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Quando il Papa disse: FATE CONOSCERE IL MAGISTERO DELLA CHIESA

Ultimo Aggiornamento: 23/04/2011 20:07
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29/06/2010 21:52
 
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La propaganda fidei di Wojtyla. Crisi curiale, gossip e iconoclastia: ma ci vuol altro per un Papa Magno

Prima le accuse di copertura dei peccati carnali del clero mosse contro gran parte dell’establishment della curia romana sotto il pontificato precedente a quello di Benedetto XVI. Poi un importante cardinale italiano, amico fedelissimo della casa pontificia di Giovanni Paolo II, indagato per corruzione dalla magistratura italiana: Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, tra i più capaci factotum del pontificato wojtyliano, dal 2001 al 2006 “Papa rosso” e cioè prefetto di Propaganda fide. Sono dei flashback tra il chiaro e l’oscuro che, da diverse settimane, arrivano a condizionare il giudizio su un protagonista indiscusso della fine del Novecento: Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla, il cardinale polacco che sale al soglio di Pietro una sera di ottobre del 1978 dopo lo choc della fine repentina (33 giorni appena) del primo Giovanni Paolo, l’italiano Albino Luciani. Wojtyla, l’uomo che il popolo vuole “santo subito” il giorno delle esequie in piazza San Pietro (8 aprile 2005). Alla cerimonia partecipa un parterre mai visto prima di capi di stato e re e autorità religiose mondiali. L’attuale decano del collegio cardinalizio, il cardinale Angelo Sodano, definisce Giovanni Paolo, nelle ore successive alla sua morte, “Papa Magno”. Sul sagrato di San Pietro Ratzinger, il decano di allora e futuro Papa, accenna alla presenza celeste dell’anima del Papa defunto, mentre il vento scompiglia le cotte porpora dei cardinali e le pagine del Vangelo posto sulla bara. Ora, più o meno tra le righe, incomincia un esercizio dissacratorio: è l’intero quarto di secolo in cui quel gigante è stato al timone della chiesa che viene rivisitato da fuori, ma anche da dentro le sacre mura, con un ritratto pieno di ombre.

Dall’elezione di Luciani all’apparizione sulla loggia centrale della basilica vaticana di un Papa inatteso che sorride a Roma e dice in un italiano stentato “se sbaglio mi corrigerete”, c’è il lasso di tempo di un respiro. Wojtyla cerca da subito la comprensione del popolo e in particolare l’affetto di Roma. Dirà don Stanislaw Dziwisz, suo segretario particolare: “Un attimo prima che i cerimonieri aprissero le ante della loggia della benedizione, la sera del 16 ottobre 1978, Wojtyla chiede: ‘Come mi accoglieranno i romani, cosa diranno di un Papa venuto da un paese lontano?’”. Inizialmente non dicono nulla, i romani. Si guardano increduli cercando di decifrare quel cognome tanto strano. Ma poi, già alle prime balbettate parole, piovono applausi. E sorrisi: è un feeling da subito indissolubile quello tra Wojtyla e Roma, tra il Papa e l’Italia. Dopo quasi mezzo millennio – dal tempo cioè di Adriano VI (1522-1523) – il collegio dei cardinali torna a scegliere come vescovo di Roma un ecclesiastico straniero. Per la prima volta a divenire Pontefice romano è uno slavo. “Da un paese lontano” scrive Gian Maria Vian sull’Osservatore Romano il 16 ottobre del 2008, “furono le parole che Wojtyla disse subito alla città che amava sin dal tempo dei suoi studi e a quel mondo che presto avrebbe cominciato a percorrere da Papa”. E ancora: “Con la passione di un mistico immerso nel suo tempo e il vigore di un’età relativamente giovane (e alla quale i conclavi non erano più abituati dal 1846, quando venne eletto il cinquantaquattrenne Giovanni Maria Mastai Ferretti).

Si iniziava così un pontificato che sarebbe stato il più lungo dopo quello di Pio IX. Lungo e soprattutto di rilevanza storicamente incisiva nelle vicende dell’ultimo scorcio del Novecento, sino a entrare nei primi anni del nuovo secolo. Secondo una visione della storia che Giovanni Paolo II lasciò trasparire sin dalla sua prima enciclica, dove era disegnato il cammino del cattolicesimo avviato a compiere il secondo Millennio”. C’è un tratto di Giovanni Paolo II che più d’altri dà fastidio, disturba: il suo essere anti moderno. “L’ultimo Papa anti moderno” scrive poche ore dopo la sua morte Sandro Magister. Un Papa che propone la fede come antidoto allo spirito dei tempi. Un Pontefice non conforme alle mode del momento e per questo osteggiato. La fede, per lui, è una spada da piantare nel cuore del mondo. Nessun arretramento. Nessun senso d’inferiorità. Fino all’ultimo. Fino al Giubileo del 2000 e alla croce della malattia, i due momenti più alti della sua epopea. Festa e dolore vissuti alla luce della fede, in pubblico, davanti a tutti. Certo, non tutti nella chiesa apprezzano. Anche Ratzinger, che con Wojtyla ha piena sintonia di vedute e di linea e che su nessun terreno gli è stato avversario, alla vigilia del Giubileo confida ai giornalisti di essere “un po’ tra quelle persone che hanno difficoltà a trovarsi in una struttura celebrativa permanente”. Poi, alla presentazione di un fascicolo dedicato all’anno giubilare, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede cita un giudizio di Giovanni Papini sul Giubileo del 1950, il quale si lamenta che “moltissimi, troppi, ne discorrono (del Giubileo) come se dovesse essere una fruttuosa stagione turistica”.

Wojtyla fa parlare di sé fin dall’inizio. Il 22 ottobre 1978 San Pietro è addobbata a festa per l’inizio del Pontificato. Dice il Papa: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa ‘cosa è dentro l’uomo’. Solo lui lo sa!”. Dopo tre secoli di liberalismo, illuminismo, comunismo e capitalismo, Wojtyla si convince che occorre non solo resistere ma anche contrattaccare. Chiamare alla battaglia cristiani forti e pugnaci. Le parole del Papa e i primi gesti del pontificato scuotono i fedeli. Racconta George Weigel, biografo di Wojtyla: “Nel 1978 abitavo a Seattle. La notizia dell’elezione di Wojtyla arrivò all’ora di pranzo. Come tanti altri non sapevo nulla di lui, e non immaginavo che di lì a poco avrebbe cambiato il mondo (oltre che la mia vita). Dal 2 al 10 giugno 1979 Wojtyla visitò la Polonia: i ‘nove giorni di Giovanni Paolo II’, li chiamo nel capitolo conclusivo della biografia ‘The end and the beginning’ che uscirà in settembre. Furono quei giorni che mi convinsero che quest’uomo aveva la capacità di plasmare la storia”.
Wojtyla viene eletto principalmente dai cardinali dei paesi benestanti: tedeschi, olandesi, nordamericani. L’idea è una: conficcare nel cuore dell’impero sovietico un puntello capace di scardinarne il sistema. Ma forse molti dei cardinali che l’hanno eletto sottovalutano l’altra caratteristica di Wojtyla: il suo essere antimoderno rispetto all’occidente, alla sua mancanza di fede, al suo modo di vivere dimentico di Dio. Massimo Camisasca negli anni di Wojtyla è portavoce di Cl in Vaticano. Ricorda la novità dirompente di quelle ore.

Dice: “Per valutare esattamente la svolta che il pontificato di Giovanni Paolo II ha impresso alla vita della chiesa occorre riandare alla fine degli anni Settanta, profondamente segnati dalla confusione: nella teologia, nell’educazione dei sacerdoti, nella liturgia, nella concezione che gli uomini di chiesa avevano del sacramento ecclesiale. In pochi mesi ci si è trovati catapultati in un altro clima. All’incertezza, al dubbio sono succeduti la chiarezza e il coraggio. Attraverso eventi straordinari Giovanni Paolo II ridà a una moltitudine di uomini la fierezza della fede o anche semplicemente la fierezza della loro umanità. La straordinarietà dei viaggi, la planetarietà degli interventi sottraggono inevitabilmente energie alla guida ordinaria della chiesa. Alcuni problemi sono rimasti aperti: la ricerca di uomini più validi per l’episcopato, la riforma dei seminari, un più efficace inserimento delle forze vive dei movimenti e delle nuove comunità nella realtà delle diocesi. Ma molto è rimasto: il frutto del pontificato destinato a incidere di più nel futuro della chiesa è, a mio parere, il catechismo della chiesa cattolica, opera di Joseph Ratzinger che però non sarebbe stata possibile senza l’influsso e l’appoggio di Giovanni Paolo II”.

Wojtyla fa capire da subito chi sono i suoi nemici. Il comunismo è tra questi. Lo combatte e lo vince. Ma non se ne prende il merito. Dice: “Il comunismo è caduto da solo, in conseguenza dei suoi errori e abusi”. Spiega Vittorio Messori: “Wojtyla era convinto che il comunismo fosse caduto principalmente per implosione. Insieme, era consapevole che l’annuncio della fede sarebbe stato una necessità per la chiesa anche dopo il comunismo. Per questo viaggiò in tutto il mondo. I suoi viaggi avevano un coté escatologico. Citava il Vangelo dove si legge che Cristo tornerà quando la sua parola sarà annunciata a tutti i popoli. E lui questo si mise a fare: annunciare il Vangelo”. Molto annuncio e poco governo, dicono alcuni. Racconta Messori: “Wojtyla fa una scelta. L’annuncio e non il governo. La missione e, per il resto, l’‘intendance suivra’. Intervistai una volta il cardinale Giuseppe Siri, che fino all’ultimo sarebbe potuto diventare Papa al posto di Wojtyla. Lui sarebbe stato un Papa attento all’amministrazione. Ma i cardinali non lo scelsero”.
Benny Lai, decano dei vaticanisti, conosce bene la curia wojtyliana. E sa che il governo della macchina in realtà c’era. Soltanto non lo gestiva il Papa. Lasciava fare ad altri. Non per disprezzo del governo, ma per scelta di vita. Dice: “Uomini santi insieme a manager che sanno come raggiungere gli obiettivi che si propongono. Questa è la curia di Giovanni Paolo II. Da qui partono anche oggi i giudizi negativi su di lui. Ma chi critica si dimentica che la chiesa non vive di solo spirito. La linfa è fatta anche di soldi. La macchina non sta in piedi solo col cielo.

Servono anche la terra, le donazioni dei fedeli, le collette, l’obolo di San Pietro, l’8 per mille. Wojtyla lo sapeva e non si faceva impressionare. Accettava le donazioni e le ributtava nelle missioni. Solidarnosc è cresciuto grazie ai soldi che Giovanni Paolo II ha girato al sindacato da benefattori polacchi americani. Wojtyla fece da tramite. Wojtyla non voleva governare. Ma non disprezzava l’arte del governo. Sapeva benissimo che la chiesa senza soldi, strutture, apparati, non si regge. Stimava molto Sepe. La stima che aveva per lui era simile a quella che ebbe tempo prima per Paul Casimir Marcinkus. Li vedeva come due amministratori capaci di risolvere i problemi. E li lasciava fare. Forse intuiva che avrebbero potuto anche commettere errori. Ma non se ne preoccupava. Non si scandalizzava e li lasciava lavorare. Non aveva un approccio moralista ai soldi, alla ricchezza”.

Chi ha governato la curia romana al posto di Wojtyla? Risponde Benny Lai: “Quattro persone: Agostino Casaroli, Angelo Sodano, Stanislaw Dziwisz e Wanda Poltawska. Wanda era l’amica prediletta del Papa. I consigli più intimi li chiedeva a lei. Dziwisz era il suo compagno di lavoro fedele. Sodano e Casaroli amministrarono la macchina romana in modo diverso. Casaroli in continuità con la linea dell’appartamento. Sodano fu una sorta di contro altare a Dziwisz e Wanda. Ma comunque amministrarono”.
Per Wojtyla ciò che conta è l’annuncio. E l’annuncio è sempre pubblico. E dunque ha delle conseguenze che non piacciono a tutti: il gigantismo giubilare, l’ipertrofia celebrativa, la moltiplicazione dei santi e dei beati. Tra questi tanti Papi canonizzati. Prima di Giovanni Paolo II, dall’anno 1000 in su, di Papi santi ce n’erano stati solo quattro: Gregorio VII, Celestino V, Pio V, il Papa della battaglia di Lepanto, e Pio X, canonizzato nel 1951. Ma con Giovanni Paolo II si aprono le dighe. Ha fatto beati Giovanni XXIII e Pio IX. Ha definito servi di Dio Pio XII, Paolo VI e Giovanni Paolo I. Degli ultimi nove Papi hanno già l’aureola o l’avranno presto in sei. E oggi? Non tutto è definito. Il processo di Giovanni Paolo II procede. Ma dopo il “santo subito” richiesto in piazza dalla folla adorante il giorno dei funerali, ci sono resistenze. Non tutti dentro la curia romana apprezzano la dispensa concessa da Benedetto XVI dei cinque anni di attesa dopo la morte per aprire l’iter di beatificazione. Il cardinale Sodano, ad esempio, non ha voluto testimoniare al processo limitandosi a spedire una lettera (resa nota qualche settimana fa dal Giornale) nella quale citava tra l’altro l’opinione di quanti avrebbero desiderato aspettare essendo ancora in corso i processi di Pio XII e Paolo VI.

Wojtyla fa discutere, oggi. Ma parecchio fece discutere quando, nel pieno del pontificato, attaccò un’ideologia propria dell’era moderna: quella della “sanità riproduttiva”. “Tutti sanno che include il libero aborto”, disse Giovanni Paolo II. Un concetto espresso davanti ai potenti e anche ai responsabili dei programmi anti natalisti dell’Onu. Memorabile l’udienza del 2 giugno 1994, quella che Giovanni Paolo II concede a Bill Clinton, allora presidente degli Stati Uniti. Le cronache parlano di un incontro burrascoso: “Sorrisi col Papa, ma sull’aborto nessun dialogo”, titola il 3 giugno il Corriere della Sera. Le idee del Papa in merito alla “sanità riproduttiva” squarciano, sempre nel 1994, il velo d’omertà che avvolge la Conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo. Wojtyla vede nella Conferenza la volontà di aprire alla liberalizzazione della contraccezione forzata e dell’aborto a fini demografici. E ribadisce le sue convinzioni. Dice che la Conferenza si basa su una “concezione della sessualità totalmente individualista”. Le leggi sull’aborto, per Wojtyla, altro non sono che un “programmato cimitero dei non nati”. Chiede: “Può esistere un’istanza umana, un Parlamento, che abbia il diritto di legalizzare l’uccisione di un essere umano innocente e indifeso?”. La risposta è “assolutamente no”, e viene sviscerata nel 1995 nell’enciclica “Evangelium vitae”. Scrive il Papa: “Quando una legge civile legittima l’aborto o l’eutanasia, cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, cioè moralmente obbligante”.

Qui sta uno dei nemici che Giovanni Paolo II vuole combattere. Un nemico che ha i suoi affiliati anche nella chiesa. A contestare, da subito, l’“Evangelium vitae” è un plotone di cardinali, vescovi, religiosi, teologi, fedeli. Pensavano d’essersi liberati per sempre dello spettro tanto odiato dell’“Humanae Vitae” di Paolo VI. E, invece, ecco Wojtyla. In “Conversazioni notturne a Gerusalemme” (Mondadori), è il cardinale Carlo Maria Martini a spiegare questa continuità tra Montini e Wojtyla. Dice: “Dopo Paolo VI venne però Giovanni Paolo II che seguì la via di una rigorosa applicazione dei divieti dell’enciclica. Non voleva che su questo punto sorgessero dubbi. Pare che avesse perfino pensato a una dichiarazione che godesse il privilegio dell’infallibilità papale”. Giovanni Paolo II va sempre controcorrente. Il suo avvento è una ventata di fresca energia, un “colpo d’ala” dirà più avanti il cardinale Camillo Ruini. Le chiese locali nel mondo reagiscono al suo arrivo in modo differente. Ci sono le chiese che lo osteggiano. E ci sono quelle che lo seguono anima e corpo. L’Italia, nonostante varie resistenze esterne, è tra queste ultime. Grazie, principalmente, a Ruini. Nell’idea di Wojtyla la chiesa italiana deve fare da modello anzitutto alle chiese europee. Ruini fa proprio questo progetto.

Tutto inizia al convegno ecclesiale di Loreto del 1985? In realtà molto prima. A rivelarlo è stato poco più di un mese fa proprio Ruini con un intervento svolto alla Libera Università Maria Assunta di Roma e significativamente intitolato: “L’inatteso pontificato di Giovanni Paolo II”. Dice Ruini: “Wojtyla si è occupato più intensamente della chiesa italiana” soprattutto “negli anni precedenti il convegno di Loreto”. “Man mano che aumentava la sua conoscenza della situazione dell’Italia e della chiesa italiana, il Pontefice poteva scoprire la presenza di un convincimento diffuso: la convinzione, cioè, che il processo di secolarizzazione fosse irreversibile e che l’unica strategia pastorale, e anche culturale e politica, che avesse speranza di ottenere risultati non effimeri fosse quella di non contrastare tale processo, bensì di accompagnarlo e, per così dire, di evangelizzarlo, evitando che esso degenerasse in un secolarismo ostile alla fede cristiana”. Giovanni Paolo II pensava “che il grande compito della chiesa oggi fosse l’evangelizzazione intesa in senso forte e pieno”. Ruini, ai tempi di Loreto, era ausiliare di Reggio Emilia. Ebbe il merito di comprendere più di altri cosa voleva il Papa dalla chiesa italiana. Per questo si fece molti nemici. Affiliati di una chiesa di retroguardia che oggi, a pontificato wojtyliano concluso, provano ad alzare la testa per guadagnare quello spazio che non hanno mai avuto.

La chiesa in Italia modello delle chiese del mondo, a cominciare da quelle europee. Questo vuole Wojtyla. Una chiesa scomoda, soprattutto rispetto ai governi, anche i più democratici. Anche in materia di pace e guerra Wojtyla si muove in modo alternativo. Se è vero che contesta fino all’ultimo, nel 1990-1991 la guerra del Golfo contro l’Iraq, per la Bosnia fa l’opposto. Reclama che l’occidente intervenga a “disarmare l’aggressore”. Durante l’interminabile conflitto tra Israele e i palestinesi chiede che nell’assetto di pace sia riconosciuto uno statuto internazionale per Gerusalemme e i luoghi santi. Dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 dà un tacito assenso al contrattacco in Afghanistan, mentre contesta la guerra angloamericana in Iraq. Anche se, poi, chiama “costruttori di pace” i soldati occidentali rimasti ad aiutare la nascita della democrazia in quel paese. Scrive Magister: “Giovanni Paolo II negò sempre d’essere pacifista per principio. E lo dimostrò con i fatti. Di volta in volta giudicava se una guerra fosse ‘giusta’ o no. Anche qui in linea con l’idea che appartiene alla chiesa la sapienza di ‘educare’ al retto uso della libertà e quindi alla pace”. Giovanni Paolo II, un Papa contro corrente in ogni direzione. Un Papa che oggi subisce il destino di ogni predecessore: santificazione & dissacrazione. Un Papa che le manovre curiali e anticuriali mettono sullo sfondo della crisi istituzionale della chiesa di Roma. Un Papa la cui immensa immagine popolare attira la furia degli iconoclasti. Il Papa del calcio d’avvio al terzo Millennio, che alcuni vorrebbero dare in pasto ai pettegoli. Ma ci vuol altro che un migliaio di metri quadrati ambiguamente gestiti nel centro di Roma per disperdere una eredità tanto ricca.

Leggi “La propaganda fidei di Wojtyla” anche qui.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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