La Provvidenza e il Concordato
di Vittorio Messori
Le molte cose –libri, articoli, interviste– di Sergio Romano si leggono con gusto e, non di rado, con ammirazione: i problemi storici più complessi sono presentati con linguaggio elegante e piano, in una sintesi che non è mai semplificazione. Certo: un cattolico trova in lui un interlocutore critico, magari un’antagonista. Ma, tra tante sciatterie, è un sollievo poter confrontarsi con quest ’ultimo rappresentante della “Destra Storica“ risorgimentale che conosce bene (oltre alla buona educazione) i problemi e non trucca le fonti. E’ in questa linea anche l’ultimo libro di Romano che ha per titolo un ritocco malizioso della celebre frase attribuita a Cavour (mentre è di Charles de Montalembert): Libera Chiesa. Libero Stato?
Non c’è qui, purtroppo, lo spazio per un confronto critico sul taglio che il nostro ambasciatore ha voluto dare a questa sua lettura dei rapporti tra autorità ecclesiali e statuali. Potremo solo segnalare che forse in un punto lo storico sembra venire meno al suo rifiuto dei luoghi comuni. In effetti, come troppi, egli pure scrive, testualmente, che Mussolini, dopo i Patti Lateranensi << ebbe in dono (da Pio XI) l’appellativo di “uomo della Provvidenza“>>.
Va riconosciuto a Romano che – a differenza di quei troppi ripetitori – riporta la frase intera, improvvisata a caldo, ricevendo professori e allievi della Università Cattolica, tre giorni dopo la firma, e che così esattamente suona: «Forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi».
C’’è differenza tra un secco “uomo della Provvidenza” e un ben più sfumato -e preceduto da un “forse“- “uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare“.
Ma dovere dello storico è inquadrare nel loro contesto le parole dei protagonisti. Per ben capire, dunque, occorrerebbe ricordare che i colloqui tra Santa Sede e Stato italiano cominciarono nel 1926 e si protrassero per anni. In effetti, il marchese Francesco Pacelli, rappresentante del pontefice, aveva come interlocutore il rappresentante di Mussolini, il professor Domenico Barone. Questi era un puntiglioso, un po’ fanatico esponente del liberalismo ottocentesco, per il quale la sola sovranità ammissibile era quello dello Stato. Dunque lo Stato, magnanimo, poteva concedere garanzie di liberta, di rispetto, magari di finanziamento alla Chiesa, purché questa non presumesse di essere un soggetto alla pari. Ciò che atteneva alla religione, poteva essere solo oggetto della politica ecclesiastica statale. E’ la prospettiva che aveva ispirato la Legge delle Guarentigie, che escludeva recisamente una sovranità della Santa Sede. Questa, invece, era convinta che soltanto una sovranità propria, un essere “alla pari” con lo Stato, poteva garantire l’indipendenza della Chiesa.
Insomma, oltre mezzo secolo dopo Porta Pia, il rappresentante italiano era saldo in quella sua prospettiva. Le trattative tra i due si svolgevano in un clima di rispetto; anzi, di cortese amicizia, ma sembravano ormai definitivamente arenate. Quella volta non era il Papa ma il professor Barone, il vecchio liberale (un cattolico, tra l’altro, ma secondo la scuola risorgimentale) ad opporre un insormontabile non possumus alla richiesta di un territorio minuscolo, il più piccolo Stato del mondo, ma dentro le cui mura la Catholica fosse in casa sua, non temendo ingerenze statali.
Dopo due anni di quegli incontri sterili, Domenico Barone morì improvvisamente. Si giunse, così, al colpo di scena: invece di nominare un altro giurista che lo rappresentasse, Mussolini decise di condurre di persona la trattativa. Venendo da ben altra scuola e non avendo dogmi da liberale ottocentesco (quelli che Pio XI chiamerà “feticci”) il Benito tolse di mezzo il divieto di parlare di una “sovranità” della Santa Sede alla pari di quella dello Stato. Così, in pochi mesi, l’incancrenita “questione romana” fu risolta, con la firma dei documenti l’11 febbraio, nel giorno anniversario delle apparizioni di Lourdes.
Questo, dunque, il contesto. Precisandolo, sarà forse più agevole capire che cosa intese dire davvero il pontefice in quel discorso in cui a Mussoolini sarebbe stato concesso il “brevetto“ (per usare l’espressione di Romano) di «uomo della Provvidenza». Come sempre nella storia -e come ben sa il nostro interlocutore– la complessità delle vicende umane esige un inquadramento preciso.
Il Corriere della Sera - 11 novembre 2005
la risposta ce l'abbiamo... alla Chiesa NON interessava muovere una guerra all'Italia, ma ottenere ciò che le era legittimo: un pezzo di terra dalla quale ESERCITARE LA SUA SPECIFICA MISSIONE...
Mons. Geremia Bonomelli: un profeta perseguitato?
Nel 2006 conservai dalla rete questo testo sul mio PC....ma non c'era l'autore nè una fonte, ora ho fatto una ricerca e sembra un testo inesistente, non lo trovo d nessuna parte....ergo, se l'Autore dovesse riconoscersi in questo testo e vuol essere giustamente riconosciuto, ci contatti e provvederò immediatamente....la foto l'ho trovata su google
LA RITRATTAZIONE DI MONSIGNOR GEREMIA BONOMELLI
Un discorso franco sul potere temporale
LA VERITA' NON CI SPAVENTA
Monsignor Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona dal 1871 al 1910.
La domenica di Pasqua del 1889, il vescovo di Cremona confessava, a seguito della sua messa all’Indice, la paternità dell’opuscolo "Roma e l’Italia e la realtà delle cose", che trattava della "terribile Questione Romana". Il Concordato del 1929, quarant’anni dopo, gli diede ragione.
Il 21 aprile 1889, giorno di Pasqua, nella cattedrale di Cremona si verificò uno degli avvenimenti più straordinari nella storia della Chiesa dell’Ottocento: Geremia Bonomelli, vescovo della città padana, ritrattò solennemente l’opuscolo Roma e l’Italia e la realtà delle cose, pubblicato anonimo il 1° marzo, confessandone la paternità e domandando incondizionatamente e chiaramente perdono a Leone XIII e a tutti coloro ai quali aveva dato scandalo.
Monsignor Bonomelli è uno degli ecclesiastici più significativi della Chiesa nei tempi moderni. Nacque il 22 settembre 1831 in una modesta famiglia contadina a Nigoline, in provincia di Brescia, e vi morì il 3 agosto 1914. Sacerdote nel 1855, perfezionò gli studi alla Gregoriana di Roma; nel 1866 fu parroco a Lovere, e fu consacrato vescovo di Cremona il 26 novembre 1871. La sua fama si diffuse rapidamente, perché egli oltre a brillare per l’oratoria e per l’attività pastorale e sociale, pubblicò opere profondamente inserite nel tessuto del suo tempo, militando nei primi anni nell’area intransigente, ma rendendosi presto conto che essa era fuori della storia e non aveva vie d’uscita. Uno dei monumenti più illustri del suo orientamento conservatore e apologetico è Il giovane studente istruito e difeso nella dottrina cristiana in 3 volumi (1871-74), più volte ristampato.
Il successo delle sue pubblicazioni e, più ancora, delle tesi dialogiche promosse instancabilmente, è dovuto al collegamento intimo e operante tra la ricerca a tavolino, il contatto pastorale e i viaggi e i soggiorni in Italia e all’estero, sui quali pubblicò opere di grande interesse maturate attraverso incontri personali e consultazioni d’ogni livello con uomini di Chiesa, missionari, diplomatici. Si ricordano: Tre mesi al di là delle Alpi (1901), Dal Piccolo S. Bernardo al Brennero (1903), Viaggiando in vari paesi e in vari tempi (1908).
Gli albori dell’ecumenismo
Due opere meritano una segnalazione particolare, perché chiaramente orientate verso l’ecumenismo, allora non soltanto ignorato, ma rifiutato : Un autunno in Oriente (1891) e il suo "pendant" Un autunno in Occidente (1897). Bonomelli si accostò alla dissidenza cristiana, ortodossa e protestante, con la disponibilità più esemplare dal punto di vista culturale e, più ancora, con la disponibilità amichevole e un’umiltà che metteva una pietra tombale sul sarcofago delle tentazioni apologetiche. Interrogava i personaggi più in vista nelle due Chiese e nelle rispettive società laiche, ne esplorava la disponibilità dialogica, aggiungeva osservazioni fondate sulle letture e le riflessioni maturate lungamente. A parte qualche dissonanza dovuta alla situazione dell’epoca, si può affermare che sia stato un autentico ecumenista.
Ma la sfida più ardua la sperimentò nella "terribile Questione Romana". In questa disputa, che molti ritenevano insolubile, si concentravano i punti più scottanti della vita pubblica in Italia e si entrava a vele spiegate nella tempesta del dissidio tra Chiesa e Stato, con l’aggravante della polemica sull’indipendenza italiana e della disputa in cui la Massoneria e le altre associazioni sociali e politiche acuivano il disagio dei cittadini, che volevano restare fedeli alla Chiesa ma non intendevano essere sleali verso la patria.
A questo dramma il Bonomelli dedicò la sua opera più famosa, il cui titolo completo è Roma e l’Italia e la realtà delle cose; pensieri di un prelato italiano, un documentato e vibrante articolo apparso anonimo nel quaderno del 1° marzo 1889 della Rassegna nazionale di Firenze. Fu successivamente pubblicato anche in estratto, con l’aggiunta intitolata Con la risposta d’un cattolico italiano alle critiche di alcuni periodici (estr., ivi, 18896, pp. 115; abbr. Rei). Ebbe una diffusione straordinaria.
In una lettera del 2 aprile 1887 al beato monsignor Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, scriveva che da oltre un anno progettava un saggio «buono nelle condizioni attuali, ma d’una gravità eccezionale e che mette paura». Valutava con lungimiranza le difficoltà della situazione: «Voi conoscete ciò che passa nel mio cuore; voi sapete che per ottenere il termine della gran lotta, s’intende sempre quale può essere approvata dal S. Padre, unico giudice competente, darei la mia vita. Se questa lotta si prolunga ancora, quali dolorose conseguenze, che potranno durare Dio sa quanto! Urge finirla, e presto, e io spero che il grande Leone XIII, conoscitore dei tempi, potrà essere il Callisto II del secolo XIX» (Astori, p. 6).
Senza nessuna reticenza
Inizialmente lo scritto doveva intitolarsi Diciamo tutto francamente; poi fu cambiato il titolo e conservato l’anonimato anche nel momento di maggior tempesta, con l’esortazione di Scalabrini a mantenerlo. Ne uscì unicamente quando l’articolo fu messo all’Indice. Rimase immutato il proposito di fare un discorso leale e franco, «senza farisaiche paure, senza reticenze» (Rei, p. 93).
Il Bonomelli non solo dà enorme importanza alla Breccia di Porta Pia, ma la definisce con espressioni che avrebbero egregiamente figurato nel vocabolario del miglior Garibaldi e dei più radicali patrioti: «Il XX Settembre del 1870 si compiva uno dei fatti più straordinari del secolo presente: uno di quei fatti che indubbiamente segnano il passaggio da un’epoca storica all’altra, la caduta della Signoria Temporale dei Papi! Ora su quella caduta sono passati pressoché 19 anni che oggi, per le mutate condizioni dei tempi, degli uomini e delle cose, equivalgono a cent’anni, e diciamo poco» (Rei, p. 18).
L’opera si riassume in questi contenuti:
1) il dissidio produce un grave danno non solo materiale, ma anche spirituale alla nazione;
2) la restaurazione del potere temporale è impossibile, e di fatto non la vuole nessuno;
3) l’unica soluzione possibile e urgente è la riconciliazione tra Chiesa e Stato, e il ristabilimento della convivenza.
Una voce fuori dal coro
Monsignor Bonomelli smentisce la tesi degli zelanti che non avrebbero esitato a scatenare la sommossa popolare o a invocare l’intervento di un esercito straniero, pur di rimettere in vita il quatriduano cadavere del potere temporale. Egli sostiene invece che il Papa sarebbe il primo a opporsi a soluzioni così estreme e così obsolete.
Il dissenso sul "Non expedit"
Rispondendo ai suoi critici, che si richiamavano al fondamentalismo intransigente, egli espone con rigore i dati oggettivi della situazione. Oltre ai collegamenti storici, ribadisce il dato teologico: il potere temporale non è un dogma: «Se ciò fosse, a noi sembra davvero che si rimpicciolirebbe d’assai l’importanza del Papato, vincolando il libero esercizio della sua pastorale dignità a quattro zolle di terra, anziché far risalire questa indipendenza all’origine sua, cioè alle promesse di Cristo e all’essenza dell’autorità pontificia, intrinsecamente considerata» (Rei, p. 93).
Non risparmia nemmeno le critiche al Non expedit: «Il Governo è nemico della Chiesa! E chi ha detto il contrario? Di grazia però diteci: di chi è la colpa? Perché si predica l’astensione? Perché si vuole il Non expedit? [...]. Per avere deputati cattolici ci vogliono elettori cattolici; quando questi se ne stanno a casa, quelli non possono riuscire, e la Massoneria trionfa [...]. I cattolici italiani saranno sempre impotenti, finché si asterranno e finché, grazie a questa astensione, avranno la parvenza di nemici della patria» (Rei, p. 97).
La tesi bonomelliana non ha nulla a che fare con la Realpolitik, vale a dire con la giustificazione del fatto compiuto, che dà fondamento a un diritto. A suo avviso Porta Pia non è una disgrazia alla quale bisogna rassegnarsi, ricavandone tutti i benefici possibili, ma un fatto provvidenziale, che inaugura tempi nuovi sia per la società civile che per quella ecclesiale. Non ha senso rimpiangere le "quattro zolle di terra" né progettare "uno straccio di Regno terreno", bisogna costruire un avvenire nuovo, senza abbarbicarsi «a viete e cadenti idee che non reggono il minimo urto dei tempi nuovi, e, come gli otri vecchi di cui parla il Vangelo, non possono reggere al contatto del vino nuovo» (Rei, p. 90ss).
La catastrofe maturò presto. Gl’intransigenti insorsero con tutti i mezzi. Fioccarono le denunce private e pubbliche, e le dissociazioni sdegnose. Il vescovo di Brescia scrisse al Papa, che rispose elogiandone lo zelo e consacrando la tesi cattolica, secondo la quale quella del Bonomelli era arroganza e insubordinazione, che temerariamente però voleva «suggerire consigli alla Sede Apostolica intorno a cose da fare e volerle mostrare ciò che sia meglio da fare». Il pensiero della Santa Sede è che il Papa è sottoposto a violenza ed è privato della libertà, «per maniera che accettarla non mai, ma sì dobbiamo sofferirla costrettivi da necessità». Essa non è stata voluta dalla volontà dei popoli, «ma più veramente dall’audacia delle sètte perverse, le quali si sono congiurate per abbattere la Sacra Potestà, acciocché, manomesso questa sorte di presidio, potessero rivolgere gli sforzi e impeti loro» contro il potere spirituale della Chiesa (Br. Gratam scito, 312-III-89, Civiltà Cattolica, 1889, II, pp. 220-223).
Di lì a pochi giorni l’articolo fu messo all’Indice. A questo punto monsignor Bonomelli ritenne improrogabile uscire allo scoperto e lesse in Duomo la ritrattazione , che lo sommerse di entusiasmi. Subito il suo gesto fu affiancato a quello dell’arcivescovo di Cambrai, monsignor Fénelon, il quale nel momento in cui la sua Explication des maximes des saints sur la vie intérieure (Paris 1697) il 12 marzo 1699 fu messa all’Indice fece una pubblica ritrattazione dinanzi ai fedeli riuniti nella cattedrale.
Il primo a richiamarsi a quella splendida pagina storica fu Leone XIII, che nel Breve Libentes intelleximus (29-IV-89) gli scriveva che con quel gesto aveva dato «un eminente esempio di virtù [...]. Di una simile modestia, dimostrata dal Fénelon, non è ancora perduta la memoria, e questo dimostra che non è così grave sbagliare in una opinione, quanto è glorioso il confessare il proprio errore» (Civiltà Cattolica, 1889, II, p. 493). Il Beato Giovanni Piamarta in una lettera affettuosa ed entusiastica rievocava le lezioni di storia nelle quali il Bonomelli, allora professore in seminario, ricostruiva con ammirazione l’insigne episodio e soggiungeva: «Giammai in vita mia mi è scoppiato dal labbro più ardente ed entusiastico il cantico della Chiesa: Haec est dies quam fecit Dominus. Il faustissimo avvenimento deve aver ricolmo d’insolita gioia la Gerusalemme celeste e terrena [...]. Lei è più grande e più venerando di Fénelon, perché più eroico è l’atto compiuto. Ne sia in eterno benedetto. Quanta edificazione ne viene a noi e quanto salutare ammaestramento!» (Astori p. 15).
Il filo della Provvidenza
Il Bonomelli diede la misura della sua statura spirituale commentando, cinque giorni dopo, la ritrattazione, in una lettera allo Scalabrini: «Sto bene, mi sento libero, fresco, tranquillo, felice. Ho vinto me stesso e in fondo in fondo non è poi stato un sacrificio grande [...]. Ora comincio a vedere il filo della Provvidenza. Provvidenza nello scriverlo, perché non volevo scriverlo, e più volte mi cadde di mano la penna, Provvidenza nello scriverlo anonimo, perché così si poté leggere. Provvidenza la lettera del S. Padre al vescovo di Brescia, Provvidenza nel sospendere la sottomissione privata al S. Padre, Provvidenza nella condanna, Provvidenza nella notizia che n’ebbi nel Sabato Santo, Provvidenza nell’errore da voi commesso mandandomi la lettera dell’Agliardi, Provvidenza nel fare questa sottomissione pubblica in Cattedrale, il dì di Pasqua [...]. Ah, se il S. Padre potesse leggermi in cuore, vedrebbe come io l’amo, come sia pronto a sacrificarmi per lui» (Astori, p. 14).
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Un’ipotesi di soluzione che anticipava i tempi
UN VATICANO ALLARGATO CENTRO
DEL MONDO CATTOLICO
Monsignor Bonomelli sulla vexata questio del potere temporale condivise i progetti di soluzione con molti personaggi del laicato e del clero dell’ala transigente. Ne discusse soprattutto col vescovo di Piacenza Giovanni Battista Scalabrini, con il quale scambiò conversazioni e un epistolario che per molti aspetti raggiunge un livello che non è esagerato definire patristico.
Monsignor Bonomelli delineava anche i confini e le dimensioni del possedimento sul quale la Santa Sede avrebbe fondato la sua sovranità e garantito la sua indipendenza:
«Diasi al Papa almeno la riva destra di Roma, con una striscia fino al mare, con una zona di qualche chilometro dietro al Vaticano, dove si potrebbe poco a poco fabbricare una città nuova; essa sarebbe un Principato di Monaco, una piccola Repubblica di S. Marino, o delle Andorre, alcunché di simile. Qui non vi sarebbe bisogno di pubblici uffici, né di guarnigioni. Per la sua piccolezza non potrebbe suscitare timori e gelosie né nel Governo italiano né in altri Governi. Sarebbe un Vaticano allargato, con una popolazione di una diecina di migliaia di anime o poco più. Per il Governo non creerebbe alcun imbarazzo e lo libererebbe da molti e tosto [...].
«La nuova cittadella sarebbe una vera terra di Gessen, un’oasi felice, un santuario nel cuore d’Italia, un asilo di pace, il porto sicuro e tranquillo, il punto che irraggia lume su tutta la terra, al qual si traggon d’ogni parte i pesi, il centro del mondo cattolico, la novella Sion, donde partirebbero gli oracoli e le parole di vita. Quale spettacolo! Qual gloria per l’Italia nostra! Da una parte il Quirinale, il Re d’Italia; dall’altra la forza morale, la prima forza morale d’Italia e del mondo; dall’una parte la spada, dall’altra il pastorale; da una parte il Pontefice, che prega e benedice, dall’altra il Re, che impera [...]. I nostri occhi verserebbero lagrime di gioia inesprimibile; i nostri cuori balzerebbero concitati, colmi, riboccanti di giubilo in quel dì, che il Re e l’amabile Regina ed il giovane Principe, accompagnati dalla corte, salissero le scale del Vaticano, e il candido Vegliardo che vi risiede movesse loro incontro e si abbracciassero» (Roma e l’Italia..., p. 48). Come tutti sanno, la Santa Sede nel 1929 si contentò di una superficie ben più modesta, anzi quasi simbolica. Monsignor Bonomelli fu premiato con una consolazione in misura piena, scossa, traboccante.
r.f.e.
Rinnegò pubblicamente, ma non tradì la fedeltà alla coscienza e alla lealtà storica
«MI SOTTOMISI, MA LA VERITÀ È VERITÀ
E STA SOPRA IL PAPA»
Il giorno di Pasqua del 1889, dopo aver pronunciato l’omelia, nella cattedrale di Cremona gremita di fedeli, alla presenza di tutto il clero e di 280 chierici, monsignor Geremia Bonomelli lesse la seguente dichiarazione: «Io sono l’autore dell’opuscolo Roma e l’Italia e la realtà delle cose. Il soldato deve ubbidire al suo duce, e io devo ubbidire al mio Duce supremo, il Santo Padre. Appena con sua lettera, Egli biasimò l’opuscolo anonimo, io m’affrettai a fare la mia sottomissione anonima, che fu pubblicata dai giornali. Ieri sera appresi che l’opuscolo era stato messo all’Indice il 19 del c.m. [in realtà il decreto porta la data del 13 aprile] mi reputerei colpevole, e più colpevole di tutti, perché vescovo, se tardassi un sol giorno a fare la mia sottomissione pubblica e a dare la dovuta riparazione. Ciò che ripetutamente dissi e promisi nell’opuscolo, lealmente lo mantengo. Prontamente, schiettamente, totalmente, come figlio devotissimo, sottopongo me e il mio opuscolo al giudizio del Santo Padre, nel modo e nel senso che Egli desidera; accetto la condanna, dolente di averlo afflitto, e gliene chiedo perdono.
«Come potrei io esigere ubbidienza dal mio popolo, dal mio clero, se non andassi innanzi con l’esempio? Mi condannerei da me stesso. Mi conforta e mi riempie di gioia il pensiero di mostrare, con questo atto pubblico, alla mia diocesi, al mio clero, specialmente ai miei direttissimi chierici, qui presenti, come si ha da obbedire al Capo Supremo della Chiesa» (Civiltà Cattolica, 1889, II, pp. 491-492; Astori, p. 12).
Questo gesto ha incontrato l’unanimità dei consensi presso gli storici, e l’ammirazione nei confronti del vescovo di Cremona non ha fatto che crescere. Gli autori concordano anche nell’affermare che il presule obbedì "in piedi", nel senso che si adeguò alle direttive della Santa Sede senza però tradire la fedeltà alla coscienza e alla lealtà storica, sempre più ampiamente giustificata dagli eventi. «L’obbedientissimo in Cristo che accetta 11 incidenti, 11 condanne, le accetta con obbedienza libera, con obbedienza in piedi».
r.f.e.
Nota bibliografica
Astori Guido, L’opuscolo "Roma e l’Italia e la realtà delle cose" di monsignor G.B., "Vita e pensiero", A. 15, Aprile 1929, estr. p. 17;
Id., "Roma e l’Italia..." di monsignor G.B., nel XXV della morte. L’opera sua per la Conciliazione, Ivi, 1939, n. 30, pp. 574-581;
Cornaggia-Medici L., Antesignani della Conciliazione, Fidenza, 1936;
Korberch Audily, Voce d’Oltretomba, ossia recensione analitico-critica del "Roma e la realtà delle cose", Paris, Amat, 1911, p. 867;
Corrispondenza inedita fra monsignor G.B. ed il Sen. Tancredi Canonico (1902-1908), a cura di G. Astori, Brescia, Morcelliana 1937 (rec. di P. Enrico Rosa, Civiltà Cattolica, 1938, I, pp. 261-267);
Carlo Bellò, G. Bonomelli, Brescia, Morcelliana, 1961;
Fr. Gregari, La vita e l’opera di Monsignor G.B., Torino, Sei, 1934;
P. Guerrini (a cura di), G.B. vescovo di Cremona nel XXV anniversario della morte, Brescia, 1929.
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LA RIFLESSIONE DI UN AMICO CHE CONDIVIDO
Bonomelli è stato uno dei primi autori di apologetica, forse il primo in assoluto, che ho avuto occasione di leggere. Ho apprezzato non solo il rigore argomentativo, ma anche la profonda carità, derivante da una fede sentita e vissuta, che caratterizza le sue opere.
Avere il coraggio di riconoscere, nella propria posizione di Vescovo, la paternità di uno scritto condannato e - soprattutto - di fare pubblica ammenda davanti ai propri fedeli, non è cosa da tutti: qualcuno avrebbe preferito fingere di non aver mai scritto nulla. Questo episodio conferma una volta di più che mons. Bonomelli non era soltanto un cattolico sincero, ma anche una persona nobile d'animo. È triste pensare che oggi ci siano pochissimi pastori come lui.
Quanto al merito dello scritto che fu oggetto di condanna, bisogna essere cauti. Non conosco direttamente l'opuscolo, ma da quanto dice l'articolo emerge che mons. Bonomelli aveva un'idea abbastanza convenzionale della questione romana e, per di più, non era a conoscenza di molti fatti. È ormai noto, per esempio, che Pio IX, ben prima della presa di Roma, era in trattative con i Savoia per cedere loro tutti i suoi domini, mantenendo per sé un territorio che sarebbe stato di poco più grande dell'attuale Città del Vaticano. Il Papa, infatti, non era uno stupido o un visionario. Sapeva perfettamente quali erano le aspirazioni degli Italiani. Sapeva che uno Stato regionale come quello della Chiesa era, in quei tempi, anacronistico. Ma sapeva pure che lo scopo della massoneria e delle altre associazioni anticlericali non era soltanto quello di rendere unita l'Italia: essi speravano, sia pure a lungo termine, che privando il Papa della propria sovranità politica, si sarebbe alla fine ottenuta quella supremazia dello Stato sulla Chiesa, che essi non si facevano scrupolo di difendere sia a voce che per iscritto.
Le trattative andarono avanti, ma le logge fecero una dura opposizione. Infatti, se l'accordo fosse stato concluso, non si sarebbe potuta divulgare la favola del Papa avido e attaccato al potere. Come infatti poi accadde. Il precipitare degli eventi (la caduta di Napoleone III e il conseguente ritiro dei francesi dallo Stato della Chiesa) ruppe bruscamente i tentativi di accordo e fu ordinata una ridicola invasione militare della Chiesa, ridicola, ho detto, perché non vi fu alcun vero combattimento. L'atteggiamento del Papa di fronte a questi eventi fu pienamente giustificato: in primo luogo, perché la sua disponibilità a trattare era stata tradita; e poi, perché, considerato il modo di agire della massoneria dell'epoca, c'era il grave rischio che il Papa, come cittadino, finisse per essere sottomesso allo Stato. La legge delle Guarentige, infatti, pur sancendo l'inviolabilità del Pontefice, non lo sottraeva dall'autorità dello Stato italiano. E, in ogni caso, si trattava di una concessione unilaterale, revocabile a piacimento dei governanti. Questa situazione, come tutti sappiamo, ha trovato adeguata soluzione solo col Trattato Lateranense del 1929.
Tornando allo scritto del Bonomelli, sinceramente capisco che, dopo vari anni dalla conquista di Roma, si formulasse l'auspicio di guardare avanti. Quel che era successo, era successo: ora si trattava di rendere possibile l'influenza dei cattolici nella politica italiana. Fin qui si tratta di desideri legittimi. Vi si riscontrano però, al tempo stesso, ingenuità allarmanti. Per esempio, si inneggia, neppure troppo velatamente, alla caduta del potere temporale dei Papi (sia pure auspicando la concessione di un piccolo territorio), ma non si fa una parola sull'arroganza del potere statale, che si guardò bene dall'offrire al Papa anche solo pochi chilometri quadrati di terreno.
Ma, tutto sommato, si tratta di un atteggiamento giustificabile, dovuto sia alla vicinanza coi fatti (che non ne consente un'analisi completa e obiettiva), sia alla propaganda risorgimentale che insisteva su questi punti. Meno giustificabile è che di queste cose non abbia parlato l'articolista, pericolosamente in bilico tra l'elogio dell'obbedienza e quello del libero pensiero.
Daniele (Fiat Pax)
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)