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Carteggio interessante fra padre Giovanni Cavalcoli O. P. e padre Serafino Lanzetta F.I. sui problemi del Concilio

Ultimo Aggiornamento: 26/07/2011 23:09
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16/05/2011 23:38
 
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La Tradizione contro il Papa - di P.Giovanni Cavalcoli, OP

Per noi cattolici, come si sa, il contenuto del messaggio evangelico, insegnatoci un tempo oralmente da Nostro Signore Gesù Cristo e consegnato agli apostoli e loro successori perché fosse predicato in tutto il mondo, fu già dai primissimi tempi del cristianesimo nel suo insieme messo per iscritto - ed abbiamo gli scritti del Nuovo Testamento come completamento all’Antico -, mentre altre verità non senza rapporto con la Scrittura furono conservate mediante l’insegnamento orale, e ciò costituisce la sacra Tradizione apostolica, detta più brevemente “Tradizione”, parte della quale poi successivamente nel corso dei secoli fu messa per iscritto, senza per questo esser confusa con i testi della Sacra Scrittura. 

Per noi cattolici la conoscenza infallibile del dato rivelato, mediato dalla Scrittura e dalla Tradizione, ci è ulteriormente mediato dal Magistero della Chiesa, continuatore dell’insegnamento degli Apostoli, sotto la guida del Successore di Pietro, il Papa. Vale a dire che il Magistero vivente ed orale della Chiesa ha la funzione, attribuitale da Cristo stesso con l’assistenza infallibile dello Spirito Santo, di trasmettere, conservare, insegnare, interpretare, spiegare, chiarire, esplicitare e sviluppare i dati della Tradizione e della Scrittura. 

Le verità rivelate consegnate da Cristo una volta per sempre agli Apostoli in se stesse sono immutabili perché divine (“cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”) e per questo vanno conservate intatte nei secoli con assoluta fedeltà. Ma nel contempo questo patrimonio di infinita sapienza viene conosciuto sempre meglio dalla Chiesa nel corso dei secoli sino alla fine del mondo, grazie all’aiuto dello Spirito Santo, il quale “rinnova tutte le cose” e per espressa dichiarazione di Cristo, ha il compito di condurre la Chiesa “alla pienezza della verità”. 

Una tentazione che si è verificata nella storia del cristianesimo ed alla quale purtroppo molti hanno ceduto, è stata quella di crearsi la convinzione gratuita ed infondata che per sapere infallibilmente che cosa Cristo ci ha insegnato non c’è bisogno di stare agli insegnamenti o all’interpretazione del Magistero vivente ed attuale – per esempio quello di un Concilio -, ma è sufficiente porsi a contatto diretto e personale o con la Scrittura o con la Tradizione. Il primo è stato l’errore di Lutero ed oggi dei modernisti, soprattutto in campo esegetico; il secondo è l’errore dei lefevriani. 

Il famoso, perspicace ed informatissimo sociologo cattolico Massimo Introvigne, in un suo recente articolo, ha giustamente osservato che modernisti, protestanti e lefevriani, per quanto per altri versi in opposizione tra di loro, vengono ad avere nei confronti del Magistero del Sommo Pontefice, soprattutto i Pontefici del postconcilio, il medesimo atteggiamento contrario al vero cattolicesimo, con la differenza che mentre i protestanti da sempre hanno apertamente dichiarato la loro opposizione al cattolicesimo, i modernisti fingono di essere cattolici, ma in realtà sono protestanti, e i lefevriani stranamente vogliono considerarsi cattolici ed addirittura paladini dell’ortodossia cattolica ancor meglio dei Papi del postconcilio e delle dottrine del Concilio Vaticano II, che essi accusano di aver falsato o abbandonato la “Tradizione”. 

I lefevriani non si rendono conto che ogni Concilio è testimone della Tradizione, ma di un suo stato più avanzato, in base al quale si giudicano le fasi precedenti e non viceversa. I lefevriani fanno come chi – mi si scusi il paragone materiale ma rende l’idea - volesse giudicare il valore di un’auto dell’ultimo salone di Torino alla luce di un’auto del 1930.

Avviene così  che come i protestanti pretendono di giudicare l’insegnamento dei Papi alla luce di un contatto diretto e soggettivo con la Scrittura, trovando nei Papi un’infinità di errori, similmente i lefevriani pretendono di giudicare gli insegnamenti del Magistero posteriore al 1962 (come ha osservato lo stesso Benedetto XVI) alla luce di un contatto immediato e parimenti soggettivo con la Tradizione, essi pure credendo di trovare nel Concilio e nei Papi del postconcilio una falsificazione di certi dati della Tradizione. [a proposito della questione con i Lefebvriani, vedi notazioni su uno scritto di P. Cavalcoli a Don Kolfhaus - ndR]

Ora i protestanti, i modernisti ed i lefevriani non si accorgono che con questo loro atteggiamento, per quanto si annoverino tra di loro teologi dotti e dottissimi, finiscono con la pretesa di avocare a sé quel dono di infallibilità che Cristo non ha assicurato né ai teologi né agli esegeti né agli storici della Chiesa, ma ai soli Vescovi, successori degli Apostoli, uniti al Papa e sotto la guida del Papa. 

Da qui la tesi diffusa sia tra i lefevriani che tra i modernisti, secondo la quale gli insegnamenti del Concilio costituirebbero una rottura con quelli del Magistero precedente, gli uni per dispiacersene, gli altri per rallegrarsene, gli uni per svalutare a più non posso l’autorità dogmatica del Concilio, gli altri per fare del Concilio una specie di compendio totale del cristianesimo ad esclusione di tutti gli insegnamenti precedenti, gli uni irrigidendo la Tradizione al preconcilio, gli altri negando valore alla Tradizione. 

Infatti la Tradizione nel senso cattolico, se può essere paragonata, per la sua solidità e certezza, alla “roccia” come Pietro è la “roccia”, tuttavia  non ha l’inerzia della roccia o la rigidezza di un corpo morto, perché essa, come comprese bene il Beato Henry Newman, in quanto prodotto dello spirito, è un essere vivente, che conserva certo la sua identità, ma nel contempo si accresce, si approfondisce e si sviluppa, anche se è vero che il paragone col vivente non è del tutto calzante, perché una proposizione nuova e più avanzata della Tradizione non sostituisce quella precedente come l’età adulta nel vivente sostituisce la giovinezza, ma si aggiunge alla precedente la quale resta valida e vincolante, così come per esempio la cristologia del Vaticano II certo è più avanzata di quella calcedonese, ma questa anche oggi resta valida nel suo insegnamento immutabile. 

L’impressione della rottura possono averla più gli storici del Concilio che non i teologi e se dovessero averla anche questi, sarebbe un fatto grave, perché vorrebbe dire che non sanno vedere la continuità al di sotto del progresso. 

Infatti, mentre è normale per il teologo fare maggior attenzione alle formule definitive o definitorie e quindi fisse cui giungono le discussioni conciliari, lo storico, per sua natura legato al succedersi degli eventi, è portato a guardare con maggior attenzione all’evoluzione dei dibattiti che poi conduce alle conclusioni dottrinali finali ed ufficiali, le sole che valgono dal punto di vista della fede. 

Per questo lo storico che esamina le fasi o le vicende della elaborazione dei documenti conciliari non può non constatare gli effettivi contrasti, anche in campo dottrinale, che sono emersi durante i lavori del Concilio fra conservatori e progressisti, soprattutto fra quei conservatori che si scandalizzavano irragionevolmente delle novità e quei progressisti che tendevano al modernismo. 

Senonchè lo storico, soprattutto se cattolico, non può non prender atto anche delle conclusioni alle quali sono giunti i dibattiti conciliari, conclusioni dove i contrasti sono scomparsi e che appaiono nei testi dottrinali ufficiali, testi che la Chiesa considera definitivi ed irreformabili, come a dire: “infallibili”. 

E qui, ad un attento esame, contraddizioni col passato non esistono. Infatti in campo dottrinale ossia dogmatico un Concilio, secondo la stessa fede cattolica, trattando di materia di fede, non può rompere col passato, non può mutare sentenza, non può esprimere sentenze errate o rivedibili. Un Concilio chiarisce un dato precedente, non lo muta, perché mutare vorrebbe dire oscurare e falsificare. Il che per un cattolico sincero è impensabile e per lo storico onesto non è constatabile. 

Quanto al teologo, se può essergli utile sapere dallo storico come si è giunti alle conclusioni canonizzate nei testi ufficiali per una migliore interpretazione dei testi stessi, deve però guardarsi bene, soprattutto se è cattolico, dal voler ritrovare nei testi ufficiali dottrinali tracce di quelle incoerenze o imperfezioni che lo storico constata con facilità nel materiale che gli viene fornito dalla storia dei dibattiti conciliari precedenti. Così come lo storico non può dare maggior importanza dottrinale ai precedenti contradditori dibattiti rispetto alle conclusioni alle quali è giunto il Concilio con regolari votazioni. 

Quanto ai lefebvriani, per sottrarsi a questo dovere di accettare le dottrine del Concilio, si appigliano a pretesti speciosi quanto inconsistenti. Sono soprattutto due: 1) si dice che il Concilio è solo pastorale e non dottrinale; 2) si afferma che nel Concilio non sono stati definiti nuovi dogmi e che quindi le sue dottrine non sono infallibili. Quindi, conclusione, - essi dicono - possiamo correggere il Papa e il Concilio in base alla “Tradizione”.

A ciò si risponde dicendo che non è vero che gli insegnamenti del Concilio sono solo pastorali, ma si danno, come hanno affermato più volte i Papi del postconcilio, anche insegnamenti dottrinali, come tali infallibili, giacchè perché si dia dottrina infallibile - ossia assolutamente e perennemente vera - non è necessario, come la Chiesa stessa insegna (Vedi Istruzione “Ad tuendam fidem” della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1998), che il Magistero dichiari esplicitamente o solennemente che una data proposizione è di fede, ma è sufficiente che di fatto si tratti di materia di fede. Questo pronunciamento viene qualificato dalla detta Istruzione come “definitivo” ed “irreformabile”, il che è come dire infallibile. 

Nel Concilio si danno indubbiamente anche insegnamenti di tipo pastorale, che sono anzi la larga maggioranza. In questo campo la Chiesa non è infallibile e, come dalla stessa storia del dogma si dimostra nei fatti, l’infallibilità del Magistero, in quanto esso non si è mai smentito (checché ne dica Küng), parimenti lo storico della Chiesa può agevolmente dimostrare come nel campo pastorale la Chiesa ha commesso errori, che poi hanno dovuto essere corretti. E in tal senso un Concilio successivo corregge gli errori pastorali commessi dal precedente. 

Così non è proibito rilevare errori pastorali nel Vaticano II, che potranno eventualmente essere corretti dal prossimo Concilio. Ma pretendere, magari sotto pretesto di progresso dogmatico, che il Magistero non abbia una dottrina fissa ed immutabile o che nel corso della storia muti parere in fatto di fede o di dogma o che possa sbagliare o correggere errori commessi, è una tesi assolutamente falsa che può essere smentita dagli storici onesti e perspicaci, soprattutto se cattolici, giacchè il cattolico sa per fede che la Chiesa in fatto di dottrina, nonostante certe apparenze contrarie, non può sbagliare, anche se questa certezza può e dev’essere supportata e confermata dalla storia.

 Bologna, 28 febbraio 2011
[Fonte: Riscossa cristiana]
                                                                             
 
Distinguere frequenter. Il Vaticano II e gli assolutismi. In dialogo con P. Giovanni Cavalcoli



P. Giovanni Cavalcoli, OP in un recente articolo pubblicato su Riscossa Cristiana, dal titolo La Tradizione contro il Papa, continuava a riflettere sul Concilio Vaticano II, con una volontà precisa di riscattarlo dai modernisti e dai tradizionalisti. Il Padre domenicano, portava a difesa dell'infallibilità delle dottrine del Concilio, il Motu proprio Ad tuendam fidem del 1998. Di seguito gli risponde il P. Serafino M. Lanzetta, argomentando su due cose: 1) non è necessario per accettare il Vaticano II rendere tutte le sue dottrine infallibili; 2) perché una dottrina sia infallibile è necessaria la sua definitività dichiarata dal Magistero, secondo il citato Motu proprio.

Carissimo P. Giovanni,

ho letto i suoi ultimi interventi sul Vaticano II, pubblicati da Riscossa Cristiana. Ammiro la sua infaticabile passione per un argomento così spinoso ma centrale nell’attuale situazione ecclesiale. Mi permetta di rivolgerle qualche domanda e di riflettere insieme con lei, come abbiamo avuto già modo di fare in precedenza. Muoverei da un primo approccio: la situazione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. È indubitabile che dopo ogni concilio la Chiesa abbia vissuto momenti di forti turbolenze, in ragione di un riassestamento lento e progressivo della compagine ecclesiale, scossa, normalmente, da errori che la minacciavano, smascherati però dalle definizioni delle verità di fede. Non sono mancate fratture, riacutizzatesi proprio in ragione della chiara ed infallibile posizione dei concili. Mi sovviene quanto si verificò per il Concilio di Nicea. È vero che l’errore subordinazionista, che ammaliava anche vescovi dal calibro di Eusebio, fu sconfitto definitivamente solo con il Concilio successivo di Costantinopoli, definendo la divinità della Spirito Santo, mentre, nel frattempo, gli ariani si muovevano con sinodi ben precisi volti a conquistare dalla loro parte le Chiese. I confini dell’esagitazione ecclesiale però erano ben delineati: da un lato la fede della Chiesa, difesa da S. Atanasio e definita al Concilio, dall’altra l’eresia della non-consustanzialità del Figlio col Padre e di conseguenza un principio di svuotamento del mistero stesso della Redenzione. La cattolicità si stringeva intorno alla stessa fede, mettendo sempre più al bando l’errore dottrinale, che qui si avvaleva dell’accondiscendenza dell’Imperatore. Anche dopo il Concilio di Trento i confini della fede cattolica furono ben presto visibili, e con un’opera di intelligenza pastorale, la Chiesa tornò a risplendere della sua bellezza, graffiata dai suoi figli rivoltosi. Si insegnò che la S. Scrittura e le Tradizioni non scritte sono le due fonti dell’unico deposito rivelato da Dio e consegnato alla sua Chiesa. La Chiesa attinge la sua regola di fede da entrambe, unite nell’unico atto rivelativo, custodite e trasmesse indefettibilmente dal Magistero autentico.

Dopo il Vaticano II, però, si assiste a qualcosa di nuovo: è la stessa Chiesa ad essere colpita da una profonda crisi. Una crisi d’identità. È nel suo interno che si mettono in discussione i dogmi: o li si vuole superare in nome di un meta-dogmatismo o – ciò che mi sembra abbia prevalso – li si vuole arrestare ad ogni costo al Vaticano I, per dare una svolta nuova all’Assise ultima: quella della conciliarità. Che presto diventa neo-conciliarismo.

Lo stesso approccio pastorale del Concilio – che lei dice esser il cavallo di battaglia dei lefebvriani per affossare il Vaticano II – si prestò a svariate letture. Ci fu chi come Y. Congar voleva un concilio pastorale, che non fosse da meno di uno dottrinale e che non si limitasse a definire o ad atomizzare la fede, ma raggiungesse gli uomini del tempo. A questi gli farà presto eco G. Alberigo, il quale dirà che il Concilio pastorale aveva messo in discussione l’ecumenismo dottrinale, fino a far abbandonare la via antiqua per una svolta epocale; chi, poi, come il card. G. Siri, che vedeva proprio nell’elevata enfasi data al lemma pastorale un «equivoco-ombra» per risistemare la dottrina passando al lato della condanna degli errori, ma provocando necessariamente una certa mescolanza. Una misericordia verso gli erranti poteva trasformarsi in una misericordia verso l’errore. Questo in larga parte si è verificato, seppur involontariamente. Riporto una lucida e coraggiosa analisi di questa situazione, fatta dal card. G. Biffi, che dice: «Un magistero che non condanna niente e nessuno – naturalmente con tutta la prudente attenzione alle concrete circostanze e alle esigenze della carità pastorale – è fatale che diventi complice involontario dell’errore e quindi di colui che il Signore Gesù ha chiamato “menzognero e padre della menzogna” (cfr. Gv 8,44)» (Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Siena 2010, p. 53).

Per questa ragione, caro Padre, trovo il suo argomentare un po’ troppo affrettato. Non risponde al vero dire, a mio modo di vedere, che i lefebvriani: solo loro o anche altri?, correggono il Papa e il Concilio in nome della Tradizione – mi sentirei anch’io chiamato in causa, per quanto ciò possa aver peso –, in ragione della pastoralità del Concilio e del fatto che il Vaticano II non ha emanato nuovi dogmi. Questo lo dice anche Paolo VI e con lui in modo particolare Giovanni Paolo II, che ne attuò le istanze più proprie. Si pensi solo alla missionarietà interreligiosa ed ecumenica di questo amato Pontefice.

Mi rendo conto della sua accorata preoccupazione per il Concilio e per le sue dottrine. Il riconoscimento del Concilio: a priori irrinunciabile per ogni figlio della «Cattolica», la spinge però a rendere infallibili tutte le sue dottrine. Giustamente, dall’accettazione delle dottrine dipende l’accettazione del Concilio, ma non necessariamente l’accettazione delle dottrine deve prevederne l’infallibilità perché si accetti il Concilio. Leggo nei suoi scritti, e questo è sicuramente invidiabile, una grande volontà di riscattare il Concilio dai modernisti e dai tradizionalisti. Ma così facendo, ho l’impressione che il “nuovo” del Concilio, che comunque lei riconosce come sviluppo e aggiunta e mai abrogante quello di prima, perché sempre infallibile, debba richiedere necessariamente un atto di fede teologale. Questo vale sempre? In questo modo, però, come si potrà distinguere ciò che è dottrinale da ciò che è pastorale?, cosa che invece lei giustamente vuole fare.

Allora, le mie domande: quali sono a suo modo di vedere le dottrine infallibili del Concilio e gli insegnamenti pastorali fallibili e rivedibili? Riuscirebbe a farne un quadro ben delineato o troverebbe sempre la difficoltà di dover disgiungere il fine e la natura pastorali del Concilio anche dai suoi insegnamenti dottrinali? E se gli insegnamenti dottrinali non sono definiti quindi dichiarati infallibili, in ragione di cosa li si può vedere come tali? Solo in ragione del dato dottrinale nuovo portato dal Concilio o non piuttosto in ragione della Tradizione della Chiesa, metro dello sviluppo dogmatico? Il criterio dell’infallibilità non sta nel dopo, ma nel prima. La Tradizione non dovrebbe essere mai contro il Papa. Se lo è, è perché si è smarrito il suo vero concetto. Pertanto, distinguerei tra accettazione delle dottrine/insegnamenti del Concilio e loro (generale) infallibilità. Accettarle non dipende dalla loro infallibilità, ma dal fatto che sono insegnamenti del Magistero della Chiesa. È la Chiesa la garanzia della loro autenticità. Questo potrebbe aiutarci a liberarci da una soffusa ondata di neo-conciliarismo, quando, ad ogni piè sospinto, si invoca l’autorità dottrinale del Concilio, con un generalissimo “il Concilio dice”, “il Concilio insegna”, ignorando magari lo stesso Magistero post-conciliare. Potrebbe essere anche il modo con cui ci si accosta alle dottrine del Vaticano II, senza prevenzioni dogmatiste, con una libertà, sempre nei confini del vero tracciati dall’Autorità, per verificarne, ad un tempo, il loro ancoraggio al Deposito della fede e lo sforzo della novità in ragione della nuova pastoralità voluta dai Padri.

È vero che il Magistero post-conciliare ha dichiarato a più riprese la continuità delle dottrine conciliari con la Tradizione della Chiesa. Si pensi ultimamente alla Verbum Domini quanto al rapporto Scrittura e Tradizione in Dei Verbum. Ma questo non ci redime ancora, purtroppo, da un angosciante e sordo appello al Concilio e sempre al Concilio. Non sarebbe inopportuno un nuovo Sillabo per mettere in guardia dagli errori declamati in nome del Concilio, con il quale non si chiederebbe alla Chiesa di correggersi ma di correggere gli errori.

Dopo il Vaticano I, ad esempio, non c’era molto da dibattere sul contenuto della Pastor aeternus. Ci furono quelli che lo rifiutarono, ma la Chiesa non dovette ritornare sul suo significato per una sapiente ermeneutica. Invece, si nota una singolarità del Vaticano II, che nasconde un problema ermeneutico di approccio e di lettura degli insegnamenti. Mi convinco sempre più, che più che nelle dottrine del Vaticano II, il vero problema si nasconde nel principio ermeneutico con cui le si legge, tema classico della modernità, postasi proprio come problema gnoseologico. Quel mondo moderno con cui si voleva dialogare ha presentato alla Chiesa il conto della sua principale difficoltà: mettersi in questione per arrivare, solo dopo, alla sua comprensione?

Vengo così all’Ad tuendam fidem (Motu proprio di Giovanni Paolo II, del 1998), che lei cita nel suo ultimo scritto (28 febbraio 2011). Con questo documento, il venerabile Pontefice, si premurava di munire di due paragrafi il canone 750 del CIC (e rispettivamente il can. 598 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali) per preservare la fede della Chiesa dagli errori che insorgono. Il primo paragrafo di detto canone richiama le cose da credere con fede divina e cattolica, in quanto insegnate infallibilmente dal Magistero solenne o dal Magistero ordinario e universale e contenute nella Parola di Dio scritta o tramandata (allusione alla due fonti della Rivelazione). Il secondo paragrafo, invece, riguarda l’accoglienza ferma di quelle cose che il Magistero insegna come definitive circa la fede e i costumi. Non si fa però menzione, per appurare l’infallibilità di una dottrina, alla sola “materia” di fede come lei invece dice. Il metro è ancora una volta il Magistero. È interessante notare che questa definitività della dottrina, sebbene di cose non rivelate ma connesse con la Rivelazione e dichiarate tali dal Magistero, fu riconosciuta anche dalla Scuola di Bologna, che all’uscita del Motu proprio, subito s’allarmò con un intero numero monografico di Cristianesimo nella Storia (n. 1, 2000). Si sarebbe così compromessa la voluta scelta del Vaticano II di mettere un certo silenziatore alla Tradizione costitutiva, che ora Giovanni Paolo II, pretendeva rispolverare quanto all’infallibilità di dottrine definitive, insegnate infallibilmente dal Magistero. Si andava così a riprendere un certo modo controversistico e antiprotestante, accantonato dal Concilio. Si ripiombava in una visione dottrinale contro quella propriamente pastorale (vedi ad esempio G. Ruggieri, in Ibid., pp. 4. 103-131: l’unico italiano ad aver firmato il controverso memorandum “Chiesa 2011” dei teologi tedeschi).

Con accenti di rottura, certo, ma anche quest’ermeneutica riconosce che Ad tuendam fidem parla di definitività delle dottrine appurata dal Magistero e dà così piena cittadinanza alla Traditio constitutiva.

Con Benedetto XVI possiamo allora affermare, che «la Parola di Dio si dona a noi nella sacra Scrittura, quale testimonianza ispirata della Rivelazione, che con la viva Tradizione della Chiesa costituisce la regola suprema della fede» (Verbum Domini 18).

Ogni dottrina, anche quella di un concilio, non dovrà mai prescindere da questa «regola suprema».

Con devoti sensi di fraterna amicizia. p. Serafino M. Lanzetta, FI  Firenze, 5 marzo 2011
[Fonte: Approfondimenti di "Fides Catholica"]



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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