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ATTENTI ALLA.... PAPA-LATRIA......

Ultimo Aggiornamento: 18/04/2014 10:42
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12/12/2013 13:24
 
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“tenendosi per mano al mondo, senza assegnarsi più il compito di insegnare ma solo quello di accompagnare, la Chiesa prosegue senza freni nel processo di liquefazione”

di  Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro

fonte: Il Foglio

prttlrSe l’urticante “Questo Papa non ci piace” fosse stato l’incipit di un feuilleton per amanti di talari e vecchi merletti con un tocco mondano che piace anche al cattolico che piace, ora potrebbe trovare epilogo in un gagliardissimo “vissero a lungo felici e contenti”. Dopo tanto vociare, giungerebbe puntuale un travolgente happy end per protagonisti, antagonisti, comprimari e comparse, perché il mondo cattolico d’oggi è fatto così: non ama nulla tanto follemente quanto l’unità. Erede, e se non fosse per la fede incrollabile nel divino “non praevalebunt” verrebbe da dire capolinea, di una storia cresciuta rigogliosa nel sangue dei martiri, non vuole percepire neanche l’eco del conflitto. Brama l’unità, non importa in che cosa e per far cosa, purché nessuno turbi l’acqua cheta in riva alla quale stanno tutti a godersi il pallido sole della pentecoste secolare.

Anche i villani malcreati si vorrebbe tenerli nel recinto, persino quelli che, invece di sdraiarsi sul salvettione in riva allo stagno, non riescono a trattenersi dal tirarci il sasso. Così, nel bel mezzo della polemica, quelle canaglie a prescindere che criticavano Papa Francesco, si son sentite suggerire di accomodare la questione con uno scritto su tutto il bello del pontificato in corso. Per non cadere in tentazioni scismatiche, sarebbe bastato incontrarsi a metà strada come al mercato del bestiame, dove ogni sensale stringe sorridendo la mano all’altro, convinto di averlo fregato. Oppure, a dar retta ad altri, sarebbe stata una gran cosa seguire la massima eterna e perbenino del si fa ma non si dice, opportunamente declinata nel clerical-intellettuale si pensa ma non si scrive. E per altri ancora, secondo cui fino a ieri bisognava adottare lo stile razionale e accademico di Ratzinger, oggi sarebbe meglio essere un po’ gesuiti e un po’ tangueri e domani chissà. Tutto, naturaliter, a maggior gloria di quella benedetta unità.

Come se si trattasse di una questione politica: e invece si tratta di una questione di fede. Come se si trattasse di ritirare una mozione al congresso del partito: e invece si tratta di chiarirsi in famiglia. Qui non si fa la conta delle tessere, si mettono a nudo le anime per amore di Nostro Signore, della sua croce, della Chiesa che è il suo Corpo mistico e del suo Vicario che ora si chiama Francesco. Mettere pubblicamente in questione parole e gesti dell’autorità, specie se è tuo padre, è un atto che scuote fin nelle radici dell’anima, anche quando lo si fa in nome di una verità e di una casa di cui lui è il servus servorum.

 A un padre si può dire sì per amore, per obbedienza, per riverenza, per convinzione, per convenienza e anche per debolezza o per codardia. Ma gli si dice un no cristiano e virile solo per amore. Dire sì, a volte, può essere doloroso, dire no lo è sempre. Dire sì può costare l’incomprensione si chi sta fuori dalla casa, dire di no costa sempre l’incomprensione anche di chi sta dentro. Dire di no al padre in nome del tesoro di cui è custode non è un atto di ribellione orgogliosa, ma premessa a momenti di solitudine e di dubbio in cui consola soltanto il sentirsi comunque dentro casa.

Onorare l’impegno di viri christiani assunto con il battesimo non è privo di spine. E se le spine sono sempre le stesse, invece che creare abitudine e assuefazione, producono un dolore sempre più penetrante e acuto perché sempre più consapevole e gradito. Può darsi che sia questa la prova affidata oggigiorno ai piccoli di casa che si baloccano con le storie di famiglia fatte di insegnamenti tramandati nei secoli, di riti, di preghiere e di ammonimenti. A questi bambini fa male ma non fa scandalo che il padre non si curi delle loro piccole pene e li chiami, ancora una volta, “profeti di sventura”. Continuano a mostrare le loro spine, anche se sanno di infastidire i grandi, perché questo è tutto ciò che sono capaci di fare.

I bambini sono fatti così, non fa niente se si torna ogni volta da capo e ricomincia la solita storia: “Il Concilio Vaticano II” dice Papa Francesco nella sua Esortazione apostolica “ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le conferenze episcopali possono ‘portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente’. Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria”.

Qui giunti, riesce difficile non correre con la mente a certi passi della “Sacrosanctum Concilium”, la Costituzione del Vaticano II in cui l’autorità liturgica di Roma è stata minata con maliziose infiltrazioni di desistenza a beneficio delle esigenze locali. Si ribadiva l’uso del latino, per esempio, e subito dopo si concedeva mano libera all’introduzione del vernacolo e degli usi regionali. Ma, in tal modo, si ponevano le basi teoriche di una creatività che risponde alle esigenze della latitudine e dell’estro personale invece che alle leggi di Dio. La conseguente deriva subita in questi ultimi cinquant’anni dalla lex orandi non sembra un buon viatico per la lex credendi data in pasto alle Conferenze episcopali.

Le assemblee nazionali e regionali dei vescovi si sono trasformate in veri e propri centri di potere ecclesiale che sottraggono autorità e peso a Roma dopo aver annichilito il ruolo del singolo pastore. Aumentarne il peso in campo dottrinale implicherebbe un vulnus irreparabile per la tradizionale trasmissione della fede dal Papa al vescovo nella sua diocesi fino ai parroci e ai fedeli. Interrotta questa catena, che è a servizio della verità e quindi di ogni uomo, si sta assistendo a una sorta di nazionalizzazione del cattolicesimo: un vero e proprio ossimoro religioso, se si pensa che nazionale significa particolare e cattolico significa universale. Ogni Paese, sui temi più disparati, esprime una sua dottrina: talvolta opposta a quella di altri Paesi, non di rado diversa.

Dietro il paravento dell’inculturazione e della legittima attenzione a stili e culture, prende corpo una sorta di federalismo dottrinale. E’ difficile pensare a un progetto diverso quando si legge: “Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale”. Ma sul legame inscindibile tra cultura biblica e pensiero greco non la pensavano allo stesso modo Giovanni Paolo II nella “Fides et ratio” e Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona.

Il virtuoso adagio che vuole la lex credendi accompagnarsi alla lex orandi, di questi tempi ne fa due spine che non possono stare separate. Se nella dottrina sono stati oscurati il rigore della ragione e l’asprezza del dogma, nella liturgia sono stati censurati l’esigenza del sacrificio e lo scandalo brutale della croce. Nel pregare, come nel credere, il protagonista è diventato l’uomo, che è andato a sostituire la centralità di Dio.

Così, mentre nella Messa preconciliare centrata sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario, l’uomo è chiamato a partecipare alla passione di Cristo per meritare, anche se indegno, di essere glorificato con Lui, in quella postconciliare diviene commensale di Dio al banchetto in cui celebra la propria gloria fondata sulla libertà. Nel primo caso il cristiano è chiamato a compatire con Gesù, nel secondo è invitato a collaborare con Dio. Se prima adorava, chiedeva perdono e offriva il proprio nulla davanti al Figlio di Dio sacrificato, ora si limita a rendere grazie della libertà che lo rende somigliante a Dio.

Non è un caso se, tra le molte parti della Messa antica eliminate nel nuovo messale, c’è quella in cui prima di salire all’altare il sacerdote si inchina a chiedere perdono come il pubblicano della parabola del Vangelo di San Luca. Lui, che presta il suo corpo a Cristo, confessa a Dio Onnipotente, alla Beata Maria sempre Vergine, al beato Miche Arcangelo, al beato Giovanni Battista, ai Santi apostoli Pietro e Paolo, a tutti i Santi, al chierichetto inginocchiato al suo fianco, al sacrestano che ha preparato l’altare e a tutti i fedeli compresi i più barabba che ha molto peccato in pensieri, parole e opere “mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”. E ha l’umiltà di farsi confortare anche  dall’ultimo dei barabba che gli risponde: “Il Signore abbia misericordia di te e, rimessi i tuoi peccati, ti conduca alla vita eterna”. Se questi, secondo i nuovi canoni, sono farisei che “dicono preghiere”, viene da chiedersi cosa sia il cristiano d’oggi, privo del senso del peccato e indotto dal nuovo rito a considerare compiaciuto: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano”.

Poi, una volta uscito di chiesa, il fariseo felice di non essere come gli altri peccatori si avvia a patteggiare con lo spirito  mondano: sufficiente e orgoglioso al punto giusto. Questa spina, che i cattolici infanti hanno colto sulla pianta del Vaticano II, ha ridefinito l’antico rapporto Chiesa-mondo. Fino al Concilio, la Chiesa sapeva di dover insegnare una dottrina ostica al vasto campo dell’umanità, che una scrittrice cattolica come Flannery O’Connor chiamava significativamente il territorio del diavolo. Era il mondo come spazio da evangelizzare, ma anche come nemico dichiarato della Chiesa, pericoloso perché impegnato da sempre a combatterla. Lo schema evocava naturalmente la militanza come categoria feriale e ineluttabile del cattolico fervente. Era un modello semplice e lineare, durato quasi duemila anni: la Chiesa insegna, il mondo in parte accoglie, in parte respinge, e così fino alla fine dei tempi. Oggi le posizioni si sono capovolte. La Chiesa si dichiara “in ascolto” del mondo, benigna al cospetto delle sue istanze, bisognosa di imparare, di capire, di comprendere, di cambiare pelle pur di seguire la mondanità in tutte le sue evoluzioni. Scopre di possedere lo stesso sguardo, di avere lo stesso sangue e, fatalmente, si accontenta di fare un po’ di strada insieme.

Così, tenendosi per mano al mondo, senza assegnarsi più il compito di insegnare ma solo quello di accompagnare, la Chiesa prosegue senza freni nel processo di liquefazione. Intimidita da ciò che sta fuori le mura, risulta completamente inerme anche al cospetto dei tradimenti interni. Una vittima perfetta per la collaudata strategia modernista descritta da San Pio X, che non aggredisce frontalmente la dottrina, ma la erode attraverso la tecnica della diluizione. Le verità morali o dogmatiche vengono lasciate decadere e sottaciute, svuotate di significato oggettivo, svaniscono sullo sfondo in dissolvenza, mentre pastori e teologi parlano, parlano, parlano: parlano d’altro e parlano in altro modo. Diffondono il niente sostenuto da un linguaggio approssimativo, evocativo, emozionale che ha esautorato il tradizionale e faticoso linguaggio definitorio, didattico, assertivo. Nulla è dimenticato, ma in realtà tutto è tradito in un limbo un po’ pelagiano e un po’ luterano senza essere mai veramente cattolico.

Spine come questa non sono spuntate improvvisamente con il pontificato di Papa Francesco, ma sarebbe ingenuo tacere che troppi oggi le colgono come fossero i primi fiori di un’altra primavera promessa. In un libro di quarant’anni fa, Jean Madiran definiva fin dal titolo questo fenomeno come “L’eresia del XX secolo”. Una debacle teologica che “si basa sull’immaginario. E’ una mitologia. Non parte da una concezione falsa di natura e grazia ma da un disconoscimento radicale dell’ordine naturale, il quale porta con sé anche un disconoscimento dell’ordine sovrannaturale. Non si fonda su un aspetto della realtà svalorizzandone o sfigurandone altri aspetti: essa si trova tutta intera fuori da ogni realtà, sta in un limbo ideologico verbale. Non disconosce la realtà naturale e non si inganna: la respinge, distoglie da essa le anime per indirizzarle altrove, verso il nulla”.

Il modernismo e i suoi derivati, pur dichiarando l’obiettivo prossimo di una nuova teologia, in realtà, come ha mostrato Karl Rahner, mirano all’impossibilità della teologia. Se attaccano il termine “consustanziale” del simbolo di Nicea non lo fanno per affermare un’altra teologia della Trinità, ma per negarla e sprofondare di conseguenza in un vortice nichilista negando l’intelligibilità del reale. Se i concetti di natura, sostanza e persona cambiano a seconda delle mode filosofiche, la legge naturale finirà per non avere alcuna consistenza immutabile, diventerà espressione della coscienza collettiva. E il cerchio anticristico si sarà chiuso: niente più discorso su Dio e, di conseguenza, niente più discorso sull’uomo e niente più ordine nel mondo. Il programma della rivoluzione.

“La filosofia moderna” dice Madiran “non è in essenza una filosofia, è un atteggiamento religioso al livello della religione naturale, una contro-religione naturale, l’opposto dei primi quattro comandamenti del Decalogo. Essa contesta ogni dipendenza del soggetto pensante e lo stabilisce in una aseità e in una autarchia. E se la filosofia moderna si è sempre più sviluppata nel senso di una prassi, è che non si trattava soltanto di credere o di pretendere, ma, mostruosamente, di ‘far sì’ che il soggetto pensante si facesse autonomo e indipendente. (…) la praxis moderna equivale a dire che le cose dovrebbero essere solo ciò che il soggetto pensante vuole che siano”.

Prima ancora dei fedeli, le vittime di una tale deriva della coscienza nelle lande dell’autonomia sono stati i sacerdoti. Gettati in pasto al mondo senza poterlo abbracciare del tutto per quel “Tu es sacerdos in aeternum”, quel carattere sacramentale impresso una volta per sempre, si sono trovati improvvisamente fuori posto. Fuori sincrono finanche nell’abbigliamento che è andato scimmiottando quello secolare mantenendo un che di clericale che si percepisce anche a occhio laico. Da qui discende la crisi drammatica, fatta di copiosi abbandoni, di gravi e diffusi problemi morali, di crollo verticale delle vocazioni, di smarrimento di identità e di passione.

Non sarà certo impregnandosi dello stesso odore delle pecore che i pastori riprenderanno a guidare il gregge e a difenderlo dai lupi. Il pastore che sa di pecora, al più, può essere un onest’uomo. Ma i fedeli non possono accontentarsi di parroci che siano solo onest’uomini. L’abate Giovanni Battista Chautard in aureo libretto intitolato “L’anima di ogni apostolato” diceva impietosamente: “A sacerdote santo, si dice, corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio”.

Anche per oggi, niente happy end. Ma non fa niente, i bambini ci riprovano, sono fatti così.


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Corriere della Sera, 8 ottobre 2013

  Le parole di Francesco che turbano i cattolici
di Vittorio Messori

Occupandomi, in libri e giornali, di cose cattoliche sin dai tempi di Paolo VI, succede che non pochi – magari sconcertati o confusi- insistano nel chiedermi opinioni sui primi mesi del nuovo pontificato. Di solito me la cavo con una battuta che parafrasa la risposta data ai giornalisti, sull’aereo che tornava dal Brasile, proprio da papa Bergoglio: <<Chi sono io per giudicare?>>. Se siamo tenuti a non giudicare alcuno – parola di Vangelo – figurarsi un pontefice, la cui scelta, per i credenti, è fatta dallo Spirito Santo stesso. Certo, ci furono secoli in cui sembrò che gli uomini si fossero sostituiti al Paràclito : conclavi simoniaci o pilotati dalle grandi potenze dell’epoca, con candidature e veti imposti dalla politica. Eppure, chi conosce davvero la storia della Chiesa – condizione che non è dei troppi faciloni e orecchianti – chi sappia cogliere la dinamica della “lunga durata“ distesa su ben venti secoli, finisce col sorprendersi. Scoprendo, cioè, che san Paolo sembra avere davvero ragione quando afferma che omnia cooperantur in bonum, tutto coopera al bene. Anche quello della Chiesa che, per la fede, non è soltanto guidata dal Cristo ma ne è addirittura il “corpo mistico“.

Comunque, se stiamo al nostro tempo, non c’è bisogno di fidarsi, malgrado tutto, di una Provvidenza che talvolta può sembrarci incomprensibile. Non c’è bisogno, perché a tutti è evidente la qualità umana di coloro che si sono avvicendati negli ultimi decenni nel ruolo di pontefici romani. Per stare soltanto alla successione di questo dopoguerra, ecco le figure di Pacelli, Roncalli, Montini, Luciani,Wojtyla, Ratzinger e, ora, Bergoglio. Chi, pur lontano o avverso alla Chiesa, chi potrà negare che si tratta di personalità di insolito rilievo, unite dalla stessa fede e dalla stesso impegno nel loro ufficio ma con grandi differenze caratteriali, diverse storie e culture, diversi stili pastorali ? Ed è proprio questo il punto che a molti, anche cattolici, non sembra essere chiaro: quale che sia, cioè, l’uomo giunto al papato, quali che siano le nostre consonanze o dissonanze umorali nei suoi confronti, resta pur sempre il successore di Pietro, il garante e custode dell’ortodossia. Dunque, un uomo di Dio non solo da accettare, ma per il quale pregare e al quale ubbidire con rispetto e amore filiale.

Cose che dovrebbero essere chiare oggi soprattutto, con questo Vescovo di Roma “giunto quasi dalla fine del mondo“, uomo dalla personalità prorompente, istintivamente impulsiva e magari autoritaria (ammissione sua, nell’intervista alla Civiltà Cattolica) e segnata, malgrado le origini italiane, da un cultura diversa dalla nostra come quella sudamericana. Un papa, per giunta, venuto – per la prima volta in quasi due secoli – non dal clero secolare ma da un ordine religioso contrassegnato da una formazione difforme da ogni altra, nella Chiesa stessa. Una Compagnia (nome militare di un fondatore venuto dalla vita militare) da cinque secoli amata e detestata , ammirata e temuta. Al punto che, caso unico, finì coll’essere soppressa - “propter bonum Ecclesiae“, dice la bolla -da un papa francescano, per essere poi risuscitata, appena possibile, da un papa benedettino.

Verità impone di ammettere che, soprattutto dando uno sguardo a molti siti e blog sulla Rete, non mancano i nostalgici della sobrietà, del rigore dottrinale, della profondità culturale, del rispetto delle tradizioni, dell’attenzione alla liturgia di Benedetto XVI. E nessuno ha dimenticato il quarto di secolo di quello straordinario ciclone che fu Giovanni Paolo II, di cui già è stata riconosciuta la santità. C’è da capire, i sentimenti sono cosa umanissima. Ma, va ripetuto: ogni confronto tra papi è irrilevante, in una prospettiva cristiana; la sintonia di ogni credente con lui è basata su ben altro che su personali simpatie. La comunità che il successore di Pietro guida e governa ha da sempre e sempre avrà un fine ultimo (e unico) da cui tutto deriva e che è ricordato esplicitamente dal Codice di Diritto Canonico: << Suprema legge della Chiesa è la salvezza delle anime>>. Anche se talvolta sembra che lo si dimentichi, da questo tutto deriva e l’intera istituzione ecclesiale esiste per questo: annunciare la vita eterna promessa dal Vangelo e aiutare ogni uomo - con la predicazione e con i sacramenti - a seguire la strada che porta al traguardo della morte, in realtà nascita alla vita vera. Tutto il resto è solo strumento, sempre riformabile e destinato a passare, a cominciare dalla pur indispensabile burocrazia curiale: Dio stesso ha voluto aver bisogno di una istituzione umana, con i suoi organi e le sue leggi. Ogni papa è, ovviamente convinto di questa priorità della salus animarum ma Francesco, si direbbe, con un’urgenza particolare, tanto da fare di tutto perché clero, religiosi , laici tornino essi pure a esserne consapevoli. Una scelta, questa del pontefice argentino, che sembra dare risultati sorprendenti: per quanto conta, io pure misuro ogni giorno l’’interesse, anzi la simpatia se non addirittura l’adesione di tanti che pur parevano inamovili nella loro indifferenza se non, persino in un laicismo polemico e aggressivo . Il ritorno alla successione naturale , eppur spesso dimenticata (prima la fede, la morale ne verrà come necessaria conseguenza); l’appello alle raisons du coeur prima che alle raisons de la raison, per usare i termini pascaliani; l’uscita dalla gabbia di un credere ridotto a inflessibile norma codificata; le braccia aperte a tutti , ricordando la misericordia del Dio di Gesù, il cui mestiere è perdonare e accogliere i figli, senza eccezione, anche quelli “ prodighi “.Tutto questo sta provocando risultati positivi che richiamano il criterio di valutazione indicato dal Vangelo stesso: << Dai frutti conoscerete l’albero>>. Se il raccolto spirituale si annuncia tanto buono, non sarà altrettanto buona la pianta da cui viene?

Questo ancor vigoroso settantasettenne, con il suo stile da “parroco del mondo“, vuole impegnare la Chiesa intera in quella sfida di rievangelizzazione dell’Occidente che fu centrale anche nel programma pastorale dei suoi due ultimi predecessori.

Nessuna frattura, dunque, bensì continuità, pur nella diversità di temperamenti. Questa Chiesa bimillenaria mostra anche così di non avere alcuna intenzione di ridursi a setta rancorosa, non solo minoritaria ma anche marginale. Con Roma e i suoi vescovi, il mondo intero dovrà ancora misurarsi. Così come accade dai tempi dell’Impero romano, quando tutto cominciò.



   





[Modificato da Caterina63 12/12/2013 23:42]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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