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DIFENDERE LA VERA FEDE

Mons. Guido Marini, spiega la partecipazione dei Fedeli alla Liturgia (importante)

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    Caterina63
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    00 18/11/2009 00:13
    La partecipazione dei fedeli all'autentico spirito della liturgia

    Il silenzio e il canto



    "Introduzione allo spirito della liturgia" è il tema della conferenza che il Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie ha tenuto lo scorso 14 novembre a Genova davanti a un gruppo diocesano di animatori musicali della liturgia. Ne pubblichiamo una parte.



    di mons. Guido Marini


    È urgente riaffermare l'autentico spirito della liturgia, così come è presente nella ininterrotta tradizione della Chiesa e testimoniato, in continuità con il passato, nel più recente magistero:  a partire dal concilio Vaticano II fino a Benedetto XVI. Ho usato la parola "continuità". È una parola cara all'attuale Pontefice, che ne ha fatto autorevolmente il criterio per l'unica interpretazione corretta della vita della Chiesa e, in specie, dei documenti conciliari, come anche dei propositi di riforma a ogni livello in essi contenuti. E come potrebbe essere diversamente? Si può forse immaginare una Chiesa di prima e una Chiesa di poi, quasi che si sia prodotta una cesura nella storia del corpo ecclesiale? O si può forse affermare che la Sposa di Cristo sia entrata, in passato, in un tempo storico nel quale lo Spirito non l'abbia assistita, così che questo tempo debba essere quasi dimenticato e cancellato?

    Eppure, a volte, alcuni danno l'impressione di aderire a quella che è giusto definire una vera e propria ideologia, ovvero un'idea preconcetta applicata alla storia della Chiesa e che nulla ha a che fare con la fede autentica.
    Frutto di quella fuorviante ideologia è, ad esempio, la ricorrente distinzione tra Chiesa pre-conciliare e Chiesa post-conciliare
    . Può anche essere legittimo un tale linguaggio, ma a condizione che non si intendano in questo modo due Chiese:  una - quella pre-conciliare - che non avrebbe più nulla da dire o da dare perché irrimediabilmente superata; e l'altra - quella post-conciliare - che sarebbe una realtà nuova scaturita dal concilio e da un suo presunto spirito, in rottura con il suo passato.

    Quanto affermato fin qui a proposito della "continuità" ha a che fare con il tema che siamo chiamati ad affrontare? Assolutamente sì. Perché non vi può essere l'autentico spirito della liturgia se non ci si accosta a essa con animo sereno, non polemico circa il passato, sia remoto che prossimo. La liturgia non può e non deve essere terreno di scontro tra chi trova il bene solo in ciò che è prima di noi e chi, al contrario, in ciò che è prima trova quasi sempre il male. Solo la disposizione a guardare il presente e il passato della liturgia della Chiesa come a un patrimonio unico e in sviluppo omogeneo può condurci ad attingere con gioia e con gusto spirituale l'autentico spirito della liturgia. Uno spirito, dunque, che dobbiamo accogliere dalla Chiesa e che non è frutto delle nostre invenzioni. Uno spirito, aggiungo, che ci porta all'essenziale della liturgia, ovvero alla preghiera ispirata e guidata dallo Spirito Santo, in cui Cristo continua a divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita. Davvero lo spirito della liturgia è la liturgia dello Spirito.

    Nella misura in cui assimiliamo l'autentico spirito della liturgia, diventiamo anche capaci di capire quando una musica o un canto possono appartenere al patrimonio della musica liturgica o sacra, oppure no. Capaci, in altre parole, di riconoscere quella musica che sola ha diritto di cittadinanza all'interno del rito liturgico, perché coerente con il suo spirito autentico. Se parliamo, allora, all'inizio di questo corso, di spirito della liturgia, ne parliamo perché solo a partire da esso è possibile identificare quali siano la musica e il canto liturgico.[SM=g1740721] 

    Riguardo al tema proposto non pretendo d'essere esauriente. Non pretendo, neppure, di trattare tutti i temi che sarebbe utile affrontare per una panoramica complessiva della questione. Mi limito a considerare alcuni aspetti dell'essenza della liturgia, con riferimento specifico alla celebrazione eucaristica, così come la Chiesa ce li presenta e così come ho imparato ad approfondirli in questi due anni di servizio accanto a Benedetto XVI:  un vero maestro di spirito liturgico, sia attraverso il suo insegnamento, sia attraverso l'esempio del suo celebrare.




    La partecipazione attiva


    I santi hanno celebrato e vissuto l'atto liturgico partecipandovi attivamente. La santità, come esito della loro vita, è la testimonianza più bella di una partecipazione davvero viva alla liturgia della Chiesa. Giustamente, dunque, e anche provvidenzialmente, il concilio Vaticano II ha insistito tanto sulla necessità di favorire un'autentica partecipazione dei fedeli alla celebrazione dei santi misteri, nel momento in cui ha ricordato la chiamata universale alla santità. E tale autorevole indicazione ha trovato puntuale conferma e rilancio nei tanti documenti successivi del magistero fino ai nostri giorni.

    Tuttavia, non sempre vi è stata una comprensione corretta della "partecipazione attiva", così come la Chiesa insegna ed esorta a viverla.
    Certo, si partecipa attivamente anche quando si compie, all'interno della celebrazione liturgica, il servizio che è proprio a ciascuno; si partecipa attivamente anche quando si ha una migliore comprensione della Parola di Dio ascoltata e della preghiera recitata; si partecipa attivamente anche quando si unisce la propria voce a quella degli altri nel canto corale... Tutto questo, però, non significherebbe partecipazione veramente attiva se non conducesse all'adorazione del mistero della salvezza in Cristo Gesù morto e risorto per noi:  perché solo chi adora il mistero, accogliendolo nella propria vita, dimostra di aver compreso ciò che si sta celebrando e, dunque, d'essere veramente partecipe della grazia dell'atto liturgico.

    La vera azione che si realizza nella liturgia è l'azione di Dio stesso, la sua opera salvifica in Cristo a noi partecipata. Questa è, tra l'altro, la vera novità della liturgia cristiana rispetto a ogni altra azione cultuale:  Dio stesso agisce e compie ciò che è essenziale, mentre l'uomo è chiamato ad aprirsi all'azione di Dio, al fine di rimanerne trasformato. Il punto essenziale della partecipazione attiva, di conseguenza, è che venga superata la differenza tra l'agire di Dio e il nostro agire, che possiamo diventare una cosa sola con Cristo. Ecco perché non è possibile partecipare senza adorare.

    Ascoltiamo ancora un brano della Sacrosanctum concilium:  "Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti" (n. 48).

    Rispetto a questo, tutto il resto è secondario. E mi riferisco, in particolare, alle azioni esteriori, pur importanti e necessarie, previste soprattutto durante la Liturgia della Parola. Mi riferisco a esse, perché se diventano l'essenziale della liturgia e questa viene ridotta a un generico agire, allora s'è frainteso l'autentico spirito della liturgia. Di conseguenza, la vera educazione liturgica non può consistere semplicemente nell'apprendimento e nell'esercizio di attività esteriori, ma nell'introduzione all'azione essenziale, all'opera di Dio, al mistero pasquale di Cristo dal quale lasciarsi raggiungere, coinvolgere e trasformare. [SM=g1740722]

    E non si confonda il compimento di gesti esterni con il giusto coinvolgimento della corporeità nell'atto liturgico. Senza nulla togliere al significato e all'importanza del gesto esterno che accompagna l'atto interiore, la Liturgia chiede molto di più al corpo umano. Chiede, infatti, il suo totale e rinnovato impegno nella quotidianità della vita. Ciò che il Santo Padre Benedetto XVI chiama "coerenza eucaristica". È proprio l'esercizio puntuale e fedele di tale coerenza l'espressione più autentica della partecipazione anche corporea all'atto liturgico, all'azione salvifica di Cristo.

    Aggiungo ancora. Siamo proprio sicuri che la promozione della partecipazione attiva consista nel rendere tutto il più possibile e subito comprensibile?
    Non sarà che l'ingresso nel mistero di Dio possa essere anche e, a volte, meglio accompagnato da ciò che tocca le ragioni del cuore? Non succede, in taluni casi, di dare uno spazio sproporzionato alla parola, piatta e banalizzata, dimenticando che alla liturgia appartengono parola e silenzio, canto e musica, immagini, simboli e gesti? E non appartengono, forse, a questo molteplice linguaggio che introduce al centro del mistero e, dunque alla vera partecipazione, anche la lingua latina, il canto gregoriano, la polifonia sacra?




    Quale musica per la liturgia


     Non compete a me addentrarmi direttamente in ciò che attiene la musica sacra o liturgica. Altri, con più competenza, tratteranno l'argomento nel corso dei prossimi incontri.
    Ciò che, però, mi sta a cuore sottolineare è che la questione della musica liturgica non può essere considerata indipendentemente dall'autentico spirito della liturgia e, dunque, dalla teologia liturgica e della spiritualità che ne consegue. Quanto, allora, si è andato affermando - ovvero che la liturgia è un dono di Dio che a Lui ci orienta e che, mediante l'adorazione, ci permette d'uscire da noi stessi per unirci a Lui e agli altri - non solo cerca di fornire alcuni elementi utili alla comprensione dello spirito liturgico, ma anche elementi necessari al riconoscimento di ciò che davvero può dirsi musica e canto per la liturgia della Chiesa.

    Mi permetto, al riguardo, solo una breve riflessione orientativa. Ci si potrebbe domandare il motivo per cui la Chiesa nei suoi documenti, più o meno recenti, insista nell'indicare un certo tipo di musica e di canto come particolarmente consoni alla celebrazione liturgica.
    Già il Concilio di Trento era intervenuto nel conflitto culturale allora in atto, ristabilendo la norma per cui nella musica l'aderenza alla Parola è prioritaria, limitando l'uso degli strumenti e indicando una chiara differenza tra musica profana e musica sacra. La musica sacra, infatti, non può mai essere intesa come espressione di pura soggettività. Essa è ancorata ai testi biblici o della tradizione, da celebrare nella forma del canto. [SM=g1740722]

    In epoca più recente, il Papa san Pio X fece un intervento analogo, cercando di allontanare la musica operistica dalla liturgia e indicando il canto gregoriano e la polifonia dell'epoca del rinnovamento cattolico come criterio della musica liturgica, da distinguere dalla musica religiosa in generale. Il concilio Vaticano II non ha fatto che ribadire le stesse indicazioni, così come anche i più recenti interventi magisteriali.

    Perché, dunque, l'insistenza della Chiesa nel presentare le caratteristiche tipiche della musica e del canto liturgico in modo tale che rimangano distinti da ogni altra forma musicale? E perché il canto gregoriano come la polifonia sacra classica risultano essere le forme musicali esemplari, alla luce delle quali continuare oggi a produrre musica liturgica, anche popolare?
    La risposta a questa domanda sta esattamente in quanto abbiamo cercato d'affermare in merito allo spirito della liturgia. Sono proprio quelle forme musicali - nella loro santità, bontà e universalità - a tradurre in note, in melodia e in canto l'autentico spirito liturgico:  indirizzando all'adorazione del mistero celebrato, favorendo un'autentica e integrale partecipazione, aiutando a cogliere il sacro e, quindi, il primato essenziale dell'agire di Dio in Cristo, consentendo uno sviluppo musicale non disancorato dalla vita della Chiesa e dalla contemplazione del suo mistero.

    Mi sia permessa un'ultima citazione di Joseph Ratzinger:  "Gandhi evidenzia tre spazi di vita del cosmo e mostra come ognuno di questi tre spazi vitali comunichi anche un proprio modo di essere. Nel mare vivono i pesci e tacciono. Gli animali sulla terra gridano, ma gli uccelli, il cui spazio vitale è il cielo, cantano. Del mare è proprio il tacere, della terra il gridare e del cielo il cantare. L'uomo però partecipa di tutti e tre:  egli porta in sé la profondità del mare, il peso della terra e l'altezza del cielo; perciò sono sue anche tutte e tre le proprietà:  il tacere, il gridare, il cantare. Oggi (...) vediamo che all'uomo privo di trascendenza rimane solo il gridare, perché vuole essere soltanto terra e cerca di far diventare sua terra anche il cielo e la profondità del mare. La vera liturgia, la liturgia della comunione dei santi, gli restituisce la sua totalità. Gli insegna di nuovo il tacere e il cantare, aprendogli la profondità del mare e insegnandogli a volare, l'essere dell'angelo; elevando il suo cuore fa risuonare di nuovo in lui quel canto che si era come assopito. Anzi, possiamo dire persino che la vera liturgia si riconosce proprio dal fatto che essa ci libera dall'agire comune e ci restituisce la profondità e l'altezza, il silenzio e il canto. La vera liturgia si riconosce dal fatto che è cosmica, non su misura di un gruppo. Essa canta con gli angeli. Essa tace con la profondità dell'universo in attesa. E così essa redime la terra" (Cantate al Signore un canto nuovo, pp. 153-154).


    Concludo. È ormai da alcuni anni che nella Chiesa, a più voci, si parla della necessità d'un nuovo rinnovamento liturgico. D'un movimento, in qualche modo analogo a quello che pose le basi per la riforma promossa dal concilio Vaticano II, che sia capace di operare una riforma della riforma, ovvero ancora un passo avanti nella comprensione dell'autentico spirito liturgico e della sua celebrazione:  portando così a compimento quella riforma provvidenziale della liturgia che i padri conciliari avevano avviato, ma che non sempre, nell'attuazione pratica, ha trovato puntuale e felice realizzazione.



    (©L'Osservatore Romano - 18 novembre 2009)
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 24/11/2009 12:21

    Giansenismo e falso concetto di "partecipazione attiva"

    Cari fratelli, avevo considerato in un precedente articolo come una preziosa categoria liturgica - ovvero il concetto di partecipazione activa (actuosa participatio) - drammaticamente stravolta, è divenuta il grimaldello della sovversione liturgica.


    Abolizione del latino, canti selvaggi, adeguamenti al cosiddetto uomo di oggi, stravolgimenti arbitrari di testi pur blindati persino dalla nuove rubriche, sciagurata architettura, distruzione di tanti tesori liturgici, e chi più ne ha più ne metta, insomma tutti gli abusi al limite del sopportabile, come – troppo buono – li ha descritti il Papa nella lettera ai Vescovi che accompagna il motu proprio «Summorum Pontificum», tutti sono giustificati dalla parola magica partecipazione attiva.


    Mi perdoni S. Agostino se riassumo tutti gli argomenti dei novatori per giustificare gli abusi più raccapriccianti con “Cerca la partecipazione attiva e fa’ ciò che vuoi”.


    È evidente che quando S. Pio X e Pio XII parlavano di partecipazione attiva non intendevano la stessa cosa di certi trinariciuti liturgisti di oggi: per i pontefici, siccome tutto ciò che è per partecipazione necessita di ciò che è per essenza (omne quod est per partecipationem causatur ab eo quod est per essentiam, direbbe San Tommaso; cf. S. Th. I, 67, 1), e nella S. Messa, «è contenuto e si immola incruentemente quello stesso Cristo che si offrì cruentemente una sola volta sull’altare della croce… Unica e medesima è la vittima; chi ora offre per mezzo del sacerdote, è il medesimo che si offrì allora sulla croce; diverso solamente è il modo dell’offerta» (C. d. Trento, XXII, 2), partecipare non significa altro che accettare di essere uniti in tutto a Cristo, “fino alla fine” (Gv 13, 1), fino al supremo Sacrificio.


    Per gli altri, partecipazione attiva, conformemente al principio cardine del pensiero moderno Io penso sopra tutto – quindi creazione del reale da parte del soggetto e non adeguamento del soggetto al reale oggettivo – si traduce con l’io faccio, io creo la liturgia, una liturgia–azione, e quindi azione umana che soppianta la actio divina.


    Mi ero di ripromesso di cercare di vedere quali potessero essere le cause del passaggio di questa categoria distorta di actuosa participatio all’interno della mentalità della prassi ecclesiale dominate oggi: e, anche dopo la lettura di un prezioso articolo di Bryan Houghton («Orazione, grazia e liturgia», Conoscenza Religiosa [Firenze: La Nuova Italia], 1 (gennaio – marzo -1969), 90-108), mi sono fatto l’idea che ci troviamo in pieno giansenismo liturgico; ovvero, se S. Girolamo poté dire che il mondo si svegliò ariano – tanta era stata la penetrazione di queste idee persino tra i vescovi del tempo, oggi si potrebbe dire che ci siamo svegliati giansenisti.


    Di primo acchito si potrebbe pensare che niente sia più distante della nuova liturgia e dagli errori moderni quanto il giansenismo.


    Infatti, non battevano forse il tasto i giansenisti sul piccolo numero degli eletti, e oggi invece l’inferno è obbligatoriamente vuoto e tutto finisce a tarallucci e vino?


    E non limitavano forse i giansenisti la Comunione a pochissime occasioni, e oggi invece si è cancellato dalla sequenza del Corpus Domini – almeno nella traduzione italiana - il non mittendum canibus, parole pur dette da Gesù, con conseguente allargamento della S. Comunione in tutti i modi più irriguardosi e a tutte le categorie di peccatori, privati e pubblici, non ancora pentiti e senza confessione? (Sto parlando di abusi nella prassi)


    No
    , dirà qualcuno, il giansenismo non c’entra con la sovversione della liturgia e con i neo-modernisti di oggi.

    E allora io dico:

    Chi sono stai i primi – pretendendo di restare in seno alla Chiesa cattolica - a propugnare il volgare nei testi liturgici? I giansenisti.

    Chi sono stai i primi a fare la fronda al magistero ordinario con la storiella dell’assenso interno che si sarebbe potuto non prestare? I giansenisti.

    Chi sono stai i primi a cercare di veicolare all’interno della Chiesa gli errori del tempo (razionalismo + protestantesimo)? I giansenisti, veri e propri modernisti ante litteram.

    E l’episcopato francese gallicano, antesignano delle rivoltose conferenze episcopali odierne, di che cosa odorava? Di giansenismo.


    E le prime riforme liturgiche intentate in Francia, contro le quali il buon don Prosper Gueranger dovette lottare e sudare ben più di sette camice, e che assomigliavano tanto alla nuova Messa, di che cosa erano impregnate? Di razionalismo e di giansenismo.

    I primi ribelli al Papa nella storia della Chiesa, che pretendevano però di star nella chiesa e di essere i veri cattolici, chi sono stati? I giansenisti.


    E sì cari fratelli, allora l’ipotesi che i giansenisti siano i nonni della applicazione della riforma liturgica comincia a non essere più tanto campata in aria.

    Ora dobbiamo chiederci in che modo il giansenismo abbia ragione di causa rispetto agli abusi liturgici di oggi e alla distorsione della preziosa categoria di partecipazione attiva, che - non dimentichiamo - , è patrimonio della Tradizione, nella sua retta e vera suppositio.


    Mi pare che l’influsso giansenista consista essenzialmente nell’oblio dell’azione divinizzante della grazia, della divinizzazione causata dalla grazia santificante, divinizzazione totalmente ignorata dai giansenisti. Per costoro, e Dio mi perdoni se oso ripetere simili errori – l’uomo, dopo il peccato originale, è vittima della concupiscenza, ed è del tutto incapace di atti salutari se non toccato dalla grazia efficace.

    Secondo i giansenisti, queste grazie efficaci, riservate ad un piccolo numero di eletti, trascinerebbero invincibilmente l’uomo – quindi nemmeno libero - a compiere le buone azioni.

    Vediamo ora le differenze dalla sana teologia cattolica.


    È vero che l’uomo, dopo il peccato originale, è insanabile se non con l’intervento di Dio; ma questo intervento non si riduce ad influenzare le azioni umane (ciò che noi chiamiamo grazie attuali), ma soprattutto consiste nella grazia santificante, per cui l’uomo da ingiusto diventa giusto, da nemico amico ed erede secondo la speranza della vita eterna (cf. Conc. di Trento, decr. De Iustificatione).


    Gli atti salutari dell’uomo non sono dunque l’esito di grazie concesse quanto mai ad libitum da parte di Dio verso pochi, ma di una vera e propria azione santificatrice che trasforma l’essenza dell’uomo, che lo rende santo: gli atti salutari sono dunque quelle operazioni che scaturiscono dal nuovo essere dell’uomo santo e deiforme, dall’essere dell’uomo nuovo giustificato, creato secondo Dio nelle santità della verità (cf Ef. 4, 24).

    Da queste due concezioni della giustificazione derivano due concezioni inconciliabili e irriducibili l’una all’altra della preghiera: da un lato questa non sarà che un agire dell’uomo, atto necessario trascinato da una grazia data hic et nunc: dall’altro la preghiera sarà come il riflesso di tutto l’uomo all’azione divina, di un riflettere come uno specchio una luce sempre più luminosa, dove l’agire umano cede sempre più il posto all’azione divina, e dove questo cedere il passo arricchisce l’azione umana.


    È per questo che S. Tommaso definisce i gradi più elevati di orazione, ovvero la contemplazione, intuitum simplicis veritatis, simplicem cognitionem intelligibilis veritatis, semplice veduta intellettuale della verità, al di sopra di ogni espressione verbale (S. Th. II-II, 180, 3 e 6).


    Il giansenismo, privo della categoria della divinizzazione dell’uomo e colpevolmente privo di tutta la ricchezza contenuta nel decreto De Iustificatione, rimane solo con l’azione - forzata - dell’uomo.

    Queste idee purtroppo hanno passato i secoli, e ce le siamo ritrovate invisibilmente dominanti nell’immediato pre-concilio; come prova porto le preoccupazioni per un falso concetto di partecipazione attiva mostrate già da Pio XII nell’Enciclica Mediator Dei e nel discorso «Vous Nous avez demandé» (ai partecipanti al 1° Congresso internazionale di Liturgia Pastorale, del 22 settembre 1956): dall’altro la non troppa fatica a far dimenticare il latino in quattro e quattr’otto, nonostante la grande costituzione apostolica – fatta scomparire dalla circolazione come i mafiosi occultano il corpo del delitto colandovi sopra il cemento armato – Veterum Sapientia, di Giovanni XXIII.


    La terapia tomista.


    Cari fratelli, dobbiamo riappropriarci della partecipazione attiva, categoria scippata e distorta dai neo-modernisti.

    Sarebbe un medico da poco uno che sapesse fare solo la diagnosi, ma non sapesse proporre una terapia. E sarebbe un medico superbo chi volesse intraprendere questa ardua impresa con le sue sole forze: e allora lasciamo al parola a S. Tommaso.


    Secondo l’Aquinate, “nell'orazione vocale ci possono essere tre tipi di attenzione. Primo, l'attenzione materiale, con cui si bada a non sbagliare le parole. Secondo, l'attenzione al senso delle parole. Terzo, l'attenzione al fine della preghiera, cioè a Dio e allo scopo per cui si prega: ed è la più necessaria. E questa possono averla anche gli ignoranti. Talora anzi quest'attenzione che innalza l'anima a Dio è così forte, da farle dimenticare ogni altra cosa, come afferma Ugo di S. Vittore” (S. Th., II-II, 83, 13).

    I novatori riducono la partecipazione attiva alla comprensione del senso delle parole: tutto in volgare con i vari ministri che adattano e ricreano, in un alchemico solve et coagula, quello che i fedeli dovrebbero capire; le orribili nuove chiese sono gli alambicchi di questi macabri esperimenti.


    Il buon cristiano – seguendo San Tommaso - realizza invece una sintesi organica di tre componenti, tutte e tre parti integrali della vera partecipazione attiva:


    1) “attenzione materiale, con cui si bada a non sbagliare le parole” (attenditur ad verba, ne quis in eis erret): questo è un dovere del celebrante, della schola quando volge l’attenzione a cantare bene, del fedele quando risponde pubblicamente. Il testo liturgico esige un grande rispetto, come pure le rubriche.


    2) “sul senso delle parole” (attenditur ad sensum verborum): sia chiaro che i tradizionalisti non sono quelli che non vogliono capire, (anche se non fanno della esatta comprensione verbale l’unico elemento costitutivo della partecipazione attiva). La ricerca di questa comprensione rimane un dovere, da perseguire con soavità, senza affanno, con una preparazione remota, secondo le capacità di ognuno; ma questa ricerca va fatta soprattutto prima di entrare in chiesa (spiegherò meglio tra breve).


    3) “su Dio e la cosa per la quale si prega” (ad Deum et ad rem pro qua oratur): nec lingua valet dicere nec littera exprimere quid sit Jesum diligere! Ecco che nella celebrazione del mistero liturgico Dio irrompe nell’anima: e se l’anima ha un elevato grado di orazione, Dio le concede, soprattutto nella liturgia, un simplex intuitus veritatis, una semplice veduta intellettuale della verità, senza bisogno di parole.

    E a che servono tutti i melismi del canto gregoriano, tutti quegli eh e oh che durano dei minuti, se non a riempire la mistica attesa di queste grazie e far da contorno a tutte le comunicazioni divine, che sgorgano dalla actio liturgica per eccellenza?


    È per questo che dicevo prima che la liturgia va compresa verbalmente prima di andare in chiesa, perché - se tutto va come deve andare - dopo non si può più.

    Mi si perdoni un paragone profanissimo per spiegare una realtà divina: da buon bolognese, quando la provvidenza mi concede di gustare un buon piatto di tortellini, di sapere cosa c’è esattamente nel ripieno, non me importa un bel niente.


    I neo-modernisti liturgici sono come dei camerieri che anziché servire un buon piatto al cliente affamato, gli enunciano ricette, nuove e complicate, che però, ovviamente, non tolgono la fame all’avventore.


    Conclusione: ricorso fiducioso a Maria SS.


    In conclusione: rifugiamoci ancora una volta, come sempre, sotto la protezione di Maria Santissima: la sua partecipazione al Sacrificio Eucaristico è stata actuosa in modo perfetto: preparandosi per 33 anni al Sacrificio del Figlio, permanendo saldissima nella fede ai piedi della Croce, piena di ardore nelle prime S. Messe celebrate dagli apostoli. ChiediamoLe che ci conceda di fare anche della nostra vita una participatio actuosa al Sacrifico di Gesù e che conceda alla Chiesa abbondanza di S. Messe dove la participatio actuosa dei fedeli si realizzi nel senso più vero e genuino.



    Don Alfredo M. Morselli, Stiatico, 22 novenbre 2009.



    [SM=g1740722] [SM=g1740721]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 17/03/2010 22:58

    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
    DEL SOMMO PONTEFICE

    INTERVISTA CONCESSA DA MONS. GUIDO MARINI
    A PAOLO RODARI  PER “IL RIFORMISTA”

    (Pasqua 2008)

      

    «La primissima reazione è stata di grande sorpresa e di grande timore. Poi, ho vissuto con una certa trepidazione la vigilia dell’inizio del mio servizio e, insieme, ho sentito molto il distacco dalla mia diocesi e dalla mia città, da mia sorella e dalla sua famiglia, dalle tante persone amiche, dagli ambienti nei quali ho esercitato in modo particolare il mio sacerdozio: la Curia, il Seminario, la Cattedrale. Al contempo, però, sono rimasto molto onorato di essere stato chiamato dal Santo Padre a svolgere il servizio di Maestro delle Celebrazioni Liturgiche. La possibilità che mi è stata data di stare accanto al Santo Padre l’ho sentita da subito come una vera grazia per il mio sacerdozio».

    Monsignor Guido Marini, genovese, 42 anni, descrive così al Riformista, il suo arrivo lo scorso ottobre in Vaticano per prendere il posto di Maestro delle Celebrazioni Liturgiche del Papa. Una nomina che permette a monsignor Marini di lavorare a stretto contatto con il Papa. «Ciò che ho percepito all’inizio del mio nuovo mandato - racconta - ha trovato puntuale conferma tutte le volte che ho avuto la grazia di incontrare il Santo Padre.

    Questi incontri sono stati e sono sempre per me motivo di grande gioia e di grande emozione. Mai avrei pensato, io attento lettore ed estimatore del cardinal Ratzinger, di avere un giorno la grazia di essergli vicino come lo sono adesso. E poi, ogni volta, insieme alla venerazione profonda che suscita in me la figura del Papa, vivo l’esperienza del Suo tratto umano sereno, gentile, fine e delicato che mi riempie il cuore di gioia e che mi invita a spendermi con ogni energia per collaborare con generosità, umiltà e fedeltà per l’attuazione del Suo Magistero in ambito liturgico, per quanto attiene alle mie competenze».



    Il posto di Maestro delle Celebrazioni Liturgiche del Papa è importante perché, se è vero che lex orandi lex credendi (la Chiesa crede in ciò che prega) allora dirigere le cerimonie papali con rigore e fedeltà alle norme è un aiuto alla fede di tuta la Chiesa. «La Liturgia della Chiesa - spiega Marini -, con le parole, i gesti, i silenzi, i canti e le musiche ci porta a vivere con singolare efficacia questi diversi momenti della storia della salvezza, in modo tale che ne diventiamo davvero partecipi e ci trasformiamo sempre di più in discepoli autentici del Signore, ripercorrendo nella nostra vita le orme di Colui che è morto e risorto per la nostra salvezza. La celebrazione liturgica, quando è realmente partecipata, induce a questa trasformazione che è storia di santità».

    E un aiuto in questa “trasformazione” può essere quel riposizionamento voluto nelle liturgie papali della croce nel mezzo dell’altare, come un residuo dell’antico “orientamento a Oriente” delle chiese: verso il sole che sorge, verso Colui che viene.

    «La posizione della Croce al centro dell'altare - dice Marini - indica la centralità del crocifisso nella Celebrazione Eucaristica e l'orientamento interiore esatto che tutta l'assemblea è chiamata ad avere durante la liturgia eucaristica: non ci si guarda, ma si guarda a Colui che è nato, morto e risorto per noi, il Salvatore. Dal Signore viene la salvezza, Lui è l’Oriente, il Sole che sorge a cui tutti dobbiamo rivolgere lo sguardo, da cui tutti dobbiamo accogliere il dono della grazia. La questione dell’orientamento liturgico nella Celebrazione Eucaristica, e il modo anche pratico in cui questo prende forma, ha grande importanza, perché con esso viene veicolato un fondamentale dato insieme teologico e antropologico, ecclesiologico e inerente la spiritualità personale».

    Un riposizionamento, quello della croce, che evidenzia come le prassi liturgiche del passato debbano vivere ancora oggi. «La liturgia della Chiesa - dice Marini -, come d’altronde tutta la sua vita, è fatta di continuità: parlerei di sviluppo nella continuità. Ciò significa che la Chiesa procede nel suo cammino storico senza perdere di vista le proprie radici e la propria viva tradizione: questo può esigere, in alcuni casi, anche il recupero di elementi preziosi e importanti che lungo il percorso sono stati smarriti, dimenticati e che il trascorrere del tempo ha reso meno luminosi nel loro significato autentico. Quando questo avviene non si realizza un ritorno al passato, ma un vero e illuminato progresso in ambito liturgico».

    E in questo progresso non si può non menzionare il Motu proprio Summorum Pontificum: «Considerando con attenzione il Motu proprio, come anche la lettera indirizzata dal Papa ai vescovi di tutto il mondo per presentarlo, risalta un duplice preciso intendimento. Anzitutto, quello di agevolare il conseguimento di “una riconciliazione nel seno della Chiesa”; e in questo senso, come è stato detto, il Motu proprio è un bellissimo atto di amore verso l’unità della Chiesa. In secondo luogo, e questo è un dato da non dimenticare, quello di favorire un reciproco arricchimento tra le due forme del Rito Romano: in modo tale, ad esempio, che nella celebrazione secondo il Messale di Paolo VI (forma ordinaria del Rito Romano) “potrà manifestarsi in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso”».

    Sono giorni importanti per la Chiesa. Giorni in cui la Chiesa rivive la passione, morte e risurrezione del Signore. Giorni di un tempo liturgico importante per i fedeli, i giorni di Quaresima e della settimana Santa e quindi della Pasqua: «La Quaresima - dice - è tempo di sincera conversione nel clima spirituale dell’austerità. Un’austerità che non è fine a se stessa, ma finalizzata ad agevolare il recupero di quanto è davvero essenziale nella vita umana. E ciò che è davvero essenziale, al di là di tutto, è Dio. Ecco perché la Quaresima è un tempo privilegiato di ritorno a Dio con tutto il cuore, attraverso la triplice via della preghiera, del digiuno e dell’elemosina, come ci ricorda la pagina evangelica del Mercoledì delle Ceneri. È il tempo nel quale siamo chiamati a rivivere interiormente, nell’arco di quaranta giorni, l’esperienza dell’antico popolo di Dio pellegrino nel deserto e l’esperienza della tentazione provata da Gesù.

    In fondo, entrambe queste esperienze, ci riportano a una lotta vissuta per incontrare Dio e rimanere in intima comunione con Lui, conservare il primato della Sua volontà nella vita, non permettere che altro da Lui abbia la capacità di fagocitare il cuore umano. Con la Pasqua, invece, si aprono nuovi scenari di spiritualità, colorati di gioia esultante, di vita sovrabbondante, di luminosa speranza: perché con Cristo Risorto la morte è debellata, il peccato e il male non hanno più l’ultima parola sulla vita dell’uomo, l’eternità felice è una prospettiva reale, la vita trova un senso compiuto, si scopre che la Verità del volto di Dio è Amore misericordioso senza fine».




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 22/04/2010 13:19

    Guido Marini mette qualche puntino sulle i: approfondimenti liturgici su vatican.va

    da così...................a così! LAUDETUR JESUS CHRISTI

    L'Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice, al cui vertice c'è mons. Guido Marini, ha recentemente pubblicato nella propria sezione del sito web vaticano alcuni interessantissimi articoli, brevi ma illuminanti, su alcune questioni liturgiche che stanno a cuore al Papa e che parecchi ancora contestano come fossero sue personali "gusti".

    Vengono offerte le basi storiche, liturgiche e teologiche degli usi ritrovati o reintrodotti nella liturgia papale. Alcune realtà, evidentemente, sono esclusive delle celebrazioni del Pontefice, ma altre - come la riscoperta del latino - sono appannaggio di ogni pio sacerdote (e soprattutto dei rettori dei seminari!).
    Leggete, leggete:


    Fonte: http://www.vatican.va/news_services/liturgy/details/ns_liturgy_20091117_approfondimenti_it.html





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    Caterina63
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    00 20/05/2010 01:40

    Messa coram Deo di mons. Guido Marini

    Da Messainlatino:

    Dal "
    fans' club blog" (proprio così, esiste) di mons. Guido Marini, traiamo le belle fotografie della celebrazione per l'Ascensione di N.S.G.C. in Santa Maria Maggiore, domenica scorsa. Forma ordinaria, ma versus Deum. Ce ne fossero...








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    Caterina63
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    00 14/09/2010 20:13
    Rinnovamento e attualità nella storia dei congressi internazionali

    La centralità della celebrazione eucaristica


    In occasione del 50 ° anniversario del congresso eucaristico internazionale che si svolse a Monaco di Baviera dal 31 luglio al 7 agosto 1960, l'arcivescovo presidente del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali ha tenuto, il 20 luglio scorso, presso la "Katholische Akademie in Bayern" di Monaco di Baviera, una relazione sul tema "I congressi eucaristici internazionali da Lille (1881) a Monaco (1960). Rinnovamento e attualità". Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento.
     
     

    di Piero Marini

    Le nuove ragioni teologiche dei congressi eucaristici emerse a Monaco di Baviera nel 1960, affondano le loro radici nel complesso intreccio tra movimento eucaristico e movimento liturgico che ha influenzato significativamente la Chiesa e le sue espressioni a partire dall'ultimo scorcio del xix secolo. Per ritrovarne i fili bisogna risalire al movimento spirituale francese post-rivoluzionario d'inizio Ottocento in cui, oltre al contrasto verso il rigorismo giansenista della pastorale e della teologia, s'impone una spiritualità cristologica sviluppata sotto la duplice forma della devozione all'Eucaristia e al Sacro Cuore.

    La sapienza evangelica di tanti santi e, non ultimo, la progressiva adozione della teologia morale di san'Alfonso Maria de' Liguori contribuirono, non solo in Italia ma anche in Francia nei decenni centrali dell'Ottocento, a facilitare una spiritualità più fiduciosa nutrita di pratica eucaristica e di devozione mariana. Il desiderio di "riparare" gli oltraggi commessi dagli uomini verso il Salvatore, conduce alla nascita di un gran numero di congregazioni religiose eucaristico-riparatrici.
     
    In questo ambiente socio-religioso appena  tratteggiato, per opera di Émilie-Marie Tamisier (1834-1910) nasce l'Opera dei congressi eucaristici internazionali che raccoglie i frutti della visione eucaristica dell'Eymard (1811-1868), definito "apostolo dell'Eucaristia". I congressi eucaristici si svilupparono così con un doppio obiettivo:  l'adorazione e la riparazione da una parte, la comunione frequente dall'altra.

    Accanto alle iniziative della base destinate a promuovere la pietà eucaristica, bisogna aggiungere l'azione della Santa Sede. I decreti eucaristici d'inizio Novecento sono l'occasione in cui il movimento eucaristico e quello liturgico s'incrociano ed entrano in una feconda simbiosi tanto che proprio i congressi eucaristici diventano la ribalta per la più ampia diffusione di temi e istanze liturgiche del primo Novecento.

    L'interazione crescente tra congressi eucaristici e movimento liturgico darà frutti di vera novità nel secondo dopoguerra, dopo le pause forzatamente imposte alla celebrazione dei congressi dai due conflitti mondiali del Novecento. Se fino ad allora la processione finale costituiva il punto culminante di un evento vissuto, fin dagli inizi, come un Corpus Domini a scala mondiale, ora la "pietà eucaristica" si orienta sempre più verso la celebrazione. Già nella struttura del congresso di Barcellona (1952), la crescita comune dei movimenti liturgico ed eucaristico trovò netta ripercussione perché la celebrazione dell'eucaristia venne a costituire il momento assolutamente centrale. Tuttavia il pieno configurarsi di questo nuovo orientamento si realizzò nel congresso di Monaco del 1960. E a quanti trovavano ormai superate le antiche ragioni teologiche dei congressi eucaristici venne fornita una nuova visione attraverso l'opera del grande liturgista gesuita padre Andreas Jungmann, che suggerì di vedere in queste manifestazioni mondiali una ripresa a scala universale dell'antico uso della statio Urbis romana.

    Così la celebrazione comune dell'eucaristia in cui la Chiesa universale diveniva percepibile e visibile come corpo mistico di Cristo, diede al congresso di Monaco un'impronta particolare e evidenziò con grande chiarezza la preminenza della celebrazione nei confronti del culto eucaristico fuori della messa. In questo senso il congresso di Monaco del 1960, pur nei limiti di uno svolgimento ancora "tradizionale", segnò un'importante evoluzione non solo per una più accentuata preoccupazione ecumenica ma anche per lo sforzo dispiegato al fine d'integrare al massimo la manifestazione congressuale - radicata nelle forme di devozione popolare tipiche del xix secolo - con il  rinnovamento  liturgico contemporaneo.

    Le nuove ragioni teologiche dei congressi eucaristici emerse a Monaco di Baviera furono in gran parte riprese nel De sacra communione et cultu mysterii eucharistici extra Missam che, emanato il 21 giugno 1973, rinnova la visione del culto eucaristico secondo i principi del Vaticano ii. Al centro della celebrazione del congresso è posta ora la celebrazione eucaristica e tutti gli atti di culto che tradizionalmente caratterizzano questo avvenimento - adorazione fuori della messa, processione - devono fare riferimento a essa. Il criterio fondamentale presentato dal Rituale precisa che "la celebrazione eucaristica sia davvero il centro e il culmine di tutte le varie manifestazioni e forme di pietà" (n. 111).

    I congressi eucaristici internazionali sono stati, per quasi un secolo, l'unica espressione del "magistero itinerante" della Chiesa. Attraverso la loro celebrazione folle straordinarie, peregrinando da un continente all'altro, sono state radunate intorno all'eucaristia. Oggi, questo "magistero itinerante" s'è ampliato con le Giornate mondiali della gioventù, della famiglia, dei malati. Ma resta più che mai necessario che i congressi eucaristici, con la loro fisionomia rinnovata di Statio orbis, continuino a testimoniare che l'eucaristia è la fonte della vita della Chiesa e il vertice ineliminabile di ogni percorso cristiano. Inoltre, gli atti che caratterizzano ogni congresso eucaristico manifestano a un mondo sempre più globalizzato e interconesso il cuore stesso della fede:  il Cristo risorto che coinvolge i credenti nel movimento della sua Pasqua e li lega in comunione mirabile con il Padre all'interno di una comunità fraterna.

    Compito dei congressi eucaristici è dare il proprio contributo alla nuova evangelizzazione, ma secondo i mezzi loro propri. In questo senso l'espressione programmatica "nuova evangelizzazione" non può designare altro che l'evangelizzazione mistagogica, cioè l'evangelizzazione che si compie alla scuola della Chiesa in preghiera, l'evangelizzazione a partire dalla liturgia e attraverso la liturgia.

    Ogni Congresso porta in sé anche un afflato evangelizzatore in senso più strettamente missionario e questo già a partire dagli anni Venti del Novecento quando, sotto il pontificato di Pio xi, i congressi eucaristici coinvolsero numerose Chiese particolari dei cinque continenti. Da allora in poi, il binomio eucaristia-missione evangelizzatrice è entrato a far parte stabilmente delle linee guida proposte dalla Santa Sede attraverso il Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali. La mensa eucaristica viene così a rappresentare il centro diffusore del fermento del Vangelo, diventa forza propulsiva per la costruzione della società umana e pegno del Regno che viene.

    I congressi introducono la dimensione salvifica dell'eucaristia nella vasta realtà del mondo moderno e nella pluralità delle culture. Così il momento visibile di comunione congressuale che si esprime nella celebrazione, manifesta l'esigenza che l'eucaristia sia periodicamente elevata come "vessillo per i popoli che cercano con ansia" (cfr. Isaia, 11, 10) risposta adeguata alla sete di verità, di novità e di vita che ogni individuo porta nel cuore. E questo vale non solo nei Paesi tradizionalmente destinatari dell'azione missionaria ma anche nei Paesi di antica evangelizzazione.

    Si pensi, per esempio, al continente europeo dove i popoli segnati per secoli da una cultura cristiana sperimentano oggi una distanza progressiva dai valori della fede, un allontanamento dalle radici comuni del cristianesimo e una frattura sempre più ampia tra Vangelo e cultura. Proprio l'inculturazione della fede diventa uno degli elementi costitutivi della nuova evangelizzazione con cui s'intende riportare al centro la persona di Cristo e il suo Vangelo perché la Chiesa resti fedele alla sua missione e continui a essere seme di vita e di speranza per il mondo.

    All'interno di questa prospettiva missionario-evangelizzatrice prende rilievo anche l'impegno ecumenico. Nelle Chiese di antica evangelizzazione questo impegno è stato sempre un po' marginalizzato sia per ragioni sociologiche che per ragioni ideologiche ed apologetiche. Per esempio, nei primi trentasette congressi eucaristici internazionali non si sono mai affrontati i temi dell'ecumenismo se si eccettua - ma solo in parte e con accenti assai diversi dagli attuali - il congresso di Gerusalemme del 1893.

    Oggi, tuttavia, non è più possibile dimenticare il nesso essenziale tra eucaristia e comunione delle Chiese.
    Se infatti, per sua stessa natura, l'eucaristia manifesta e realizza la forma ecclesiae, essa rappresenta non solo il fine, ma anche la via e il mezzo per giungere alla comunione visibile tra le Chiese. È interessante ricordare, per esempio, che l'introduzione delle nuove preghiere eucaristiche nel Messale Romano con le loro epiclesi di consacrazione ha favorito l'avvicinamento teologico con i fratelli ortodossi, così come l'attenzione data alla Parola di Dio nel culto ha condotto alla presenza ormai normale di rappresentanti delle Chiese della Riforma nei congressi eucaristici fin dagli anni Settanta. Negli ultimi anni, nelle conferenze congressuali, si sono posti con libertà i problemi dei rapporti ecumenici in genere, compreso il problema della intercomunione.

    Proprio a Monaco le relazioni ecumeniche cominciarono a entrare a pieno titolo nei congressi eucaristici. Era il tempo in cui i preparativi per il concilio avevano condotto il beato Giovanni xxiii a creare il Segretariato per la promozione dell'unità dei cristiani. Da allora in poi, nella prospettiva ecclesiale del Vaticano ii, il movimento verso l'unità dei cristiani è diventato parte integrante del cammino della Chiesa e quindi anche dei congressi eucaristici. Naturalmente i rapporti ecumenici e interreligiosi d'ogni congresso dipendono dalle caratteristiche del Paese, dall'ambiente socio-culturale e dalle circostanze in cui il congresso si celebra.

    Tutto ciò significa accettare nella celebrazione della statio orbis la grande sfida dell'ecclesiologia eucaristica, il ristabilimento del corretto rapporto eucaristia e Chiesa mirabilmente espresso dall'apostolo Paolo nella prima Lettera ai Corinzi (11, 18-29). Lì l'apostolo, mentre trasmette "ciò che ha ricevuto", afferma che le divisioni e le fazioni non permettono più di "discernere il Corpo del Signore" o meglio il "Corpo" insieme ecclesiale ed eucaristico, attentando così all'unità della Nuova Alleanza. Allora non si celebra più la Cena del Signore risorto, ma il proprio pasto, distruggendo l'essenza stessa della "memoria" eucaristica.

    All'impegno ecumenico si è aggiunto, in tempi più recenti - come si è sperimentato specialmente nei congressi di Bombay (1964) e Seoul (1989) - il dialogo interreligioso segnato dallo "spirito di Assisi":  l'invito alla lode che sgorga dalla fede in un Dio creatore, il richiamo alla pace anelito universale dell'animo umano, e alla giustizia.

    È evidente che ogni congresso eucaristico debba assumersi il compito di coinvolgere e integrare, secondo lo spirito della riforma conciliare, tutte le manifestazioni del culto eucaristico extra missam che affondano le loro radici nella devozione popolare e, insieme, quelle associazioni che a vario titolo dall'eucaristia traggono ispirazione - movimenti per l'adorazione perpetua, per l'adorazione notturna, confraternite del santissimo sacramento.

    Tutte queste pratiche della devozione eucaristica pongono delle questioni non indifferenti. Ben comprese, esse devono essere raccomandate e incoraggiate come lo fanno giustamente l'enciclica Ecclesia de Eucharistia e il documento postsinodale Sacramentum Caritatis. Il problema è soltanto sapere in quale forma teologica ciò si deve fare.

    Tutte le devozioni eucaristiche che sono giunte fino a noi, sono cresciute sulla base di una teologia eucaristica individualista. Così, ciò che resta da fare è quello d'integrare questa devozione eucaristica spiritualmente feconda, nell'ottica più generale d'una ecclesiologia eucaristica orientata verso la comunione e di darle così nuovi impulsi. Tutto ciò, forse, potrebbe compiersi secondo l'indicazione data da una dichiarazione di sant'Agostino citata anche in Ecclesia de Eucharistia (n. 40):  "Se voi siete il suo corpo e le sue membra, sulla mensa del Signore è deposto quel che è il vostro mistero; sì, voi ricevete quel che è il vostro mistero" (Sermo 272). In questo senso è indubbio che i congressi eucaristici sono una grazia di rinnovamento permanente  della  vita eucaristica della Chiesa.

    Il movimento eucaristico che ha dato origine ai congressi eucaristici ha percorso la storia della Chiesa tra Ottocento e Novecento portando frutti inestimabili di santità e di crescita ecclesiale. Oggi la sua eredità non si è trasferita come il mantello di Elia ad alcune associazioni superstiti, né è limitata ai movimenti carismatici apparsi negli anni Settanta del Novecento che pongono al centro della loro spiritualità le devozioni eucaristiche.

    Non può limitarsi neppure alla memoria storica delle congregazioni religiose che hanno svolto un ruolo straordinario in questo campo né all'attivismo di quei movimenti ecclesiali su cui sembra ricadere il compito dell'evangelizzazione. Oggi la forza eucaristica già così dinamicamente espressa dal movimento eucaristico internazionale d'un tempo, sopravvive e cresce nelle Chiese particolari che nell'eucaristia domenicale celebrano insieme la sorgente e il culmine del loro cammino di comunione. Sopravvive e cresce in quei battezzati che dopo avere celebrato l'eucaristia ritornano nel mondo portandovi "il corpo" di Cristo.


    (©L'Osservatore Romano - 15 settembre 2010)
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 09/10/2010 11:56

    Mons. Marini parla della riforma della riforma



    - La Chiesa cattolica come intende la la liturgia dopo il Vaticano II? Qual è il significato, il cuore della liturgia? Il Santo Padre durante il suo recente viaggio in Inghilterra nella Cattedrale di Westminster ha parlato della dimensione del sacrificio.

    Credo che ci siano due aspetti della celebrazione eucaristica dove uno deve essere unito all'altro. Perché, come è anche indicato nei documenti del Magistero, la Messa è la rinnovazione del sacrificio del Signore, e allo stesso tempo, è anche il momento, il luogo nel quale questo sacrificio si comunica con noi nel segno del convito. Credo quindi che ci siano due elementi, entrambi essenziali per la comprensione della celebrazione eucaristica. Penso anche che la dimensione sacrificale sia una dimensione fondamentale. Perché se non ci fosse il sacrificio redentivo, non esisterebbe la possibilità di comunicare questo sacrificio e in tal modo entrare in comunione con la salvezza, che ci è stata data da Gesù nostro Signore. Penso che questa è la visione che la Chiesa ci trasmette attraverso il suo insegnamento, e che ci porta al cuore autentico della liturgia.
    [..]

    - L'allora professor Ratzinger nei suoi scritti parla della riforma della riforma della liturgia. Come vede questa esigenza di riforme, di modifiche nella liturgia? In realtà, alcune modifiche già sono state introdotte dal S. Padre Benedetto XVI.

    Quando a volte si parla e si usa il termine "riforma della riforma", si rischia di essere "mal compresi". Perché non tutti la comprendiamo allo stesso modo e non tutti la captano nella stessa maniera. Credo che, al di fuori delle frasi fatte, ciò che è importante è che la riforma che il Concilio Vaticano II ha iniziato sia davvero realizzata completamente secondo gli insegnamenti del Concilio, che collocano la liturgia in continuità con tutta la sua tradizione, allo stesso tempo con il criterio dello sviluppo organico. Come dovrebbe essere sempre nella vita della Chiesa. L'attuazione pratica della riforma dopo il Vaticano II non è sempre stata felice. Proprio per questo accade che sia forse necessario apportare alcune correzioni, alcuni cambiamenti, alcuni miglioramenti, proprio per attuare in maniera completa le indicazioni del Concilio e farle apparire in modo sempre più chiaro come sviluppo della liturgia della Chiesa che si ponga nella continuità organica con quanto l'ha preceduta.
    [..]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 09/10/2010 20:23

    "Il coraggio di un vero testimone". Il rinnovamento liturgico in un testo del card. Ratzinger (1992)

    Testo del signor Cardinale Joseph Ratzinger apparso all’inizio dell’edizione francese del libro di Mons. Klaus Gamber “La Réforme liturgique en question” (tit. orig. “Die Reform der Römischen Liturgie”), ed. Sainte-Madeleine (1992), 84330 Le Barroux, Francia. Il testo francese è stato preso dal sito dei monaci dell’Abbazia di Sainte-Madeleine di Barroux (http://www.barroux.org/docum/documpres.html).

    “Il coraggio di un vero testimone”

    Un giovane sacerdote mi diceva di recente: “Ci vorrebbe oggi un nuovo movimento liturgico”. Era l’espressione di una preoccupazione che, di questi giorni, solo degli spiriti volontariamente superficiali potrebbero allontanare. Ciò che importava a questo sacerdote, non era di conquistare nuove e audaci libertà: quali libertà non ci siamo già arrogati? Sentiva che abbiamo bisogno di un nuovo inizio che tragga origine dall’intimo della liturgia, come l’aveva voluto il movimento liturgico quando si trovava all’apogeo della sua vera natura, quando non si trattava di fabbricare testi, di inventare azioni e forme, ma di scoprire il centro vivente, di penetrare nel tessuto propriamente detto della liturgia, affinché l’adempimento di questa fosse il risultato della sua stessa sostanza.

    La riforma liturgica, nella sua concreta realizzazione, si è allontanata sempre più da questa origine. Il risultato non è stata una rianimazione ma una devastazione. Da un canto, abbiamo una liturgia degenerata in “show”, nella quale si cerca di rendere la religione interessante con l’aiuto di idiozie alla moda e di massime morali seducenti, con dei successi momentanei nel gruppo dei fabbricanti di liturgia, e una attitudine all’arretramento tanto più pronunciata presso coloro che cercano nella liturgia non lo “shomaster” spirituale, ma l’incontro col Dio vivente davanti al quale ogni “fare” diventa insignificante, essendo solo questo incontro capace di farci accedere alle autentiche ricchezze dell’essere.

    D’altro canto, abbiamo la conservazione di forme rituali la cui grandezza emoziona sempre, ma che, spinte all’estremo, manifestano un isolamento ostinato e alla fine non lasciano altro che tristezza.

    Certo, tra i due estremi rimangono tutti i sacerdoti e le loro parrocchie che celebrano la nuova liturgia con rispetto e solennità, ma vengono rimessi in discussione dalla contraddizione tra i due estremi, e la mancanza di unità interna nella Chiesa alla fine fa comparire la loro fedeltà, a torto per molti di loro, come una semplice verità personale di neoconservatorismo.

    Un nuovo impulso spirituale è quindi necessario affinché la liturgia sia di nuovo per noi una attività della comunità della Chiesa e che venga strappata all’arbitrio dei sacerdoti e dei loro gruppi liturgici.

    Non si può “costruire” un movimento liturgico di questo genere –non più di quanto si possa costruire un qualche cosa di vivo-, ma si può contribuire al suo sviluppo sforzandosi di assimilare di nuovo lo spirito della liturgia e difendendo pubblicamente quanto abbiamo fin qui ricevuto. Questo nuovo inizio ha bisogno di “padri” che siano dei modelli, e che non si contentino di indicare la via da seguire. Chi cerca oggi di tali “padri” incontrerà immancabilmente la persona di Klaus Gamber, che ci è stato purtroppo portato via troppo presto, ma che forse, e proprio nel lasciarci, ci è divenuto autenticamente presente in tutta la forza delle prospettive che ci ha dischiuso. Giustappunto perché lasciandoci sfugge alla diatriba delle parti, potrebbe in questo momento di sconforto, divenire il “padre” di un nuovo inizio. Gamber ha portato con tutto il suo cuore la speranza dell’antico movimento liturgico. Senza dubbio, venendo da una scuola straniera, è rimasto un “outsider” sulla scena tedesca, dove non lo si voleva accettare sul serio; ancora di recente una tesi ha incontrato ingenti difficoltà perché la giovane ricercatrice aveva osato citare Gamber troppo diffusamente e con troppa benevolenza. Ma forse questo essere messo da parte è stato provvidenziale perché ha costretto Gamber a seguire la sua propria via e gli ha evitato il peso del conformismo.
    E’ difficile esprimere in poche parole ciò che, nella disputa tra i liturgisti, è veramente essenziale e ciò che non lo è. Forse l’indicazione seguente potrò essere utile. J.A. Jungmann, uno dei veri grandi liturgisti del nostro secolo, aveva definito a suo tempo la liturgia, tale quale la si ascoltava in Occidente rappresentandola soprattutto attraverso la ricerca storica, come una “liturgia frutto di uno sviluppo”; probabilmente anche per contrasto con la nozione orientale che non vede nella liturgia il divenire e la crescita storici, ma solamente il riflesso della liturgia eterna, la cui luce, attraverso lo svolgimento sacro, illumina il nostro tempo mutevole con la propria bellezza e grandezza immutabili.

    Le due concezioni sono legittime e in definitiva non sono inconciliabili. Ciò che è avvenuto dopo il Concilio significa tutt’altro: al posto di una liturgia frutto di uno sviluppo continuo, è stata messa una liturgia fabbricata.

    Si è usciti dal processo vivente di crescita e di divenire per entrare nella fabbricazione. Non si è più voluto proseguire il divenire e la maturazione organici del vivente attraverso i secoli, e li si è rimpiazzati – come fosse una produzione tecnica – con una fabbricazione, prodotto banale del momento. Gamber, con la vigilanza di un autentico profeta e con il coraggio di un autentico testimone, si è opposto a questa falsificazione e ci ha insegnato instancabilmente la viva pienezza di una liturgia autentica, grazie alla sua conoscenza incredibilmente ricca delle fonti.
    Un uomo che conosceva e amava la storia, ci ha mostrato le molteplici forme del divenire e del cammino della liturgia; un uomo che vedeva la storia dall’interno, ha visto in questo sviluppo il frutto dello sviluppo stesso e il riflesso intangibile della liturgia eterna, la quale non è oggetto del nostro fare ma che può continuare meravigliosamente a maturare e fiorire, se ci uniamo intimamente al suo mistero. La morte di questo uomo e sacerdote eminente dovrebbe stimolarci; la sua opera potrebbe aiutarci a prendere nuovo slancio.

    Joseph, cardinale RATZINGER.

    KLAUS GAMBER

    Storia della liturgia

    Molto volentieri, in occasione del decesso improvviso di Klaus Gamber, dirò qualche parola in sua memoria, conoscendo il defunto da lunga data, soprattutto attraverso le sue pubblicazioni scientifiche consacrate alla storia della liturgia.
    Ci sono poche discipline per le quali la storia abbia una importanza tanto fondamentale quanto per la liturgia, ovvero la scienza del culto cristiano nel senso più vasto del termine. Senza la conoscenza delle origini della liturgia, della sua evoluzione, delle suo modifiche e degli sviluppi che ha subito, non si possono comprendere le ragioni e lo stato attuale dei riti e dei testi liturgici, né il loro svolgersi nei tempi, lo spazio e le cose.
    La conoscenza della storia della liturgia è dunque la condizione indispensabile per una interpretazione corretta e per un apprezzamento della liturgia di ieri così come per quella di oggi.
    Considerando lo stretto legame esistente tra la fede e la liturgia (lex orandi – lex credendi), quest’ultima obbedisce a delle leggi analoghe a quelle della fede stessa, bisogna sapere che essa esige di essere preservata con grande cura, e quindi che è essenzialmente orientata verso la conservazione. Ogni ulteriore sviluppo dovrà essere oggetto di una prudente riflessione, essere in qualche modo guidata dal sensus fidelium, e non potrà divenire effettivo se non sotto il controllo attento dell’autorità. Per diversi motivi, durante questi lunghi periodi di evoluzione, possono sorgere delle deformazioni, che saranno spesso rilevate postume, e che, presto o tardi, dovranno essere corrette.
    Per apprezzare al pertinenza delle riforme e degli sviluppi che la liturgia ha conosciuto nel passato, come per apportarvi eventuali rettifiche, e ancora più per contribuire allo sviluppo del culto richiesto dai nostri tempi, la conoscenza esatta degli elementi costitutivi e della loro evoluzione è una condizione importante e addirittura indispensabile.

    (Translation from French made by courtesy of Angela, totustuus.biz)

    http://www.ratzinger.us/modules.php?name=News&file=article&sid=240
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 17/11/2010 13:05

    UN GRAZIE AL BLOG:

    ENTRARE NEL MISTERO CELEBRATO MEDIANTE RITI E PREGHIERE

    Convegno Diocesano: “La liturgia: tra competenza e carisma”
    Soriano Calabro, 7 settembre 2010

    Le ragioni di un titolo
    “Entrare nel mistero celebrato mediante riti e preghiere”. Mi pare proprio che non possa esservi titolo più indicato per esprimere uno degli elementi che maggiormente qualifica la liturgia e che, insieme, riprende un orientamento di fondo della Costituzione sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II, “
    Sacrosanctum Concilium” (cf. n. 48).
    In effetti proprio di questo si parla quando si parla di liturgia: il complesso dei riti e delle preghiere mediante i quali ci è dato di accedere al mistero di Cristo, donato a noi per il tramite della Chiesa.
    Vale la pena, pertanto, soffermarsi con calma su ciascuna delle espressioni contenute nel titolo della conferenza affidatami, durante la quale mi rifarò sovente al pensiero del teologo Ratzinger e al magistero di 
    Benedetto XVI, soprattutto per il piacevole dovere, che sento urgente, di farmi interprete ed eco fedele del suo autorevole indirizzo liturgico. Indirizzo liturgico, quello di Benedetto XVI, che non appartiene all’ambito del “gusto personale”, che sarebbe pur rispettabile ma per ciò stesso non necessariamente condivisibile, bensì a un vero e proprio magistero da condividere con spirito di fede e genuino senso ecclesiale.

    1. “Mistero celebrato”
    La presenza attuale della nostra salvezza
    Sappiamo bene che nella liturgia si rende presente in modo sacramentale il mistero della nostra salvezza. Colui che è risorto da morte, il Vivente, rinnova il sacrificio redentore per la potenza dello Spirito Santo. “Chi dunque salva il mondo e l’uomo? - ha affermato di recente 
    Benedetto XVI -. L’unica risposta che possiamo dare è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si attualizza il Mistero della morte e risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? Nell’azione di Cristo mediante la Chiesa, in particolare nel sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale redentrice del Figlio di Dio…” (Udienza generale, 5 maggio 2010).

    Non si tratta, dunque, di ricordare qualcosa che il tempo ha relegato in un passato ormai per sempre confinato alle nostre spalle. Neppure si tratta di un insieme di riti, pur esteticamente belli, ma privi di vita e incapaci di comunicare salvezza. E nemmeno si tratta di un ritrovarsi insieme tra convenuti che condividono un ideale e che intendono crescere nella dimensione comunitaria. Si tratta piuttosto di una celebrazione in virtù della quale noi realmente entriamo in relazione con il mistero della nostra salvezza, con Cristo Signore, il Salvatore, che ci comunica la Sua stessa vita, la Sua grazia. Così il passato si rende attuale, il bello è una manifestazione reale della bellezza del Dio vivo, nuovi rapporti fraterni sono il frutto dell’opera del Signore nel cuore dell’uomo.
    A mio avviso si rende urgente, ad ogni generazione cristiana, rinnovare la percezione di fede di una tale realtà, di una celebrazione che davvero è il tramite dell’incontro con il Signore, presente nell’oggi della vita e della storia. Mi colpisce sempre molto quanto le guide più avvedute dicono ai visitatori della 
    basilica di San Pietro in Roma, quando si soffermano a contemplare il capolavoro di Michelangelo, “La Pietà”. Come si sa l’opera del grande artista è collocata dove attualmente ci si prepara per la celebrazione eucaristica ogni qualvolta è presente il Santo Padre. Ebbene, le guide fanno notare che le mani della Madonna sono aperte quasi a voler consegnare il corpo sacrificato di Gesù a coloro che osservano la scena. La Pietà era stata realizzata da Michelangelo come pala da altare e, dunque, destinata a fare da sfondo all’altare della celebrazione eucaristica. In tal modo il celebrante e l’intera assemblea potevano contemplare il gesto della SS. Vergine, nell’atto di donare il Salvatore alla sua Chiesa durante la celebrazione. Come è bello il richiamo di questo dettaglio artistico! Nella celebrazione della Messa proprio il Signore risorto da morte, nella sua parola, nel suo corpo e nel suo sangue si dona a noi perché possiamo entrare nel mistero della sua vita e, dunque, essere salvati.
    Mi sia consentito, in proposito, di richiamare un altro dettaglio artistico della splendida basilica di San Pietro. E’ noto che il baldacchino sovrastante il grande altare della confessione è opera del Bernini. Se si osserva con attenzione il drappeggio che ricopre la parte alta del baldacchino si può notare che il disegno non risulta statico bensì capace di dare una chiara impressione di dinamicità. In altre parole sembra che quel drappeggio sia mosso da un soffio di vento, tanto delicato quanto deciso.

    In tal modo l’artista ha inteso sottolineare quanto avviene al momento della preghiera eucaristica e, in specie, della consacrazione: lo Spirito Santo davvero scende sull’altare della celebrazione ed è l’artefice, insieme alle parole e all’azione di Cristo, della trasformazione sostanziale – ovvero la transustanziazione - del pane e del vino nel corpo e sangue del Signore (cf. Catechismo della Chiesa cattolican. 1353). Lo Spirito datore di vita rende realmente presente il Signore Risorto nell’atto del suo sacrificio redentore. Ecco, espressa nell’arte, la realtà del mistero celebrato. Ora, qui, il Salvatore è presente e operante nel suo mistero di amore e di grazia. Diceva 
    Giovanni Paolo II: “Poiché la liturgia è l’esercizio del sacerdozio di Cristo, è necessario mantenere costantemente viva l’affermazione del discepolo davanti alla presenza misteriosa di Cristo: «E’ il Signore!» (Gv 21, 7). Niente di tutto ciò che facciamo noi nella liturgia può apparire come più importante di quello che invisibilmente, ma realmente fa il Cristo per l’opera del suo Spirito” (Lettera Apostolica Vicesimus Quintus Annus, 10). Questa verità dell’atto liturgico deve essere sempre al centro della consapevolezza di fede di quanti partecipano alla celebrazione liturgica.

    Il mistero sacro

    Mi soffermo ancora un istante sulla parola “mistero”. E’ chiaro che con questo termine non si vuole intendere qualche cosa di oscuro, esoterico e inquietante. Si vuole piuttosto individuare l’opera salvifica di Dio, la cui luce è talmente abbagliante da risultare non del tutto comprensibile all’uomo: la ragione umana deve, a un certo punto del cammino, lasciare spazio alla fede per accedere al Vero. E’ proprio tale opera salvifica, come si diceva, che viene celebrata nella liturgia. Non, dunque, l’opera dell’uomo ha il primato nella celebrazione ma l’opera di Dio, l’evento pasquale di morte e risurrezione. Non si vuole certo misconoscere l’importanza dell’agire dell’uomo in liturgia; si vuole solo mettere nella giusta luce il rapporto di necessaria dipendenza dell’agire umano rispetto all’agire del Signore.

    Così si è espresso, al riguardo, 
    Benedetto XVI rivolgendosi ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile in visita “ad limina apostolorum”: «Ora l'atteggiamento principale e fondamentale del fedele cristiano che partecipa alla celebrazione liturgica non è fare, ma ascoltare, aprirsi, ricevere... È ovvio che, in questo caso, ricevere non significa restare passivi o disinteressarsi di quello che lì avviene, ma cooperare - poiché di nuovo capaci di farlo per la grazia di Dio - secondo "la genuina natura della vera Chiesa. Questa ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo, in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati” (Sacrosanctum Concilium, n. 2). Se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice» (15 aprile 2010).
    E’ per questo che al termine “mistero” è necessario abbinare il termine “sacro”. Affermare la sacralità della liturgia significa ricordare la necessità di custodire con cura il mistero che in essa è celebrato. Sacralità liturgica è l’oggettività di quel mistero che, nella sua ripetitività, non smette di interessare l’uomo: in quanto gli dona ciò di cui realmente ha bisogno e lo salva, consentendogli di entrare nella vera gioia.
    In questo senso l’accoglienza del mistero in vista della trasformazione e della conversione è il principale atto cui siamo chiamati nella celebrazione della liturgia. Questa, se così vogliamo chiamarla, è la più vera creatività che deve caratterizzare la vita del singolo e della comunità celebrante. Altre creatività, quando non previste dal rito e, lo si può ben dire, a volte selvagge, distolgono dalla verità della celebrazione e rischiano di essere solo l’espressione di un’auto celebrazione, personale o comunitaria, che perde di vista il soggetto primo della liturgia, che è Dio.

    Nell’indirizzo alla Conferenza Episcopale Cilena, il 13 luglio del 1988, il cardinale Ratzinger si esprimeva così, al riguardo: “…dobbiamo riacquistare la dimensione del sacro nella liturgia. La liturgia non è una festa; non è una riunione con scopo di passare dei momenti sereni. Non importa assolutamente che il parroco si scervelli per farsi venire in mente chissà quali idee o novità ricche di immaginazione. La liturgia è ciò che fa sì che Dio Tre volte Santo sia presente fra noi; è il roveto ardente; è l’alleanza di Dio con l’uomo in Gesù Cristo, che è morto e di nuovo è tornato alla vita. La grandezza della liturgia non sta nel fatto che essa offre un intrattenimento interessante, ma nel rendere tangibile il Totalmente Altro, che noi da soli non siamo capaci di evocare. Viene perché vuole. In altre parole. L’essenziale nella liturgia è il Mistero, che è realizzato nella ritualità comune della Chiesa; tutto il resto lo sminuisce. Alcuni cercano di sperimentarlo secondo una moda vivace, e si trovano ingannati: quando il Mistero è trasformato nella distrazione, quando l’attore principale nella liturgia non è il Dio vivente ma il prete o l’animatore liturgico”.

    In questo contesto non è da sottovalutare la questione inerente le rubriche liturgiche e, più in generale, la normativa che interessa la liturgia. La norma liturgica, infatti, è la custode più prossima del mistero celebrato. Quanto la norma afferma garantisce l’unità rituale e, di conseguenza, è capace di dare espressione alla cattolicità della liturgia della Chiesa. Al contempo, la norma veicola un contenuto liturgico e di fede che una secolare tradizione e una comprovata esperienza ci hanno consegnato e che non è lecito trattare con superficialità e inquinare con la nostra povera e limitata soggettività. Sta qui il fondamento di quell’osservanza che a più riprese viene riproposta nel magistero pontificio, presente e passato. “Dato che le azioni liturgiche non sono azioni private, ma «celebrazioni della Chiesa quale sacramento di unità» (Sacrosanctum Concilium, 26) - affermava
    Giovanni Paolo II -, la loro disciplina dipende unicamente dall’autorità gerarchica della Chiesa (cfr.Sacrosanctum Concilium, 22 e 26). La liturgia appartiene all’intero corpo della Chiesa (cfr.Sacrosanctum Concilium, 26). E’ per questo che non è permesso ad alcuno, neppure al sacerdote, né ad un gruppo qualsiasi di aggiungervi, togliervi o cambiare alcunché di proprio arbitrio (cfr. Sacrosanctum Concilium, 22)” (Lettera Apostolica Vicesimus Quintus Annus, 25).
    “La Santa Messa, celebrata nel rispetto delle norme liturgiche e con un’adeguata valorizzazione della ricchezza dei segni e dei gesti, - ha affermato 
    Benedetto XVI, parlando all’apertura del Convegno ecclesiale della diocesi di Roma, il 15 giugno di quest’anno - favorisce e promuove la crescita della fede eucaristica. Nella celebrazione eucaristica noi non inventiamo qualcosa, ma entriamo in una realtà che ci precede, anzi che abbraccia cielo e terra e quindi anche passato, futuro e presente. Questa apertura universale, questo incontro con tutti i figli e le figlie di Dio è la grandezza dell’Eucaristia: andiamo incontro alla realtà di Dio presente nel corpo e sangue del Risorto tra di noi. Quindi, le prescrizioni liturgiche dettate dalla Chiesa non sono cose esteriori, ma esprimono concretamente questa realtà della rivelazione del corpo e sangue di Cristo e così la preghiera rivela la fede secondo l’antico principio lex orandi - lex credendi. E per questo possiamo dire che “la migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata” (Sacramentum caritatis, 64)”.
    Si rende, pertanto, necessario un atteggiamento equilibrato, capace di conservare come complementari e necessarie la prospettiva simbolico-rituale e quella canonico-disciplinare. Non l’una senza l’altra, ma l’una con l’altra.

    2. “Entrare”
    Il significato di un verbo
    Il verbo scelto come parte del titolo è un verbo importante. Anche perché ci conduce al grande tema della partecipazione alla celebrazione liturgica: tema che appassiona e ispira, a volte porta a discutere e, a mio parere, anche a inutili polemiche e divisioni. Chi di noi, infatti, non desidera che la liturgia possa essere realmente partecipata da tutti? Soprattutto da quando la Sacrosanctum Concilium e, sulla scia di essa, la riforma avviata dal Vaticano II e il successivo magistero pontificio hanno giustamente insistito per la più ampia e autentica realizzazione di tale partecipazione? D’altra parte, se ci sta a cuore la vita della Chiesa e l’incontro di ogni uomo con Cristo Salvatore, possiamo forse non desiderare che tutti partecipino alla sacra liturgia con il maggior frutto possibile?
    Su questo, pertanto, direi che sia difficile avere pareri diversi. La disparità di vedute può avere inizio quando si tratta di meglio specificare che cosa si intenda per partecipazione, ovvero quali siano le modalità più adeguate per entrare nel mistero celebrato. E si sa come, al riguardo, si continuino spesso a fronteggiare due diversi modi di considerare il termine in questione. Come sempre nella dottrina cattolica, anche in questo caso, non c’è spazio per l’“aut aut”, ovvero per l’esclusione di un aspetto a favore di un altro, ma per l’“et et”, ovvero per la presenza complementare e arricchente dei diversi aspetti.
    Entrare in una realtà, partecipare a un avvenimento è sempre un’esperienza che coinvolge l’uomo in ogni sua dimensione: intelligenza, volontà, emozione, sentimento, azione… L’esteriorità dell’agire e il suo fondamento interiore risultano complementari e necessari. Così è per la vita liturgica. Proprio perché è esperienza vitale non può che riguardare l’intera complessità della persona umana. Se, dunque, ad esempio, vi è una partecipazione che avviene per via di comprensione di un testo, vi è anche una partecipazione che avviene per via di un innalzamento dell’animo prodotto dall’incontro col bello. E se si partecipa mediante l’azione, è possibile realizzare una vera partecipazione anche mediante un silenzio solo in apparenza inoperante.

    Nel mistero celebrato, di conseguenza, si entra con tutta la complessità del nostro essere persone umane. Ed è per questo che la liturgia ricerca sempre quel sano equilibrio di componenti che diano la possibilità di un’esperienza che si addica a tutto l’uomo e ad ogni uomo.
    Non mi pare che, sempre, nella pratica liturgica questo trovi felice ed equilibrata realizzazione. E mi pare altresì che, per la legge del pendolo, se un tempo la mancanza di partecipazione adeguata poteva essere addebitata a un difetto di comprensione e di azione, oggi tale mancanza possa essere addebitata a un eccesso di comprensione razionale e di azione esteriore, cui non sempre fanno sufficiente complemento la comprensione del cuore e l’attenzione all’agire interiore, al rivivere in sé i sentimenti e i pensieri di Cristo.

    Entrare nell’agire di Cristo

    Approfondiamo ancora un po’ la questione, a partire dall’indirizzo chiaro formulato dalla Costituzione sulla sacra liturgia del Vaticano II: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (n. 48).
    A commento di questo brano magisteriale rimane sempre illuminante quanto affermato dal cardinale Ratzinger nel suo volume “Introduzione allo spirito della Liturgia”: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità… Con il termine actio riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio… Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il «canone» - è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, chel’actio umana… passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio” (pp. 167-168).
    Nella celebrazione liturgica ciò che precede e costituisce il fondamento è l’agire di Cristo e della sua Chiesa; infatti, come ci ricordava 
    Giovanni Paolo II, “…la liturgia ha come primo compito quello di ricondurci instancabilmente sul cammino pasquale aperto da Cristo, in cui si accetta di morire per entrare nella vita” (Lettera Apostolica “ Vicesimus Quintus Annus, 6). Di conseguenza, entrare nell’atto liturgico significa entrare dentro questo agire che dona salvezza e trasforma la vita. Si partecipa, dunque, nella misura in cui l’atto del Signore e della sua Chiesa diventa anche il nostro stesso atto, la sua oblazione di amore diventa la nostra, il suo abbandono filiale e obbediente al Padre diventa anche nostro, se il sacrificio del Redentore diventa il nostro stesso sacrificio.

    Affermava Divo Barsotti in un suo celebre testo: “E’ proprio della Liturgia cristiana di trascendere l’attività di ogni uomo e di tutta l’umanità nell’essere Atto stesso del Cristo; ma la Liturgia trascende ogni attività umana senza escluderla, anzi impegnandola tutta fino in fondo, non soltanto in quanto la supera, ma in quanto anche la esige e la comprende” (Il mistero della Chiesa nella Liturgia,edizioni San Paolo, p. 158)
    Come avviene sempre in ciò che è umano, anche nel rito liturgico l’agire ha una dimensione esteriore e una interiore. Il gesto di Cristo è un gesto visibile, espressione di un gesto invisibile. Pertanto l’atto di entrare nel mistero avrà anche la componente esteriore del gesto, non c’è dubbio. Ma perché tale componente non rimanga pura e sterile esteriorità dovrà essere animata e allo stesso tempo condurre a quell’agire interiore in cui vi è conformazione all’agire di Cristo e della sua Chiesa.
    Sia dia spazio, dunque, all’azione esteriore in Liturgia, laddove il rito lo consente e lo auspica. Ma senza dimenticare che tale azione dovrà essere sempre ricondotta alla sua verità di espressione dell’agire interiore. Solo così vi sarà un autentico accesso al mistero celebrato.

    3. “Mediante riti e preghiere”
    Ciò che è stato detto in merito all’entrare nel mistero ha avuto una fisionomia di carattere generale. Ora, attraverso la menzione dei riti e delle preghiere, il titolo ci consente di entrare in un ambito più specifico, ovvero nel modo tipico della liturgia di rendere accessibile la partecipazione al mistero celebrato.
    Riti e preghiere, nella liturgia, si sostengono a vicenda e a vicenda si illuminano proprio al fine di far vivere la celebrazione. Il rito rimarrebbe privo di luce senza la preghiera che lo illustra; la preghiera rimarrebbe priva di efficacia senza il rito che la mette in atto. La celebrazione liturgica, pertanto, richiede quella fede in virtù della quale non si rimane estranei alla preghiera come neppure al rito.
    Non per nulla la tradizione della Chiesa ha sempre tenuto in gran conto le famose catechesi mistagogiche degli antichi padri. Si tratta esattamente di catechesi che, rifacendosi alle preghiere e ai riti, introducono i fedeli alla conoscenza e all’esperienza del mistero celebrato. Di tali catechesi si sente una grande necessità per il tempo presente. Infatti, la rarefazione della cultura cristiana, come orientamento di fondo appreso dalla giovane età e largamente condiviso nel contesto sociale, porta a una forma grave di “ignoranza” rispetto ai riti e alle preghiere della liturgia. E non si può chiedere alla liturgia ciò che essa non può dare: la catechesi. Non c’è dubbio: la liturgia la si impara anche vivendola. Ma rimane pur necessaria quella catechesi che è anche avviamento all’esperienza liturgica, introduzione ai divini misteri.

    Quanto si sentiva come compito urgente già ai tempi del Concilio Vaticano II, mi pare che rimanga nel presente, forse con una nota di urgenza ancora maggiore: la formazione. Solo grazie a una vera formazione liturgica i riti e le preghiere della celebrazione potranno essere il tramite bello e straordinariamente ricco per entrare nel mistero celebrato. Altrimenti si rischia di rimanere sulla soglia di una realtà inaccessibile.
    D’altra parte, è bene non dimenticarlo, la celebrazione liturgica realizzata secondo verità e in conformità a quell’“ars celebrandi” di cui il Santo Padre 
    Benedetto XVI ci parla nell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis, ovvero in piena conformità alle indicazioni della Chiesa, è già di per sé una vera e propria scuola, capace di introdurre alla conoscenza e all’esperienza del mistero di Cristo. Pertanto, riti e preghiere celebrati bene sono autentica introduzione alla spirito della liturgia.
    Non è, però, mia intenzione entrare nel dettaglio dei riti e delle preghiere, quanto piuttosto soffermarmi a considerare alcuni aspetti dell’atto celebrativo che aiutano a entrare nella sacra liturgia, nei suoi riti e nelle sue preghiere. Gli aspetti considerati saranno solo alcuni, quelli che a me pare sia più importante e urgente sottolineare e spiegare nell’attuale contesto storico. Questo certamente non vuol dire sminuire l’importanza di altri. Ma tutto non si può dire e bisogna dare qualche priorità.

    Il sacro silenzio

    Una liturgia ben celebrata, in diverse sue parti, prevede una felice alternanza di silenzio e parola, dove il silenzio anima la parola, permette alla voce di risuonare con straordinaria profondità, mantiene ogni espressione vocale nel giusto clima del raccoglimento. Si ricordi, in proposito, quanto afferma l’
    Ordinamento Generale del Messale Romano: “Si deve osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come parte della celebrazione. La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica” (n. 45).
    L’Ordinamento Generale non fa che esplicitare quanto la Sacrosanctum Concilium formulava in termini più generali: “Si osservi a tempo debito il sacro silenzio” (30).
    E’ da notare che in entrambi i testi citati si parla di “silenzio sacro”. Il silenzio richiesto, pertanto, non è da considerarsi alla stregua di una pausa tra un momento celebrativo e il successivo. E’ da considerarsi piuttosto come un vero e proprio momento rituale, complementare alla parola, alla preghiera vocale, al canto, al gesto...
    Da questo punto di vista, ci è dato di meglio capire il motivo per cui durante la preghiera eucaristica e, in specie, il canone, il popolo di Dio riunito in preghiera segue nel silenzio la preghiera del sacerdote celebrante. Quel silenzio non significa inoperosità o mancanza di partecipazione. Quel silenzio tende a far sì che tutti entrino nel significato di quel momento rituale che ripropone nella realtà del sacramento l’atto di amore con il quale Gesù si offre al Padre sulla croce per la salvezza del mondo. Quel silenzio, davvero sacro, è lo spazio liturgico nel quale dire sì, con tutta la forza del nostro essere, all’agire di Cristo, così che diventi anche il nostro agire nella quotidianità della vita.
    Così il silenzio liturgico è davvero sacro perché è il luogo spirituale nel quale realizzare l’adesione di tutta la nostra vita alla vita del Signore, è lo spazio dell’“amen” prolungato del cuore che si arrende all’amore di Dio e lo abbraccia come nuovo criterio del proprio vivere. Non è forse questo il significato stupendo dell’“amen” conclusivo della dossologia al termine della preghiera eucaristica, nella quale tutti diciamo con la voce quanto a lungo abbiamo ripetuto nel silenzio del cuore orante?
    Se tutto questo è il senso del silenzio in liturgia, non è forse vero che e le nostre liturgie hanno bisogno di più spazio per il sacro silenzio?

    La nobile bellezza

    Afferma 
    Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica post sinodale sull’Eucaristia Sacramentum caritatis: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor… Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la propria natura” (n. 35).
    Le parole del Papa non potrebbero essere più chiare. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di grettezza, di minimalismo e di male inteso pauperismo nella celebrazione liturgica. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di “sprecare” per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell’arte: dall’architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio.
    Ascoltiamo ancora 
    Benedetto XVI: “Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!” (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008).

    Il crocifisso al centro dell’altare

    Nel suo testo “Le festa della fede”, la cui prima edizione risale al 1981, il cardinale Ratzinger si poneva il problema dell’orientamento nella celebrazione liturgica. Riportare alcuni brani del suo testo, mi pare il modo più immediato per capire l’importanza della sua riflessione e della sua proposta.
    “Il vero spazio e la vera cornice della celebrazione eucaristica è tutto il cosmo. Questa dimensione cosmica dell’Eucaristia si faceva presente nell’azione liturgica mediante l’inorientamento [ndr. il corretto orientamento verso…]. L’Oriente – oriens – era anche notoriamente, dal segno del sole nascente, il simbolo della risurrezione (e pertanto non solo espressione cristologia, ma indice pure della potenza del Padre e dell’opera dello Spirito Santo), nonché richiamo alla speranza nella parusìa […] La croce dell’altare si può qualificare come un residuo dell’inorientamento rimasto fino ai giorni nostri. In essa fu conservata la vecchia tradizione, che era a suo tempo strettamente collegata al simbolo cosmico dell’Oriente, di pregare nel segno della croce il Signore veniente, volgendovi lo sguardo […] Anche nell’attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere collocata sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme a lui, il trafitto […] La croce sull’altare non è…un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento…Ardirei addirittura la tesi che la croce sull’altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione «versus populum». Diverrebbe così ricca di significato la distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si tratta dell’annunzio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell’altra di un’adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la invocazione - «conversi ad Dominum» -: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore” (pp. 131-135).
    Alla luce di queste limpide affermazioni si comprende meglio quanto sottolineato dal Santo Padre
    Benedetto XVI nella prefazione al I volume della Sua Opera Omnia, dedicato alla liturgia e da poco uscito in Italia: “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo”.

    L’adorazione

    Che cosa intendiamo per adorazione? Certamente non si tratta di una relazione intellettuale o sentimentale con il mistero. La si potrebbe definire come il riconoscimento pieno di meraviglia della onnipotenza di Dio, della sua maestà intangibile, della sua signoria provvidente e misericordiosa, della sua bellezza infinita che è coincidenza di Verità e di Amore... E l’adorazione, quando è autentica, conduce all’adesione, ovvero alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, alla comunione di vita con Cristo... Tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella celebrazione della liturgia. Adora e aderisce, adora per aderire.
    Ascoltiamo ancora Divo Barsotti nell’opera già citata: “E l’Avvenimento, l’Atto del Cristo, è prima di tutto Sacrificio, Sacrificio di adorazione. Il Verbo, nella natura umana che Egli ha assunto, riconosce con la sua Morte l’infinita santità di Dio e la sua sovranità. In Lui la creazione finalmente adora […] Una partecipazione nostra al Sacrificio di Gesù importa che noi si viva lo stesso annientamento suo…La condizione terrestre della nostra vita, nella sua accettazione volontaria, diviene il segno di una nostra partecipazione al Sacrificio di Gesù, alla sua adorazione” (Idem, pp. 174-175).
    Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, deve condurre all’adorazione: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la parola di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Mi soffermo un istante su un gesto tipico e centrale dell’adorazione che oggi rischia di sparire, quale il mettersi in ginocchio, rifacendomi a un testo del cardinale Ratzinger: “Noi sappiamo che il Signore ha pregato stando in ginocchio (Lc 22, 41), che Stefano (At 7, 60), Pietro (At 9, 40) e Paolo (At 20, 36) hanno pregato in ginocchio. L’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2, 6-11) presenta la liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2, 10) e vede in ciò adempiuta la profezia isaiana (Is 45, 23) sulla signoria sul mondo del Dio d’Israele. Piegando il ginocchio nel nome di Gesù, la Chiesa compie la verità; essa si inserisce nel gesto del cosmo che rende omaggio al vincitore e così si pone dalla parte del vincitore poiché un tale inginocchiarsi è una rappresentazione e assunzione imitativa dell’atteggiamento di Colui che «era uguale a Dio» ed «ha umiliato se stesso fino alla morte»” (Rivista Communio, 35/1977).

    E’ anche per questo che è da ritenersi del tutto appropriata la pratica di inginocchiarsi per ricevere la santa Comunione. A ulteriore conferma ascoltiamo il Santo Padre in un passaggio diSacramentum caritatis: “Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n. 66).
    Si può parlare al riguardo di una contraddizione rispetto all’incedere processionalmente, quale segno di un popolo che di dirige verso il suo Signore? La Chiesa che, nel segno esteriore, si dirige in processione verso il Signore è la stessa Chiesa che, sempre nel segno esteriore, alla sua presenza, si inginocchia e adora. Ancora una volta si tratta di complementarietà in vista di una ricchezza più grande e non di esclusione.
    Anche alla luce di questo brano si capisce il motivo per cui il Santo Padre 
    Benedetto XVI, in occasione della solennità del Corpus Domini del 2008, ha iniziato a distribuire la santa Comunione ai fedeli in ginocchio.

    Il canto e la musica


    Mi piace al riguardo partire da una citazione del papa san Gregorio Magno, nella quale si ritrova formulato con singolare profondità ed efficacia il nucleo centrale della musica e del canto in liturgia: “Quando il canto della salmodia risuona dalle profondità del cuore, il Signore onnipotente trova per esso una via di accesso ai cuori, per inondare colui che protende tutti i suoi sensi ad ascoltarLo dei misteri della profezia o della grazia della contrizione. Sta scritto infatti: ‘Un canto di lode mi onora, ed esso è la via per la quale mostrerò la salvezza di Dio’ (Sal 49, 23). Ciò che in latino suonasalutare, salvezza, in ebraico si dice Gesù. Nel canto di lode perciò viene creata una via di accesso, per la quale Gesù può rivelarsi, poiché quando mediante il canto dei Salmi viene riversata in noi la vera contrizione, si apre in noi una strada che conduce nel profondo del cuore, alla fine della quale si giunge a Gesù…” (In Ez I hom. I, 15).
    Così il canto e la musica in liturgia, quando sono nella verità del loro essere, nascono dal cuore che ricerca il mistero di Dio e diventano un’esegesi dello stesso mistero, parola che nella nota musicale si apre sull’orizzonte della salvezza, di Cristo. Pertanto c’è un legame intrinseco tra la parola, la musica e il canto nella celebrazione liturgica. Musica e canto, infatti, non possono essere slegati dalla parola, quella di Dio, della quale invece devono essere interpretazione fedele e disvelamento. Il canto e la musica in liturgia partono dalle profondità del cuore, e dunque da Cristo che lo abita, e riportano al cuore, vale a dire a Cristo che della domanda del cuore è risposta vera e definitiva. Questa è l’oggettività del canto e della musica liturgica, che non dovrebbe mai essere consegnata all’estemporaneità superficiale di sentimenti e di emozioni passeggere non rispondenti alla grandezza del mistero celebrato.

    E’ giusto, quindi affermare che il canto e la musica in liturgia nascono dalla preghiera e portano alla preghiera. Dunque, permettono a noi di entrare nel mistero, per tornare alla terminologia che è parte del titolo di questa conferenza. E qui, nel canto e nella musica, troviamo forse una delle vie più alte di ingresso e di partecipazione al mistero, capace di fare sintesi di tante altre componenti della partecipazione liturgica.
    Mi sia consentito qui, parlando del canto e della musica, di fare brevemente cenno alla lingua latina. E’ risaputo quale straordinario tesoro di canto e musica per la liturgia ci hanno consegnato i secoli passati. E qualcosa di quel tesoro la Chiesa lo ha definito perennemente valido, in sé e quale criterio per stabilire ciò che può essere davvero liturgico nelle nuove forme musicali che si vanno sviluppando nel tempo. Mi riferisco al gregoriano e alla polifonia sacra classica, forme di canto liturgico che consentono di valutare, oggi come ieri, ciò che attiene alla liturgia e ciò che, pur di valore artistico e di contenuto religioso, non può avere spazio nella celebrazione liturgica. Il valore perenne del gregoriano e della polifonia classica consiste nella loro capacità di farsi esegesi della parola di Dio e, dunque, del mistero celebrato, di essere al servizio della liturgia senza fare della liturgia uno spazio al servizio della musica e del canto. Potremo noi rinunciare a mantenere in vita tali tesori che secoli di storia della Chiesa ci hanno consegnato? Potremo noi fare a meno di attingere ancora oggi a quel patrimonio di spiritualità straordinario? Come sarà mai possibile dare corpo a un più ampio e degno repertorio di canto e di musica per la liturgia se non ci saremo lasciarti educare da ciò che lo deve ispirare?

    Ecco perché dobbiamo conservare nei modi dovuti il latino. Senza dimenticare anche altre componenti di questa lingua liturgica, quale la sua capacità di dare espressione a quella universalità e cattolicità della Chiesa, a cui davvero non è lecito rinunciare. Come non provare, al riguardo, una straordinaria esperienza di cattolicità quando nella basilica di San Pietro uomini e donne di tutti i continenti, di nazionalità e lingue diverse pregano e cantano insieme nella stessa lingua? Chi non percepisce la calda accoglienza della casa comune quando, entrando in una chiesa di un paese straniero può, almeno un alcune parti, unirsi ai fratelli nella fede in virtù dell’uso della stessa lingua?
    Perché questo continui a essere concretamente possibile è necessario che nelle nostre chiese e comunità l’uso del latino sia conservato con la dovuta saggezza pastorale.

    Conclusione
    Come si diceva, nel considerare alcuni aspetti celebrativi è stata data qualche priorità. Sottolineare alcune priorità, mettere in luce alcuni problemi, prospettare possibili cambiamenti rientra nel desiderio di dare un contributo alla piena e autentica realizzazione della riforma liturgica avviata dal Concilio Vaticano II. Per tutti noi tale riforma è stata ed è provvidenziale nel cammino storico della Chiesa, che si sviluppa e cresce in una logica di continuità e di organicità con il suo passato. Ma proprio perché si desidera che tale riforma, nella sua attuazione, sia pienamente fedele agli orientamenti conciliari e dia tutti i frutti sperati è anche lecito esaminare le problematiche suscitate nel tempo da talune asserzioni non sempre felici e da altre realizzazioni concrete non sempre del tutto ispirate. La vera fedeltà alla riforma voluta dal Vaticano II richiede che, mentre si promuove tutto ciò che è vero dono di rinnovamento, si prendano in esame con libertà di spirito, animo ecclesiale e senza preclusioni ideologiche i problemi esistenti. E’ uno stesso amore che tutti ci deve animare: quello per il Signore e per la sua Chiesa, quello per la liturgia, azione di Cristo e della Chiesa.

    Mons. Guido Marini
    Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 17/11/2010 19:07


    Un grazie al Blog dedicato a mons. Guido Marini raggiungibile dal linc nel titolo:

    LA LITURGIA COME FONTE DI SPIRITUALITA’ SACERDOTALE

    Giornate di formazione liturgica per Clero e Laici

    Rizziconi, Diocesi di Oppido - Palmi, 21 gennaio 2010



    All’inizio di questo nostro incontro è bene fare chiarezza sul significato del tema che mi è stato affidato, con particolare riferimento al titolo scelto: “La liturgia come fonte di spiritualità sacerdotale”. I punti da chiarire mi pare che debbano essere due.

    - Anzitutto ci si potrebbe chiedere: Che cosa si intende con “spiritualità sacerdotale”? Il discorso che si va affrontando riguarda solo i ministri ordinati? Oppure si deve pensare che non vi sia differenza tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio battesimale, in merito alla spiritualità liturgica?

    Al fine di evitare qualunque fraintendimento, a queste domande è necessario rispondere subito. La risposta, oltre a sgombrare il campo da possibili equivoci, vuole mettere anche in luce i limiti entro i quali si muove la presente riflessione.

    Non vi è dubbio: sacerdozio ministeriale e sacerdozio battesimale “differiscono essenzialmente e non solo di grado”, come ricorda il Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium: “Il sacerdote ministeriale – infatti -, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa” (n. 11).

    Non tutti, dunque, nella Chiesa hanno la stessa funzione. E vi sono alcuni, i ministri ordinati, che sono chiamati da Dio a operare nella persona di Cristo-Capo e a essere come “l’icona di Cristo Sacerdote (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1142).

    La distinzione è chiara e fondamentale. Tuttavia, lo scopo che ci prefiggiamo oggi è piuttosto quello di considerare ciò che accomuna l’intero popolo di Dio nella celebrazione dei divini misteri e che sta a fondamento di quella condivisa spiritualità, che nel titolo è detta “sacerdotale”. In effetti, la liturgia è “azione di Cristo tutto intero” (cfr. CCC n. 1136) ed “è tutta la comunità, il Corpo di Cristo unito al suo Capo, che celebra” (CCC n. 1140). “Col lavacro del Battesimo, difatti, - affermava già Pio XII – i cristiani diventano, a titolo comune, membra del Mistico Corpo di Cristo sacerdote, e, per mezzo del «carattere» che si imprime nella loro anima, sono deputati al culto divino partecipando, così, convenientemente al loro stato, al sacerdozio di Cristo” (Mediator Dei, n. 72).

    Tutti insieme, in tal modo, ci ritroviamo ai piedi della croce per partecipare al sacrificio del Signore: per aderire con la nostra volontà alla volontà di Dio, in tutto e per tutto; per unire la nostra povera vita, sempre bisognosa di misericordia e di grazia, a quella di Gesù, così che, con Lui e per Lui, diventi un'offerta gradita a Dio, una cosa santa e sacra, piena di bellezza e di luce nonostante le ombre.

    E’ giusto, allora, che da parte di tutti salgano al Signore quelle splendide parole che il sacerdote celebrante pronuncia, a nome dell’intera assemblea liturgica, ogni qualvolta si addentra nella grande preghiera eucaristica: “Ti rendiamo grazie per averci ammessi a compiere il servizio sacerdotale” (Preghiera eucaristica II).

    - Un secondo punto da chiarire riguarda l’accostamento del termine “liturgia” all’altro termine “spiritualità”, considerando la prima come fonte della seconda.

    Al riguardo è importante precisare quanto segue. Non esiste una vera spiritualità cristiana che non sia spiritualità liturgica, ovvero che non trovi nella liturgia la sua principale sorgente. Ma, nel momento in cui si intende approfondire il contenuto di detta spiritualità, non si può fare a meno di approfondire anche i grandi contenuti della liturgia. In altre parole: non è possibile definire i tratti della spiritualità che scaturisce dalla liturgia senza prima definire i tratti qualificanti della liturgia stessa. Che cosa è la liturgia? Quali sono gli elementi teologici e dottrinali che la caratterizzano?

    Parlare di spiritualità senza rispondere a questi interrogativi significherebbe sganciarla dalla sua radice. E porterebbe a considerare semplicemente la dimensione emotiva, sentimentale e soggettiva della vita della fede. Dimensione da non sottovalutare, certamente, ma non primaria e non fondante la spiritualità cristiana che, prima di tutto, è disponibilità a lasciarsi plasmare dal mistero celebrato, adesione al dono della salvezza ricevuto nella Chiesa e attraverso la Chiesa.

    Ecco il motivo per cui cercherò di considerare alcuni elementi di “spiritualità sacerdotale” a partire da alcuni elementi di teologia liturgica, ovviamente senza la pretesa di esaurire un tema tanto vasto e ricco.

    Questo faremo non senza riferirci a Benedetto XVI, al suo insegnamento e al suo magistero, ricordando che in virtù del Sommo Pontificato egli è anche il “grande Liturgo”, alla cui “ars celebrandi”, proposta con delicata fermezza, è necessario guardare come esempio da seguire e imitare. Dico questo perché può capitare di ascoltare o leggere il pensiero di alcuni opinionisti che qualificano come “gusto personale” l’indirizzo liturgico del Papa. Lasciamo agli opinionisti il loro discutibile parere, e comportiamoci da discepoli autentici del Signore che amano la Chiesa e il Papa, desiderosi di essere fedeli al suo magistero, anche per quanto attiene alla liturgia.

    Da ultimo, ancora quasi a modo di premessa, ricordo che nel corso della riflessione si darà un’attenzione privilegiata alla Santa Messa, che è senza dubbio la forma più alta della liturgia. Basti, al riguardo, ricordare quanto si dice nel decreto del Concilio Vaticano II sul ministero e la vita sacerdotale, Presbyterorum ordinis, al n. 5: “Tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere d’apostolato, sono strettamente uniti alla sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati. Infatti, nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua… Per questo l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione”.

    1. La liturgia come presenza del mistero di Cristo

    Nella costituzione conciliare dedicata alla sacra liturgia si dice: “Per realizzare un’opera così grande – poco prima si parlava dell’opera divina della salvezza -, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche”. E appena poco più avanti si afferma: “Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo” (Sacrosanctum concilium, n. 7).

    In altre parole: la liturgia ha un grande e primo protagonista. Questi è il Signore risorto da morte, che riempie di sé e della sua opera di salvezza la Chiesa radunata nel suo nome. Vengono alla mente le absidi antiche, splendidamente decorate con immagini del Cristo Pantocratore o con altre immagini raffiguranti il mistero della salvezza. L’intenzione degli artisti, animati dalla fede, era chiara: rendere palpabile, anche attraverso il mezzo della rappresentazione artistica, la presenza avvolgente di Cristo nell’azione liturgica.

    C’è una parola, molto breve ma ricchissima, che si addice particolarmente alla verità della celebrazione liturgica. Vi sono alcuni tempi forti durante l’anno in cui questa ritorna più sovente, ma sempre è ben presente nella consapevolezza di fede della Chiesa. La parola è “oggi”. Sì, proprio oggi Cristo è presente e vivo in virtù del rito liturgico; proprio adesso il Signore rinnova l’opera della salvezza mediante il sacrificio della Croce e l’evento della risurrezione; proprio qui si fa contemporaneo a noi colui che è il Salvatore del genere umano.

    Non avrebbe senso parlare di esercizio del sacerdozio senza riferirlo alla presenza del mistero di Cristo, sommo ed eterno sacerdote, che riempie di sé e della sua presenza ogni atto liturgico. E non è senza conseguenze, per l’esercizio del nostro sacerdozio, tale verità fondamentale della vita liturgica della Chiesa. Proviamo a considerarne almeno alcune.

    - La sacralità della liturgia

    Affermare che la liturgia è sacra significa ricordare che essa ci precede, in quanto luogo della presenza viva del mistero di Cristo salvatore, affidato alla Chiesa perché ne sia la custode attenta e fedele. Il sacro, in questo senso, non è un’aggiunta dell’uomo all’azione di Dio. Il sacro è la stessa azione di Dio presente nel rito liturgico. Il sacro è lo stesso Cristo che si dona a noi nel contesto della celebrazione e che la Chiesa è chiamata a trasmettere con fedeltà nel tempo, attraverso lo scorrere delle generazioni.

    E’ per questo motivo che, come affermava il Card. Ratzinger già nel 2001: “C’è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse oggetto della nostra abilità manipolatoria. Siamo giunti al punto che dei gruppi liturgici imbastiscono da se stessi la liturgia domenicale. Il risultato è certamente il frutto dell’inventiva di un pugno di persone abili e capaci. Ma in questo modo viene meno il luogo in cui mi si fa incontro il totalmente Altro, in cui il sacro ci offre se stesso in dono; ciò in cui mi imbatto è solo l’abilità di un pugno di persone. E allora ci si accorge che non è quello che si sta cercando. E’ troppo poco e insieme qualcosa di diverso. La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste. Rinunciare a cercare in essa la propria autorealizzazione per vedervi invece un dono. Questa, credo è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro” (da “Dio e il mondo”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001).

    Affermare la sacralità della liturgia significa ricordare la necessità di custodire il mistero che in essa è celebrato. Sacralità liturgica è l’oggettività di quel mistero che, nella sua ripetitività, non smette di interessare l’uomo: in quanto gli dona ciò di cui realmente ha bisogno e lo salva.

    Di conseguenza, esercitare il sacerdozio comune significa lasciarsi umilmente plasmare dal sacro liturgico, abbandonando la pretesa di plasmare la liturgia secondo la propria volubile soggettività. Il sacerdozio che siamo chiamati a vivere è creativo, senza dubbio. Ma non secondo quella creatività che manipola il dono ricevuto, quanto secondo quella creatività interiore che è capace di accogliere il dono in modo sempre nuovo e fecondo, in vista della trasformazione della vita.

    - La bellezza della liturgia

    Afferma Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica post sinodale sull’Eucaristia Sacramentum caritatis: “La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor… Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la propria natura” (n. 35).

    Le parole del Papa non potrebbero essere più chiare. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di grettezza e di male inteso pauperismo nella celebrazione liturgica. L’uso del bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere belli i nostri riti.

    Ha a che fare tutto questo con la “spiritualità sacerdotale”? Senza dubbio, perché non vi può essere autentica spiritualità sacerdotale fondata sulla liturgia che non partecipi della bellezza del sacerdozio di Cristo, diventandone progressivamente un riflesso sempre più fedele e attraente per il mondo. Il mondo è assetato di bellezza e di tale bellezza la Chiesa è tramite nella misura in cui vive della bellezza del suo Signore. Una bellezza appresa, amata, esercitata anche attraverso la partecipazione liturgica al mistero della salvezza.

    - Il tempo nella liturgia

    E’ sempre Benedetto XVI a orientare la nostra riflessione: “Se è vero che i sacramenti sono una realtà che appartiene alla Chiesa pellegrinante nel tempo verso la piena manifestazione della vittoria di Cristo risorto – afferma il Papa in Sacramentum caritatis -, è tuttavia altrettanto vero che, specialmente nella liturgia eucaristica, ci è dato di pregustare il compimento escatologico verso cui ogni uomo e tutta la creazione sono in cammino… L’uomo è creato per la felicità vera ed eterna, che solo l’amore di Dio può dare. Ma la nostra libertà ferita si smarrirebbe, se non fosse possibile già fin d’ora sperimentare qualcosa del compimento futuro. Del resto, ogni uomo per poter camminare nella direzione giusta ha bisogno di essere orientato verso il traguardo finale. Questa meta ultima, in realtà, è lo stesso Cristo Signore vincitore del peccato e della morte, che si rende presente a noi in modo speciale nella Celebrazione eucaristica” (n. 30).

    In tal modo, nell’esperienza liturgica l’uomo ritrova il significato del tempo e del suo scorrere. Il senso sta nella direzione verso la quale la storia è in cammino: Cristo Gesù. In lui l’umanità è strappata al dramma della mancanza di senso e all’oscurità di un percorso che si perde nella notte del nulla. Così si entra nella celebrazione liturgica con la pesantezza dell’esperienza dolorosa del tempo che fugge inesorabile e ci si ritrova anche da questo punto di vista salvati, perché resi capaci di capire la direzione della vita: il Signore che sarà tutto in tutti.

    Lo stesso ritmo ciclico del tempo liturgico è grazia e scuola di vita. Ogni anno, il rinnovarsi dei misteri del Signore e della nostra salvezza, porta con sé il dono di un ingresso progressivo, per intensità, nella verità della fede, nella buona notizia dell’amore di Dio. Si capisce, allora, il motivo per cui, anche da questo punto di vista, la liturgia è fonte di “spiritualità sacerdotale”. Grazie all’atto liturgico, che annualmente riviviamo, approfondiamo la capacità di vivere il tempo da autentici discepoli del Signore: ricordando che l’esistenza è pellegrinaggio verso la patria, che tutto è animato dalla Provvidenza di Dio, che non c’è fatto della vita terrena che non possa essere posto in relazione con l’eternità. Partecipando del sacerdozio di Cristo diveniamo, per così dire, “sacerdoti del tempo”, vale a dire capaci di rendere al Signore, con offerta a lui gradita, il tempo della nostra vita.

    - L’adorazione nella liturgia

    Citiamo, al riguardo, ancora un passaggio dell’Esortazione Sacramentum caritatis: “Un segnale convincente dell’efficacia che la catechesi eucaristica ha sui fedeli è sicuramente la crescita in loro del senso del mistero di Dio presente tra noi. Ciò può essere verificato attraverso specifiche manifestazioni di riverenza verso l’Eucaristia, a cui il percorso mistagogico deve introdurre i fedeli. Penso, in senso generale, all’importanza dei gesti e della postura, come l’inginocchiarsi durante i momenti salienti della preghiera eucaristica. Nell’adeguarsi alla legittima diversità dei segni che si compiono nel contesto delle diverse culture, ciascuno viva ed esprima la consapevolezza di trovarsi in ogni celebrazione davanti alla maestà infinita di Dio, che ci raggiunge in modo umile nei segni sacramentali” (n. 65).

    Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, deve condurre all’adorazione: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la Parola di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. La nobiltà, la bellezza, l’armonia, la capacità di trarre fuori dall’ordinario per farci entrare nello spazio sacro di Dio: questi, e solo questi sono i criteri ecclesiali in base ai quali discernere ciò che può essere accolto o non accolto nelle nostre liturgie.

    Mi sia consentita una breve digressione in merito a un particolare delle liturgie papali. Mi riferisco alla decisione di Benedetto XVI, presa a cominciare dal “Corpus Domini” del 2008, di distribuire la Santa Comunione ai fedeli, direttamente sulla lingua e in ginocchio. Con l’esempio di questo gesto, il Papa ci invita a rendere manifesto l’atteggiamento dell’adorazione davanti alla grandezza del mistero della presenza eucaristica del Signore. Atteggiamento di adorazione che dovrà ancor più essere custodito accostandosi alla SS. Eucaristia nelle altre forme oggi concesse. Ci è spiritualmente di aiuto, al riguardo, riascoltare un passaggio di Sacramentum caritatis: “Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n. 66).

    Torniamo alla “spiritualità sacerdotale”, derivante dalla liturgia. Se l’adorazione è il riconoscimento pieno di stupore della grandezza infinita di Dio, della sua maestà inafferrabile, del suo amore senza misura, della sua signoria onnipotente e provvidente... Se, di conseguenza, l’adorazione conduce all’adesione, ovvero alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, alla comunione di vita con Cristo... Se l’adorazione è tutto questo, non sarà proprio nell’adorazione liturgica che ciascuno di noi eserciterà la “spiritualità sacerdotale”?

    2. La liturgia come azione partecipata

    Il Concilio Vaticano II, nella già citata Sacrosanctum concilium, si sofferma a considerare la necessità della partecipazione attiva dei fedeli alla Messa. “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (n. 48).

    Parlando di partecipazione attiva alla celebrazione liturgica ci ritroviamo al centro del discorso intorno alla “spiritualità sacerdotale”, a tutti noi comune. Partecipazione attiva, infatti, richiama immediatamente l’esercizio consapevole del sacerdozio regale. E qui si pone subito la domanda di fondo: che cosa significa esercizio consapevole del nostro sacerdozio ?

    Alla domanda si addice senza dubbio una risposta articolata, come articolata è la descrizione della partecipazione attiva nel documento conciliare. Eppure, proprio in quel documento, nel passo citato, ci è offerta la chiave di lettura per arrivare a una sintesi della questione. Potremmo dire così: si partecipa attivamente alla liturgia nella misura in cui l’azione liturgica è da noi partecipata.

    Mi pare che, al riguardo, una riflessione del Card. Ratzinger, nel volume Introduzione allo spirito della liturgia, sia quanto mai illuminante: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità…Con il termine actio riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio… Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il «canone» - è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che l’actio umana… passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio” (pp. 167-168).

    Così, la vera azione che si realizza nella liturgia è l’azione di Dio stesso, la sua opera salvifica in Cristo. Questa è, tra l’altro, la vera novità della liturgia cristiana rispetto a ogni altra azione cultuale: Dio stesso agisce e compie ciò che è essenziale, mentre l’uomo è chiamato ad aprirsi all’azione di Dio, al fine di rimanerne trasformato. Il punto essenziale della partecipazione attiva, di conseguenza, è che venga superata la differenza tra l’agire di Dio e il nostro agire, che possiamo diventare una cosa sola con Cristo, così che la sua offerta d’amore al Padre diventi anche la nostra offerta. Solo quando questo accade si sta esercitando attivamente il proprio sacerdozio.

    Rispetto a questo tutto il resto è secondario. E mi riferisco, in particolare, alle azioni esteriori, pur importanti e necessarie, previste soprattutto durante la celebrazione liturgica. Faccio riferimento ad esse perché, se diventano l’essenziale della liturgia e questa viene ridotta a un generico agire, allora si è fraintesa l’autentica partecipazione attiva. Di conseguenza, la vera educazione alla spiritualità liturgica non può consistere semplicemente nell’apprendimento e nell’esercizio di attività esteriori, ma anche e soprattutto nell’introduzione all’azione essenziale, all’opera di Dio, al mistero pasquale di Cristo dal quale lasciarsi raggiungere, coinvolgere e trasformare.

    San Tommaso, con la consueta chiarezza, afferma: “Il culto esterno è ordinato a quello interno. Ora il culto interno consiste nell’unione intellettiva e affettiva dell’anima con Dio. Perciò gli atti esterni del culto hanno applicazioni diverse secondo i diversi gradi di unione intellettiva e affettiva dei fedeli con Dio” (Summa Teologiae, I-II, q. 101, a. 2).

    Ascoltiamo Benedetto XVI in un passo dell’Esortazione apostolica Sacramentum caritatis: “Gesù ci ha lasciato così il compito di entrare nella sua «ora»: «L’Eucaristia ci attira nell’atto ablativo di Gesù… veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione». Egli «ci attira dentro di sé»” (n. 11).

    E aggiungo: non si confonda il compimento di gesti esterni con il giusto coinvolgimento della corporeità nell’atto liturgico. Senza nulla togliere al significato e all’importanza del gesto esterno che accompagna l’atto interiore, la liturgia chiede molto di più al corpo umano. Chiede, infatti, il suo totale e rinnovato impegno nella quotidianità della vita, così che essa diventi in qualche modo liturgica, servizio per il cambiamento del mondo. E’ proprio l’esercizio puntuale e fedele di questa “coerenza eucaristica” l’espressione più autentica della partecipazione anche corporea all’atto liturgico, all’azione salvifica di Cristo.

    E’ giusto affermare, in conclusione, che si ha la verifica della partecipazione attiva alla liturgia nel momento in cui cresce la personale adesione a Cristo, si rimane coinvolti nella dinamica dell’amore che si dona, la volontà personale si trasforma progressivamente nella volontà del Signore. Questo significa esercitare il proprio sacerdozio; questo significa “spiritualità sacerdotale”. Non per nulla coloro che hanno celebrato e vissuto l’atto liturgico partecipandovi davvero attivamente sono i santi. La santità, come esito della vita, è la testimonianza più bella di una partecipazione realmente viva alla liturgia della Chiesa, di un esercizio consapevole e pieno del proprio sacerdozio.

    3. La liturgia tra dimensione discendente e ascendente

    Se consideriamo con attenzione lo svolgersi della celebrazione eucaristica, ci rendiamo immediatamente conto di trovarci di fronte a due grandi momenti: la liturgia della parola e la liturgia eucaristica. Si tratta di due fasi del rito “così strettamente congiunte tra loro da formare un unico atto di culto” (Ordinamento Generale del Messale Romano, 28). Infatti vi è un legame intrinseco tra la Parola di Dio e l’Eucaristia: tanto che la Parola letta e annunziata nella liturgia conduce all’Eucaristia come suo fine ultimo.

    All’interno di tale unità fondamentale non passa però inosservata la distinzione dei due momenti. Da una parte, Dio si rivela, parla a noi per il tramite della Sacra Scrittura e dell’insegnamento autorevole del ministero ordinato. Dall’altra parte, presentando il frutto della terra e del lavoro, noi ci offriamo al Signore, per divenire una sola cosa con lui, in virtù della partecipazione al suo sacrificio redentore.

    Due momenti, dunque, a costituire un unico rito, eppure caratterizzati entrambi da una specifica e prevalente dinamica: discendente il primo, ascendente il secondo.

    Perché è importante ricordare questo dato di teologia liturgica? Perché un’autentica “spiritualità sacerdotale” non può prescindere da tale dato. La nostra vita di fede, in effetti, si svolge interamente tra una discesa e un’ascesa, il dono di Dio e la nostra risposta. Non siamo stati e non siamo noi a compiere il primo passo nella direzione del Signore. E’ sempre il Signore a compiere il primo passo verso di noi, rendendo possibile la nostra risposta.

    Una tale dinamica della vita cristiana è bene impressa nel Santo Natale, che abbiamo da poco celebrato. Nel mistero dell’Incarnazione risplende il primato dell’amore di Dio per l’uomo. Nella carne del Figlio di Dio l’umanità è redenta e assunta fino al cielo, ma ciò si rende possibile perché prima il cielo è sceso in direzione dell’umanità.

    La celebrazione liturgica, con la liturgia della parola, ci ricorda che un primo atteggiamento fondamentale dell’uomo di fede è quello dell’ascolto obbediente e della disponibilità ad accogliere con gratitudine e stupore il dono dell’amore di Dio, che è grazia (cfr. OGMR n. 55). La celebrazione liturgica, con la liturgia eucaristica, ci ricorda che l’altro atteggiamento fondamentale dell’uomo di fede è quello di rivolgersi al Signore, orientando a lui lo sguardo e la vita (cfr. OGMR n. 78).

    Ecco così delineato un altro tratto di “spiritualità sacerdotale” derivante dalla liturgia. Tuttavia, perché la liturgia sia effettivamente luogo privilegiato per l’esperienza e l’apprendimento di questo, come di ogni altro elemento di spiritualità è necessario che essa parli alla nostra vita con segni veri ed eloquenti. Così si esprimeva alcuni anni fa la Congregazione per il culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: “Nella forma di celebrazione occorre stare attenti a non convertire teologia e topografia, soprattutto quando il sacerdote è all’altare. Solo nei dialoghi dall’altare il sacerdote parla al popolo. Tutto il resto è preghiera al Padre mediante Cristo, nello Spirito Santo. Questa teologia deve poter essere visibile” (Editoriale Notitiae, “Pregare «ad orientem versus»”, in Notitiae vol. 29 /1993/ n. 5)

    Mi sia consentita, allora, una digressione molto concreta. E’ corretto che durante la liturgia della parola celebrante e fedeli si ritrovino in posizione frontale, l’uno davanti agli altri. Tutti si è in ascolto del Signore che viene a rivelarsi nella sua parola e nella forma del dialogo orante. Ma non si può dire del tutto corretto che celebrante e fedeli conservino la stessa posizione anche durante la liturgia eucaristica, quando invece, insieme, dovrebbero rivolgersi al Signore e a lui orientarsi con lo sguardo e con il cuore. Ascoltiamo in proposito quanto scriveva nel 2001, nel citato volume Introduzione allo spirito della Liturgia, J. Ratzinger: “Era anche importante tornare a distinguere con chiarezza il luogo della liturgia della parola rispetto alla liturgia eucaristica vera e propria, dal momento che qui si tratta effettivamente di un discorso e di una risposta e, quindi, ha anche senso che stiano l’uno di fronte all’altro colui che annuncia e coloro che ascoltano, i quali rielaborano nel salmo ciò che hanno ascoltato, lo riprendono interiormente e lo trasformano in preghiera, così che diventi risposta. Resta, invece, essenziale il comune orientamento verso est durante la preghiera eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma dell’essenziale. Non è importante lo sguardo rivolto al sacerdote, ma l’adorazione comune, l’andare incontro a Colui che viene. Non il cerchio chiuso in se stesso esprime l’essenza dell’evento, ma la partenza comune, che si esprime nell’orientamento comune” (p. 77).

    Non ritenendo opportuno suggerire una nuova modifica per la disposizione degli altari nelle nostre chiese, il Cardinale auspicava che il Crocifisso venisse collocato sopra e al centro dell’altare, in modo tale da rendere visibile il comune orientamento al Signore. E aggiungeva: “Tra i fenomeni veramente assurdi del nostro tempo io annovero il fatto che la croce venga collocata su un lato per lasciare libero lo sguardo sul sacerdote. Ma la croce, durante l’eucaristia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore? Questo errore dovrebbe essere corretto il più presto possibile” (p. 80).

    Ora ci è forse più facile capire il motivo per cui il Santo Padre a Roma, come anche in ogni parte del mondo, celebra con il grande crocifisso collocato al centro dell’altare, offrendo un esempio che siamo tutti chiamati a seguire. Ne va della verità del segno e della possibilità che la liturgia divenga davvero fonte di “spiritualità sacerdotale”.

    *****
    Mi avvio a concludere. Non senza un ultimo richiamo alla celebrazione liturgica. La liturgia conosce sempre un congedo che, in verità, assomiglia a uno spalancarsi delle porte della chiesa sul mondo. La liturgia, in altre parole, comporta sempre un mandato. E’ il mandato di testimoniare il dono ricevuto, la salvezza in Cristo Signore risorto da morte, la notizia lieta dell’amore del Padre che dona finalmente senso alla vita umana. Tale mandato è insieme una grazia e un impegno: è una grazia, perché solo la forza che viene da Dio ci mette in grado di pronunciare parole di testimonianza di fronte al mondo; è un impegno, perché il dono che abbiamo ricevuto deve trasformarsi nel coraggio gioioso della profezia quotidiana, ovvero nell’annuncio sempre e ovunque del senso del mondo e del valore della vita.

    Diceva il Servo di Dio Giovanni Paolo II nella sua Lettera Enciclica sull’Eucaristia: “Annunziare la morte del Signore «finché egli venga» (1 Cor 11, 26) comporta, per quanti partecipano all’Eucaristia l’impegno di trasformare la vita, perché essa diventi, in certo modo, tutta «eucaristica» (Ecclesia de Eucharistia, n. 20).

    Anche questa è “spiritualità sacerdotale”. Anche questo è ciò che apprendiamo e di cui diventiamo capaci in virtù della partecipazione alla celebrazione liturgica.


    Mons. Guido Marini

    Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 21/03/2011 23:48
    LA SACRA LITURGIA: LO SPECIALE DEL BLOG

    Sul linguaggio dell'«ars celebrandi»

    Un rinnovato amore per il mistero di Cristo

    Pubblichiamo ampi stralci della relazione sul «Linguaggio della celebrazione liturgica» che il maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie ha tenuto il 24 febbraio scorso in apertura del corso sull'ars celebrandi presso la Pontificia Università della Santa Croce.

    di Guido Marini

    Iniziare un corso sulla ars celebrandi, trattando il tema del linguaggio della celebrazione liturgica, non è possibile farlo senza richiamare alla memoria il noto passaggio dell'esortazione apostolica
    Sacramentum caritatis di Benedetto XVI: «Altrettanto importante per una giusta ars celebrandi è l'attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti. La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l'essere umano. La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell'ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l'artificiosità di aggiunte inopportune. L'attenzione e l'obbedienza alla struttura propria del rito, mentre esprimono il riconoscimento del carattere di dono dell'Eucaristia, manifestano la volontà del ministro di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile dono» (n. 40).

    Alcuni anni fa, nel 2009, è stata pubblicata una raccolta di contributi sulla liturgia del cardinale Joseph Ratzinger, dal titolo: Davanti al protagonista. Alle radici della liturgia. Si tratta semplicemente di un titolo, non c'è dubbio. Eppure è particolarmente indicativo di ciò che troviamo alle radici del discorso sulla liturgia. Alle radici vi troviamo Gesù Cristo, il Protagonista, il vero e più importante Protagonista della liturgia.

    Attraverso la liturgia, infatti, il Signore continua nella sua Chiesa l'opera della nostra redenzione (cfr. Sacrosanctum concilium, 2). Ciò che è stato nella storia, ovvero il mistero pasquale, il mistero della nostra salvezza, si rende oggi presente nella celebrazione liturgica della Chiesa. In tal modo il Salvatore non è un ricordo del tempo passato, ma è il Vivente che continua la sua azione salvifica nella Chiesa, comunicando la sua vita, che è grazia e anticipo di eternità.
    Nella stessa celebrazione eucaristica, l'assemblea radunata risponde al «Mistero della fede», successivo alla consacrazione, con le parole tanto significative: «Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta». In questa formulazione della liturgia romana ritroviamo descritti i tre momenti propri di ogni celebrazione sacramentale: ovvero, la memoria del passato evento salvifico, la presente azione di grazia nella celebrazione, l'anticipazione della gloria futura. In tal modo, la Chiesa, convocata per la celebrazione liturgica, rinnova ogni volta l'esperienza della verità dell'affermazione paolina: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Ebrei, 13, 9).

    Quel Gesù che ieri, in un preciso momento storico, ha vissuto il mistero della sua incarnazione, passione, morte e risurrezione, è lo stesso Gesù di cui oggi, nel tempo che scorre, si rinnova sacramentalmente il mistero della salvezza, così che tutti possano accedervi personalmente. Ed è sempre lo stesso Gesù che la Chiesa attende tornare nella gloria, pregustando però fin da ora, come anticipazione, la gioia della sua presenza e della sua opera.

    La presenza misteriosa e reale di Cristo nella liturgia e il suo essere protagonista nel rito celebrato richiede al linguaggio liturgico lo splendore della nobile semplicità, secondo la celebre dizione del concilio Vaticano II (cfr. Sacrosanctum concilium, n. 34). Ho parlato di «splendore della nobile semplicità», perché questa è l'espressione completa usata dai padri conciliari. In essa è dato riscontrare l'intrinseca relazione tra bellezza, nobiltà, semplicità. Come sempre, ogni indicazione magisteriale deve essere letta e compresa nel contesto più ampio del tema di cui si tratta e in relazione di sviluppo armonico con l'intero insegnamento della Chiesa. In tal modo, si vede con chiarezza quanto siano distanti dal vero quelle marcate insistenze nel richiamare una certa semplicità che, a volte, hanno indotto a rendere il rito liturgico sciatto, banale, noioso, insignificante. Si tratta di un modo di intendere la semplicità non fondato sull'insegnamento della Chiesa e la sua grande tradizione liturgica. Per non dire che, in alcune occasioni, un tale modo di considerare la nobile semplicità si traduce in quella che potremmo definire una poco nobile nuova complessità.
    Non si tratta di questo quando la liturgia diventa teatro di trovate soggettive ed estemporanee, con l'inserimento di simboli privi di autentico significato o talmente complessi da dover essere a lungo spiegati?

    Torniamo all'autentica nobile semplicità ascoltando Benedetto XVI, nell'esortazione apostolica postsinodale sull'Eucaristia Sacramentum caritatis: «Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor (…) Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell'amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l'amore (…) La vera bellezza è l'amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra (…) La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell'azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l'azione liturgica risplenda secondo la propria natura» (n. 35).

    Le parole del Papa, come sempre, hanno il grande dono della chiarezza. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di minimalismo e di pauperismo nella celebrazione liturgica. E questo, certo, non per fare spettacolo o per un vuoto estetismo. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell'amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere semplici, in quanto chiari nel loro svolgimento, nobili e belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di «sprecare» per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell'arte: dall'architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri.
     
    Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà ed eroica carità, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio.

    Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: «Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l'infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d'arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!» (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008).

    «La bellezza intrinseca della liturgia ha come soggetto proprio il Cristo risorto e glorificato nello Spirito Santo, che include la Chiesa nel suo agire» (Sacramentum caritatis, n. 36). È Benedetto XVI, con queste parole, a ricordarci che la liturgia è azione del Cristo totale e, dunque, anche della Chiesa. Dall'affermazione che la liturgia è azione della Chiesa derivano alcune considerazioni di non poca importanza per quell'essenza della liturgia che vado illustrando. In effetti, quando si dice che la Chiesa è soggetto agente si fa riferimento alla Chiesa tutta, in quanto soggetto vivente che attraversa il tempo, che si realizza nella comunione gerarchica, che è insieme realtà ancora pellegrinante sulla terra e realtà già approdata sulle rive della Gerusalemme celeste.

    Nell'agosto del 2006, a Castel Gandolfo, Benedetto XVI, rispondendo alla domanda di un sacerdote, nel corso di un incontro con il clero della diocesi di Albano, si esprimeva così nello stile discorsivo tipico di un colloquio: «La Liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell'adorazione e dell'annuncio. Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mens nella vox della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo interiorizzato questa struttura, compreso questa struttura, assimilato le parole della Liturgia, possiamo entrare in questa interiore consonanza e così non solo parlare con Dio come persone singole ma entrare nel “noi” della Chiesa che prega. E così trasformare anche il nostro “io” entrando nel “noi” della Chiesa, arricchendo, allargando questo “io”, pregando con la Chiesa, con le parole della Chiesa, essendo realmente in colloquio con Dio».
    Entrare nel «noi» della Chiesa che prega. Questo «noi» ci parla di una realtà, la Chiesa appunto, che va al di là dei singoli ministri ordinati e dei singoli fedeli, delle singole comunità e dei singoli gruppi. Perché lì la Chiesa si manifesta e si rende presente nella misura in cui si vive la comunione con la Chiesa intera, quella Chiesa che è cattolica, universale, di una universalità che raggiunge tutti i tempi, tutti i luoghi, e varca la soglia del tempo per lasciarsi raggiungere dall'eternità.

    Ne consegue che fa parte dell'essenza della liturgia il fatto che questa abbia anzitutto il tratto della cattolicità, dove unità e varietà si compongono in armonia così da formare una realtà sostanzialmente unitaria, pur nella legittima diversità delle forme. E poi il tratto della non arbitrarietà, che evita di consegnare alla soggettività del singolo o del gruppo ciò che invece appartiene a tutti come tesoro ricevuto, da custodire e trasmettere. E ancora il tratto della continuità storica, in virtù della quale l'auspicabile sviluppo appare quello di un organismo vivo che non rinnega il proprio passato, attraversando il presente e orientandosi al futuro. E, infine, il tratto della partecipazione alla liturgia del cielo, per il quale è quanto mai appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il cielo si affaccia sulla terra. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, al passaggio della Preghiera eucaristica i, nella quale chiediamo: «Fa' che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull'altare del cielo».

    Quanto fin qui detto in merito alla liturgia come azione della Chiesa non sarebbe sufficiente se non si aggiungesse il tema della partecipazione. Infatti è proprio la liturgia, intesa come azione della Chiesa, che esige una partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa (cfr. Sacrosanctum concilium, n. 11). Ogni considerazione in merito rischia di essere senza costrutto e fuorviante se il punto di partenza non è l'azione di Cristo e della Chiesa. È proprio questa azione quella che chiede di essere partecipata in modo consapevole, attivo e fruttuoso. E ciò è possibile se si realizza un'autentica comunione del fedele con l'agire della Chiesa e l'agire di Cristo.

    Ma qual è l'agire della Chiesa?

    È l'agire della Sposa che tende a diventare un'unica realtà con Cristo Sposo e con il suo agire. E qual è l'agire di Cristo? La sua offerta di amore al Padre per la nostra salvezza. Di conseguenza, la partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa in liturgia si ha nella misura in cui ciascuno e tutti condividiamo l'azione della Chiesa che tende allo Sposo e, dunque, ci lasciamo coinvolgere dall'azione dello Sposo che è donazione d'amore al Padre per la salvezza del mondo.

    Il tema della partecipazione offre ora l'opportunità di ampliare quanto già detto in merito all'agire di Cristo nella liturgia. Lo facciamo lasciandoci condurre per mano da una fondamentale argomentazione del teologo Ratzinger: «Con il termine “actio” riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. Questa definizione era corretta già a partire dalla stessa forma liturgica, poiché nella oratio si svolge ciò che è essenziale alla Liturgia cristiana (…) Questa oratio -- la solenne preghiera eucaristica, “il canone” -- (…) è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che l'actio umana (…) passa in secondo piano e lascia spazio all'actio divina, all'agire di Dio» (Introduzione allo spirito della Liturgia, pp. 167-168).
    Nella oratio, di conseguenza, si svolge ciò che è essenziale alla liturgia cristiana.

    Ci domandiamo: «Che cosa è questo essenziale che si svolge?»

    Rispondiamo, seguendo il testo di Ratzinger: «L'agire di Dio».

    E tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella celebrazione della liturgia. In effetti, ciò che ancora risulta essenziale per la liturgia è che coloro che vi partecipano preghino per condividere lo stesso sacrificio del Signore, il suo atto di adorazione, diventando una solo cosa con lui, vero corpo di Cristo. In altre parole, ciò che è essenziale è che alla fine venga superata la differenza tra l'agire di Cristo e il nostro agire, che vi sia una progressiva armonizzazione tra la sua vita e la nostra vita, tra il suo sacrificio adorante e il nostro, così che vi sia una sola azione, a un tempo sua e nostra. Quanto affermato da san Paolo non può che essere l'indicazione di ciò che è essenziale conseguire in virtù della celebrazione liturgica: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Galati, 2, 19-20).

    Avviandomi alla conclusione, ritengo importante sottolineare quella che mi pare essere una grave urgenza del nostro tempo, ovvero la necessità della formazione alla liturgia e al suo linguaggio, a tutti i livelli. Nulla, lo sappiamo, è ormai possibile dare per scontato. In un tale processo formativo ritengo vi siano quattro priorità. Anzitutto, è necessario far approfondire e assimilare i temi portanti della teologia della liturgia come fondamento della prassi celebrativa.

    In secondo luogo è importante aiutare a capire il linguaggio liturgico in quanto radicato in una tradizione secolare, soggetto al discernimento ecclesiale, sempre in una logica di sviluppo armonico che sa valorizzare insieme antico e nuovo. Inoltre, è fondamentale introdurre al senso autentico della celebrazione che, in quanto culto spirituale, deve plasmare la vita in ogni suo aspetto, fornendo un nuovo linguaggio -- quello di Cristo -- alla quotidianità. Infine, è indispensabile suscitare un rinnovato amore per ciò che è oggettivo, una convinta e ministeriale adesione al rito, da intendere non come aspetto coercitivo dell'espressività, ma piuttosto come condizione indispensabile per un'espressività autentica e davvero comunicativa del mistero di Cristo celebrato nella Chiesa.

    (L'Osservatore Romano 19 marzo 2011)

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 27/03/2011 20:26

    Liturgia? Spazio a Mons. Guido (e al Papa)


    (EDIT) Effetti speciali all'inaugurazione della IV edizione del Master di II livello in Architettura, Arti Sacre e Liturgia dell'Università Europea di Roma: il Maestro delle Celebrazioni Papali, Mons. Guido Marini propone il suo "Celebrare con Arte il Mistero di Dio", sulla scia di Benedetto XVI. Il blog Maranatha ha già proposto per intero lo scritto, mentre su Sacris Solemniis riportiamo semplicemente qualche assaggio del documento.

    "...La Pietà era stata realizzata da Michelangelo come pala da altare e, dunque, destinata a fare da sfondo all’altare della celebrazione eucaristica. In tal modo il celebrante e l’intera assemblea potevano contemplare il gesto della SS. Vergine, nell’atto di donare il Salvatore alla sua Chiesa durante la celebrazione. Come è bello il richiamo di questo dettaglio artistico! Nella celebrazione della Messa proprio il Signore risorto da morte, nella sua parola, nel suo corpo e nel suo sangue si dona a noi perché possiamo entrare nel mistero della sua vita e, dunque, essere salvati..."
    "...Mi soffermo ancora un istante sulla parola “mistero”. E’ chiaro che con questo termine non si vuole intendere qualche cosa di oscuro, esoterico e inquietante. Si vuole piuttosto individuare l’opera salvifica di Dio, la cui luce è talmente abbagliante da risultare non del tutto comprensibile all’uomo: la ragione umana deve, a un certo punto del cammino, lasciare spazio alla fede per accedere al Vero. E’ proprio tale opera salvifica, come si diceva, che viene celebrata nella liturgia. Non, dunque, l’opera dell’uomo ha il primato nella celebrazione ma l’opera di Dio, l’evento pasquale di morte e risurrezione. Non si vuole certo misconoscere l’importanza dell’agire dell’uomo in liturgia; si vuole solo mettere nella giusta luce il rapporto di necessaria dipendenza dell’agire umano rispetto all’agire del Signore..."
    "...In questo senso l’accoglienza del mistero in vista della trasformazione e della
    conversione è il principale atto cui siamo chiamati nella celebrazione della liturgia. Questa, se così vogliamo chiamarla, è la più vera creatività che deve caratterizzare la vita del singolo e della comunità celebrante. Altre creatività, quando non previste dal rito e, lo si può ben dire, a volte selvagge, distolgono dalla verità della celebrazione e rischiano di essere solo l’espressione di un’auto celebrazione, personale o comunitaria, che perde di vista il soggetto primo della liturgia, che è Dio. In questo contesto non è da sottovalutare la questione inerente le rubriche liturgiche e, più in generale, la normativa che interessa la liturgia. La norma liturgica, infatti, è la custode più prossima del mistero celebrato. Quanto la norma afferma garantisce l’unità rituale e, di conseguenza, è capace di dare espressione alla cattolicità della liturgia della Chiesa..."
    "...Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la
    modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente,
    il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di “sprecare” per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell’arte: dall’architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà ed eroica carità, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio..."
    "...Il valore perenne del gregoriano e della polifonia classica consiste nella loro capacità di farsi esegesi della parola di Dio e, dunque, del mistero celebrato, di essere al servizio della liturgia senza fare della liturgia uno spazio al servizio della musica e del canto. Potremo noi rinunciare a mantenere in vita tali tesori che secoli di storia della Chiesa ci hanno consegnato? Potremo noi fare a meno di attingere ancora oggi a quel patrimonio di spiritualità straordinario? Come sarà mai possibile dare corpo a un più ampio e degno repertorio di canto e di musica per la liturgia se non ci saremo lasciarti educare da ciò che lo deve ispirare?
    Ecco perché dobbiamo conservare nei modi dovuti il latino. Senza dimenticare anche altre componenti di questa lingua liturgica, quale la sua capacità di dare espressione a quella universalità e cattolicità della Chiesa, a cui davvero non è lecito rinunciare..."



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 19/04/2011 17:47
    Benedetto, "maestro di liturgia"




    Mons. Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie

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    per ascoltare....

    Il Papa ci ricorda spesso che la bellezza della Liturgia, per quanto noi riusciamo ad esprimerla, è un modo per rendere presente qui, tra di noi, la bellezza stessa dell'amore di Dio per noi.

    Nell'ambito liturgico, ciò che il Papa sta indicando con la sua parola e con il suo esempio, è l'applicazione compiuta e fedele del Concilio Vaticano II, in sviluppo armonico con tutta la tradizione liturgica precedente della Chiesa. Dal mio punto di vista il Santo Padre è un Maestro di liturgia, per quanto riguarda i contenuti, l'insegnamento e il pensiero, e allo stesso tempo un grande 'liturgo', perché ci insegna l'arte della celebrazione. Benedetto XVI ha mutato la liturgia con il suo stesso stile celebrativo e allo stesso tempo con le sue indicazioni e orientamenti.

    Se c'è una sottolineatura nelle celebrazioni presiedute dal Papa è proprio questa ricerca di andare al cuore e all'essenza della Liturgia, che è il Mistero del Signore celebrato nel quale tutti siamo chiamati ad entrare, in quel clima di adorazione e di preghiera che anche il momento del silenzio contribuisce a creare.

    Questo VI anniversario dell'inizio del Pontificato è sicuramente per me un momento di gioia e anche di gratitudine al Signore, proprio per il fatto che dall'ottobre del 2007 ho avuto questo dono di poter essere chiamato a servire da vicino Benedetto XVI in un aspetto della vita della Chiesa così importante, anche per lo stesso Santo Padre.

    Ci sono tanti momenti che rimangono scritti nella memoria e nel cuore. Ogni celebrazione porta con sé tanti ricordi, ma credo in modo particolare quelli legate ai viaggi papali. Da una parte costituiscono un impegno, anche più gravoso del solito, ma portano con sè tanta gioia spirituale per come il Papa viene accolto, in uno spirito di grande fede.

    DA SOTTOLINEARE UNA RISPOSTA DI MONS GUIDO MARINI:

    Il Papa HA APPLICATO E STA APPLICANDO ALLA LETTERA COME DEVE ESSERE CELEBRATA LA MESSA VOLUTA DALLA RIFORMA DEL CONCILIO .... i sacerdoti e i Vescovi, aggiungiamo noi, dovrebbero così OBBEDIRE AL PAPA IMITANDOLO NEL MODO DI CELEBRARE....

    [Modificato da Caterina63 19/04/2011 17:58]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 30/04/2011 09:53

    mons. Guido Marini: “è indispensabile un rinnovato amore per ciò che è oggettivo”

    Intervento del Maestro delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice sul linguaggio dell’ars celebrandi.


    di Guido Marini -  Iniziare un corso sulla ars celebrandi, trattando il tema del linguaggio della celebrazione liturgica, non è possibile farlo senza richiamare alla memoria il noto passaggio dell’esortazione apostolica Sacramentum caritatis di Benedetto XVI:

    «Altrettanto importante per una giusta ars celebrandi è l’attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti. La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l’essere umano. La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell’ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l’artificiosità di aggiunte inopportune. L’attenzione e l’obbedienza alla struttura propria del rito, mentre esprimono il riconoscimento del carattere di dono dell’Eucaristia, manifestano la volontà del ministro di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile dono» (n. 40).

    Alcuni anni fa, nel 2009, è stata pubblicata una raccolta di contributi sulla liturgia del cardinale Joseph Ratzinger, dal titolo: Davanti al protagonista. Alle radici della liturgia. Si tratta semplicemente di un titolo, non c’è dubbio. Eppure è particolarmente indicativo di ciò che troviamo alle radici del discorso sulla liturgia. Alle radici vi troviamo Gesù Cristo, il Protagonista, il vero e più importante Protagonista della liturgia.

    Attraverso la liturgia, infatti, il Signore continua nella sua Chiesa l’opera della nostra redenzione (cfr. Sacrosanctum concilium, 2). Ciò che è stato nella storia, ovvero il mistero pasquale, il mistero della nostra salvezza, si rende oggi presente nella celebrazione liturgica della Chiesa. In tal modo il Salvatore non è un ricordo del tempo passato, ma è il Vivente che continua la sua azione salvifica nella Chiesa, comunicando la sua vita, che è grazia e anticipo di eternità.

    Nella stessa celebrazione eucaristica, l’assemblea radunata risponde al «Mistero della fede», successivo alla consacrazione, con le parole tanto significative: «Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta». In questa formulazione della liturgia romana ritroviamo descritti i tre momenti propri di ogni celebrazione sacramentale: ovvero, la memoria del passato evento salvifico, la presente azione di grazia nella celebrazione, l’anticipazione della gloria futura. In tal modo, la Chiesa, convocata per la celebrazione liturgica, rinnova ogni volta l’esperienza della verità dell’affermazione paolina: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Ebrei, 13, 9).

    Quel Gesù che ieri, in un preciso momento storico, ha vissuto il mistero della sua incarnazione, passione, morte e risurrezione, è lo stesso Gesù di cui oggi, nel tempo che scorre, si rinnova sacramentalmente il mistero della salvezza, così che tutti possano accedervi personalmente. Ed è sempre lo stesso Gesù che la Chiesa attende tornare nella gloria, pregustando però fin da ora, come anticipazione, la gioia della sua presenza e della sua opera.

    La presenza misteriosa e reale di Cristo nella liturgia e il suo essere protagonista nel rito celebrato richiede al linguaggio liturgico lo splendore della nobile semplicità, secondo la celebre dizione del concilio Vaticano II (cfr. Sacrosanctum concilium, n. 34).

    Ho parlato di «splendore della nobile semplicità», perché questa è l’espressione completa usata dai padri conciliari. In essa è dato riscontrare l’intrinseca relazione tra bellezza, nobiltà, semplicità. Come sempre, ogni indicazione magisteriale deve essere letta e compresa nel contesto più ampio del tema di cui si tratta e in relazione di sviluppo armonico con l’intero insegnamento della Chiesa.

    In tal modo, si vede con chiarezza quanto siano distanti dal vero quelle marcate insistenze nel richiamare una certa semplicità che, a volte, hanno indotto a rendere il rito liturgico sciatto, banale, noioso, insignificante. Si tratta di un modo di intendere la semplicità non fondato sull’insegnamento della Chiesa e la sua grande tradizione liturgica. Per non dire che, in alcune occasioni, un tale modo di considerare la nobile semplicità si traduce in quella che potremmo definire una poco nobile nuova complessità.

    Non si tratta di questo quando la liturgia diventa teatro di trovate soggettive ed estemporanee, con l’inserimento di simboli privi di autentico significato o talmente complessi da dover essere a lungo spiegati?

    Torniamo all’autentica nobile semplicità ascoltando Benedetto XVI, nell’esortazione apostolica postsinodale sull’Eucaristia Sacramentum caritatis:

    «Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor (…) Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore (…) La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra (…) La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la propria natura» (n. 35).

    Le parole del Papa, come sempre, hanno il grande dono della chiarezza. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di minimalismo e di pauperismo nella celebrazione liturgica. E questo, certo, non per fare spettacolo o per un vuoto estetismo. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere semplici, in quanto chiari nel loro svolgimento, nobili e belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di «sprecare» per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell’arte: dall’architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri.

    Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà ed eroica carità, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio. Ascoltiamo ancora Benedetto XVI:

    «Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!» (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008).

    «La bellezza intrinseca della liturgia ha come soggetto proprio il Cristo risorto e glorificato nello Spirito Santo, che include la Chiesa nel suo agire» (Sacramentum caritatis, n. 36). È Benedetto XVI, con queste parole, a ricordarci che la liturgia è azione del Cristo totale e, dunque, anche della Chiesa. Dall’affermazione che la liturgia è azione della Chiesa derivano alcune considerazioni di non poca importanza per quell’essenza della liturgia che vado illustrando. In effetti, quando si dice che la Chiesa è soggetto agente si fa riferimento alla Chiesa tutta, in quanto soggetto vivente che attraversa il tempo, che si realizza nella comunione gerarchica, che è insieme realtà ancora pellegrinante sulla terra e realtà già approdata sulle rive della Gerusalemme celeste.

    Nell’agosto del 2006, a Castel Gandolfo, Benedetto XVI, rispondendo alla domanda di un sacerdote, nel corso di un incontro con il clero della diocesi di Albano, si esprimeva così nello stile discorsivo tipico di un colloquio: «La Liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell’adorazione e dell’annuncio.

    Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mens nella vox della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo interiorizzato questa struttura, compreso questa struttura, assimilato le parole della Liturgia, possiamo entrare in questa interiore consonanza e così non solo parlare con Dio come persone singole ma entrare nel “noi” della Chiesa che prega. E così trasformare anche il nostro “io” entrando nel “noi” della Chiesa, arricchendo, allargando questo “io”, pregando con la Chiesa, con le parole della Chiesa, essendo realmente in colloquio con Dio».

    Entrare nel «noi» della Chiesa che prega. Questo «noi» ci parla di una realtà, la Chiesa appunto, che va al di là dei singoli ministri ordinati e dei singoli fedeli, delle singole comunità e dei singoli gruppi. Perché lì la Chiesa si manifesta e si rende presente nella misura in cui si vive la comunione con la Chiesa intera, quella Chiesa che è cattolica, universale, di una universalità che raggiunge tutti i tempi, tutti i luoghi, e varca la soglia del tempo per lasciarsi raggiungere dall’eternità.

    Ne consegue che fa parte dell’essenza della liturgia il fatto che questa abbia anzitutto il tratto della cattolicità, dove unità e varietà si compongono in armonia così da formare una realtà sostanzialmente unitaria, pur nella legittima diversità delle forme. E poi il tratto della non arbitrarietà, che evita di consegnare alla soggettività del singolo o del gruppo ciò che invece appartiene a tutti come tesoro ricevuto, da custodire e trasmettere. E ancora il tratto della continuità storica, in virtù della quale l’auspicabile sviluppo appare quello di un organismo vivo che non rinnega il proprio passato, attraversando il presente e orientandosi al futuro. E, infine, il tratto della partecipazione alla liturgia del cielo, per il quale è quanto mai appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il cielo si affaccia sulla terra. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, al passaggio della Preghiera eucaristica i, nella quale chiediamo: «Fa’ che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull’altare del cielo».

    Quanto fin qui detto in merito alla liturgia come azione della Chiesa non sarebbe sufficiente se non si aggiungesse il tema della partecipazione. Infatti è proprio la liturgia, intesa come azione della Chiesa, che esige una partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa (cfr. Sacrosanctum concilium, n. 11). Ogni considerazione in merito rischia di essere senza costrutto e fuorviante se il punto di partenza non è l’azione di Cristo e della Chiesa. È proprio questa azione quella che chiede di essere partecipata in modo consapevole, attivo e fruttuoso. E ciò è possibile se si realizza un’autentica comunione del fedele con l’agire della Chiesa e l’agire di Cristo.

    Ma qual è l’agire della Chiesa?

    È l’agire della Sposa che tende a diventare un’unica realtà con Cristo Sposo e con il suo agire. E qual è l’agire di Cristo? La sua offerta di amore al Padre per la nostra salvezza. Di conseguenza, la partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa in liturgia si ha nella misura in cui ciascuno e tutti condividiamo l’azione della Chiesa che tende allo Sposo e, dunque, ci lasciamo coinvolgere dall’azione dello Sposo che è donazione d’amore al Padre per la salvezza del mondo.

    Il tema della partecipazione offre ora l’opportunità di ampliare quanto già detto in merito all’agire di Cristo nella liturgia. Lo facciamo lasciandoci condurre per mano da una fondamentale argomentazione del teologo Ratzinger:

    «Con il termine “actio” riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. Questa definizione era corretta già a partire dalla stessa forma liturgica, poiché nella oratio si svolge ciò che è essenziale alla Liturgia cristiana (…) Questa oratio — la solenne preghiera eucaristica, “il canone” — (…) è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che l’actio umana (…) passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio» (Introduzione allo spirito della Liturgia, pp. 167-168).

    Nella oratio, di conseguenza, si svolge ciò che è essenziale alla liturgia cristiana.

    Ci domandiamo: «Che cosa è questo essenziale che si svolge?» Rispondiamo, seguendo il testo di Ratzinger: «L’agire di Dio».

    «E tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella celebrazione della liturgia. In effetti, ciò che ancora risulta essenziale per la liturgia è che coloro che vi partecipano preghino per condividere lo stesso sacrificio del Signore, il suo atto di adorazione, diventando una solo cosa con lui, vero corpo di Cristo. In altre parole, ciò che è essenziale è che alla fine venga superata la differenza tra l’agire di Cristo e il nostro agire, che vi sia una progressiva armonizzazione tra la sua vita e la nostra vita, tra il suo sacrificio adorante e il nostro, così che vi sia una sola azione, a un tempo sua e nostra. Quanto affermato da san Paolo non può che essere l’indicazione di ciò che è essenziale conseguire in virtù della celebrazione liturgica: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Galati, 2, 19-20)».

    Avviandomi alla conclusione, ritengo importante sottolineare quella che mi pare essere una grave urgenza del nostro tempo, ovvero la necessità della formazione alla liturgia e al suo linguaggio, a tutti i livelli. Nulla, lo sappiamo, è ormai possibile dare per scontato.

    In un tale processo formativo ritengo vi siano quattro priorità.

    Anzitutto, è necessario far approfondire e assimilare i temi portanti della teologia della liturgia come fondamento della prassi celebrativa.

    In secondo luogo è importante aiutare a capire il linguaggio liturgico in quanto radicato in una tradizione secolare, soggetto al discernimento ecclesiale, sempre in una logica di sviluppo armonico che sa valorizzare insieme antico e nuovo.

    Inoltre, è fondamentale introdurre al senso autentico della celebrazione che, in quanto culto spirituale, deve plasmare la vita in ogni suo aspetto, fornendo un nuovo linguaggio — quello di Cristo — alla quotidianità.

    Infine, è indispensabile suscitare un rinnovato amore per ciò che è oggettivo, una convinta e ministeriale adesione al rito, da intendere non come aspetto coercitivo dell’espressività, ma piuttosto come condizione indispensabile per un’espressività autentica e davvero comunicativa del mistero di Cristo celebrato nella Chiesa.  

    2011 L’Osservatore Romano

    Stralci della relazione sul «Linguaggio della celebrazione liturgica» che il maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie ha tenuto il 24 febbraio 2011 in apertura del corso sull’ars celebrandi presso la Pontificia Università della Santa Croce.

    mons Guido Marini


    IL LINGUAGGIO DELLA
    CELEBRAZIONE LITURGICA


    di Mons. Guido Marini
    MAESTRO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE PONTIFICIE

    Conferenza tenuta il 24 febbraio 2011,
    nell'Università Pontificia della Santa Croce - Roma, durante il corso:

    "Ars celebrandi. Premessa per una fruttuosa partecipazione alla celebrazione eucaristica".


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)