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L'Italia come laboratorio nei rapporti tra Stato e Chiesa: Cavour e la Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 28/09/2010 19:45
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03/05/2010 18:44
 
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Per costruire una memoria davvero condivisa

La questione cattolica
nell'Italia che cambia


Introdotto dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo metropolita di Genova, il 3 maggio si svolge nella città ligure il seminario di studio "L'unità nazionale:  memoria condivisa, futuro da condividere" organizzato in vista della celebrazione della prossima settimana sociale dei cattolici italiani che si terrà a Reggio Calabria a ottobre. Pubblichiamo ampi stralci della relazione inaugurale.

di Gianpaolo Romanato

La riflessione non può non partire dal famoso discorso che Giovanni Battista Montini tenne in Campidoglio il 10 ottobre 1962, alla vigilia dell'apertura del concilio Vaticano ii e un anno dopo la celebrazione del centenario dell'unità d'Italia. Con quel periodare che gli era caratteristico, che nella elaborata complessità delle espressioni quasi rifletteva la complessità dei problemi in discussione, l'arcivescovo di Milano, che meno di un anno dopo sarebbe diventato Papa, sostenne che il 20 settembre del 1870 la "Provvidenza" aveva ingannato tutti, credenti e non credenti.

Aveva ingannato i credenti, che dalla fine del potere temporale temevano il crollo dell'istituzione ecclesiastica, e aveva ingannato i non credenti, che dopo la presa di Roma quel crollo desideravano e attendevano. Accadde infatti, osservò Montini, che perduta "l'autorità temporale", ma acquistata "la suprema autorità nella Chiesa", il papato riprese "con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo". Non avvenne, dunque, il disastro annunciato - temuto o sperato che fosse - ma si schiuse al Papato una stagione di ritrovata credibilità e alla Chiesa tutta un capitolo di profondo rinnovamento.

Chi vi sta parlando - cioè uno studioso laico, che è abituato a ragionare laicamente - non può far ricorso alla parola Provvidenza come categoria interpretativa dei fatti storici. E si trova quindi spiazzato davanti all'evidente paradossalità di quanto accadde un secolo e mezzo fa. Da un evento che la Chiesa del tempo, sia pure con significative eccezioni, visse come catastrofico, e che alimentò una drammatica e annosa rottura con lo Stato italiano, nacque una stagione di vitalità cattolica e di prestigio per il papato indubbiamente più felice e rigogliosa di quella che ci si era lasciati alle spalle.

Un caso esemplare, potremmo dire, di eterogenesi dei fini. C'è dunque un risultato positivo del 20 settembre, che va ricordato. Il papato si liberò dell'ingombrante fardello del potere temporale ed entrò nella modernità finalmente libero da un impaccio che rendeva la Chiesa, in piena epoca liberale, un'anacronistica sopravvivenza dell'ancien régime prerivoluzionario.

Ma ricordando questo risultato, non possiamo fare a meno di riflettere sul fatto che a produrlo fu la pressione degli eventi italiani, cioè un fattore esterno e contrapposto alla Chiesa, e non un'autonoma scelta ecclesiastica. Né possiamo ignorare che ciò che Montini chiamerà evento provvidenziale e liberatorio, la Chiesa del tempo lo visse in tutt'altro modo:  come un dramma di proporzioni apocalittiche che alimentò una frattura politica e sociale le cui conseguenze non si sono ancora, a ben guardare, del tutto e totalmente rimarginate. Non possiamo fare a meno di notare, insomma, negli eventi che accompagnarono il compimento dell'unificazione, un aspetto contraddittorio che fatichiamo anche oggi, a distanza di quasi un secolo e mezzo, a comprendere.

È vero, potremmo aggiungere, che alla dimensione statuale la Santa Sede non ha mai rinunciato, e l'ha riottenuta con gli accordi del 1929 e la conserva tuttora saldamente. Ma è evidente che ciò non può essere in alcun modo una giustificazione a posteriori della grande rottura ottocentesca. Tra lo Stato pontificio anteriore al 1870 e quello Stato reale ed effettivo, ma territorialmente simbolico e sostanzialmente privo del potere civile che è l'odierna Città del Vaticano, corre una differenza immensa, che a nessuno può sfuggire.
Perché, dunque - questa, credo, è la domanda che un secolo e mezzo dopo non possiamo non porci, portando a conclusione il ragionamento del cardinale Montini - perché la Chiesa del tempo subì anziché provocare essa stessa un mutamento che, alla lunga, si rivelò un guadagno? Perché non rinunciò essa stessa allo Stato temporale che già in occasione della guerra federale del 1848 era apparso un peso e una contraddizione?

Non ho risposte da dare a questo interrogativo, che ripropone, in tutta la sua drammatica e irrisolta complessità, il nodo difficile e sempre riaffiorante del rapporto della Chiesa con il tempo e la storia, una storia che essa vorrebbe dominare e dalla quale invece, non infrequentemente, è dominata, e non sempre, aggiungo, ricevendone un danno.
Il pensiero corre quasi per forza agli eventi tristi di queste ultime settimane. Anche oggi è la pressione esterna, probabilmente tutt'altro che disinteressata, che ha fatto emergere la piaga della corruzione morale di una parte del clero e ha costretto l'istituzione a voltar pagina. Oggi però a capo della Chiesa c'è un Pontefice il quale, anziché subire gli eventi, quasi li precorre, imponendo alla Chiesa universale una linea di condotta, non di arroccamento attorno alla propria giurisdizione ma di totale rispetto e adeguamento alle giurisdizioni pubbliche e civili. La svolta che Benedetto XVI sta oggi imprimendo all'istituzione ecclesiastica costituisce una rivoluzione di portata epocale, una svolta che non tutti hanno ancora compreso, né dentro né fuori della Chiesa.

Una rivoluzione che suggerisce qualche interrogativo circa l'esito che avrebbero potuto avere gli eventi risorgimentali se anche un secolo e mezzo si fossero anticipati i fatti anziché subirli. Interrogativo naturalmente senza risposta, ma che serve a farci capire come una memoria condivisa del nostro passato debba necessariamente passare attraverso un serio ripensamento critico, anche da parte cattolica, dei fatti che accompagnarono l'unificazione nazionale.
Ripensamento critico che se dovesse coinvolgere anche l'altro dei due contendenti di allora, cioè lo Stato, non potrebbe tralasciare di affrontare il nodo rappresentato dalla guerra alla Chiesa che si volle ingaggiare allora. Guerra che produsse l'effetto di demolire l'unico sentimento che accomunava gli italiani, a qualsiasi ceto sociale appartenessero e in qualunque degli Stati preunitari vivessero:  il sentimento religioso, il senso di appartenenza alla Chiesa. A me pare che il vuoto, anche civile, che si è aperto allora, non sia stato ancora colmato.

E ripensando i fatti di allora c'è un secondo problema sul quale vale la pena di soffermarsi. L'arroccamento attorno alla protesta del papato isolò il cattolicesimo italiano, quasi lo staccò dal flusso degli eventi nazionali, lo rinchiuse dentro le proprie istituzioni. All'ombra della cultura intransigente nacquero in Italia giornali, scuole, istituti di credito ed enti con finalità sociali, nuove congregazioni religiose e inedite proiezioni missionarie, mentre le vecchie forme religiose cambiavano e si rinnovavano in profondità. La parrocchia, da luogo di culto devozionale divenne un centro propulsore di molteplici attività e il sacerdote, per così dire, scese dall'altare entrando nel vivo delle questioni del tempo.

I cattolici si abituarono a pensarsi come una realtà civile e politica distinta e separata dal resto del Paese, protetti e riparati dalle proprie istituzioni, dalla propria ideologia, da una cultura dell'assedio che dava forza ma limitava inesorabilmente gli orizzonti. E dalla separazione alla contrapposizione il passo fu breve. Fu una grande trasformazione, che riceverà ulteriori impulsi quando l'enciclica Rerum novarum, nel 1891, aprirà all'azione del cattolicesimo organizzato gli spazi sterminati della questione sociale.
Il risultato di tutto ciò fu una generale politicizzazione dei cattolici i quali, loro malgrado, si trovarono a essere un partito, cioè una parte rispetto al tutto della nazione, inevitabilmente contrapposta alle altre, e una parte che scendendo nell'agone politico diventava antagonista e competitrice nella lotta per il potere.

La trasformazione fu colta perfettamente da Luigi Sturzo nel celebre discorso che pronunciò a Caltagirone nel 1905, ben prima della fondazione del popolarismo, allorché affermò:  "Io suppongo i cattolici non come congregazione religiosa (...) né come l'autorità religiosa (...) né come la turba dei fedeli (...) né come un partito clericale (...), ma come una ragione di vita civile informata ai principi cristiani nella morale pubblica, nella ragione sociologica, nello sviluppo del pensiero fecondatore, nel concreto della vita pubblica". E aggiunse che i cattolici erano ormai "i rappresentanti di una tendenza popolare nazionale nello sviluppo del vivere civile". Erano diventati cioè un partito, che attendeva solo il momento opportuno per costituirsi come tale e scendere nell'agone parlamentare. Ciò avverrà, come sappiamo, dopo la Prima guerra mondiale, evento che aprì una fase nuova, interrotta dall'irruzione del fascismo e ripresa alla caduta del regime per durare fin quasi alla fine del secolo scorso.

Anche questa quasi secolare vicenda - una vicenda definitivamente conclusa o solo interrotta? propongo un interrogativo che credo non sia privo di qualche aspetto di interesse - si presta a diverse letture, a un ripensamento critico che finora è stato troppo condizionato dalla conclusione ingloriosa in seguito alle ben note vicende di Tangentopoli. L'esperienza partitica dei cattolici presenta indubbiamente un bilancio positivo che è doveroso ricordare, a partire dal giudizio che un grande storico, Federico Chabod, diede della nascita del popolarismo:  "L'avvenimento più notevole della storia italiana del xx secolo".

Perché quel giudizio è ancora valido, benché pronunciato mezzo secolo fa? Per dirla in breve:  perché allora si sanò una frattura drammatica; perché si ricompose il rapporto fra corpo sociale e rappresentanza politica, cioè fra Paese legale e Paese reale, come si diceva nell'Ottocento, significando con tale espressione come una parte cospicua del Paese vero, quello che vive concretamente la vita d'ogni giorno, dall'Unità fino al 1919 fosse rimasta esclusiva, priva di rappresentanza e di voce; perché furono immesse nel circuito politico idee destinate a fare molta strada. Ricorderò le principali:  la riforma agraria e la necessità di creare la piccola proprietà contadina; l'adozione della proporzionale in luogo del maggioritario; il decentramento amministrativo e la valorizzazione dell'ente locale, inclusa la regione; la riforma tributaria fondata sulla progressività delle imposte; il superamento del nazionalismo e l'avvio di un ordinamento internazionale capace di imbrigliare gli stati-nazione.

Poche di queste idee si realizzarono allora. Bisognerà attendere il secondo dopoguerra e l'assunzione del governo da parte della Democrazia Cristiana, alla fine del 1945, per vedere attuato più largamente quel programma. Io credo che a questo partito, del quale oggi, con poca equanimità, si ricordano le infelici circostanze della morte più che la lunga vita, tutto sommato operosa e positiva, si debbano riconoscere almeno due meriti.
Il primo è quello di aver reso la democrazia costume diffuso, pratica accettata e condivisa, di aver superato quella cultura politica delle separazioni e delle contrapposizioni - di classe, di ceto, di interessi, di ideologie - che aveva segnato la storia nazionale tanto nel periodo liberale quanto nel tragico quadriennio prefascista quanto poi nel ventennio del fascismo.

Per più di ottant'anni c'erano state due Italie che si erano contrapposte, quella del potere e quella dell'antipotere, democratico, mazziniano, garibaldino, cattolico, socialista, fascista o antifascista che fosse. Il sogno di un'Italia diversa ha alimentato la fantasia di generazioni di italiani. Con i giudizi dei delusi e degli sconfitti - giudizi critici, sprezzanti, frustrati, dolenti, arrabbiati - si potrebbe riempire un'antologia, da Alberto Mario, il vecchio garibaldino repubblicano, uno dei padri del Risorgimento, secondo il quale (siamo nel 1880) "sussistono più relazioni tra la luna e la terra che fra Montecitorio e l'Italia, perché alla luce del pensiero nazionale non riesce mai di penetrare nell'atmosfera che avvolge Montecitorio", a Giovanni Amendola, che su La Voce, la rivista di Prezzolini, sentenziava lapidario nel 1910, un anno prima delle celebrazioni cinquantenarie:  "L'Italia come è oggi non ci piace", aggiungendo che "la nazione è poco più di un mito che tramonta e di una speranza che sorge". Insomma:  un mito infranto e una vaga speranza nel futuro. Perché stupirci allora dello scarso entusiasmo che suscitano le prossime celebrazioni centocinquantenarie? È una vecchia storia che si ripete.

Se vogliamo parlare concretamente e non astrattamente della memoria storica che ha costruito la nostra identità non possiamo prescindere dal ricordare questa secolare divisione fra le due Italie, né dobbiamo stupirci davanti al fatto che anche oggi essa riaffiori.


(©L'Osservatore Romano - 3-4 maggio 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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