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Intervento serio del card. Biffi sul "Nuovo" Lezionario Liturgico Ambrosiano

Ultimo Aggiornamento: 02/02/2010 16:50
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....LEZIONARIO AMBROSIANO? ARRIVA LA CRITICA DEL CARDINALE BIFFI E FORSE L'INTERVENTO DEL CARDINALE CANIZARES....

Rito ambrosiano. La scure del cardinale Biffi sul nuovo lezionario
È entrato in uso a Milano con l'approvazione del Vaticano. Ma l'arcivescovo emerito di Bologna, milanese e grande esperto di sant'Ambrogio, l'ha trovato pieno di stravaganze ed errori. Vuole che Roma lo riesamini da capo

di Sandro Magister



ROMA, 1 febbraio 2010 – Dai primi di quest'anno la congregazione vaticana per il culto divino ha un caso scottante da dirimere. Col rischio di dover contraddire se stessa.

Il caso riguarda il nuovo lezionario della messa di rito ambrosiano, cioè il rito che è in uso nell'arcidiocesi di Milano e in alcune località delle diocesi limitrofe di Bergamo, Novara, Lodi e Lugano, quest'ultima nella Svizzera italiana, per un insieme di quasi 5 milioni di battezzati.

A imporre il caso alla congregazione vaticana è stato un cardinale competentissimo in materia, Giacomo Biffi (nella foto), milanese, teologo, studioso eminente di sant'Ambrogio e del rito che da lui prende nome, già coautore, negli anni Settanta, di una prima edizione del lezionario ambrosiano, aggiornata secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II.

A quella prima e apprezzata edizione, entrata in uso a Milano nel 1976, ne è seguita una seconda nel 2008, elaborata dalla locale "congregazione del rito ambrosiano" e presentata con grande pompa come "definitiva" dal cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo in carica e quindi "capo del rito".

Come è d'obbligo, prima di entrare in vigore, questa seconda edizione del lezionario ambrosiano ha dovuto passare l'esame della congregazione vaticana per il culto divino, che l'approvò in blocco con insolita rapidità.

Prefetto della congregazione vaticana era il cardinale Francis Arinze, oggi in pensione, e segretario era l'arcivescovo Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don, oggi alla testa della diocesi di Colombo, nello Sri Lanka.

Ma quando il cardinale Biffi – che vive a Bologna, di cui è stato arcivescovo dal 1984 al 2003 – vide questo nuovo lezionario entrato in uso nella sua Milano, trasecolò.

E ne scrisse di getto questo giudizio lapidario, con sovraccarico di pungente ironia, che inserì nell'ultima ristampa della sua autobiografia:

"Vi si trova di tutto: archeologismi vani e talora fuorvianti; avventurose iniziative rituali; prospettive teologiche poco fondate ed equivoche; proposte pastorali senza buon senso e perfino qualche curiosa amenità linguistica.

"È un'impresa di grande respiro, audace senza dubbio e ambiziosa: più audace che saggia, più ambiziosa che illuminata.

"Rimarrà viva a lungo nella memoria allibita della nostra Chiesa".

Ma Biffi non si fermò qui. Lo scorso dicembre riprese carta e penna, riassunse in otto capitoli le sue "osservazioni critiche al nuovo lezionario ambrosiano" e trasmise il tutto alla congregazione vaticana per il culto divino.

Che nel frattempo aveva cambiato dirigenza, con nuovo prefetto il cardinale Antonio Cañizares Llovera e con nuovo segretario l'arcivescovo Joseph Augustine Di Noia.

I titoletti che seguono sono quelli che Biffi ha scritto in cima a ciascuna delle sue otto osservazioni critiche.


1. IL "DERAGLIAMENTO"


La prima critica è di carattere generale. La logica voleva, scrive Biffi, che il nuovo lezionario fosse elaborato in esecuzione delle "norme generali per l'ordinamento dell'anno liturgico" del messale in vigore.

E invece no. Queste norme sono state disattese. Il nuovo lezionario "è uscito di rotaia" e va per conto suo, come se mirasse ad avviare "alla chetichella" una riforma liturgica generale di suo gusto.


2.  A PROPOSITO DI SAN MARTINO


Per cominciare, al tempo d'Avvento il nuovo lezionario ambrosiano dà un secondo nome: "Quaresima di San Martino".

Biffi obietta che si tratta di un "archeologismo vano e fuorviante". Vano perché quel nome è in disuso da almeno mille anni, e fuorviante perché induce a confondere l'Avvento, che è "tempo di gioiosa attesa", con la Quaresima che ha tutt'altro significato, oltre che con un santo con il quale non c'entra nulla.

Inoltre, il nuovo lezionario riporta l'inizio dell'Avvento alla prima domenica dopo l'11 novembre (invece che dopo il 12, come nella precedente edizione) col risultato che qualche volta può capitare che le domeniche prima del Natale siano sette invece di sei.

Le sei domeniche d'Avvento sono un tratto distintivo del rito ambrosiano e di vari riti orientali, rispetto al rito romano che ne ha quattro. E allora come se la cavano con la settima, gli estensori del nuovo lezionario?

"Non hanno trovato di meglio – scrive Biffi – che inventare una 'domenica prenatalizia non di Avvento', della quale nessuno aveva mai sentito parlare, anche perché sembra un concetto contraddittorio: 'prenatalizia' non può che essere di 'preparazione al Natale', e una domenica di preparazione al Natale, nella sostanza, è una domenica di Avvento".


3. UNA DIFETTOSA PROSPETTIVA TEOLOGICA


Il nuovo lezionario scandisce l'anno liturgico in tre tempi: di Natale, di Pasqua, di Pentecoste.

Biffi obietta che la Pentecoste non è mai stata considerata dalla Chiesa un "mistero a parte", ma è l'ultimo giorno, il cinquantesimo, del tempo pasquale dilatato su sette settimane.

Quindi fa bene la liturgia romana a chiamare le domeniche successive non "domeniche dopo Pentecoste" ma semplicemente "domeniche del tempo ordinario" o "per annum". E lo stesso faceva il precedente lezionario ambrosiano.

Il nuovo lezionario, invece, ripristinando la dizione "domeniche dopo Pentecoste", "dimostra in tal modo una debole conoscenza della teologia liturgica".


4. GLI ARCAISMI RICUPERATI


Ma non è tutto. Dopo quattordici domeniche chiamate "dopo Pentecoste", il nuovo lezionario prosegue con altre curiose denominazioni ripescate dal passato. Nell'ordine: una domenica "che precede il Martirio di Giovanni Battista" (29 agosto), sette domeniche "dopo il Martirio di Giovanni Battista" e tre domeniche "dopo la Dedicazione della Cattedrale" (che cade nella terza di ottobre).

In antico, tali denominazioni erano di semplice calendario. Il nuovo lezionario, invece, caratterizza le domeniche prima e dopo la festa di San Giovanni con un ciclo speciale di letture bibliche. Producendo così, scrive Biffi, "un sistema farraginoso senza nessun vantaggio pastorale".


5. LE MESSE CON DUE LETTURE DEL VANGELO


C'è poi una novità che Biffi definisce "la più avventurosa". Con l'idea che la messa è rievocazione misterica della risurrezione di Gesù, il nuovo lezionario introduce nelle messe domenicali anticipate alla sera del sabato precedente – e solo in queste – la lettura di un brano del Vangelo riguardante la risurrezione, oltre la normale lettura del Vangelo del giorno.

"In tal modo a Milano, caso unico in tutta la cristianità, si possono incontrare delle celebrazioni eucaristiche con due diverse pagine del Vangelo".

Il brano evangelico supplementare è letto all'inizio della messa, prima del Gloria. "E non pare – commenta Biffi – una gran bella trovata, esteticamente e pedagogicamente".


6. UN'INCREDIBILE ABERRAZIONE


Un altro punto su cui il nuovo lezionario ambrosiano fa di testa sua riguarda le feste dell'Ascensione e del Corpus Domini.

Per antica tradizione esse cadono di giovedì. Ma dal 1977, da quando il governo italiano le abolì come feste civili, la conferenza episcopale ordinò di trasferire la celebrazione dell'Ascensione e del Corpus Domini alla domenica successiva. E così stabiliscono le "Norme generali" del messale romano e del messale ambrosiano attualmente in vigore.

Ma il nuovo lezionario ambrosiano "impavidamente infrange la normativa", scrive Biffi. Riporta l'Ascensione e il Corpus Domini al giovedì lavorativo. E concede soltanto che "in una o più messe" della domenica successiva i preti, se lo desiderano "per ragioni pastorali", ripetano la messa già celebrata tre giorni prima.

Biffi commenta:

"Ci avvediamo ancora una volta che l'irrazionale attaccamento ad arcaismi che oggi hanno perso ogni attualità impedisca una sufficiente attenzione alla vita ecclesiale e ai suggerimenti di un elementare buon senso.

"Ho inoltre qualche dubbio che siffatta avventurosa iniziativa abbia legittimità canonica. Sarebbe opportuno che gli organi competenti della Santa Sede chiariscano tale questione".


7. LA SCELTA DELLE LETTURE


Anche nella scelta delle letture il nuovo lezionario ambrosiano si stacca dall'ordinamento del lezionario romano e della sua stessa precedente edizione.

Una delle novità è il frequente ricorso alla "lectio continua": ad esempio, la lettura integrale e continuata dei primi, difficili, diciotto capitoli del profeta Ezechiele nelle prime quattro settimane di Avvento.

Biffi obietta che la "lectio continua" può andar bene nei monasteri, ma non per i semplici fedeli, ai quali la Chiesa ha sempre preferito offrire testi più semplici e comprensibili, "religiosamente più utili e meno problematici".


8. LE AMENITÀ LINGUISTICHE


Infine, Biffi richiama l'attenzione su altre due trovate del nuovo lezionario.

La prima è nel titolo delle letture. Mentre nel lezionario romano e nel precedente lezionario ambrosiano esso dice ad esempio: "Dal Vangelo secondo Luca", a significare che si tratta di un brano tratto "da" questo Vangelo, il nuovo lezionario ambrosiano dice: "Lettura del Vangelo secondo Luca".

Con ciò il nuovo lezionario, "infatuato dall'arcaicità", ricalca la formula latina che dice: "Lectio sancti evangelii secundum Lucam". Ma così, commenta Biffi, esso incappa in un grave inconveniente: "a un orecchio moderno la dizione sembra indicare una lettura integrale, mentre si tratta solo di un brano".

La seconda trovata è nella formula con cui spesso iniziano i brani biblici: "In quel tempo...".

Mentre nel lezionario romano e nel precedente lezionario ambrosiano tale formula si connette direttamente al racconto: "In quel tempo, il Signore Gesù entrò nel tempio...", nel nuovo lezionario ambrosiano la formula si interrompe con un punto: "In quel tempo. Il Signore Gesù entrò nel tempio...".

Biffi commenta:

"Suppongo che in nessun angolo della produzione letteraria italiana sia possibile imbattersi in un complemento di tempo chiuso in se stesso, costruito assolutamente, senza alcun legame con il resto del periodo. Ci piacerebbe conoscere in base a quali ragionamenti si è addivenuti alla decisione di arricchire con questa trovata la nostra bella lingua".

*

In Vaticano, la congregazione per il culto divino ha già preso collegialmente in esame le osservazioni critiche del cardinale Biffi e tornerà a farlo tra breve.

Ma l'imbarazzo è evidente. Se desse ragione anche a una sola delle osservazioni di Biffi e imponesse delle correzioni al nuovo lezionario ambrosiano, la congregazione smentirebbe se stessa, per aver in precedenza approvato lo stesso lezionario in tutte le sue parti.

Non è escluso che il cardinale Cañizares Llovera, prefetto della congregazione, sottoponga alla fine a Benedetto XVI la sua proposta di soluzione del caso, rimettendo al papa la decisione.

__________


http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1341968?ref=hpchie
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Occhi al cielo quanto sopra abbiamo appena letto è il risultato DI UNA CERTA COLLEGIALITA' CHE METTE IL PAPA DI FRONTE AL FATTO COMPIUTO, FIDANDOSI DEI VESCOVI....non c'è altra spiegazione...
Se la Santa Sede rischia di contraddire se stessa e TUTTI abbiamo visto e sentito il Papa approvare e lodare il nuovo Lezionario... la PASTURA(=PASTORALE) che viene data ai fedeli risulterà davvero UN MINESTRONE...dove ognuno contraddice se stesso, dove NON c'e affatto comunione...dove la VERITA' stenta a farsi riconoscere...

Io non dubito sulle critiche mosse dal cardinale Biffi, critico IL METODO DI APPROVAZIONE senza a questo punto, aver prima CONTROLLATO cosa si da ai fedeli...
Il Papa aveva davvero letto e controllato il nuovo Lezionario?
E' ovvio che non può fare tutto lui... ed è altrettanto ovvio che se i risultati della collegialità con la quale intraprendere MODIFICHE ED AGGIORNAMENTI che poi rischiano di risultare con gli errori è questa, bè allora davvero qualcosa non va!

 Imbarazzato



Fraternamente CaterinaLD

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Quod omnes tangit... di padre Giovanni Scalese


Quod omnes tangit ab omnibus approbari debet
"ciò che riguarda tutti, deve essere approvato da tutti"


Sandro Magister continua a pubblicare interventi sempre estremamente interessanti (a parte la querelle, non proprio edificante, col Direttore dell’Osservatore Romano...). Fra gli ultimi articoli, pubblicati sul sito www.chiesa, ce ne sono due che, a prima vista, non hanno alcun rapporto fra loro, ma che, a uno sguardo piú attento, possono perlomeno ispirare qualche riflessione comune. Mi riferisco all’articolo, pubblicato il 25 gennaio,
“Il papa è il primo tra i patriarchi”. Tutto sta a vedere come, e quello pubblicato ieri, dal titolo Rito ambrosiano. La scure del cardinale Biffi sul nuovo lezionario.

Partiamo da quest’ultimo. Lungi da me voler intervenire su una questione di cui non so praticamente nulla: non sono un ambrosiano; conosco solo molto approssimativamente il rito della Chiesa milanese; sapevo a mala pena che era stato pubblicato un nuovo lezionario (che non ho avuto ancora l’occasione di avere fra mano); per cui non potrei in alcun modo pronunciarmi su questa nuova pubblicazione. Però, leggendo le osservazioni del Card. Biffi, non posso non riconoscere che si tratta di rilievi di grande buon senso. Si potrà pure discutere su questa o quella obiezione, ma non si può negare che, nel loro insieme, le riserve avanzate provengono da un valente teologo e da un pastore di grande esperienza. Non lo si può accusare né di tradizionalismo né di progressismo: le critiche da lui mosse non sono mai preconcette, ma frutto di una approfondita riflessione.

Il Card. Biffi non è nuovo a certe uscite. Ricordo che, quando, giovane sacerdote, mi trovavo a Bologna come viceparroco, partecipai alla “Tre giorni” del Clero, durante la quale il nostro Arcivescovo ci diede alcune preziosissime Note pratiche sulla celebrazione della Messa, che ho sempre conservato. A quell’epoca era stata da poco pubblicata la seconda edizione del Messale italiano. Ebbene, a proposito delle nuove preghiere eucaristiche inserite in questo Messale, Biffi ebbe a dire:

«Personalmente non amo dire le preghiere eucaristiche dell’appendice. Trattandosi di testi destinati alle Chiese italiane, sarebbe stato desiderabile sottoporli al giudizio di tutti i vescovi interessati. Personalmente, avrei fatto presente che la cosí detta preghiera eucaristica quinta evita con troppa cura il concetto di transustanziazione (“manda il tuo Spirito su questo pane e su questo vino, perché il tuo Figlio sia presente in mezzo a noi con il suo corpo e il suo sangue”); concetto che è evitato, con maggior garbo, anche dalla seconda preghiera eucaristica “della riconciliazione”. Avrei altresí segnalato che la stessa preghiera [la quinta, ndr] non esprime l’idea dell’“offerimus”, cioè la verità che il sacrificio di Cristo nell’Eucaristia è offerto anche da noi (“Guarda, Padre santo, questa offerta: è Cristo che si dona con il suo corpo e il suo sangue, e con il suo sacrificio apre a noi il cammino verso di te”)» (10 settembre 1986: Bollettino dell’Arcidiocesi di Bologna, 9/1986, p. 523; testo ripreso poi in Fonti pastorali della Chiesa di Bologna, vol. I, Bologna 1994, n. 577).

Beh, bisogna dire che in quel caso il Card. Biffi fu ascoltato: nella terza edizione latina del Messale Romano la cosí detta “quinta preghiera eucaristica” è stata accolta, ma completamente rifusa e con il seguente titolo: “Prex eucharistica quae in Missis pro variis necessitatibus adhiberi potest”. I passaggi criticati da Biffi sono stati cosí riformulati:

«Rogamus ergo te, Pater clementissime, ut Spiritum Sanctum tuum emittas, qui haec dona panis et vini sanctificet, ut nobis Corpus et Sanguis fiant Domini nostri Iesu Christi»;

«In oblationem Ecclesiae tuae, in qua paschale Christi sacrificium nobis traditum exhibemus, respice propitius, et concede, ut virtute Spiritus caritatis tuae, inter Filii tui membra, cuius Corpori communicamus et Sanguini, nunc et in diem aeternitatis numeremur».

Come si può vedere, l’intervento di revisione è stato radicale. Si potrà continuare a discutere sull’opportunità di quell’inserimento (per me se ne poteva tranquillamente fare a meno), ma perlomeno la nuova formulazione risulta ora ineccepibile dal punto di vista dottrinale. Tutto è bene quel che finisce bene.

Orbene, la riflessione che mi veniva da fare a questo proposito era che non sempre l’approvazione vaticana è garanzia di correttezza dottrinale e opportunità pastorale; in certi casi forse si farebbe meglio a dare maggiore ascolto ai Vescovi. Non so come sia andata l’approvazione del nuovo lezionario ambrosiano: è abbastanza comprensibile che in tal caso non si sia consultato il Card. Biffi, il quale, pur rimanendo uno dei maggiori esperti di cose ambrosiane, non ricopre alcun ruolo nella Chiesa milanese (ormai egli è semplicemente l’Arcivescovo emerito di Bologna). Ma posso testimoniare che nel lontano 1986, quando pronunciava le parole che ho riportato sopra, si mostrò notevolmente irritato per la mancata consultazione dei Vescovi italiani: praticamente, la pubblicazione della seconda edizione del Messale italiano era stata una specie di blitz dei “tecnici”, i quali, “baipassando” (si può dire?) bellamente i Vescovi, avevano sottoposto all’approvazione della Congregazione del culto divino quella che allora era conosciuta come la “preghiera eucaristica svizzera”, inserendola cosí di fatto nel nuovo sacramentario.

Certe cose succedono spesso nella Curia Romana: non è raro che i Dicasteri ignorino il parere di interi episcopati e finiscano poi per fidarsi di qualche “esperto” di dubbia competenza. Per esempio, ricordo le giuste rimostranze dei Vescovi di paesi lontani che, dopo aver curato la traduzione dei libri liturgici nella loro lingua locale, se la vedevano respinta da Roma, dove non c’era nessun membro del Dicastero che conoscesse quella lingua e ci si doveva perciò affidare a qualche studente di teologia delle università pontificie. È ovvio che il problema è alquanto complesso e non lo si può liquidare con una battuta. Sono convinto che qualche volta Roma faccia piú che bene a resistere alle posizioni di certi episcopati (come, per esempio, rimanendo nell’ambito delle traduzioni liturgiche, nel caso della nuova edizione del Messale in inglese).

Ma il problema, secondo me, non è tanto quello delle pur reali — e inevitabili — tensioni fra il Papa e i Vescovi, quanto piuttosto quello degli “abusi di potere” delle rispettive burocrazie (la Curia Romana e le Conferenze episcopali). Sí, perché noi in genere siamo portati a identificare la Curia Romana con il Papa e le Conferenze episcopali con i Vescovi: teoricamente dovrebbe essere cosí, ma di fatto non lo è. La Curia Romana e le Conferenze episcopali sono realtà burocratiche, di cui certo non si può fare a meno, ma con tutti i limiti che la burocrazia per sua natura comporta. Gli ufficiali di Curia e i funzionari delle Conferenze episcopali sono preziosi collaboratori del Papa e dei Vescovi; ma devono ricordare che non sono loro i pastori. È ovvio che Papa e Vescovi debbano necessariamente delegare molte competenze ai loro “tecnici”; ma questi non dovrebbero mai dimenticare che esiste un’autorità personale dei pastori, che non può in alcun modo essere delegata.

A questo punto, voi direte: che c’entra tutto questo con l’altro articolo di Magister, che pubblicava un documento su Il ruolo del Vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio, documento su cui la Commissione mista internazionale per il dialogo fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse sta lavorando? Il nesso c’è, dal momento che quel documento affronta una questione spinosissima, l’unica praticamente che continua a dividere cattolici e ortodossi: quella del rapporto fra collegialità e primato. Noi cattolici, nonostante le “aperture” del Vaticano II, ammaestrati dalla storia, siamo portati a guardare con un certo sospetto a un'ulteriore sottolineatura della collegialità episcopale, a scapito del primato pontificio; cosí come gli ortodossi, pur riconoscendo in linea di principio il primato del Vescovo di Roma, temono che poi questo possa in qualche modo limitare il principio, a loro cosí caro, della sinodalità. Ci sarà pure una via di uscita a questo impasse! Il documento pubblicato da Magister (le lagnanze del Consiglio per l’unità dei cristiani per la sua pubblicazione risultano, per la verità, piuttosto incomprensibili) mi sembra un buon punto di partenza. Lo strumento di lavoro si apre con una citazione del documento finale di Ravenna del 2007, in cui cattolici e ortodossi riconoscevano il vincolo inseparabile fra conciliarità e primato a tutti i livelli di vita della Chiesa:

«Primato e conciliarità sono reciprocamente interdipendenti. Questo è il motivo per cui il primato ai diversi livelli di vita della Chiesa — locale, regionale e universale — deve sempre essere considerato nel contesto della conciliarità, e similmente la conciliarità nel contesto del primato» (n. 43).

Vedo già qualcuno arricciare il naso, pronto a tacciare tale testo di “conciliarismo”; ma il conciliarismo è ben altro. Mi sembra piuttosto che, almeno come dichiarazione di principio, esso sia pienamente accettabile (e di fatto lo è stato) sia da parte cattolica che da parte ortodossa. Il problema semmai sarà come mettere in pratica il principio della reciproca interdipendenza di collegialità e primato.

Ebbene, io credo che tutto si riduca ad assumere un diverso stile di rapporto. Gli esempi su riportati, riguardanti il Card. Biffi, dovrebbero insegnarci che il sistema oggi utilizzato all’interno della Chiesa cattolica spesso non va: Roma, da sola, non può arrivare a tutto e spesso, di fatto, prende delle cantonate; ha bisogno della collaborazione dei Vescovi. Non perché qualcuno voglia negare il primato pontificio, ma semplicemente perché la Curia Romana è fatta di uomini con i loro limiti, che di per sé non godono del carisma dell’infallibilità. La consultazione dei Vescovi — dei Successori degli Apostoli, intendo, non dei monsignori delle Conferenze episcopali — non può far che bene alla Chiesa. Piú vasta è la consultazione, specialmente sulle questioni delicate, meglio è. Ciò da cui bisogna guardarsi non è la collegialità episcopale, ma lo strapotere delle burocrazie, centrali o periferiche che siano.

Non si tratta di introdurre nella Chiesa un principio rivoluzionario; si tratta semplicemente di seguire l’immemorabile tradizione romanistica ed canonica: «Quod omnes tangit ab omnibus approbari debet» (Giustiniano, Corpus iuris civilis, 5, 59, 5, 2; Bonifacio VIII, Liber sextus decretalium, 5, 12, 29; cf Codex iuris canonici, can. 119, 3°).


Fraternamente CaterinaLD

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