi dei problemi difficili che non erano ancora risolti e non volevo lasciare la diocesi con dei problemi non risolti. Di tutto questo ho discusso con il Santo Padre, con grande apertura e con questa fiducia che aveva il Santo Padre, che era molto paterno con me. Mi ha dato quindi tempo di riflettere, egli stesso voleva riflettere. Alla fine mi ha convinto, perché questa era la volontà di Dio. Potevo così accettare questa chiamata e questa responsabilità grande, non facile, che di per sé superava le mie capacità. Ma nella fiducia alla paterna benevolenza del Papa e con la guida dello Spirito Santo, potevo dire di sì.

    Domanda: Questa esperienza durò per più di 20 anni…

    Papa Benedetto XVI: Sì, sono arrivato nel febbraio dell’82 ed è durata fino alla morte del Papa nel 2005.

    Domanda: Quali sono, secondo Lei, Santo Padre, i punti più significativi del Pontificato di Giovanni Paolo II?

    Papa Benedetto XVI: Possiamo avere, direi, due punti di vista: uno ad extra - al mondo -, ed uno ad intra - alla Chiesa -. Riguardo al mondo, mi sembra che il Santo Padre, con i suoi discorsi, la sua persona, la sua presenza, la sua capacità di convincere, ha creato una nuova sensibilità per i valori morali, per l’importanza della religione nel mondo. Questo ha fatto sì che si creasse una nuova apertura, una nuova sensibilità per i problemi della religione, per la necessità della dimensione religiosa nell’uomo e soprattutto è cresciuta – in modo inimmaginabile – l’importanza del Vescovo di Roma. Tutti i cristiani hanno riconosciuto – nonostante le differenze e nonostante il loro non riconoscimento del Successore di Pietro – che è lui il portavoce della cristianità. Nessun altro al mondo, a livello mondiale può parlare così nel nome della cristianità e dar voce e forza nell’attualità del mondo alla realtà cristiana. Ma anche per la non cristianità e per le altre religioni, era lui il portavoce dei grandi valori dell’umanità. E’ anche da menzionare che è riuscito a creare un clima di dialogo fra le grandi religioni e un senso di comune responsabilità che tutti abbiamo per il mondo, ma anche che le violenze e le religioni sono incompatibili e che insieme dobbiamo cercare la strada per la pace, in una responsabilità comune per l’umanità. Spostiamo l’attenzione ora verso la situazione della Chiesa. Io direi che, anzitutto, ha saputo entusiasmare la gioventù per Cristo. Questa è una cosa nuova, se pensiamo alla gioventù del ’68 e degli anni Settanta. Che la gioventù si sia entusiasmata per Cristo e per la Chiesa ed anche per valori difficili, poteva ottenerlo soltanto una personalità con quel carisma; soltanto Lui poteva in tal modo riuscire a mobilitare la gioventù del mondo per la causa di Dio e per l’amore di Cristo. Nella Chiesa ha creato – penso – un nuovo amore per l’Eucaristia. Siamo ancora nell’Anno dell’Eucaristia, voluto da lui, con tanto amore; ha creato un nuovo senso per la grandezza della Misericordia Divina; e ha anche approfondito molto l’amore per la Madonna e ci ha così guidato ad una interiorizzazione della fede e, allo stesso tempo, ad una maggiore efficienza. Naturalmente bisogna menzionare – come sappiamo tutti - anche quanto sia stato essenziale il suo contributo per i grandi cambiamenti nel mondo nell’89, per il crollo del cosiddetto socialismo reale. 

    Domanda: Nel corso dei suoi incontri personali e dei colloqui con Giovanni Paolo II, che cosa faceva maggior impressione a Vostra Santità? Potrebbe raccontarci i suoi ultimi incontri, forse di quest’anno, con Giovanni Paolo II?

    Papa Benedetto XVI: Sì. Gli ultimi due incontri li ho avuti, un primo, al Policlinico “Gemelli”, intorno al 5-6 febbraio; e, un secondo, il giorno prima della sua morte, nella sua stanza. Nel primo incontro il Papa soffriva visibilmente, ma era pienamente lucido e molto presente. Io era andato semplicemente per un incontro di lavoro, perché avevo bisogno di alcune sue decisioni. Il Santo Padre - benché soffrendo – seguiva con grande attenzione quanto dicevo. Mi comunicò in poche parole le sue decisioni, mi diede la sua benedizione, mi salutò in tedesco, accordandomi tutta la sua fiducia e la sua amicizia. Per me è stato molto commovente vedere, da una parte, come la sua sofferenza fosse in unione col Signore sofferente, come portasse la sua sofferenza con il Signore e per il Signore; e, dall’altra, vedere come risplendesse di una serenità interiore e di una lucidità completa. Il secondo incontro è stato il giorno prima della morte: era ovviamente più sofferente, visibilmente, circondato da medici ed amici. Era ancora molto lucido, mi ha dato la sua benedizione. Non poteva più parlare molto. Per me questa sua pazienza nel soffrire è stato un grande insegnamento, soprattutto riuscire a vedere e a sentire come fosse nella mani di Dio e come si abbandonasse alla volontà di Dio. Nonostante i dolori visibili, era sereno, perché era nelle mani dell’Amore Divino. 

    Domanda: Lei, Santo Padre, spesso nei suoi discorsi evoca la figura di Giovanni Paolo II, e di Giovanni Paolo II dice che era un Papa grande, un predecessore compianto e venerato. Ricordiamo sempre le parole di Vostra Santità espresse alla Messa del 20 aprile scorso, parole dedicate proprio a Giovanni Paolo II. E’ stato Lei, Santo Padre, a dire – e qui cito – “sembra che egli mi tenga forte per mano, vedo i suoi occhi ridenti e sento le sue parole, che in quel momento rivolge a me in particolare: ‘non aver paura!’”. Santo Padre, una domanda alla fine molto personale: Lei continua ad avvertire la presenza di Giovanni Paolo II, e se è così, in che modo?

    Papa Benedetto XVI: Certo. Comincio a rispondere alla prima parte della sua domanda. Avevo inizialmente, parlando dell’eredità del Papa, dimenticato di parlare dei tanti documenti che ci ha lasciato – 14 Encicliche, tante Lettere Pastorali e tanti altri – e tutto questo rappresenta un patrimonio ricchissimo che non è ancora sufficientemente assimilato nella Chiesa. Io considero proprio una mia missione essenziale e personale di non emanare tanti nuovi documenti, ma di fare in modo che questi documenti siano assimilati, perché sono un tesoro ricchissimo, sono l’autentica interpretazione del Vaticano II. Sappiamo che il Papa era l’uomo del Concilio, che aveva assimilato interiormente lo spirito e la lettera del Concilio e con questi testi ci fa capire veramente cosa voleva e cosa non voleva il Concilio. Ci aiuta ad essere veramente Chiesa del nostro tempo e del tempo futuro. Adesso vengo alla seconda parte della sua domanda. Il Papa mi è sempre vicino attraverso i suoi testi: io lo sento e lo vedo parlare, e posso stare in dialogo continuo col Santo Padre, perché con queste parole parla sempre con me, conosco anche l’origine di molti testi, ricordo i dialoghi che abbiamo avuto su uno o sull’altro testo. Posso continuare il dialogo con il Santo Padre. Naturalmente questa vicinanza attraverso le parole è una vicinanza non solo con i testi, ma con la persona, dietro i testi sento il Papa stesso. Un uomo che va dal Signore, non si allontana: sempre più sento che un uomo che va dal Signore si avvicina ancora di più e sento che dal Signore è vicino a me in quanto io sono vicino al Signore, sono vicino al Papa e lui ora mi aiuta ad essere vicino al Signore e cerco di entrare nella sua atmosfera di preghiera, di amore del Signore, di amore della Madonna e mi affido alla sue preghiere. C’è così un dialogo permanente ed anche un essere vicini, in un nuovo modo, ma in modo molto profondo. 

    Domanda: Padre Santo, la aspettiamo ora in Polonia. Tanti domandano quando il Papa verrà in Polonia?

    Papa Benedetto XVI: Sì, l’intenzione di venire in Polonia, se Dio vuole, se i tempi me lo permetteranno, c’è. Ho parlato con mons. Dziwisz riguardo alla data e mi dicono che giugno sarebbe il periodo più adeguato. Tutto è ancora naturalmente da organizzare con tutte le istanze competenti. In questo senso è una parola provvisoria, ma sembra che forse il prossimo giugno, se il Signore lo concede, potrei venire in Polonia.

    Santo Padre, a nome di tutti i telespettatori, la ringrazio di cuore per questa intervista. Grazie, Padre Santo.

    Papa Benedetto XVI: Grazie a Lei.

     2005-2007 - Libreria Editrice Vaticana





    [Modificato da Caterina63 31/03/2014 09:57]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 30/04/2011 21:51
    Quando il cardinale Joseph Ratzinger spiegava chi era Giovanni Paolo II

    Si è identificato con la Chiesa
    perciò ne può essere la voce



    Dal volume Giovanni Paolo II pellegrino per il Vangelo (Cinisello Balsamo - Torino, Edizioni Paoline - Editrice Saie, 1988) pubblichiamo integralmente l'articolo nel quale il cardinale Joseph Ratzinger ripercorreva e faceva emergere gli aspetti fondamentali dei primi dieci anni di pontificato di Karol Wojtyla.

    Giovanni Paolo II è senz'altro colui che, ai nostri tempi, si è incontrato personalmente con il maggior numero di esseri umani. Innumerevoli sono le persone a cui egli ha stretto la mano, a cui ha parlato, con cui ha pregato e che ha benedetto. Se il suo elevato ufficio può creare distanza, la sua personale irradiazione crea invece vicinanza.

    Anche le persone semplici, incolte, povere non hanno da lui l'impressione della superiorità, dell'irraggiungibilità o del timore, quei sentimenti che colpiscono così sovente chi si trova nelle camere d'aspetto dei potenti, delle autorità. Quando poi si hanno contatti personali con lui, è come se lo si conoscesse da lungo tempo, come se si parlasse con un parente prossimo, con un amico. Il titolo di "Padre" (= Papa) non appare più solo un titolo, ma l'espressione di quel rapporto reale che si prova veramente davanti a lui.

    Tutti conoscono Giovanni Paolo II: il suo volto, il suo modo caratteristico di muoversi e di parlare; la sua immersione nella preghiera, la sua spontanea letizia. Certe sue parole si sono incise in maniera indelebile nella memoria, a cominciare dall'appassionato richiamo con cui egli si è presentato all'inizio del suo pontificato: "Spalancate le porte a Cristo, non abbiate paura di lui!". Oppure queste altre: "Non si può vivere per prova, non si può amare per prova!". In parole come queste si condensa tutto un pontificato. È come se egli volesse aprire dappertutto vie d'accesso a Cristo, come se desiderasse rendere accessibile a tutti gli uomini il varco verso la vita vera, verso il vero amore. Se, come Paolo, lo si ritrova instancabilmente sempre in cammino, fino "ai confini della terra", se vuol essere vicino a tutti e non perdere alcuna occasione per annunciare la Buona Novella, non è per scopi pubblicitari o per sete di popolarità, ma perché si realizzi in lui la parola apostolica: Charitas Christi urget nos (II Corinzi, 5, 14). Accanto a lui lo si avverte: gli sta a cuore l'uomo perché gli sta a cuore Dio.

    Molto probabilmente si conosce meglio Giovanni Paolo II quando si è concelebrato con lui e ci si è lasciati attirare nell'intenso silenzio della sua preghiera, più che non quando si sono analizzati i suoi libri o i suoi discorsi. Giacché, proprio partecipando alla sua preghiera, si attinge ciò che è proprio della sua natura, al di là di qualsiasi parola. A partire da questo centro ci si spiega anche perché egli, pur essendo un grande intellettuale, che nel dialogo culturale del mondo contemporaneo possiede una voce sua propria e importante, ha conservato anche quella semplicità che gli permette di comunicare con ogni singola persona.

    Qui si manifesta anche un altro elemento di quella grande capacità di integrazione, che contrassegna il Papa che viene dalla Polonia: l'aver cambiato il classico "noi" dello stile pontificale con l'"io" personale e immediato dello scrittore e dell'oratore. Una simile rivoluzione stilistica non è da sottovalutare. A tutta prima può sembrarci l'ovvia eliminazione di un'usanza antiquata, che non si intonava più ai nostri tempi. Ma non si deve dimenticare che questo "noi" non era solo una formula di retorica cortigiana. Quando parla il Papa, egli non parla a nome proprio. In quel momento, in ultima analisi, non contano niente le teorie o le opinioni private che egli ha elaborato nel corso della sua vita, per quanto alto possa essere il loro livello intellettuale.

    Il Papa non parla come un singolo uomo dotto, con il suo io privato o, per così dire, come un solista sulla scena della storia spirituale dell'umanità. Egli parla attingendo dal "noi" della fede di tutta la Chiesa, dietro il quale l'io ha il dovere di scomparire. Mi viene in mente a questo proposito il grande Papa umanista Pio II, Enea Silvio Piccolomini, il quale da Papa doveva talvolta dire, attingendo appunto dal "noi" del suo magistero pontificio, cose in contraddizione con le teorie di quel dotto umanista che precedentemente era stato lui stesso. Quando gli venivano segnalate simili contraddizioni soleva rispondere: Eneam reicite, Pium recipite ("Lasciate stare Enea, prendete Pio, il Papa").

    In un certo senso non è dunque un fenomeno innocuo se l'"io" rimpiazza il "noi". Ma chi fa la fatica di studiare attentamente tutti gli scritti di Papa Giovanni Paolo II, capisce ben presto che questo Papa sa distinguere molto bene tra le opinioni personali di Karol Wojtyla e il suo insegnamento magisteriale in quanto Papa; egli però sa anche riconoscere che le due cose non sono reciprocamente eterogenee, ma riflettono un'unica personalità imbevuta della fede della Chiesa. L'io, la personalità, è entrata interamente al servizio del "noi". Non ha degradato il "noi" sul piano soggettivo di opinioni private, ma gli ha semplicemente conferito la densità di una personalità tutta plasmata da questo "noi", tutta dedita al suo servizio.

    Io credo che tale fusione, maturata nella vita e nella riflessione di fede, tra il "noi" e l'"io" fondi in modo essenziale il fascino di questa figura di Papa. La fusione gli consente di muoversi in questo suo sacro ufficio in maniera del tutto libera e naturale; gli consente di essere come Papa interamente se stesso, senza dover temere di far scivolare troppo l'ufficio nel soggettivo.

    Ma come è cresciuta questa unità? In che modo una strada personale di fede, di pensiero, di vita conduce a tal punto nel centro della Chiesa? Questa è una domanda che va ben oltre la semplice curiosità biografica. Giacché proprio tale "identificazione" con la Chiesa senza velo alcuno di ipocrisia o di schizofrenia sembra impossibile oggi a molti uomini che sono in travaglio per la fede.

    Nella teologia è diventato, nel frattempo, quasi civetteria di moda il muoversi in distanza critica a riguardo della fede della Chiesa e far sentire al lettore che lui, il teologo, non è poi così ingenuo, così acritico e servile da porre il suo pensiero del tutto al servizio di questa fede. In tal modo mentre la fede viene svalutata, le frettolose proposte di questi teologi non ne traggono alcuna rivalutazione; invecchiano in fretta come in fretta sono nate. Nasce allora di nuovo un grande desiderio non solo di ripensare intellettualmente la fede in modo leale, ma anche di poterla vivere in modo nuovo.

    La vocazione di Karol Wojtyla maturò quando egli lavorava in un'azienda di produzione chimica, durante gli orrori della guerra e dell'occupazione. Egli stesso ha de-finito questo periodo di quattro anni, vissuto nell'ambiente operaio, come la fase formativa più determinante della sua vita. In tale contesto egli ha studiato la filosofia, apprendendola faticosamente dai libri, e il sapere filosofico gli si presentava di primo acchito come una giungla impenetrabile.

    Il suo punto di partenza era stato la filologia, l'amore per la lingua, combinata all'applicazione artistica della lingua, in quanto rappresentazione della realtà in una nuova forma di teatro. È sorta così quella specie particolare di "filosofia" caratteristica del Papa attuale. È un pensiero in dialettica con il concreto, un pensiero fondato sulla grande tradizione, ma sempre alla ricerca della sua verifica nella realtà presente. Un pensiero che scaturisce da uno sguardo artistico e, nello stesso tempo, è guidato dalla cura del pastore: rivolto all'uomo per indicargli la via.

    Mi sembra interessante scorrere per un momento la serie cronologica degli autori determinanti nei quali egli si imbatté lungo l'iter della sua formazione. Il primo era stato, come lui stesso riferisce nella sua intervista ad André Frossard, un manuale d'introduzione alla metafisica. Se altri studenti tentano solo di comprendere in qualche modo l'intera logica della struttura concettuale esposta nel testo e di fissarsela in mente in vista dell'esame, in lui ebbe inizio invece la lotta per una reale comprensione, cioè per cogliere il rapporto tra concetto ed esperienza, ed effettivamente si accese, dopo due mesi di duro impegno, il cosiddetto "lampo": "Scoprii quale senso profondo aveva tutto ciò che io avevo prima solo vissuto e presagito".

    Poi arrivò l'incontro con Max Scheler e, quindi, con la fenomenologia. Questo indirizzo filosofico aveva la preoccupazione, dopo controversie infinite circa i confini e le possibilità del conoscere umano, di vedere di nuovo semplicemente i fenomeni così come appaiono, nella loro varietà e nella loro ricchezza. Questa precisione del vedere, questa intelligenza dell'uomo non a partire da astrazioni e da principi teorici, ma cercando di cogliere nell'amore la sua realtà, è stata ed è rimasta decisiva per il pensiero del Papa. Infine egli scoprì assai presto, prima ancora della vocazione al sacerdozio, l'opera di san Giovanni della Croce, attraverso la quale gli si aprì il mondo dell'interiorità, "dell'anima maturata nella grazia".

    L'elemento metafisico, quello mistico, quello fenomenologico e quello estetico, collegandosi insieme, spalancano lo sguardo verso le molteplici dimensioni della realtà e diventano alla fine un'unica percezione sintetica, capace di paragonarsi con tutti i fenomeni e di imparare a comprenderli, proprio trascendendoli. La crisi della teologia postconciliare è in larga misura la crisi dei suoi fondamenti filosofici. La filosofia presentata nelle scuole teologiche mancava di ricchezza percettiva; le mancava la fenomenologia, e le mancava la dimensione mistica. Ma, quando i fondamenti filosofici non vengono chiariti, alla teologia viene a mancare il terreno sotto i piedi. Perché allora non è più chiaro fino a che punto l'uomo conosce davvero la realtà, e quali sono le basi a partire da cui egli possa pensare e parlare.

    Così pare a me che sia una disposizione della Provvidenza il fatto che, in questo tempo, è salito alla cattedra di Pietro un "filosofo", che fa filosofia non come una scienza da manuale, ma partendo dal travaglio necessario per reggere di fronte alla realtà e dall'incontro con l'uomo che cerca e che domanda. Wojtyla è stato ed è l'uomo. Il suo interesse scientifico fu sempre più contrassegnato dalla sua vocazione di pastore. Di qui si comprende come la sua collaborazione alla Costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, il cui testo è determinato in modo centrale dalla preoccupazione per l'uomo, è diventata un'esperienza decisiva per il futuro Papa.

    "La via della Chiesa è l'uomo". Questa tematica, concretissima e radicalissima nella sua profondità, si è trovata sempre e ancora si trova al centro del suo pensiero che è insieme azione. Ne è risultato che la questione della teologia morale è divenuta il centro del suo interesse teologico. Anche questa era una importante predisposizione umana in ordine al compito del massimo pastore della Chiesa. Giacché la crisi dell'orientamento filosofico si manifesta dal punto di vista teologico soprattutto come crisi della norma teologico-morale.

    Qui si trova il collegamento tra filosofia e teologia, il ponte fra la ricerca razionale sull'uomo e il compito teologico, ed è così evidente, che non è possibile sottrarvisi.
    Dove crolla l'antica metafisica, anche i comandamenti perdono il loro nesso interiore: allora grande diventa la tentazione di ridurli al piano unicamente storico-culturale. Wojtyla aveva imparato da Scheler a indagare, con una sensibilità umana finora ignota, l'essenza della verginità, del matrimonio, della maternità e della paternità, il linguaggio del corpo e, di conseguenza, l'essenza dell'amore. Egli ha assunto nel suo pensiero le nuove scoperte del personalismo, ma proprio così ha anche imparato nuovamente a capire che il corpo stesso parla, che la creazione parla e ci delinea le vie da percorrere: il pensiero dell'età moderna ha dischiuso per la teologia morale una dimensione nuova, e Wojtyla l'ha percepita in una continua implicazione di riflessione e d'esperienza, di vocazione pastorale e speculativa e l'ha compresa nella sua unità con i grandi temi della tradizione.
    Un altro elemento ancora è stato importante per questo cammino di vita e di pensiero, per l'unità di esperienza, pensiero e fede. Tutta la battaglia di quest'uomo non si è svolta dentro un cerchio più o meno privato, unicamente nello spazio interno di una fabbrica o in un seminario. Essa era circonfusa dalle fiamme della grande storia.

    La presenza di Wojtyla in fabbrica fu conseguenza dell'arresto dei suoi professori universitari. Il tranquillo corso accademico fu interrotto e sostituito da un durissimo tirocinio in mezzo a un popolo oppresso. L'appartenenza al seminario maggiore del cardinal Sapieha era già, in quanto tale, un atto di resistenza. E così la questione della libertà, della dignità e dei diritti dell'uomo, della responsabilità politica della fede, non penetrò nel pensiero del giovane teologo come un semplice problema teorico. Era la necessità, molto reale e concreta, di quel momento storico.

    Ancora una volta la situazione particolare della Polonia, situata nel punto d'intersezione tra est e ovest, era diventata il destino di questo Paese. I critici del Papa osservano con frequenza che egli, come polacco, conosce veramente solo la pietà tradizionale, sentimentale, del suo Paese e non può quindi comprendere pienamente le complicate questioni del mondo occidentale.

    Nulla è più insensato di una simile osservazione, che tradisce un'ignoranza completa della storia. Basta leggere l'enciclica Slavorum apostoli per derivarne l'idea che precisamente di questa eredità polacca aveva bisogno il Papa per poter pensare all'interno di una molteplicità di culture. Essendo la Polonia un punto di intersezione delle civiltà, in particolare delle tradizioni germaniche, romaniche, slave e greco-bizantine, la questione del dialogo delle varie culture proprio in Polonia è, per molti aspetti, più ardente che altrove. E così proprio questo Papa è un Papa veramente ecumenico e veramente missionario, preparato provvidenzialmente anche in tale senso per affrontare le questioni del tempo successivo al concilio Vaticano II.

    Rifacciamoci ancora una volta all'interesse pastorale e antropologico del Papa. "La via della Chiesa è l'uomo". Il significato autentico di questa affermazione, spesso malintesa, dell'enciclica sul "Redentore dell'uomo" si può veramente capire se ci si ricorda che per il Papa "l'uomo" in senso pieno è Gesù Cristo. La sua passione per l'uomo non ha nulla a che fare con un antropocentrismo autosufficiente. Qui l'antropocentrismo è aperto verso l'alto.

    Ogni antropocentrismo mirante a cancellare Dio come concorrente dell'uomo si è già da tempo capovolto in noia dell'uomo e per l'uomo. L'uomo non può più considerarsi centro del mondo. Ed ha paura di se stesso a motivo della sua propria potenza distruttiva. Quando l'uomo viene collocato al centro escludendovi Dio, l'equilibrio complessivo viene sconvolto: vale allora la parola della lettera ai Romani (8, 19. 21-22), in cui si dice che il mondo viene trascinato nel dolore e nel gemito dell'uomo; guastato in Adamo, è da allora in attesa della comparsa dei figli di Dio, della loro liberazione. Proprio perché al Papa sta a cuore l'uomo, egli vorrebbe aprire le porte a Cristo. Giacché unicamente con la venuta di Cristo i figli di Adamo possono diventare figli di Dio, e l'uomo e la creazione entrare nella loro libertà.

    L'antropocentrismo del Papa è quindi, nel suo nucleo più profondo, teocentrismo. Se la sua prima enciclica è apparsa tutta concentrata sull'uomo, le sue tre grandi encicliche si coordinano naturalmente tra di loro in un grande trittico trinitario: l'antropocentrismo è nel Papa teocentrismo, perché egli vive la sua vocazione pastorale a partire dalla preghiera, fa la sua esperienza dell'uomo nella comunione con Dio e a partire da qui egli ha appreso a comprenderla.

    Un'ultima osservazione. Il profondo amore del Papa a Maria è certamente, innanzitutto, un'eredità che gli viene dalla sua patria polacca.
    Ma l'enciclica mariana dimostra quanto questa pietà mariana è stata in lui biblicamente approfondita nella preghiera e nella vita. Nello stesso modo in cui la sua filosofia era stata resa più concreta e vivificata mediante la fenomenologia, ossia attraverso lo sguardo alla realtà che appare, così anche il rapporto con Cristo non rimane per il Papa nell'astratto delle grandi verità dogmatiche, ma diventa un concreto umano incontrarsi con il Signore in tutta la sua realtà e in tal modo logicamente anche un incontrarsi con la Madre, nella quale l'Israele credente e la Chiesa orante sono diventati persona. Ancora una volta è sempre e solo a partire da questa concreta vicinanza, in cui si vede il mistero di Cristo in tutta la ricchezza della sua pienezza divino-umana, che il rapporto col Signore riceve il suo calore e la sua vitalità. E naturalmente è qualcosa che si ripercuote su tutta l'immagine dell'uomo il fatto che questa risposta della fede ha preso figura per sempre in una donna, in Maria.
    Che cosa voglio dire con tutto ciò? Il mio scopo era quello di dimostrare l'unità fra mistero e persona nella figura di Papa Giovanni Paolo II.
     
    Egli si è realmente "identificato" con la Chiesa, e ne può quindi essere anche la voce. Tutto ciò non è detto per glorificare una creatura umana, ma per dimostrare che il credere non estingue il pensare e non ha bisogno di mettere fra parentesi l'esperienza del nostro tempo. Al contrario: soltanto la fede dona al pensiero la sua apertura e all'esperienza il suo significato.

    L'uomo non diventa libero quando diviene un solista, ma quando riesce a trovare il grande contesto al quale appartiene. Dieci anni di pontificato di Giovanni Paolo II. L'ampiezza del suo messaggio appare già ora quasi incalcolabile, immensa. Ho voluto tentare di accennare in pochi tratti alle energie portanti che ne costituiscono la forza profonda, e, insieme, rendere così meglio comprensibile la direzione che egli ci indica. Il Signore voglia conservarci a lungo questo Papa, perché ci sia di guida sulla strada verso il terzo millennio della storia cristiana.



    (©L'Osservatore Romano 1° maggio 2011)

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)