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GLI OSTACOLI NEL CAMMINO DELLA TRADIZIONE riflessioni

Ultimo Aggiornamento: 26/03/2013 12:33
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19/11/2012 19:57
 
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La vetrina e la bottega - II

ovvero come, allestendo in un certo modo la vetrina, è giocoforza vergognarsi di qualcuno

 

La presente “malizia” fa tutt’uno con la precedente. Prenderà in esame il Diario conciliare di Congar (edito in italiano in due volumi), che si riferisce ad avvenimenti tra il 1960 e il 1966 (ma non senza qualche incursione del Diario precedente), per sfociare poi in considerazioni conclusive che saranno la vera “malizia”.

Il punto di vista è analogo alla malizia precedente: porre in evidenza i domenicani “non in linea” con Congar, con qualche digressione in più. Anche il modo di citare è lo stesso: le sigle dei tre volumi seguite dal numero della pagina:

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Le citazione dei Diari avvengono con una sigla che indica il volume e il numero della pagina:

F = Yves Congar, Journal d’un théologien 1946-1956. Ed du Cerf, Parigi 2001, pp. 464.

I = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 - I. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 540.

II = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 - II. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 526.

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Il Concilio: quasi una schizofrenia di atteggiamenti

Congar visse il Concilio con atteggiamenti esemplari, in primis con «un’etica teologale, anche nei minimi dettagli. Ho adottato come norma pratica di fare solo quanto mi è richiesto dai vescovi. Il Concilio sono loro» (I,199). A Concilio concluso riconoscerà che l’opposizione della minoranza «ha dato un contributo che nel complesso si è rivelato felice e positivo. Anche se a volte è stata irritante, ha obbligato a scavare in profondità, a sfumare o a precisare meglio, ad accettare altri aspetti» (II,50).

Invece c’è qualcosa che non convince in atteggiamenti rivendicativi dell’inizio: «mi sono impegnato a smuovere l’opinione pubblica perché si aspetti e chieda molto. Ho ripetuto di continuo, dappertutto: forse otterremo il 5% di quanto chiediamo. Una ragione di più per chiedere molto» (I,66).

 

Ombre sui Papi

Non del tutto allineati con Congar c’erano Papi e Cardinali, per cui in questo e nel successivo paragrafo spenderò una breve parola su di essi, perché - è straevidente - molti domenicani avevano le stesse “ombre” che Congar percepiva in loro.

San Pio V - ci mancherebbe - «non riesco ad amarlo e il suo ufficio è troppo ampolloso. Il Rinascimento ha segnato Roma e la Curia! E le istituzioni conservano il segno della loro origine! Il papato moderno è davvero tridentino e post tridentino» (II,309).

Ancora peggio il beato Pio IX, che proprio l’11 ottobre 1962, giorno di apertura del Vaticano II, torna alla mente come uno «che del procedere della storia non aveva compreso nulla (...) sventurato, che non sapeva cosa fosse né l’Ecclesia né la Tradizione, e che ha spinto la Chiesa a essere sempre del mondo e non ancora per il mondo» (I,148).

All’inizio Pio XII sembra salvarsi. Negli appunti serali dopo l’udienza del 26.5.1946, Congar riconosce che «davanti a lui non ci si sente bloccati da nulla di artificiale» (F 122), l’udienza non è stata banale e «il Santo Padre dà l’impressione di una grande semplicità. Non dice “Noi”, ma “io”. Si ha l’impressione che in lui l’uomo spirituale o semplicemente l’uomo è superiore alla funzione e la domina. Appare desideroso di piegarsi verso gli uomini che sono davanti a lui, di essere aperto con loro, di mettersi al loro servizio» (F 124). Ma, una volta morto, contrariamente a quanto accade - si sa che tutti i bambini sono belli e tutti i morti sono buoni -, la memoria su Pacelli peggiora: «il regime soffocante di Pio XII» (I,66), l’«insopportabile satrapismo di Pio XII» (I,67), la necessità odierna di convertirsi «a non pretendere di dettar legge su tutto: una volontà che sotto Pio XII ha assunto dimensioni mai raggiunte prima e ha condotto a un paternalismo e a una imbecillità senza limiti» (I,27-28).

In realtà papa Pacelli patisce il confronto con il beato Giovanni XXIII, che - questa volta tutti i morti sono buoni - ha un necrologio più che positivo: con lui «la Chiesa, ma anche il mondo, ha fatto un’esperienza straordinaria (...) ci si è accorti che aveva trasformato la visione religiosa e anche umana del mondo: restando semplicemente quello che era (...) non si tratta di pretendere e di rivendicare con arroganza di essere il vicario di Cristo, ma di ESSERLO veramente» (I,361-362). Peccato che in vita «le sue decisioni e la sua azione di governo smentivano in gran parte tutto quello che aveva suscitato speranze» (I,67), un suo discorso «mi pare molto banale» (I,84) e, peggio, per la festa di san Tommaso all’Angelicum il 7.3.1963: «lungo discorso del pontefice, che sostiene di non aver preparato niente (...) il papa, molto stanco, non mostra alcun slancio oratorio» (I,329).

Subito dopo, Paolo VI «è uomo di intelligenza superiore e ben informato. Suscita una profonda impressione di santità». Continuerà Giovanni XXIII ma «sarà molto più romano, più tipo Pio XII: vorrà, come Pio XII, stabilire le cose partendo dalle idee, e non semplicemente lasciandole crescere da sole partendo da qualche apertura prodotta da un moto del cuore. Amerà anche lui il mondo, ma su una linea di sollecitudine» (I,362). Poi però con il tempo «il Papa fa grandi gesti simbolici, ma dietro di essi non vi sono né la teologia né il senso concreto delle cose che quei gesti esigerebbero» (II,233).

 

Ombre su alcuni Cardinali

Il card. Alfredo Ottaviani «pare essersi costruita una sintesi, coerente e priva di dubbi, degli errori di cui mi crede complice, errori che attacca come in un sogno ad occhi aperti. Uccide la tarasca (N.d.R.: animale leggendario e dunque inesistente)» (I,89-90).

Mons. Pietro Parente, poi Cardinale è «l’uomo della condanna di padre Chenu, il fascista, il monofisita» (I,67; Congar in parte si ricrederà su di lui).

Il card. Giuseppe Pizzardo, avendo proibito la pubblicazione di un manuale destinato ai seminari, compie un «miserabile abuso di potere. In nome di che cosa Pizzardo, che è un imbecille ritenuto tale da tutti, fa queste minacce?» (I,101).

 

Gli ambienti domenicani italiani

Milano è il primo convento italiano visitato nel primo viaggio italiano. Il 9.5.1946 Congar e Feret a Milano incontrano P. Giuseppe Riboldi († 1966) (a sinistra nella foto) «che sente come noi i grandi problemi dei tempi moderni e della Chiesa nei tempi moderni. Ma ha avuto delle difficoltà e quasi ha l’interdizione di predicare e di confessare» (F 65-66).

Ma dopo, nei viaggi durante il Concilio, non sarà più così. A Milano, al posto dell’impegnato Riboldi, Congar vede «grossi domenicani dal ventre prominente mentre scendono le scale» (I,407). Il priore (Giordano Ghini † 1983) e altri sembrano fare buona impressione, ma «ho saputo da altri, sono al di fuori della grande corrente. Svolgono il ministero classico di chiesa e di predicazione occasionale; non sono inseriti nella vita di questa città universitaria (2 università e 2 grandi Istituti tecnici di livello universitario). San Domenico aveva scelto le città universitarie e anzitutto Parigi e Bologna, i due emisferi intellettuali del mondo cristiano (...) ritengo che i miei confratelli non capiscano bene quanto di notevolmente nuovo o rinnovato rechino i grandi testi Lumen gentium, De divina Revelatione ecc.» (II,407-408).

 

Dalla penna di Congar Bologna non esce bene. Prima del Vaticano II nel 1950 «alle 16,20 arrivo a Bologna (...). Alla sera a ricreazione i Padri parlano dell’enciclica Humani generis e mi dicono che prima ancora che apparisse alcuni giornali italiani hanno annunciato che questo documento atteso avrebbe condannato la teologia di P. de Lubac e l’ecumenismo di P. Congar. Bisogna lasciare che i cani facciano la pipì al portone» (F 169).

Durante il Concilio Congar tornerà a Bologna ma per incontrare Alberigo e Lercaro e non i frati, né si degnerà di alloggiare in convento. Però una visita all’Arca di san Domenico è d’obbligo:

«Vado sino al sepolcro di san Domenico. Crollo su un banco, privo di forze, ma prego tuttavia come se avessi molta forza. Alle 18 si celebra una messa. Vi assisto in raccoglimento. Passano molti Padri o confratelli. Andatura da monaci che escono dalla loro quiete separata e protetta, per fare un giro fra gli uomini che frequentano il loro santuario. Antropologicamente, un’impressione mediocre» (I,343).

Santo cielo! Ma chi si crede di essere, Congar, per elaborare in un attimo questi giudizi?

 

In compenso a Napoli (1962), dove Congar è stato invitato, tutto fila più che liscio. I frati

«stanno conducendo un’interessantissima esperienza di lavoro domenicano per sostenere la predicazione del clero. Desideravo aiutarli. Ritengo che QUANTO SARÀ FATTO PER CONVERTIRE L’ITALIA DALL’ULTRAMONTANISMO POLITICO, ECCLESIOLOGICO E DEVOZIONALE AL VANGELO, sarà un guadagno anche per la Chiesa universale» (I,302).

Nei sogni di Congar i frati italiani (o almeno alcuni)

«nei prossimi trent’anni saranno in grado di FARE PER L’ITALIA CIÒ CHE NOI ABBIAMO FATTO PER LA FRANCIA: animare ideologicamente un rinnovamento della Chiesa attraverso un autentico ritorno alle fonti» (I,198-199).

A parte la constatazione che la storia successiva dei domenicani italiani non si è evoluta in questo senso, qualsiasi mediocre lettore intuisce subito che gli italiani si riscatteranno se saranno come i francesi versione Congar. Neppure il sospetto che ci sia una “via italiana” verso il rinnovamento, diversa dalla Francia.

 

Le istituzioni dell’Ordine in Italia

L’Angelicum è un «ambiente piuttosto pesante, anche se piacevole, ed estraneo al Concilio; i pasti, che sono normalmente il momento in cui “si parla” (del Concilio), qui avvengono senza parlarne» (I,173). Tra alcuni lavori richiesti nella preparazione del Concilio, «quello dell’Angelico è di un’opprimente povertà, negatività e misero particolarismo» (I,119).

Nella Curia domenicana di S. Sabina «si ha l’impressione di conservazione, di staticità, in un’incantevole fraternità d’altri tempi» (II,304). È un convento regolare e tranquillo, ma «la casa non è toccata dai problemi del mondo più di quanto non lo sia dal rumore del mondo. Talvolta mi chiedo: dove siamo? Sotto Pio IX, sotto Benedetto XIV? Chi è il generale: padre Cormier? Affascinante, ma terribile... La Curia sembra partecipare a questa atemporalità, a questa immunità dai problemi del tempo, che sono anche i problemi degli uomini» (II,321).

 

P. Ciappi «una mente povera e ristretta» (II,238)

Il domenicano P. Mario Luigi Ciappi († 1996), Maestro del Sacro Palazzo e poi Cardinale, è deprezzato perché cita lo Zigliara (Tommaso Zigliara † 1893, domenicano e cardinale) (I,98). È «ultraprudente, ultracuriale, ultrapapista» (I,341).

Per completare, è anche ultramontanista: «Ho letto l’articolo del P. L. Ciappi, Unico Pastore e unico Fondamento della Chiesa universale O.R. 29.1.1964. È la tesi ultramontana secondo la quale: 1) tutta l’ecclesiologia si riduce al Papa o si deduce dai suoi poteri; 2) solo il Papa ha potere sulla Chiesa universale: il collegio dei vescovi non è citato, ma è escluso» (II,18).

 

«Dio ci guardi da Browne! Preferisco Ottaviani...» (I,310)

Il domenicano P. Michele Browne († 1971) è incontrato da Congar prima come Maestro dell’Ordine e poi come Cardinale.

Cominciamo da Maestro dell’Ordine, al cui riguardo Congar accetta la valutazione di alcuni frati:

«Incontro con padre Trémel. socius di Lione al Capitolo generale. Mi dice che il Capitolo è stato penoso e che padre Browne è “un rimbambito”; con padre Gomez e i socii, così mi dice, fanno cinque “rimbambiti”. È il vuoto, il nulla (...). Ha avuto la sensazione che le province sulla nostra linea siano un’infima minoranza in un mondo tutto italiano, spagnolo, americano molto diverso» (I,119).

Browne è creato Cardinale: «Pover’uomo, completamente prigioniero del sistema. So da buona fonte che la sua nomina a cardinale (...) è venuta dai vescovi della Commissione centrale, che vorrebbero avere un teologo fra loro!!!» (I,134-135).

Di conseguenza Browne ha un certo rilievo nei lavori del Concilio, ma «un melo produce mele, e un pero pere», per cui Browne «non può fare una relazione adeguata ai nostri tempi» (I,223), anche perché

«il ritorno alle fonti non lo ha scosso di un micron. Per lui, oggi come vent’anni fa, il Papa è episcopus universalis: questa è tutta la sua ecclesiologia (...) tutto ciò che afferma la sottomissione è bene, tutto ciò che parla a favore della libertà è da limitare e, se possibile, da escludere. Non perde occasione per parlare a favore di questi principi miserabili (...). Quando ci sono le parole “amore”, “esperienza”, sicuramente trova una difficoltà. Mentre se verrà affermato per la ventinovesima volta che tutto si svolge sub Petro e che bisogna reverenter oboedire, andrà tutto bene» (II,192).

È criticato perché vuole il prete definito dall’eucaristia (II,192-193; 403) e mette il Papa «non nella Chiesa ma al di sopra della Chiesa (...). È l’ecclesiologia che renderebbe definitivamente impossibile l’unione con gli ortodossi» II,73). Appartiene a un gruppo conservatore (cardinali Ruffini, Siri, Browne, Larraona, Santo) (II,157), che ha proposto dei modi contrari alla collegialità: «Si tratta proprio dell’odio verso ogni apertura “democratica” e l’espressione dell’integrismo» (II,197).

Unico cenno positivo e al fondo ironico: in una riunione è andato tutto bene perché «il cardinale Browne è stato molto cordiale, leale, pacificatore. È in gran parte merito suo se le cose sono andate per il verso giusto. Ci ha anche divertito, sostenendo, per due volte, che Abramo aveva, nelle intenzioni, osservato la castità più di molti vergini, pur avendo avuto sei mogli» (I,360).

 

Fernandez «spaventosamente meschino e senza ampie vedute» (II,109)

Come mai un giudizio simile su P. Aniceto Alonso Fernandez († 1981), che come Maestro dell’Ordine successe a Browne? Perché incontrando Congar lo rimproverò di mettere troppo le sue vicende in pubblico, mentre

«se il Sant’Ufficio fosse altrettanto indiscreto e proponesse un racconto vero dal suo punto di vista, forse non ne uscirei troppo glorioso. Il padre Generale dice che dovrei, in un prossimo articolo, fare gli elogi del Sant’Ufficio e dei servizi che ha reso e rende alla Chiesa»;

questo è troppo e Congar conclude: «Trovo tutto questo miserabile. Ritengo il padre Generale spaventosamente meschino e senza ampie vedute» (II,109). Va precisato che il povero Fernandez troverà il suo momento di riscatto quando... in riparazione elogerà Congar (I,371).

Stando alle confidenze di un suo collaboratore, P. Fernandez «parla solo di sicurezze e precauzioni da prendere e vive sotto l’incubo di ciò che si dice al Sant’Ufficio: sempre il medesimo cancro che rode il cuore evangelico della Chiesa!» (I,357); nelle commissioni «fa sempre delle dissertazioni ogni volta che parla; mi porgono le condoglianze» (I,445).

Fernandez vive e vibra «nel clima ispanico di anticomunismo e di trionfo del tomismo» (II,36) e sostiene posizioni insostenibili sulla libertà religiosa, tanto che «Padre Gy mi conferma ciò che pensavo: volutamente il padre Generale non ha preso la parola durante la discussione sulla libertà religiosa. Ha saputo che gli viene rimproverato di non rappresentare completamente l’Ordine. Ha voluto dare questo segno di buona volontà» (II,342).

Nel già citato viaggio a Milano, il 26.11.1965 Congar in refettorio deve sorbirsi la lettura del «discorso di apertura dell’ultimo capitolo generale tenuto da padre Fernandez: una scolastica tutta astratta e analitica, con distinzione netta tra naturale e soprannaturale e l’invito ai motivi e mezzi “soprannaturali”. Una cosa del tutto indigesta e piuttosto inutile. Perché non parlare la lingua del Vangelo e di san Paolo? È molto più virile e più vera!» (II,407).

In parallelo alla conclusione su Browne, concludiamo con un momento in cui Fernandez fa ridere tutti: 8.3.1963 «a proposti della conoscenza di Dio in certe popolazioni primitive, il Padre generale racconta di aver visitato alcune regioni dell’Amazzonia dove uomini e donne vivono nudi. Fa ridere tutti quando aggiunge di avere delle fotografie» (I,329).

 

Qualcosa sugli altri

C’è qualche piccolo riscatto, ma non totale, di Gagnebt (I,115.129).

P. Giacinto Bosco († 1996), assistente del Maestro dell’Ordine per l’Italia, che ha coinvolto Congar in una poco utile commissione dell’Ordine sul ministero, incassa una benevola neutralità (I,358); invece P. Raimondo Spiazzi († 2002) migliora rispetto alla “malizia” precedente in quanto nella predetta commissione ha sintetizzato un testo di Congar (II,310). Nella stessa commissione si scontrano con Congar due domenicani spagnoli che forse difendono (troppo) il Rosario: «Sancho e Reeves soprattutto contestano ciò che dico sulle devozioni e il Rosario; mi spiego e mi difendo, esponendo con calore la necessità di riprendere (contestare) gli elementi di “religione” istintiva nella “fede”» (II,310).

Le diverse tendenze intellettuali ma non solo si manifestano in un congresso degli ecclesiologi domenicani in Spagna nel marzo 1964: «Ci sono i sostenitori del concettualismo e ci sono quelli che vogliono un approccio più storico ed esistenziale. E tra questi ultimi ci sono quelli che hanno avuto la loro formazione prima di Heidegger e delle esigenze di oggi e quelli che partono proprio da queste esigenze: due generazioni. Io sento il problema attuale dei giovani per i quali la tradizione non è un valore assoluto» (II,438).

Qui Congar incontra Schillebeeckx († 2009), il quale, unitamente ad altri confratelli olandesi, lo informa che il reggente degli studi ha rassegnato le dimissioni perché

«non può prendersi la responsabilità dell’insegnamento di 5 o 6 docenti che, mi dice Schillebeeckx, riconducono il cristianesimo a un puro umanesimo e sposano radicalmente le tesi bultmaniane o quelle di Honest to God. Sono dispiaciuto per quello che mi dicono» (II,439).

Tutto si conclude con un fraterno e nobile “dispiacere”, mentre - lo si può legittimamente pensare senza pensar male - se ci fossero stati di mezzo Pizzardo, Browne, Fernandez, Garrigou Lagrange ecc. sarebbero volati degli “imbecilli”, delle “nullità”, degli “incapaci di comprendere” ecc. Insomma, a un livello diverso vale anche per Congar la constatazione e il consiglio di Giovanni Giolitti († 1928): le leggi con i nemici si applicano e con gli amici si interpretano.

 

E giunti a questo punto facciamo il punto sulla vetrina: per Congar

Può essere utile ritornare all’immagine della vetrina e della retrostante bottega. Abbastanza in fretta con il Concilio e nel dopo Concilio è cambiata la posizione dei personaggi: quelli che erano solo in vetrina sono entrati nella bottega a confezionare testi autorevoli e anche a governare la Chiesa, compreso ovviamente Congar.

Il quale però nel giro di pochissimi anni con la contestazione del ’68 da parte dei giovani frati si trovò ad essere annoverato tra i “tradizionalisti” o comunque tra quelli “con troppe certezze”: «Un giovane frate domenicano mi diceva un giorno: “Lei sta benissimo nella sua pelle; noi invece ne siamo fuori”. È vero, io sto bene nella mia pelle (...) talvolta mi dico: ho troppe certezze». Poi, dopo una serie di considerazioni, Congar pronunciò una frase tanto bella e profonda da fargli perdonare tutte le altre infelici sin qui riportate:

«Nell’incertezza in cui sembrano compiacersi molti giovani, c’è una ricchezza d’apertura della quale io mancherei un poco? Mi capita di domandarmelo. Ma il mio ruolo, se un ruolo c’è, sarà senza dubbio di essere un testimone della Tradizione in mezzo al cambiamento; essendo la Tradizione tutt’altra cosa che un’affermazione meccanica e ripetitiva del passato: essa è la presenza attiva di un principio a tutta la sua storia» (Jean Puyo, J. Puyo interroge le Père Congar. Le Centurion, Parigi 1975, pp. 238-9).

 

Nel dopo contestazione e con la svolta di Giovanni Paolo II, Congar tornò flebilmente su posizioni simili ma non identiche a quelle dei Diari. Così, in un’intervista del 1989 «accennando alle posizioni del moralista Häring, fortemente osteggiate dalla Santa Sede, disse: “Penso che a Roma si trattino allo stesso modo problemi che non hanno la stessa importanza. È evidente che l’aborto è un crimine, ma la masturbazione...”. Se la prese con il “giuramento di fedeltà”, dal 1° marzo dell’89 esteso a più categorie di persone: “Non bisogna abusare dei giuramenti. L’ha detto Gesù nel Vangelo”».

Sull’inferno commentò: «È molto difficile parlarne. Lei, ci crede veramente, dico veramente, all’inferno, al purgatorio? A quale inferno lei crede? Sta qui il problema. C’è un inferno al quale io non credo affatto. L’inferno del castigo eterno non è possibile, perché Dio si è rivelato come amore. Dunque, se c’è un inferno, di che inferno si tratta?» (Francesco Stazzari, Yves Congar. «Non sono disorientato» in Il Regno 14/1995, p. 433).

 

E giunti a questo punto facciamo il punto sulla vetrina: per noi oggi

Capita oggi di allestire una vetrina, quella dei domenicani al Concilio e di fronte alla Chiesa quando ne parliamo tra di noi o agli altri, mettendoci Congar, Chenu e figli e nipoti e pronipoti e mettendo non nella bottega ma fuori dalla vetrina quelli dell’altra parte, cioè i vari Garrigou Lagrange, Cordovani, Browne, Fernandez e i loro figli e nipoti e pronipoti.

L’operazione può essere giusta o ingiusta, legittima o illegittima.

Se si afferma di preferire questa teologia perché è la più adatta al mondo di oggi o semplicemente perché la storia attuale l’ha valutata come quella più spendibile, nulla da eccepire.

Ma se si afferma che questa è “la” teologia domenicana, allora l’affermazione è scorretta e grave da più punti di vista.

Dal punto di vista della verità e della teologia come tale, la verità è sinfonica e nasce dalla sinergia e dal dibattito delle varie tendenze, per cui gli oppositori hanno sempre un senso. Inoltre la verità nasce dal confronto con l’insegnamento “autorevole”, quali che siano le tendenze attuali. Congar ha detto e scritto cose pregevoli e per le quali non lo benediremo mai abbastanza, ma se il Vaticano II fosse stato fatto solo da lui, che cosa ne sarebbe risultato?

Dal punto di vista della storia e dell’appartenenza: i teologi domenicani e i frati alternativi a Congar/Chenu sono tutti appartenuti all’ordine domenicano e, se hanno fatto teologia, la loro è la teologia dell’Ordine né più né meno della teologia di Chenu/Congar. Sembra infatti più corretto verificare che la teologia dell’Ordine è quella che l’Ordine nella sua storia ha prodotto - dunque anche quella di Reginaldo Garrigou Lagrange -, che non scegliere un certo tipo di teologia e affermare: “questa è la teologia dell’Ordine”. Così facendo bisogna non solo togliere qualcuno dalla vetrina, ma anche vergognarsi di lui.

Ricordo che in un recente Capitolo generale a livello di commissione stava per uscire un testo affermante che la teologia domenicana è quella di san Tommaso d’Aquino e di Marie-Joseph Lagrange († 1938) - da non confondersi con Reginaldo Garrigou Lagrange! - non solo per il loro apporto innovativo nella speculazione e nelle scienze bibliche, ma anche perché entrambi... erano stati condannati! Fortunatamente dopo un serrato confronto il testo fu interamente rielaborato, ma a livello di altre affermazioni meno controllate non sempre così capita...

In conclusione, è del tutto legittimo distinguere e scegliere secondo le proprie preferenze, ma è illegittimo separare o addirittura escludere, un po’ come, si licet parva componere magnis, Calcedonia esigeva per le due nature di Cristo: «inseparabiliter agnoscendum» ma senza togliere la «differentia naturarum» (D 302). Così Congar non è Reginaldo Garrigou Lagrange, ma tutti e due sono domenicani, la teologia di entrambi è domenicana e non si può ridurre la teologia nell’Ordine all’uno o all’altro. D’altra parte è solo questione di tempo: la storia mostrerà che anche gli idoli attuali hanno delle crepe...

Fra Riccardo Barile o.p.




http://www.domenicani.it/priore%20provinciale/2012%2008%20Agosto.html

[SM=g1740771]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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