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27 agosto 1978 il primo Angelus e ricordando Albino Luciani - Giovanni Paolo I

Ultimo Aggiornamento: 26/08/2012 16:19
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24/08/2012 23:50
 
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Riflettendo, come in uno specchio, la luce del Signore


La relazione che padre Roberto Busa ha tenuto in occasione della presentazione del libro Mio fratello Albino presso l’Almo Collegio Capranica di Roma l’11 dicembre 2003: «Don Albino era come un vetro trasparente e non come una vetrata colorata. La luce è una realtà misteriosa, umile, che fa vedere non sé stessa ma tutto il resto»


di Roberto Busa S.I.


Padre Busa durante la presentazione del libro su papa Luciani, <I>Mio fratello Albino</I>, edito da <I>30Giorni</I>

Padre Busa durante la presentazione del libro su papa Luciani, Mio fratello Albino, edito da 30Giorni

Non ripeto i doverosi ringraziamenti. Invitato dalla dottoressa Falasca, le ho risposto: «Gentilissima dottoressa, ho ricevuto il suo omaggio... sa che mi ha commosso? Grazie! Lui, maggiore di me di un anno, è già in Paradiso, mentre io tiro ancora la carretta come un mulo di montagna... Il libro è bellissimo! Grazie, grazie!». Poi la dottoressa Falasca mi ha comunicato che il senatore Andreotti mi invitava a questa presentazione del libro, il che mi ha fatto un sacco di piacere. Mi ha poi anche detto che ci sarebbe stato un cardinale, che io non conoscevo... Questo mi ha messo un po’ in soggezione.
Articolerò ciò che vorrei dirvi in tre capitoli. Primo “Un catino di ghiaccio”; secondo: “Cantando sotto la luna”; terzo: “Il tutto e il nulla”. Non abbiate paura, ché non farò filosofia, bensì soltanto una mia traduzione del Todo y nada di san Giovanni della Croce.

Foto di gruppo del primo anno di liceo al seminario maggiore di Belluno. Albino Luciani è il terzo da sinistra nella seconda fila dall’alto e Roberto Busa è il quinto

Foto di gruppo del primo anno di liceo al seminario maggiore di Belluno. Albino Luciani è il terzo da sinistra nella seconda fila dall’alto e Roberto Busa è il quinto

Primo: “Un catino di ghiaccio”. Dunque, dovete sapere che io sono montanaro, nel senso che mio nonno paterno viene dall’altopiano di Asiago, esattamente da Lusiana. Sono nato a Vicenza e mio padre era un impiegato delle Ferrovie dello Stato e veniva trasferito da una città all’altra: nel ’17 a Genova, durante la guerra, nel ’18 a Bolzano, nel ’21 a Verona. Poi, dopo alcuni passaggi, arrivò a Belluno, e io a Belluno sono entrato in seminario, nel 1928, in prima liceo. E fui in classe proprio con don Albino Luciani. Io vi facevo la figura della mosca bianca: i compagni mi chiamavano “il cittadino”, “il bocio” cioè “il ragazzo”... “Il cittadino”. Perché? Perché tutti gli altri, provenienti dalle valli di Belluno e Feltre, erano nati e vissuti nello stesso paese e anche i loro genitori e i loro nonni erano sempre vissuti nello stesso paese.

Quell’inverno, del ’28-29, fu un inverno di freddo eccezionale. Ricordo a Belluno un metro e mezzo di neve in piazza Campitello. Noi avevamo una fila di letti in uno stanzone, io ero in fondo, ultimo della fila, prima c’era don Dante Cassoli, e poi don Albino.
Ai piedi del letto avevamo catino e brocca, come si usava a quei tempi, e il camerone non era riscaldato. La mattina ci svegliavano alle cinque e mezza, e per lavarci bisognava rompere il ghiaccio che si era formato nel catino... e io per cinque minuti perdevo la vocazione! «No, no, no, non con l’acqua gelata! Torno dalla mamma che mi prepara l’acqua calda!». Per mia fortuna, dopo lavato, tornava subito la vocazione, ogni giorno! Avevamo mezz’ora per vestirci, lavarci e rifare i letti: don Albino faceva tutto in dieci minuti e impiegava gli altri venti minuti a leggere.

Ricordo che leggeva di tutto, per esempio i libri edificanti del padre Croiset, gesuita francese; ma lesse anche tutto Goldoni, che pure, dopo un po’, diventa noioso perché ripete gli stessi tipi di eventi teatrali. E continuò sempre a leggere molti libri, tra cui vari testi di letteratura francese del 1800. Leggeva, ricordava e semplificava. Ossia essenzializzava. E giudicava. Leggeva di corsa e ricordava per sempre. I frutti di queste letture li trovate nel suo libro Illustrissimi.

Albino Luciani, il secondo in piedi da sinistra, con i suoi compagni di studio al liceo nel 1932

Albino Luciani, il secondo in piedi da sinistra, con i suoi compagni di studio al liceo nel 1932

A Venezia, una mattina mi mostrò un articolo di una rivista di teologia (ne leggeva tante) edita da miei confratelli, e mi disse: «Questo non è detto correttamente». Era andato al di là delle parolone altisonanti, e ne aveva centrato il nucleo con quelle semplici, correnti e comuni parole che erano la sua caratteristica.
Ricordo che quando lo seppi Papa, e lessi che qualcuno sui giornali lo aveva definito un “buon parroco di campagna”, mi dissi: «Sì, sì, aspettate che tiri fuori le unghie!», pensando a Eb 4,12:«Vivus est sermo Dei et efficax etpenetrabilior omni gladio ancipiti».

Fatto sta che alla fine di quell’anno scolastico, veramente a me piangeva il cuore a lasciare il seminario per tornare a casa a fare vacanza, perché la compagnia di quei giovani, che erano pulitissimi, intelligenti, birbanti, simpaticissimi, era una cosa meravigliosa.

Secondo: “Cantando sotto la luna”. All’inizio degli anni di Teologia, dal camerone ci trasferirono ognuno in una stanzetta, sotto il tetto, da quella parte del seminario che era confinante con la chiesa di San Pietro. Era una specie di mansarda. In seminario era ovviamente proibito fumare, ma il nostro compagno don Costante Pampanin (già morto anche lui), che noi definivamo “una sagoma”, diceva: «In seminario è proibito fumare, però non fuori!». Allora nelle sere tiepide uscivamo da un abbaino sul tetto, ci sedevamo sulle tegole e cantavamo – che bello! – al riparo del campanile di San Pietro, mentre don Costante fumava. Prediligeva dei pezzi di sigaro.

Vi dirò che in seminario ho imparato a studiare! Perché durante le ore del pomeriggio, in camerata, per non sentire l’appetito ed evitare di domandarsi in continuazione: «Quanto manca alla cena?», bisognava studiare per forza. E lì ho imparato quel metodo di studio al quale attribuisco tutto quello che poi sono riuscito a fare. Il nostro prefetto, subito, durante la prima estate, mi invitò a casa sua per alcuni giorni. Egli era di Vallada, un paese in cima a una piccola valle confluente a Forno di Canale; da Forno si poteva raggiungere Vallada solo a piedi. Per cui si combinò che, arrivando da Belluno, io pernottassi da don Albino. Conobbi casa sua e la sua famiglia. Non ne ricordo nulla. Mi è rimasta solo una vaga immagine di sua madre, che oggi traduco così: due occhi che “trapanavano”, poche e sincere parole che tradivano tanto pensare severo e buono.
A Vallada presi parte anch’io alle fienagioni in montagna: falciando l’erba venivano in luce i buchi fatti dai calabroni: al termine di un cuniculo vi era il favo a sfera, con un miele che ricordo fluido e cristallino come un liquore.

Dopo cinque anni, in seconda Teologia, nel 1933, chiesi al vescovo, monsignor Giosuè Cattarossi, un friulano forte, di andare missionario gesuita. Mi disse di sì. Anche don Giuseppe Strim, di Falcade, che era già in terza Teologia, glielo chiese e ne ebbe egli pure un sì. Poi anche don Albino, che era parente del celebre padre Felice Cappello dell’Università Gregoriana, chiese al vescovo di farsi gesuita. Ma egli ebbe un “no”: altro esempio di come il Signore gioca con gli uomini così che paia che il loro futuro dipenda da loro.
Lasciai il seminario. Come gesuita fui ordinato sacerdote il 30 maggio 1940 a Chieri, in Piemonte.
Il 14 giugno rividi in seminario a Belluno i miei compagni già sacerdoti e con loro don Albino, già professore in esso.
Poi lo rividi durante la guerra in Roma, all’Università Gregoriana, quando vi venne per la difesa della sua tesi: il papa Pio XII lo aveva dispensato dalla frequenza.
Passarono gli anni.
Da vescovo a Vittorio Veneto egli mi chiamò (15-18 marzo 1960) perché predicassi un ritiro spirituale a suoi seminaristi.
Albino sacerdote novello nel 1935

Albino sacerdote novello nel 1935

A causa dei lavori con la Ibm per l’Index Thomisticus, dal 1967 al 1969 fui a Pisa e poi dal 1969 al 1971 in America, a Boulder, nel Colorado. Da là, nel gennaio 1971 mi trasferii, con trenta tonnellate tra carta e nastri magnetici, a Venezia, dove egli come patriarca era arrivato l’anno prima. Quando il cardinale Giovanni Battista Montini divenne Papa, don Albino, già vescovo a Vittorio Veneto, aveva accettato la presidenza del comitato promotore dell’Index Thomisticus (alla sua morte gli succedette il cardinale Carlo Maria Martini).
Il 2 maggio 1977, a Venezia, presso la Fondazione in San Giorgio, il patriarca Luciani commentò, alla chiusura della cerimonia, il significato dei 56 volumi dell’opera, della quale la allora Banca Cattolica del Veneto, diretta dal dottor Vahan Pasargiklian, gli aveva fatto dono per il seminario.

A Venezia io, assorbito dal completamento dei 56 volumi dell’Index, non presi parte alla vita né cattolica né culturale della città. Gli feci visita parecchie volte: mi dava appuntamento alle 7,30 del mattino, quando, dopo le preghiere, iniziava la sua giornata di lavoro.
Dopo che fu eletto Pontefice, il mercoledì 13 settembre gli presentai in Roma la direzione e le maestranze della ditta Borghi Trasporti (i signori Melloni, Ognibene e Valera) che avevano graziosamente trasportato tutte le sue cose personali da Venezia a Roma (ricordo che con i Carabinieri avevano provveduto a garantirsi contro furti di documenti e di souvenir), così come per trent’anni avevano graziosamente provveduto ai tanti trasporti dell’Index Thomisticus.
Fu l’unico Papa – li conobbi tutti da Pio XI in poi – cui potei dare del “tu”.
Il mattino del 30 settembre, tutti noi compagni di classe eravamo stati convocati per concelebrare in Vaticano con lui nella sua cappella privata: ma egli ci fu compresente dal cuore di quel Dio che è in terra, in cielo, in ogni luogo, quando ciascuno di noi nella sua sede celebrò, addolorato, per lui, defunto il giorno prima.

Terzo: “Il tutto e il nulla”. Per ultimo, chiedo a voi se vi siete accorti che io non ho raccontato alcun aneddoto o fatto particolare su di lui. Ciò è dovuto al fatto che dopo i cinque anni del nostro seminario ci siamo frequentati pochissimo e saltuariamente.
Ma perché anche dei cinque anni non ho ricordi né puntuali né coloriti? La prima volta che la dottoressa Falasca mi intervistò, le dissi che don Albino per me era un vetro trasparente e non una vetrata colorata. Ci ripensavo la notte scorsa. Cos’è la trasparenza? Già Aristotele se lo chiedeva (diapháneia).

E vi ricordate Manzoni in La Pentecoste: «Come la luce rapida / piove di cosa in cosa, / e i color vari suscita / dovunque si riposa…». La luce è una realtà misteriosa, umile, che fa vedere non sé stessa ma tutto il resto: i nostri occhi vedono quei raggi di luce che, rimbalzati su qualcos’altro, arrivano a essi: il cielo è buio di notte, benché nello spazio ci sia luce, quando a noi non ne arriva alcun raggio. Eppure essa è tanto in sé stessa piena di colori da riuscire trasparente.

Giovanni Paolo I appena eletto pontefice, 26 agosto 1978

Giovanni Paolo I appena eletto pontefice, 26 agosto 1978

Se dalle frequenze fisiche e corporee della luce passiamo alla nostra intelligenza, vediamo che anch’essa è trasparenza della realtà, ma non più frequenza fisica, bensì forza del nostro “io” personale e sostanziale. Nel più profondo di ogni “io” che sia in grazia di Dio, vi è la mistura (d’amore) come quella di gocce d’acqua che perse nel vino ne diventano partecipi e potenziate: è il matrimonio della forza teologale della “carità” tra una persona d’uomo e Dio “appropriato” alla Sua Terza Persona, lo Spirito Santo.
Il senatore Andreotti ci ha or ora riferito che qualcuno ha definito “scolorita” la personalità di papa Luciani. Scolorita sì, ma come la luce e la forza della luce. La semplicità sintetica di don Albino era ovviamente una commistione tra la sua personale intelligenza e la invasione in lui dello Spirito Santo: dove il tutto è il nulla, perché non è che amore tra Dio e i suoi figli: tutto l’altro, se non è amore eterno, è nulla, cioè, come dice l’Apocalisse, è la morte seconda.

Ho detto “una commistione”: mi era venuto in mente di dire “un cocktail” ma mi son frenato, perché sarebbe proprio stato irriverente. Ma ora, tra pochi momenti, un vero cocktail è quello che vi aspetta.
Comunque, se la forte, semplice, sintetica e ricca luce che fu don Albino, sia da qualificare entro le realtà mistiche e in quale gradino, non sono io in grado di appurarlo.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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