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Carteggio interessante fra padre Giovanni Cavalcoli O. P. e padre Serafino Lanzetta F.I. sui problemi del Concilio

Ultimo Aggiornamento: 26/07/2011 23:09
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16/05/2011 23:35
 
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Concilio Vaticano II
sviluppo delle analisi sotto il profilo storico - filosofico - teologico
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Corrispondenza-confronto
tra P. Giovanni Cavalcoli e P. Serafino Lanzetta

Il dibattito si è aperto il 13 gennaio 2011 con una Lettera aperta - da parte di Padre Giovanni Cavalcoli, OP a Padre Serafino M. Lanzetta, FI - che esprime riserve di ordine teologico sulle questioni sviluppate nel corso del convegno organizzato dai Francescani dell'Immacolata sul Concilio Vaticano II. Padre Lanzetta risponde il 16 gennaio, con una Lettera aperta ricordando che le difficoltà sono riconducibili al modo di intendere il concetto di infallibilità del magistero e quindi all'esercizio magisteriale del Vaticano II, inteso come unicum e declinato nei suoi 16 documenti. Il dibattito prosegue con altri scritti pure pubblicati di seguito. Raccolgo i testi in un unico documento per comodità di consultazione, trattandosi di un'occasione importante per l'allargamento della discussione, che non mancherà di portare i suoi frutti. È bene che si continui a parlarne, ma soprattutto che se ne traggano piste di riflessione e di approfondimento, che non mancherò di registrare, cercando di alimentare il dibattito sul blog Chiesa e postconcilio


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1. Lettera P. G. Cavalcoli a P. S. Lanzetta

2. Risposta di P. Serafino Lanzetta

3. Replica di P. Giovanni Cavalcoli

4. Nuova risposta di P. Lanzetta






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Lettera aperta di P. Giovanni Cavalcoli a P. Serafino Lanzetta

Carissimo P.Serafino,
 

quanto è stato detto al vostro convegno, e che tu riferisci nella recensione recentemente pubblicata su questo sito, mi trova in gran parte d’accordo:

la necessità di non fare del Concilio Vaticano II una specie di assoluto, salvo poi ad interpretarlo di proprio arbitrio alla maniera modernista, come se esso avesse inaugurato un modello di Chiesa assolutamente nuovo in rottura con la concezione magisteriale precedente; la situazione di grave disagio che stiamo vivendo da molti anni noi cattolici, intralciati ed ostacolati da questa forte presenza modernistica all’interno della Chiesa stessa; il dubbio che non tutto quello che ha detto il Concilio sia veramente saggio e in linea con la Tradizione; la necessità di fare una buona volta chiarezza circa i suoi insegnamenti, onde conoscere veramente il loro valore vincolante e porre termine alle strumentalizzazioni e al doppio gioco dei modernisti.

Detto questo, vorrei però esprimere anche un certo dissenso da quanto è stato detto, continuando un fraterno dibattito che da tempo stiamo conducendo fra noi privatamente e pubblicamente.

Innanzitutto la questione della novità del Concilio. Non c’è dubbio che il Concilio contiene delle novità sia dottrinali che pastorali. Lo riconosci tranquillamente anche tu riprendendo quanto ha detto Mons.Gherardini: “caratteristica del Vaticano II fu quella di trasmettere un insegnamento rinnovato (o forse innovato per certi accenti), in ambito dogmatico e soprattutto in ambito pastorale”.

Il problema è quello di come concepire queste “novità”: rompono col passato o sono in continuità col passato? “I teologi, - tu dici - soprattutto i periti al Concilio, ci dicono che il problema della rottura s’impernia nello stesso Concilio: è lì che hanno fondato la “nuova dogmatica”, la “nuova morale”, che ha avuto successo nel post-concilio, come è lì che hanno radicato, nel solco della Tradizione, il progresso teologico delle dottrine nuove del Vaticano II”.

Tu qui riferisci due tesi opposte. Una che dice che la “rottura” l’avrebbe fatta lo stesso Concilio; l’altra, che dice che il Concilio, nel solco della Tradizione, ha elaborato nuove dottrine stimolando il progresso teologico. La verità è certamente nella seconda tesi, non certo nella prima.

In secondo luogo mi sembra che il convegno non sia stato capace di dimostrare l’asserto del Papa. “continuità nella riforma”. In particolare non avete dimostrato come la novità non è stata una novità di rottura, come sostiene Alberigo, ma una novità nella continuità e nel rispetto della Tradizione.

In terzo luogo il convegno avrebbe dato un contributo più efficace alla questione dell’interpretazione del Concilio e del postconcilio, se si fosse distinto chiaramente l’aspetto pastorale da quello dottrinale. La teoria diffusa secondo la quale il Concilio sarebbe stato solo pastorale non corrisponde a verità. Come hanno detto invece i Papi del postconcilio, esso è stato anche dottrinale e come tale infallibile. La tesi di Don Kolfhaus, secondo cui il Concilio non conterrebbe dottrine infallibili, è molto pericolosa, perché può ingenerare il sospetto che contenga degli errori, cosa per un cattolico assolutamente inammissibile.

E non basta dire con Mons.Gherardini che “il Vaticano II è infallibile nella misura in cui si appella ai precedenti concili dogmatici e a definizioni dogmatiche o quando reitera una dottrina di fede definitiva“, ma bisogna riconoscere con franchezza che anche le dottrine nuove del Concilio sono infallibili, in quanto esplicitazione o sviluppo di dottrine dogmatiche già definite, anche se è vero, come disse Paolo VI, che il Concilio non contiene nuovi dogmi solennemente definiti, come avvenne per esempio con la proclamazione del dogma dell’Assunta o dell’Immacolata.

Ma “infallibilità” non vuol dire altro che assoluta verità in materia di fede; per cui negare questa nelle dottrine di un Concilio ecumenico non è affatto conforme al dovere e al sentire del cattolico. Perché ci sia infallibilità non è necessaria la definizione solenne, ma basta semplicemente l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico.

E’ vero che tutto il Concilio è pervaso da un linguaggio pastorale, ed è vero quello che dice Don Kolfhaus che si tratta di una specie di predicazione omiletica somigliante – io direi – a quello che è il linguaggio dei Padri della Chiesa, un linguaggio adatto alla gente comune del proprio tempo. Ora, anche le dottrine dogmatiche sono espresse con questo linguaggio e non con un linguaggio scolastico che fu proprio, per esempio del Concilio di Trento o del Vaticano I.

Tuttavia questa modestia o popolarità del linguaggio del Concilio non deve portarci a sottovalutare il valore dogmatico delle sue dottrine, così come noi accettiamo ogni parola di Nostro Signore Gesù Cristo, anche se Gesù non si è espresso nel linguaggio di Aristotele o di Cicerone.

Per questo un insegnamento come quello, per esempio, circa la libertà religiosa, presente nel Vaticano II, oggi invocato con tanta insistenza e vigore dal Santo Padre, non può non considerarsi un insegnamento infallibile, ossia un insegnamento di fede. Ed altrettanto dicasi per altri insegnamenti nuovi del Concilio. Trovare qui una rottura o una contraddizione con la Tradizione non ha senso, dato che la dottrina di ogni Concilio è sempre una conferma, magari più avanzata e più progredita, ma sempre fedele e coerente, della Tradizione. Ogni Concilio fa fare un passo avanti alla Tradizione. Possiamo dire con il grande teologo domenicano Francisco Marin Sola, oppositore del modernismo, che nel Vaticano II si dà una “evoluzione omogenea del dogma”.

Quindi, giudicare il Concilio “alla luce della Tradizione”, come era nello scopo del convegno, è giusto, ma a patto che si intenda per “Tradizione” non la fase precedente il Concilio, ma quella stessa più avanzata e più progredita, stabilita dalle dottrine dello stesso Concilio.

Questo è il sano progressismo che il Concilio ha favorito e dal quale è stato ispirato, che non ha nulla a che vedere col modernismo, che è una falso e ingannevole accostamento alla modernità ed è un’eresia.

Altro discorso è quello delle disposizioni o degli ordinamenti pastorali. Su questo piano certamente neppure il Magistero di un Concilio è infallibile. Per questo qui al cattolico è concesso esprimere, sempre con prudenza, riserve o critiche. Qui anche un Concilio può prendere provvedimenti meno opportuni o anche errati, che potranno essere corretti successivamente anche da un nuovo Concilio, come la stessa storia dei Concili dimostra.

Per questo, quando si parla di “modernità” bisogna intendersi: è chiaro che se per modernità si intendono gli errori moderni, la modernità non può che essere respinta in blocco. Ma se per modernità, con maggior senso storico e più ampia e concreta veduta, si intende l’insieme delle dottrine dei tempi moderni, dovrebbe essere evidente che nella modernità ci sono anche dei valori, che come tali vanno assunti e integrati nella visione cattolica. E questo è stato uno dei grandi meriti del Concilio, al quale dobbiamo essere estremamente grati. Ciò che invece è da respingere è l’interpretazione modernistica, per esempio l’interpretazione rahneriana della modernità

A proposito di Rahner, mi compiaccio della tua posizione critica nei suoi confronti, che, come sai, è anche la mia. Ma appunto per liberarci dal rahnerismo dobbiamo tener conto dei princìpi e dei criteri che ho enunciato in questa mia lettera, per non prestare il fianco alle critiche e non fare la figura di restare indietro rispetto agli insegnamenti del Concilio, cosa che sarebbe del tutto controproducente e al limite – vedi lefevriani – neppure conforme a un pieno cattolicesimo.

Mi auguro che tu rifletta su queste cose insieme con coloro che condividono il tuo punto di vista. Dobbiamo ringraziare Riscossa Cristiana che ospita questo dibattito tra fratelli di fede, nella comune certezza che il rispettoso leale confronto delle opinioni conduce alla verità.

Padre Giovanni Cavalcoli, OP

Bologna, 13 gennaio 2011
[Fonte:Riscossa Cristiana]
                                                                       


Lettera aperta di p. Serafino Lanzetta a P. Giovanni Cavalcoli

Carissimo P. Giovanni,
 
la ringrazio per la lettera aperta che ha voluto indirizzarmi, la quale mi dà modo di approfondire i temi a cui allude e di spiegarmi meglio. Non dico che la rottura è stata causata dal Concilio: per sé il Vaticano II non può causare la rottura e la continuità allo stesso tempo, «per la contraddizion che nol consente». Dico che alcuni teologi hanno letto i testi come rottura e altri nella continuità. Questo evidenzia due cose:
  1. che si danno due letture teologiche del Concilio (contraddittorie) per il fatto che i testi si lasciano leggere in modo duplice, dato il loro tenore fontalmente pastorale e non definitorio;
  2. questo richiede, pertanto, un criterio ermeneutico a priori corretto per leggere, di conseguenza, correttamente il Concilio: questo criterio è la Tradizione ininterrotta della Chiesa. Quando viene espunta la Tradizione si verifica la rottura. Porto un esempio recente.
Il padre Paolo Cortesi, missionario passionista in Bulgaria, esultava sul suo blog (cf. cosebulgare.blogspot.com/2010/12/e-arrivato-il-vaticano-ii-finalment... perché finalmente era giunta in Bulgaria la traduzione dei documenti del Vaticano II. E fin qui tutto bene. Ma, il motivo vero della sua esultanza, consisteva nel fatto che, dopo l’affaccendarsi critico-conservatore di chi pretende di buttare il Concilio nel Tevere (forse si riferisce a noi), in Bulgaria invece era arrivato il vero Concilio. Dopo aver ricordato che il Vaticano II è un dono dello Spirito Santo, il padre passionista si attesta sulle sue peculiarità: «Il Concilio ci educa ad essere non una Chiesa padrona e paladina della verità, ma un Popolo di Dio che cammina nella storia insieme a tutta l'umanità». «Il Concilio ci insegna che la liturgia non è assistere alla ripetizione sacrale dei gesti che compie la casta sacerdotale, ma la celebrazione della salvezza da parte di tutto il Popolo di Dio». «L'ecumenismo non è ricondurre all'obbedienza pontificia i disgraziati scismatici, ma la ricerca di comunione da parte di tutti i cristiani». Infine, ci vien ricordato che il Concilio ha scoperto la Parola di Dio. E tutto quello che la Chiesa era prima? La sua dottrina, la sua vita? Il Vaticano II sarebbe, in realtà, il vero volta-pagina. Qui si vede – è un esempio tra tanti – che una carenza spaventosa del concetto di Traditio Ecclesiae, fa scadere in una visione stranamente dogmatista del Vaticano II. Eppure quegli ambiti rammentati dal padre Cortesi sono quelli che oggi maggiormente soffrono a causa della secolarizzazione.
 
Ma veniamo nuovamente a noi. Il nostro convegno si è attestato non sulla verifica delle nuove dottrine del Vaticano II, ma su un approccio (iniziale e a modo di status quaestionis) di tipo storico filosofico teologico. Quello teologico lo si potrebbe definire “fondamentale”, volto a verificare la natura del Concilio e vederla riflessa nei vari documenti (non in tutti ma nei principali), che sono 16 e sappiamo esser divisi in Costituzioni (di cui solo due godono dell’appellativo “dogmatiche” e presentano un insegnamento dottrinale:Lumen gentium e Dei Verbum), Decreti e Dichiarazioni, con accenti e per un esercizio eminentemente pastorali. C’è una cosa comunque che unisce la diversa tipologia magisteriale del Vaticano II (diversa già in ragione di una distinzione tripartita che compare in questo modo solo nel Vaticano II), ed è il tenore dei documenti: un tenore fontalmente pastorale, di annuncio della fede e non di una sua definizione, che esprime così il fine stesso del Concilio. Così volle Giovanni XXIII, così confermò Paolo VI.
 
Da quanto lei dice, emerge un dato fondamentale, che è il problema-chiave del Vaticano II: qual è l’esercizio magisteriale (complessivo) del Concilio? Lei vede il Vaticano II come ununicum, giustamente, perché un concilio, ma, a mio modo di vedere, si spinge più in là del concilio, quando entra in merito all’infallibilità, non distinguendo nel tutto le sue parti, ovvero i diversi livelli magisteriali del Concilio (stabiliti egregiamente da Gherardini).
 
Mi spiego riassumendo schematicamente lo status quaestionis sull’esercizio magisteriale del Vaticano II, riconducibile a 5 posizioni teologiche:
  1. esercizio del magistero straordinario solenne;
  2. esercizio del magistero ordinario universale;
  3. esercizio del magistero autentico;
  4. esercizio di un magistero omiletico;
  5. esercizio di un magistero differenziato.
Tra questi teologi ve sono anche alcuni insospettabili di conservatorismo o di tradizionalismo (cf.F. Kolfhaus, Pastorale Lehrverkündigung – Grundmotiv des Zweiten Vatikanischen Konzils. Untersuchungen zu “Unitatis Redintegratio”, Dignitatis Humanae” und “Nostra Aetate” [tesi dottorale presso l’Università Gregoriana], Lit, Berlin 2010, pp. 23-34).
 
Fin qui la teologia, che verifica, pur con accenti diversi, un magistero sì solenne (quanto alla forma) ma ordinario (quanto al normale esercizio). Il Magistero stesso, specialmente nella persona di Paolo VI, ha riassunto l’intera portata magisteriale del Vaticano II, definendolo magistero ordinario autentico (cf. Allocuzione del 7 dicembre 1965 e Udienza Generale del 12 gennaio 1966). Ora, il magistero ordinario non è infallibile perché è magistero, sia pur di un concilio, ma solo quando è reiterato e quando appura la definitività di una dottrina di fede o di morale, anche se non definita ma definitiva. L’infallibilità nel Vaticano II è solo di riflesso rispetto a precedenti definizioni dogmatiche o a dottrine definitive; questa infallibilità, sussiste poi solo in alcune dottrine ma non nel Concilio in quanto tale, altrimenti sarebbe stata inutile la precisazione del Segretariato del Concilio per la giusta lettura di Lumen gentium, posta come Nota previa. Riporto i due punti salienti di detta nota che ci riguardano: «Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali. Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica» (AAS 77/1 [1965] 72).
 
L’infallibilità si rivela solo nel magistero obbligante tutta la Chiesa, che richiede un atto di fede teologale, in ragione appunto della irreformabilità della dottrina. Per le altre dottrine bisogna tener conto dello spirito (della natura e del fine) del Concilio, e vedere in unità la materia trattata e il modo di esprimersi. Credo sia fuori luogo attribuire sic et simpliciter la definizione di infallibile alle diverse dottrine/insegnamenti del Concilio. Il magistero ordinario perché autentico però rimane vincolante e richiede l’ossequio dell’intelletto e della volontà, pur essendo soggetto ad eventuali revisioni con l’ausilio della teologia, in ragione di una comprensione accresciuta dei dati (si veda su questo il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum veritatis, del 24 maggio 1990, nn. 22-24).
 
Dire comunque che il Vaticano II ha una natura pastorale non è squalificare il Concilio e non significa non riconoscere i suoi insegnamenti dogmatici, ma prevenire un abbaglio, oggi diffuso sia tra i progressisti che tra i tradizionalisti, che porta a leggere il Vaticano II alla stregua del Concilio di Trento o del Vaticano I. Non ci si accorge della peculiarità del Vaticano II, ovvero della sua natura, del suo fine e del diverso tenore magisteriale dei suoi documenti, e si finisce col dogmatizzare tutti i suoi insegnamenti. Questo però è fatale: così, o si fa iniziare la Chiesa dal Vaticano II o si cestina il Vaticano II per far vivere la Chiesa. Il problema rimane fino a quando non ci si decide a tralasciare questa ermeneutica rigidamente tradizionale di approccio al Vaticano II, iniziando a vedere che il nostro concilio è sui generis: inaugura un “nuovo” modo di insegnare e di esser concilio per la Chiesa, modo che darà un’impronta caratteristica al post-concilio: una scelta più pastorale per dire la dottrina di fede della Chiesa. È su questo che ci dobbiamo interrogare.
 
E vengo così ad un ultimo punto, alle novità dottrinali di cui parla. Non sono d’accordo sul fatto che le novità in quanto tali farebbero avanzare la Tradizione. Semmai la comprensione della fede su un piano teologico, ma per il progresso dogmatico è necessaria la definitività della dottrina. Qui leggo un dato simile all’infallibilità: per lei le novità dottrinali sono per sé un avanzamento della Tradizione e pertanto bisogna collocarsi ora dopo di esse per riconoscere la Tradizione nel suo stadio avanzato in ragione del Concilio. Sembra allora che la verifica delle innovazioni non serva o che, se occorra, si pregiudichi la bontà del Concilio. E questo per il fatto che le innovazioni sarebbero infallibili.
 
Invece, a mio modesto giudizio, bisogna collocarsi anche qui su un piano diverso. Non sono le innovazioni che, in quanto tali, fanno avanzare la Tradizione. È piuttosto la Tradizione, che progredendo in ragione del nuovo, in uno sviluppo omogeneo, dà alle cose nuove lo statuto teologico di dottrine o di insegnamenti, in ragione di quanto detto poc’anzi in riferimento al magistero, statuto che può ascendere fino al grado ultimo di irreformabilità. È la Tradizione ovvero la Chiesa-mistero, che accoglie le innovazioni ma al contempo le precede nel suo esserci già, a livello ontologico e cronologico. Questo può apparire un pensiero fissista, ma è quanto dire: c’è prima la Chiesa e poi la sua comprensione, prima Dio e poi l’uomo. Non è per il fatto che siamo di fronte ad un assise conciliare insegnante in modo solenne che avanza necessariamente la Tradizione. Questo certo lo impariamo col Vaticano II, ma neppur possiamo troppo esulare questo concilio dalla tradizione storica dei concili ecumenici. Infatti, anche il Concilio di Pavia-Siena (1423-1424), non definì alcun dogma ma emanò solo pochi decreti disciplinari. Non di meno però è un concilio ecumenico (difeso dal Card. Brandmüller), ma non per questo si può definire infallibile.

È proprio sul concetto di infallibilità da lei esposto che non mi ritrovo. Lei dice che per avere l’infallibilità «basta semplicemente l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico». Allora dovremmo anche dire che, ad esempio, Presbiterorum ordinis insegna in modo infallibile, mentre, in verità al n. 16 c’è una svista storica notevole: sembra che non conosca il dato antichissimo “continenza-celibato”, e mette sullo stesso piano la tradizione latina e la deroga al celibato per i presbiteri della Chiesa greca, deroga nata dopo il trullano, ma in seguito ad un vero imbroglio. Ormai la ricerca storico-teologica è progredita e si dovrebbe provvedere a perfezionare questo passaggio. Faccio anche un esempio al contrario: se Sacrosanctum concilium fosse infallibile, l’attuazione della riforma liturgica, avvenuta spesso e con facilità in deroga allo ius divinum della liturgia, e andando molto al di là di quanto previsto da detta costituzione, sarebbe un’eresia. Si potrebbe dire questo? No, per il fatto che Sacrosanctum concilium non è infallibile ma è una costituzione con una natura pastorale, che apre ai possibili adattamenti.
 
Lei cita poi la Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, definendolo un testo infallibile, dunque dottrinale. Invece, si tratta di in testo che non è né dogmatico né disciplinare, ma contiene norme pratiche di comportamento in materia di libertà religiosa. Questa dichiarazione vuole dare delle norme pratiche e non intende affatto allontanarsi dalla dottrina cattolica sulla libertà religiosa (cf. AS IV/1, 433). Gli abusi, spesso, hanno fatto leva proprio sulla sua infallibilità per accentuare il concetto di libertà religiosa soggettiva, fino a scadere in un relativismo religioso, contro il perenne insegnamento della Chiesa circa il dovere morale di riconoscere la verità e di professarla solo nella Persona del Verbo incarnato. Certo, la libertà religiosa di cui parla il Vaticano II è uno sviluppo del concetto stesso di libertà, che tiene conto del dato della modernità, ma non esaurisce il contenuto della dottrina classica: è un di più, che però necessita della Tradizione per essere compreso, dato il suo fine volto al dialogo con gli uomini.

Vedo una certa frizione tra dottrina e prassi in materia di libertà religiosa, proprio nella sua esecuzione pastorale di Assisi. Non si può dire che Assisi cambia la dottrina della Chiesa in materia di libertà religiosa. Assolutamente no. Ma è una scelta pastorale che deriva dal Vaticano II, da questa dichiarazione e soprattutto da Nostra aetate, per affermare il rispetto e la verità della libertà religiosa di ogni uomo. Al contempo però questa adunanza porta in sé un dato dottrinale: qual è la vera religione? La pastorale che è il fine di Assisi e della Diginitatis humanae, qui, come sempre, incontra la dogmatica: solo Cristo è la verità. Come coniugarle? Il Vaticano II non ce lo dice, ma lascia spazio ad interventi successivi. Il Pontefice opta ora di nuovo per Assisi, pur conscio delle notevoli problematiche sincretiste che ad esso furono connesse in ragione dello “spirito d’Assisi”, da lui denunciato perché funesto quanto lo “spirito del Concilio”. Nessun però potrebbe dire che Assisi cambia la fede della Chiesa nella verità di Cristo unico Salvatore. Se Dignitatis humanae fosse infallibile, non si avrebbe neanche più una certa libertà nella sua attuazione pastorale, il cui giudizio prudenziale spetta al magistero.

In questa tensione tra dogmatica e pastorale nel Concilio, si nasconde, a mio modo di vedere, tutto il problema ermeneutico del Vaticano II. Io per infallibile intendo non-fallibile, irreformabile: allora ben poche sono le dottrine che si possono dire tali.

Direi allora che bisognerebbe leggere “infallibile” nel senso più rigoroso e classico della teologia, mentre il Concilio Vaticano II, quale unicum magisteriale, in modo più flessibile ed articolato, distinguendo i diversi piani, in ragione del progresso teologico verificatosi grazie allo stesso Vaticano II. Gli atti del nostro convegno, che pubblicheremo, ci aiuteranno sicuramente per un discorso più accurato.

Le rinnovo i sensi di stima ed amicizia nei nostri Santi Padri Francesco e Domenico

p. Serafino M. Lanzetta, FI
 
Firenze, 16 gennaio 2011



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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