È in libreria il volume L'arte nella vita della Chiesa (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2009, pagine 296, euro 32). Pubblichiamo uno stralcio del primo capitolo.
di Timothy Verdon
Nelle case di molti cristiani vi è una Bibbia, che però viene aperta e letta solo occasionalmente - non perché le persone siano analfabete ma per mancanza di tempo, mancanza di consuetudine, mancata formazione. Spesso nelle stesse case vi sono anche immagini sacre - un crocifisso o dipinti o stampe raffiguranti il Sacro Cuore, la Madonna o qualche santo - che invece accompagnano la vita degli abitanti, offrendo colore e un senso di tradizione.
Simili immagini hanno una funzione analoga a quella dei testi biblici, richiamando a mente personaggi ed eventi della historia salutis, ma in un modo affascinante che attira per la bellezza e permette a tutti di capire; anche se di qualità modesta, sono riflessi di un patrimonio visivo ricco di capolavori - la sterminata galleria dei maggiori artisti di tutte le epoche che indichiamo col termine sintetico "arte sacra cristiana", e che ha avuto la stessa funzione nella vita della Chiesa universale che hanno i crocifissi e le stampe nelle case delle famiglie.
I mosaici scintillanti nelle basiliche paleocristiane; gli affreschi nelle chiese dei frati; i grandi dipinti su tavola e tela sugli altari; le statue fuori e dentro gli edifici di culto; le oreficerie e i tessuti ricamati usati per solenni celebrazioni liturgiche: tutti questi tesori sono serviti cioè a istruire e ispirare, a narrare i magnalia Dei e a documentare le risposte umane a Dio, configurandosi come un libro - una Bibbia fatta con immagini - tra le mani dei credenti.
Questa Biblia pauperum non era intesa per i soli analfabeti e tanto meno per i bambini, anche se gli uni e gli altri erano - e sono tuttora - tra i fruitori. Il millenario patrimonio artistico della Chiesa è frutto piuttosto di committenze adulte, spesso dotte e perfino erudite, e i poveri a cui la caratterizzazione tradizionale allude non sono gli indigenti - i quali tuttavia hanno sempre avuto accesso all'arte nelle chiese - bensì i "poveri in spirito": quelle persone a cui, nelle beatitudini, Gesù assegna "il regno dei cieli" (Matteo, 5, 3).
L'arte sacra cioè, che sovente visualizza quel "regno", è per i "piccoli" della cui esistenza il Salvatore esultò nello Spirito, dicendo: "Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza" (Luca, 10, 21; cfr. Matteo, 11, 25-27). Né vi è contraddizione tra quest'affermazione e l'asserto che molti committenti erano dotti e perfino eruditi, perché nel cristianesimo pure il dotto è chiamato a convertirsi e diventare come un bambino per entrare nel regno dei cieli (Matteo, 18, 3), e Gesù ammonisce a "non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli" (Matteo, 18, 10). Come ogni espressione creativa dello spirito umano, l'arte sacra conserva infatti una dimensione ludica, a prescindere dai contenuti elevati.
Lo stesso processo di semplificazione che l'immagine rappresenta nei confronti della parola appare come divina "benevolenza", e l'attraente sua bellezza come un invito a contemplare, insieme agli angeli in cielo, "la faccia del Padre".
Ecco allora una prima precisazione: il legame tra la Bibbia scritta e la Biblia pauperum fatta d'immagini non consiste solo nel fatto che l'arte cristiana tipicamente illustri o evochi i testi sacri, bensì nel comune traguardo dell'una e dell'altra Bibbia di far vedere Dio.
Ed ecco quindi la seconda precisazione: se l'obiettivo ultimo è di vedere Dio - l'esperienza nota come la "visione beatifica" - l'immagine è un mezzo particolarmente adatto, in quanto anticipa il carattere contemplativo della vocazione ultima dell'uomo. L'arte è inoltre un mezzo particolarmente cristiano, perché Cristo è "l'immagine del Dio invisibile", come afferma il Nuovo Testamento (Colossesi, 1, 15). È vero che nel quarto vangelo Cristo è chiamato "Verbo", ma si tratta di un Verbo che "si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi", così che "noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità" (Giovanni, 1, 14).
Un altro testo sacro cristiano parla similmente della transizione da parole a qualcosa di visibile, affermando che "Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza..." (Ebrei, 1, 1-3).
I termini "irradiazione" e "impronta", propri dell'ambito visivo e di quello tattile, suggeriscono che sin dagli inizi il cristianesimo abbia pensato al Figlio di Dio venuto fisicamente in terra come superamento di una cultura religiosa fatta di sole parole.
Queste citazioni suggeriscono inoltre il rapporto particolarissimo di Cristo, il Verbo fattosi uomo per essere "immagine" dell'invisibile Dio, con le immagini umane - pitture, sculture, miniature, vetrate, avori, oreficerie - che parlano di Dio. Si tratta di un rapporto unico nella storia delle religioni, perché laddove in altri sistemi di fede l'arte illustra contenuti il cui baricentro rimane altrove, nel cristianesimo l'arte conduce, per la sua stessa natura, al cuore della cosa creduta: al paradosso cioè di un Dio spirituale che ha voluto esprimersi in forma materiale.
"Un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico", ricorda il più strenuo difensore delle immagini cristiane, san Giovanni Damasceno, evocando il divieto veterotestamentario a ogni raffigurazione della divinità. "Ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini", continua, "così che è lecito fare un'immagine di quanto è stato visto di Dio". Scrivendo nel contesto dell'interdizione delle immagini da parte dell'imperatore di Bisanzio, l'iconoclasta Leone iii nel 730, questo autore - nato cristiano in una Damasco allora sotto controllo musulmano - riafferma il nesso tra l'Incarnazione del Verbo e l'uso delle immagini, soprattutto quelle che raffigurano Cristo stesso.