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Referendum 4 dicembre 2016 non voltiamo la faccia altrove

Ultimo Aggiornamento: 29/09/2016 18:31
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27/09/2016 13:21
 
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AL VOTO IL 4 DICEMBRE

 




Quello che per mesi veniva definito “il referendum di ottobre” ora si chiamerà “il referendum di dicembre”. Il consiglio dei ministri ieri ha infatti stabilito la data di quell’appuntamento con le urne: domenica 4 dicembre.  Si vota per il “Si” o il “No” alla riforma costituzionale, ma anche per il futuro o la caduta del governo.



di Ruben Razzante



Il 4 dicembre il referendum sulla riforma costituzionale



In una trasmissione televisiva in primavera il premier Matteo Renzi aveva auspicato che la consultazione referendaria potesse svolgersi già il 2 ottobre. 


Non vedeva l’ora di archiviare la pratica e di andare alla resa dei conti con gli avversari, in particolare la minoranza dem. Col trascorrere delle settimane, però, si è convinto che la vittoria dei “Si” non sarebbe stata una passeggiata e, dopo la sconfitta alle amministrative di giugno, ha pensato bene di prendere tempo e di far slittare il più possibile l’appuntamento con le urne. Le preoccupazioni di Palazzo Chigi si sono progressivamente sommate a quelle del Quirinale, che ha suggerito a Renzi di tenere un profilo basso e di non esasperare i toni della contrapposizione tra “Si” e “No”. Per mesi, infatti, il premier aveva legato indissolubilmente all’esito del referendum il futuro politico del suo governo e perfino della legislatura, contribuendo in questo modo a compattare il composito fronte antirenziano. 


La personalizzazione del referendum era un errore e così, gradualmente, Renzi ha cambiato registro ha cercato di puntare sui contenuti della riforma Boschi e non sulla sua personale vittoria politica in caso di prevalenza dei “Si”. Per ora, però, i sondaggi continuano a dare in vantaggio i “No”, nonostante risulti più facile, almeno in teoria, fare propaganda per i “Si”, sbandierando ai quattro venti la reale o presunta riduzione dei costi della politica, la reale o presunta semplificazione nell’approvazione delle leggi e gli altri risultati che si otterrebbero se la riforma Boschi raccogliesse la maggioranza dei voti nelle urne. Difficile, per i sostenitori del “No”, argomentare rispetto alla necessità di difendere la Costituzione, visto che l’attuale stato di dissesto in cui si trova il Paese è figlio anche degli errori commessi dai Costituenti nella stesura di alcuni articoli, in particolare quelli sulla Costituzione economica, che hanno indirizzato in modo rigidamente statalista l’attività legislativa.


Ma le opposizioni sono tutte compatte per il “No”, dal Movimento Cinque Stelle a Sinistra italiana, passando per i partiti del centrodestra (più determinata la Lega, più tiepida e divisa Forza Italia). Almeno numericamente, considerato che a favore del “Si” si esprimono soltanto la maggioranza del Pd, gli alfaniani e alcuni cespugli filogovernativi come i verdiniani, non ci sarebbe partita e dovrebbero prevalere i voti contrari alla riforma, ma si sa che a due mesi e mezzo di distanza da un referendum possono accadere tante cose.  
La scelta della data del 4 dicembre è figlia di due paure: quella del presidente del Consiglio di perdere il referendum e di doversi rimangiare la solenne promessa di lasciare la politica in caso di sconfitta, pur di restare in sella; quella del Quirinale di mettere in cassaforte i conti pubblici e quindi la legge di stabilità. Anche una settimana in più di tempo potrebbe significare per il premier riuscire a convincere altri elettori indecisi, magari allargando i cordoni della borsa con l’avallo di Bruxelles o sfruttando il possibile miglioramento di qualche indicatore macro-economico. 

Il problema, però, è che il Paese resterà impantanato fino a fine anno in una lacerante campagna referendaria che distoglierà energia dalle vere e incalzanti priorità socio-economiche. E poi c’è una questione di metodo: così come la legge elettorale, che riguarda tutti gli italiani e tutti i partiti, anche la data del referendum andava concordata con le opposizioni, che invece ieri hanno lamentato di non essere state consultate. Renzi sembra aver agito ancora una volta sulla base delle proprie convenienze e di quello che ritiene possa essere il suo tornaconto elettorale. Decidere di far votare gli italiani alla vigilia di un mega-ponte e delle festività natalizie potrà forse tornare utile a lui, ma non corrisponde certamente al bene del Paese e spingerà molta gente all’astensione. 

Bisognerà capire se scoraggerà di più chi è orientato al “Si” oppure chi è orientato al “No”. Visto che la posta in palio è davvero elevata, l’impressione è che l’Agcom dovrà vigilare con accortezza sull’effettivo rispetto della par condicio da parte dei mezzi d’informazione. La sfida referendaria si deciderà anche per via mediatica.




VERSO IL REFERENDUM/2
 

«La modifica della Costituzione serve alle multinazionali, alle banche, alla finanza», a scapito degli interessi dei cittadini italiani. Lo ha detto il presidente emerito della Corte Costituzionale, Paolo Maddalena, invitando gli elettori a respingere la riforma con un “No” al referendum. Ha davvero ragione? Sì, e in questo articolo dedicato alla riforma, l'avvocato Francesco Farri, del Centro Studi Livatino, spiega il perché. 

Francesco Farri*


Con l’intervento dell’avvocato Francesco Farri prosegue la collaborazione del Centro studi Livatino (www.centrostudilivatino.it) tesa a illustrare i passaggi più significativi della riforma costituzionale e a sottolinearne i profili problematici, allo scopo di avvicinarsi alla scadenza del voto referendario avendo consapevolezza dei contenuti delle modifiche, e lasciando da parte gli slogan.

 

Negli ultimi mesi, si sono levate, anche dall'estero, molte voci provenienti dal mondo dell'economia, della finanza, dei social networks e, da ultimo, anche della diplomazia, le quali hanno dipinto la riforma costituzionale italiana come ultima chance per il salvataggio del sistema Italia. Per converso, il presidente emerito della Corte Costituzionale, Paolo Maddalena, ha denunciato che «la modifica della Costituzione serve alle multinazionali, alle banche, alla finanza», a scapito degli interessi dei cittadini italiani. Di chi fidarsi? 

Importanti indicazioni giuridiche per la risposta possono trarsi in quello che, a riforma approvata,diverrebbe il nuovo articolo 72, comma 7 della Costituzione. Nel cervellotico quadro dei nuovi procedimenti legislativi, la nuova Costituzione ne introduce uno per cui il governo, «indicando» un disegno di legge come «essenziale per l'attuazione del programma di governo», può in sintesi ottenere dalla Camera la definitiva approvazione delle proprie proposte entro tre mesi (giorni 5 + 70 + 5 + 15), prorogabili di due settimane in casi di particolare complessità.  Potrebbe osservarsi: è giusto che in certi casi sia riconosciuta al governo una corsia preferenziale in Parlamento! 

Vero, ma è essenziale l’individuazione di tali casi e degli strumenti utilizzabili nella corsiapreferenziale. I Costituenti avevano ben previsto l'esigenza di una corsia preferenziale per il governo (il decreto legge), ma avevano stabilito precisi limiti (effettiva ragione di straordinaria necessità e urgenza) e conseguenze (responsabilità del governo e perdita di efficacia fin dall'inizio del testo normativo in difetto di conversione entro sessanta giorni) della percorrenza di essa.

E il nuovo art. 72, comma 7?  Esso non prevede né apprezzabili limiti di utilizzo, né conseguenze.L'estrema vaghezza dei termini utilizzati (la essenzialità «per l'attuazione del programma di governo» appare un concetto squisitamente politico e, come tale, pressoché insindacabile) e l'àmbito estremamente ristretto delle esclusioni da tale procedimento previste in Costituzione (al regolamento della Camera si rinvia, infatti, per la sola disciplina procedimentale) lo rende sostanzialmente versatile ad ogni uso, ma anche ad ogni abuso da parte del governo, cosa che invece la Corte Costituzionale garantiva fosse esclusa per il decreto legge. Quanto alle conseguenze, appare evidente che - rispetto alla disciplina del d.l., che pure viene mantenuta - non è qui prevista la responsabilità del governo né la decadenza del testo normativo se i termini non sono rispettati. 

E se è così, che funzione ha il nuovo art. 72, comma 7?  Proprio questo è il punto.  Infatti, sesapientemente combinato con l'utilizzo della questione di fiducia (senza la quale il meccanismo non funzionerebbe), esso permette al governo di "forzare" con un blitz il legislatore ad attuare il progetto presentato dal governo stesso ottenendo i seguenti “benefici”: (1) minimizzazione della discussione parlamentare e sacrificio della tutela delle minoranze, garantite dal normale iter legislativo; (2) aggiramento delle tutele di cui è circondato il decreto legge; (3) sostanziale impedimento di ogni mobilitazione contro l'iniziativa governativa da parte dell'opinione pubblica, che in tre mesi farebbe appena in tempo ad avere notizia di quello che sta succedendo nelle segrete stanze.

Chi può, al giorno d'oggi, avere interesse a conseguire “benefici” di questo tipo? Volendo tralasciare  le ipotesi più radicali, la risposta appare semplice: si tratta dei gruppi d'interesse che, operando al di fuori del circuito di legittimazione democratica e dall'humus dell'opinione pubblica nazionale, necessitano tuttavia del supporto normativo per attuare i propri interessi. Si tratta, in altre parole, di quelle che oggi sono indicate come "lobby".  Per definizione, esse si trovano spesso nella condizione di poter influenzare (e "ricattare" politicamente) singole persone (come, ad esempio, quelle che siedono in un governo), ma molto più difficilmente esse si trovano in condizione di poter direttamente "ricattare" istituzioni come un Parlamento nazionale o una Corte Costituzionale. 

E ciò è vero specie in Italia, dove il sistema costruito dai Costituenti si è mostrato estremamentegarantista per gli interessi del popolo sovrano e ha creato una coscienza collettiva forte, matura e capace di mobilitarsi e opporsi con vigore a iniziative che ha trasversalmente percepito come estranee all'interesse del Paese. Ecco che il nuovo meccanismo legislativo dell'art. 72, comma 7, magicamente, fornisce il grimaldello che alle lobby mancava per annidarsi stabilmente nella legislazione italiana. Con esso, infatti, il governo non ha più alibi: esso può far digerire al Parlamento quel che vuole, senza lacciuoli e prendendo in contropiede ogni forma di rilevante reazione dell'opinione pubblica. 

Con esso, si crea un efficacissimo trait d'union tra persone fisiche del governo ("ricattabili" dallelobby) e Parlamento (non direttamente "ricattabile" dalle lobby, ma "ricattabile" dal governo tramite voto di fiducia), che non permetterà al governo di sottrarsi dal cappio che le lobby facilmente possono porgli al collo. La ricattabilità di un primo ministro che voglia salvare la poltrona diverrà la ricattabilità dell'Italia. 

Come brandito dai sostenitori di progetti di legge invisi a larga parte dell'opinione pubblica, con ilnuovo sistema legislativo una drastica riduzione delle pensioni al pari di una legge Scalfarotto, una privatizzazione del sistema sanitario al pari dell'eutanasia per i bambini, potranno esser legge quasi di nascosto, senza che il corpo elettorale faccia in tempo ad accorgersene e organizzare manifestazioni di opposizione. Il nuovo procedimento legislativo incarna la logica del fatto compiuto e la logica del sotterfugio, molto più e strutturalmente più di quanto avvenga adesso. Con esso, si istituzionalizza una forma di blitz legislativo che solo le lobby possono avere interesse a sfruttare. La riforma del procedimento legislativo è la pesante ipoteca delle lobby sui valori e sugli interessi dell'Italia.

Riallacciandosi alla domanda iniziale, quindi, può dirsi che sia i finanzieri stranieri sia il presidenteMaddalena abbiano ragione. Di chi fidarsi, dipende dagli interessi che vogliono tutelarsi: se vogliono tutelarsi gli interessi delle lobby della finanza e delle colonizzazioni ideologiche, la riforma costituzionale è lo strumento migliore. Ma tali interessi contrastano strutturalmente con gli interessi dei cittadini e con i valori della nostra Repubblica. E se vogliono salvaguardarsi gli interessi e i valori degli Italiani, allora una riforma costituzionale di questo tipo merita di esser spazzata via senza residui. E senza rimpianti: solo con un gran sospiro di sollievo.

 

*avvocato del Centro Studi Livatino






VERSO IL REFERENDUM/2
 

Non riduce i costi della politica, colpisce l’autonoma degli enti territoriali, innesca pericolosi conflitti istituzionali, riducendo al lumicino il ruolo legislativo del Senato. Da qui un’involuzione autoritaria che si produrrà con una riforma costituzionale che concentra tutto il potere nel governo. Lo dice Mauro Ronco è presidente del Centro studi Livatino e ordinario di diritto penale all’Università di Padova, nel primo di una serie di interventi sulla riforma costituzionale. 

di Mauro Ronco*

La riforma costituzionale sottoposta a referendum nei prossimi mesi si presenta come diretta a 1) superare il bicameralismo paritario; 2) ridurre il numero dei parlamentari; III contenere il costo di funzionamento delle istituzioni; IV) sopprimere il Cnel e V) revisionare il titolo V della parte II della Costituzione, relativo agli enti di autonomia territoriale.

1. Profili demagogici della riforma. - Alcuni obiettivi indicati nel  titolo del testo di legge appaiono di natura prevalentemente simbolica, non trovando riscontri puntuali nel tessuto normativo. Ciò vale in modo particolare per il tema relativo al contenimento dei costi della politica, che non è direttamente preso in considerazione dalle nuove disposizioni normative ed appare quasi un pretesto per la presentazione demagogica della legge. Anche la soppressione del Cnel, pur auspicata da molti, non sembra incidere in modo significativo sui costi della politica. 

 2. Il carattere pletorico e sovrabbondante del testo. - Il testo si presenta pletorico e sovrabbondante. La Costituzione, come legge fondamentale del Paese, deve limitarsi a dire l’essenziale in ordine alla composizione, ai poteri e al funzionamento degli organi che presidiano la vita politica e amministrativa dello Stato. L’essenzialità esprime in modo chiaro le caratteristiche dell’ordinamento, lasciando spazio alle consuetudini costituzionali che plasmano a poco a poco il tessuto normativo destinato a reggere il funzionamento degli organi supremi dello Stato. La riforma, invece, scende nel dettaglio della regolamentazione, soprattutto in tema di formazione delle leggi, rischiando di provocare conflitti interpretativi e politici tra la Camera dei Deputati e il Senato, con probabili ricadute sulla conformità costituzionale delle leggi per vizi procedurali nell’iter di formazione. 

3. La degradazione del Senato. - La riforma del Senato è criticabile per più aspetti. Più che di riforma,sembra corretto parlare di degradazione del Senato.  Ciò soprattutto per le modifiche degli articoli 78, 79, 80 e 94 della Costituzione. i) Il nuovo art. 78 prevede che lo stato di guerra sia dichiarato dalla sola Camera dei deputati; II lo stesso vale ai sensi del nuovo art. 79 per le leggi che contemplano l’amnistia e l’indulto; III) il nuovo art. 82 sottrae al Senato il potere generale di disporre inchieste su materie di pubblico interesse, ammettendolo per le sole materie concernenti le autonomie territoriali. IV) Il nuovo art. 94 riserva alla Camera il potere fondamentale di concedere o revocare la fiducia al governo. In questo modo il Senato è sostanzialmente escluso dall’esercizio effettivo dei poteri costituzionali. 

I poteri del Senato sono ridotti al lumicino anche per quanto attiene all’approvazione delle leggi dibilancio e di rendiconto consuntivo presentate dal governo, posto che al Senato sono riservate soltanto “proposte di modificazione ai disegni di legge” che importano nuove e maggiori spese nel breve termine di quindici giorni dalla trasmissione dei disegni di legge approvati dalla Camera dei Deputati (cfr. il nuovo art. 70 terz’ultimo comma della Costituzione). Il Senato è così sostanzialmente escluso anche dal controllo del bilancio dello Stato. 

4. L’incongrua composizione e l’inaccettabilità delle modalità di elezione dei senatori. - La  degradazione del Senato è evidente anche alla luce della sua composizione e delle modalità di elezione dei suoi componenti. I senatori, in numero di 95 (è prevista la facoltà del Capo dello Stato di eleggere 5 senatori, non più a vita, ma per la durata di sette anni), non sono eletti direttamente dal corpo elettorale, bensì dai Consigli regionali tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascun Consiglio, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori. Inoltre, la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, con evidenti effetti di instabilità per quanto riguarda la vita dell’organo. 

In questo modo: I) la riduzione drastica dei poteri, II) l’elezione di secondo grado e la perdita di unrapporto diretto con l’elettorato; III) il collegamento funzionale e temporale del singolo senatore con la carica rivestita in sede locale fanno di quest’organo un elemento meramente esornativo del quadro costituzionale. Il Senato così costituito, lungi dal rappresentare la più alta e autorevole istanza costituzionale, non potrà non subire un’involuzione in una di queste due direzioni, entrambe contrarie al buon andamento della funzione di direzione politica dello Stato. Il Senato diventerà o un ente inutile, simile al Cnel, perché privo di poteri politici effettivi, come capitava all’ente soppresso; ovvero diventerà un organo generatore di conflitti e di contestazioni dell’operato della Camera, come ritorsione pseudo-politica di un corpo politico degradato. 

5. La perdita di rappresentatività e di autorevolezza. – La degradazione del Senato concerne anche idue profili fondamentali della rappresentatività e della competenza ed autorevolezza dell’organo.  In ogni ordinamento di epoche passate o negli altri Stati contemporanei, la Costituzione si è sempre preoccupata di individuare una Camera alta, cui spettasse pronunciare le parole più autorevoli nei momenti di crisi e le decisioni più difficili che si presentano nel corso della vita statale. Per soddisfare questa esigenza la scelta dei componenti di tale organo ha fatto leva o sulla sua capacità di rappresentare entità omogenee, territoriali o professionali che hanno rilievo nella società civile, ovvero sull’autorevolezza politica, scientifica e professionale dei suoi componenti. La riforma, rinnegando entrambi i criteri, prevede un Senato impotente e dequalificato. 

6. L’involuzione autoritaria. - La degradazione del Senato ha un significato politico involutivo di segno autoritario, provocando la concentrazione del potere nel blocco che si verrà a costituire tra il Governo e la Camera dei Deputati, sempre più controllato dalla maggioranza parlamentare, anche se ridotta e non rappresentativa, né qualitativamente né quantitativamente, dell’intero corpo elettorale. Come si è potuto constatare con riferimento all’intera storia costituzionale della Repubblica, il Senato ha esercitato spesso un ruolo equilibratore nello scenario costituzionale. 

É vero che il bicameralismo paritario ha attirato frequentemente le critiche degli studiosi per laduplicazione di identiche funzioni, nocivo soprattutto sul piano del procedimento di formazione delle leggi. Ma il testo della riforma non incide primariamente su questo versante, poiché l’attuale art. 70 prevede, oltre alla competenza concorrente di Camera e Senato per alcune materie, altresì che ogni disegno di legge approvato dalla Camera sia trasmesso al Senato. Questo, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo, deliberando proposte di modificazione del testo. La riforma è rilevante soprattutto sul piano politico, poiché il Senato è integralmente estromesso dal circuito della fiducia che deve intercorrere tra il Governo e il Parlamento, ed è privato dei più significativi poteri che spettano a un organo costituzionale dello Stato.

7. La riforma delle autonomie territoriali. - Anche la riforma apportata al Titolo V in ordine alleautonomie territoriali presenta una forte accentuazione centralistica. Ciò in forza soprattutto della modifica radicale degli artt. 117 e 119 Costituzione. La prima modifica incide sulla potestà legislativa, con la soppressione della potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni e con la previsione che la legge dello Stato può intervenire, su proposta del governo, anche in materie non riservate alla sua legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale. L’art. 119 apporta modifiche sull’autonomia finanziaria delle Regioni nel campo delle entrate e delle spese. L’autonomia regionale è formalmente rimasta, ma il nuovo art. 119 prevede che essa si attui “nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci”, concorrendo ad “assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea”. 

Il Titolo V della seconda parte della Costituzione, concernente le autonomie territoriali, meritavacertamente, dopo la disastrosa riforma adottata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, di essere completamente ripensato allo scopo tanto di ridurre il contenzioso tra Stato e Regioni nelle materie coperte dalla potestà legislativa concorrente, quanto di coordinare i bilanci regionali ai vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea. 

La riforma, tuttavia, si è mossa con l’obiettivo di realizzare un accentramento essenzialmente in odiodelle autonomie locali. Nessun serio confronto è stato aperto sul tema fondamentale della compatibilità tra il sistema delle autonomie territoriali, il sistema statale e il complesso ordinamento dell’Unione Europea. Di questo tema cruciale non v’è traccia nel testo riformato, quando è evidente lo squilibrio generato dalla sovrabbondanza dei poteri dell’Unione Europea, che schiaccia l’autonomia dello Stato e ancor più delle Regioni.

 

* presidente Centro Studi Livatino, ordinario di Diritto penale all’Università di Padova







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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