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I MIRACOLI EUCARISTICI

Ultimo Aggiornamento: 03/12/2019 00:26
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02/02/2009 23:10
 
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L'evidenza del Mistero Eucaristico nel miracolo di Boxtel


Voi siete stati comprati a caro prezzo, insegna san Paolo.
Nell'Eucaristia Cristo è la memoria viva di questo acquisto unico e irrevocabile, firmato nel sangue. Il miracolo di Boxtel insegna l’evidenza della Verità, l’evidenza del Mistero.

Nel primo dei miracoli di Gesù, secondo il dettato giovanneo, quello cioè del cambiamento dell’acqua in vino a Cana, è in qualche modo adombrato il miracolo della transustanziazione del vino nel sangue di Gesù.
Se del primo miracolo non possiamo avere riprova se non per la fede nella testimonianza della Scrittura e nella trasmissione apostolica, del miracolo eucaristico che quotidianamente si rinnova su migliaia di altari sparsi nel mondo ne abbiamo invece una prova certa.


Attorno all’anno 1379 nella città di Boxtel in Olanda un sacerdote di nome Eligius Van der Aecker si apprestava a celebrare la santa Messa nella Chiesa di san Pietro (saint-Petrukerk). Nel Medioevo si era soliti celebrare con vino rosso, ma per motivi a noi ignoti quel giorno don Eligio usò per la celebrazione del vino bianco.


Si trovava all’altare dei Santi Magi e dopo l’elevazione urtò involontariamente contro il calice che si rovesciò spargendo il contenuto sull’altare. Benché egli avesse usato del vino bianco, corporale e tovaglia si macchiarono subito di sangue di vivo color rosso. Don Eligius turbatissimo proseguì la celebrazione senza dire niente a nessuno, ma al termine della Messa raccolse i sacri lini e corse in sacrestia per lavarli di nascosto.


Vedendo che le macchie di sangue rimanevano immutate mise i lini in una valigia per lavarli più tardi, comodamente, nell’acqua corrente di un canale derivato dal fiume Dommel. Tuttavia anche questo espediente non diede frutto: le macchie di sangue rimanevano intatte sia sul corporale che sulla tovaglia d’altare. Quasi spaventato il sacerdote nascose le preziose reliquie in casa sua senza rivelare ad alcuno l’accaduto.

Poco tempo dopo però don Eligius si ammalò gravemente e capendo di essere ormai prossimo alla fine decise di rivelare al confessore, don Enrico Meheim, tutto l’accaduto. Dopo la morte di Van Aecken i sacri lini tornarono alla chiesa di san Pietro e nel 1380 - grazie all’intervento del cardinal Pileus, legato pontificio di papa Urbano VI - si ottenne il permesso del culto pubblico delle sacre reliquie.


Secoli dopo, nel 1652, diffondendosi in Olanda il calvinismo, le reliquie furono portate a Hoogstraten, in Belgio presso la Collegiata di santa Caterina. Qui ancora si può ammirare la preziosa tovaglia, mentre il sacro corporale fu restituito a Boxtel nell’anno 1924.

Voi siete stati comprati a caro prezzo, insegna san Paolo. Nell’Eucaristia Cristo è la memoria viva di questo acquisto unico e irrevocabile, firmato nel sangue. Il miracolo di Boxtel insegna l’evidenza della Verità, l’evidenza del Mistero.


È singolare che fosse il sacerdote stesso - protagonista del miracolo - a vergognarsi, a non credere. È lo stesso sentimento che colpisce i discepoli di fronte a un Messia condannato alla crocifissione, di fronte a una Resurrezione che non trova categorie culturali adeguate per essere creduta. Impossibile che in questi fatti vi sia invenzione. Come è impossibile che il buon Van Aecken possa aver architettato un miracolo del quale provava persino vergogna.


Con un anticipo di quasi 3 secoli sulle teorie calviniste che negavano la Presenza eucaristica, Gesù ha voluto dare una prova della verità della transustanziazione scegliendo proprio quest’uomo che per qualche inspiegabile ragione celebrò con vino bianco e si ritrovò una tovaglia macchiata di rosso sangue, vivo e indelebile.


L’evidenza della verità continua nell’epilogo del miracolo, testimoniato in punto di morte, quasi come una consegna: la consegna di se stesso e della propria debolezza a quel sangue che certificava la fede della Chiesa nel Dio della vita.


Non conosciamo i sentimenti che dovettero attraversare il cuore di quel sacerdote nel suo ultimo anno di vita, vissuto all’ombra di un tal mistero. Una cosa però è certa, la sua vicenda ci insegna a non vivere superficialmente il nostro rapporto con l’Eucaristia: lì c’è un sangue che pulsa d’amore per l’uomo, ancora e nonostante tutto, a dispetto dei gorghi del peccato e delle infinite menzogne che fuori o dentro la Chiesa vogliono indebolire la forza del Mistero. Cristo c’è, non nel miracolo - che è solo un richiamo al vero - ma nella vicenda di uomini che in questo sangue versato hanno trovato e ancora trovano il coraggio di vivere e di morire.

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L’Eucaristia Sacramento di Unità: il miracolo di Daroca


Siamo nel 1239, la Spagna è invasa dai mori che palmo dopo palmo conquistano vasti territori e città.

Giacomo I d’Aragona non vuole soccombere, anzi vuol riconquistare il regno di Valencia diventato già terra mussulmana. Dispiega pertanto un esercito di seimila uomini distribuiti in tre guarnigioni. Una di queste, composta da tre città: Daroca, Calatayud e Teruel, è capitanata dal generale Berenguer de Entenza, zio del re e signore della Baronia di Chio. Conoscendo la posizione strategica del Castello di Chio, sulle rive del Lucente, ormai roccaforte dei Mori, il generale decide di partire proprio dalla conquista di quel luogo.

Capitanano le truppe dell’esercito di Berenguer, sei comandanti di varia provenienza. Tre aragonesi: Jiménez Pérez, Germán Sánchez de Ayerbe e Ramón de Luna; due catalani: Guillén de Aguiló, Simón Carroz e, difficile a credersi, un arabo: Zeit Abuzeyt, il quale, già re di Valencia, essendo stato destituito da Zaèn attuale re moro, era passato tra le fila cristiane e si era convertito al cristianesimo prendendo il nome di Vicente Belbis.

Quest’ultimo capitanava i mori della sua banda.
I sei comandanti in carica dopo aver accampato le truppe chiedono di poter ricevere la Comunione. La Santa Messa ha luogo “sul campo”, nei pressi di Daroca ed è presieduta dal cappellano del posto don Matteo Martinez. Avviene però che durante lo svolgimento della celebrazione truppe mussulmane attaccano di sorpresa. I sei capitani si precipitano a fronteggiare il nemico, mentre don Matteo, timoroso di un sacrilegio, nasconde le sei ostie avvolte nel corporale sotto un masso. Terminata la battaglia con la fuga dei mori, i sei capitani chiedono al cappellano di riprendere la Messa e di essere comunicati. Don Matteo, giunto al nascondiglio del sacro corporale, trova le ostie sanguinanti e attaccate al lino.


Il miracolo viene letto come un presagio di vittoria e quindi, con un coraggio eroico, le truppe dei sei comandanti si lanciano alla conquista del castello di Chio. Davanti a loro sventola come vessillo lo stesso corporale insanguinato, alla cui vista i saraceni, pieni di confusione e terrore sono indotti, secondo le cronache a noi pervenute, ad uccidersi tra loro.


La vittoria fu grande, ma quando si cercò di dare una degna sistemazione alla Sacra Reliquia i sei capitani cominciarono a discutere. Ciascuno desiderava ospitare il prezioso telo nella propria città. Poiché la disputa prendeva accenti molto forti, il generale Berenguer propose di tirare in sorte la città prescelta. Per tre volte la sorte cadde su Daroca, nonostante ciò nessuno dei capitani delle altre città volle cedere. Decisero allora una nuova ed ultima prova.

Presero una mula araba tutta bianca, che mai - prima della recente battaglia - aveva percorso quelle regioni spagnole, e dopo averla finemente bardata le posero in groppa il Corporale. Lasciarono così che la mula seguisse un percorso qualsiasi, mentre don Matteo con un cero acceso e altri soldati, la seguivano a distanza per assisterla e vedere dove si fosse fermata.

La mula partì il 23 febbraio dai territori conquistati e nei suoi 12 giorni di viaggio fu protagonista inconsapevole di prodigi e miracoli. Le cronache attestano infatti avvenute conversioni e guarigioni, voci di angeli e musiche celestiali udite in tutti i luoghi dove passava la mula recando il Sacro Corporale. Transitò così per Teruel, Calatayud e dopo un viaggio di oltre duecento miglia entrò in Daroca, salutata da una folla trionfante. Qui, la bianca mula, proprio davanti alla porta dell’allora Chiesa di San Marco, si accasciò al suolo e cadde morta. La Sacra Reliquia era giunta a destinazione.


Cadeva il 7 marzo del medesimo 1239, e in Italia era già nato un futuro cantore dell’Eucaristia, san Tommaso d’Aquino che aveva all’epoca solo 14 anni. Molto più tardi, quando il miracolo fu riconosciuto, gli abitanti di Daroca chiesero ed ottennero di avere come patrono lo stesso San Tommaso, la cui festa liturgica prima della riforma del Concilio Vaticano II, cadeva proprio il 7 marzo.


Nel 1261 papa Urbano venne a conoscere gli atti del processo del miracolo, papa Eugenio accordò alla città di Daroca uno speciale anno giubilare da celebrarsi ogni 10 anni, mentre papa Sisto IV ridusse il rinnovo del giubileo a sei anni in memoria delle sei ostie miracolose.

Come può parlare di unità un miracolo occorso in tali vicissitudini belliche?
Anzitutto la cosa curiosa è che gli atti del processo del miracolo attestano che i testimoni ritenuti credibili (il testo dice: degni di fede) furono sia cristiani che mussulmani: “testimonios dignos de fe asín Xristianos como moros”. Di fatto tanto tra i sei capitani, che fra le truppe cristiane vi erano spagnoli e arabi.
Inoltre vien da chiedersi se il segno delle ostie insanguinate fu interpretato correttamente. I sei capitani lo identificarono come pegno di vittoria sicura ed è indubbio che il Signore fosse con loro, ma c’è da chiedersi se fosse Presente proprio come pensavano loro.


Nell’Eucaristia si attualizza il sacrificio di Cristo al Padre per la salvezza del mondo e l’unità fra i popoli. Forse questo voleva richiamare il Signore rendendo evidente la sua Presenza attraverso il sangue vivo sgorgato dalle ostie. Il sangue che di lì a poco si sarebbe versato sul campo di battaglia, è lo stesso sangue che scorreva nelle vene del Salvatore (quello del corporale, infatti, com’è stato recentemente accertato, è sangue umano). Il sangue di ogni uccisione grida dalla terra come e più di quello dell’antico Abele, poiché dacché il Figlio di Dio si è fatto uomo, ogni violenza fatta all’uomo preme sul cuore di Dio.


Il Miracolo Eucaristico voleva allora educare all’unità, tant’è che gli stessi arabi che ne furono testimoni, furono poi conquistati alla causa del Signore.
E che il segno del miracolo fosse stato interpretato in modo forse arbitrario, lo dice la successiva disputa. Quel vessillo miracoloso che aveva sbaragliato i Mori non fu in grado di tenere uniti i cristiani che, anzi, a motivo di quello si scontrarono. Anche qui però il Signore volle pazientemente educare. Riportò la pace, infatti, una mula “mussulmana”.


Questa mula che così fortemente evocava il nemico appena sconfitto, passò recando il Re della Pace che, come già un tempo a Gerusalemme, sempre va incontro all’uomo quale Principe pacifico.
Affidarsi al negoziato, al dialogo, all’amore e alla forza inesauribile della Presenza di Cristo nella sua Chiesa e nel Sacramento: ecco le armi della pace e dell’unità tra i popoli.


San Pietro, in una delle sue lettere, ricordando il profeta Balak scrive che un muto giumento impedì la demenza del profeta (2 Pt 2,16). Balak infatti non poteva vedere l’angelo del Signore che invece era riconosciuto e visto dalla sua mula. Così in questo miracolo meglio dei cristiani poté scorgere la via della pace e dell’unità un giumento mussulmano. Quella mula bianchissima fu vera foriera di pace non per suo potere, ma per il potere di Colui che essa portava.


Chiunque si lascia guidare da questo Sacramento non potrà che implorare l’avvento della pace e dell’unità, dando la vita per esso, sull’esempio del Signore Gesù che nell’ultima cena associò il suo sacrifico all’amore scambievole e all’unità: Tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.
Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me. (Gv 17, 21.23)





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L’Eucaristia Sacrificio: i miracoli di Lanciano e Bolsena-Orvieto



I miracoli eucaristici in cui, a causa di un sacrilegio o di un forte dubbio riguardo al Mistero, le sacre particole sanguinano o il vino della celebrazione si trasforma in sangue rappresentano, forse, la maggioranza.

Tra i più antichi e famosi si ha quello di Lanciano (Chieti) che si verificò nell’anno 750 nella Chiesa di Legonziano. Il nome sembra derivare da san Longino, il centurione che dopo aver trafitto Gesù con la lancia si convertì. La famiglia di Longino, secondo un’antica leggenda, era originaria di Lanzanum (Lanciano appunto) e si trasferì in Palestina.


Nella Chiesa di San Legonziano dunque, un monaco mentre celebrava l’Eucaristia fu assalito dai dubbi circa la Presenza reale del Signore nelle Sacre Specie e così si accorse, dopo la consacrazione, che l’ostia era divenuta carne e il vino sangue. E’ risaputo che la Sacra Ostia, così trasformata e tuttora conservata in una teca, è parte del muscolo del cuore umano e il sangue appartiene al gruppo AB, il medesimo della Sindone.
Non occorrono laboriose spiegazioni per associare questo miracolo al Sacrificio di Gesù sulla croce e al continuo riattualizzarsi dello stesso sacrificio nelle celebrazioni eucaristiche.


Quasi a compimento e continuazione di questo antico miracolo ne seguì un altro altrettanto famoso in Italia, quello del corporale di Orvieto. Siamo nell’anno 1263, un prete boemo, Pietro da Praga è tormentato dal dubbio ogni qualvolta celebra la Messa. Di ritorno da un pellegrinaggio a Roma sosta a Bolsena, da dove intendeva proseguire fino a Orvieto che, allora, ospitava il papa Urbano IV.

Forse quel sacerdote nutriva il segreto desiderio di incontrare il papa e metterlo a parte del suo tormento, ma accadde che mentre celebrava nella Chiesa di Santa Cristina, a Bolsena, invocò lume dal Signore circa la verità del divino sacrificio. All’istante l’ostia si convertì in sangue vivissimo che, nonostante i vani tentativi da parte di don Pietro di nasconderlo, macchiò il corporale posto sull’altare e il marmo del pavimento.

I fedeli videro il fatto miracoloso e subito sparsero la voce che raggiunse il papa a Orvieto. Nella macchia di sangue sulla pietra, infatti, e in quelle del Corporale molti asserivano (e asseriscono) di vedere l’immagine del Redentore. Urbano IV mandò il vescovo di quella città a prelevare il sacro Corporale e dopo aver accertato l’evento miracoloso l’11 agosto 1264 promulgò (l’8 settembre 1264) la Bolla “Transiturus” che istituiva la festa del Corpus Domini. Si decise allora di edificare proprio a Orvieto (alla cui diocesi apparteneva Bolsena) un tempio a custodia della preziosa reliquia.

E’ bello pensare come questi due miracoli ci riportano in modo straordinario sotto la croce. Il primo grazie alla memoria di Longino che compì quel gesto caro al Vangelo di Giovanni dal quale una innumerevole schiera di santi trasse ispirazione e forza per la propria fede: dal costato squarciato scaturì sangue ed acqua, simbolo dei sacramenti della Chiesa.

Nel secondo il sangue sgorgò a fiotti nel corso dell’elevazione richiamando alla memoria quel passo di citato dallo stesso Giovanni: volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto. Da questo sangue la Chiesa di ogni tempo rinasce a vita nuova, trae ispirazione e forza per il suo agire e percorre i secoli e i tempi in mezzo alle persecuzioni del mondo e alle consolazioni di Dio.

La parola sacrificio oggi non gode di buona fama e la fede cristiana è stata spesso tacciata di stoicismo, quando non di masochismo, a motivo del suo sguardo rivolto al crocifisso. Eppure nel sacrificio di Cristo trovano senso i dolori del mondo e senza la vittoria di Cristo sulla morte e su quella morte infame niente a avrebbe né senso né speranza.

Ripensare all’Eucaristia come al frutto di questo sacrificio significa dunque riaffondare le radici nella speranza cristiana che trova la sua certezza proprio in questo cibo di vita che ha gettato un ponte sulla sofferenza e sulla morte.

[Modificato da Caterina63 02/02/2009 23:14]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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