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Cari Vescovi, vi supplichiamo, non tacete più, gridate dai tetti la Verità (3)

Ultimo Aggiornamento: 05/11/2015 18:05
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15/09/2015 10:12
 
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L’espressione «dittatura del relativismo» è del card. Joseph Ratzinger, che la utilizzò nell’omelia durante la Messa pro eligendo Romano Pontifice; non è priva di importanza storico-dottrinale, in quanto si trattava di un discorso dal carattere programmatico, pronunciato nell’imminenza dell’elezione del porporato tedesco al soglio pontificio (2005). L’utilizzo di questa espressione è poi divenuta una costante nel magistero di Benedetto XVI , e oggi, quando il timone della Barca di Pietro è passato nelle mani di papa Francesco (2013), spetta certamente a costui di farsi carico dell’eredità pastorale che il suo predecessore gli ha lasciato . Io qui voglio però sottolineare come spetti a tutti i credenti, con il Papa e assecondando le sue direttive dottrinali, di reagire di fronte alla propaganda del relativismo e di resistere alla pressione mediatica con la quale esso minaccia di rendere difficile, se non impossibile, la l’annuncio e la testimonianza della verità di Cristo nella società civile.
 
L’essenza antimetafisica del relativismo

Il relativismo consiste essenzialmente nell’affermare che ogni principio metafisico, ogni tesi teoretica, ogni valore morale è “figlio del suo tempo”, è relativo agli interessi di un ceto sociale, è espressione di una tradizione particolare, è insomma di per sé contingente e transitorio, e quindi non può essere mai un limite al progresso democratico e tecnologico né può essere mai addotto come motivo sufficiente per opporsi all’istituzione di nuovi “diritti civili” e di nuove esigenze di “riforma” degli istituti giuridici. Il relativismo consiste, in altri termini, in una giustificazione ideologica (retorica) di un processo politico mondiale che mira a eliminare ciò che resta dell’ordine naturale, ossia la religione naturale, il diritto naturale, la famiglia naturale, la procreazione naturale, la differenza sessuale naturale, la naturale gerarchia delle funzioni sociali. Il relativismo non si può dunque comprendere e apprezzare come si possono e si devono devono comprendere e apprezzare tutte le tesi di vera e propria filosofia (ossia, basate su principi di logica e di metafisica), ma va inteso piuttosto come una prassi. 

La prassi che strumentalmente (per il procacciamento del consenso delle masse) utilizza concetti e ragionamenti filosofici si chiama, stando al lessico della moderna sociologia della conoscenza, “ideologia”. 

I discorsi ideologici non rivelano per principio i criteri di verità dai quali partono, ma questi criteri inevitabilmente ci sono, perché la critica – in questo caso la critica del diritto naturale e della religione rivelata – presuppone un criterio assunto fin dal principio come verità assoluta da cui dedurre l’ammissibilità di ogni altra ipotesi di verità . Ma i discorsi ideologici non possono nascondere del tutto gli interessi materiali e le finalità di potere che li ispirano. La filosofia, quando è fedele alla sua missione critica e sapienziale, è sempre in grado di smascherare questi interessi materiali e queste finalità di potere, come fece Platone nei riguardi dei Sofisti. 
Oggi l’analisi filosofica dei discorsi di stampo relativistico (nei media, dalla cattedre universitarie, nei parlamenti, nei tribunali, nelle corti costituzionali) è sempre in grado di rilevare il vero obiettivo che i propagandisti dell’irrazionalità si sono prefissi, ossia la definitiva “morte di Dio” in ogni spazio culturale esistente di fatto nelle società occidentali.

Da almeno tre secoli il progetto antiteistico non si limita a negare l’esistenza di Dio con argomenti ricavati dall’agnosticismo kantiano oppure dal materialismo dialettico marxista o dall’evoluzionismo darwiniano (argomenti, tuti questi, privi di reale consistenza teoretica) ma mira a squalificare la fede nella rivelazione divina, riducendola ad appartenenza sociologica, ad affidamento a una tradizione o ad altre forme di opzione volontaristica: insomma, la confusa e contraddittoria polemica contro il “dogmatismo” della metafisica teista e i “praeambula fidei” altro non è se non il tentativo (già adesso in parte riuscito) di imporre agli stessi credenti l’idea che la loro fede sia razionalmente infondata, o che comunque non riguardi la verità della parola di Dio, espressa formalmente dai dogmi .
 
È dunque il valore aletico del dogma l’obiettivo finale della polemica anticristiana dei fautori del relativismo. 

Sicché appare evidente che la “dittatura del relativismo” attenta realmente alla fede cattolica: sia dall’esterno, con la propaganda dell’ateismo (e del secolarismo e con la polemica antidogmatica (in Italia ne sono alfieri Gianni Vattimo, Paolo Flores d’Arcais, Giulio Giorello, Piergiorgio Odifreddi; in America, Richard Rorty); sia all’interno, con l’imposizione, anche dall’alto di talune cattedre episcopali, di una teoria eretica circa la fede, la quale non richiederebbe alcuna certezza, ma anzi l’umiltà di non avere certezze da offrire agli altri (con il pretesto che ciò significherebbe mancare di rispetto verso chi non crede, presentandosi come superiori o migliori).
Così compreso nelle sue motivazioni profonde, il relativismo, con la sua pervasività mediatica e la sua effettiva dittatura istituzionale, legislativa e burocratica, è il maggior attentato alla verità cattolica, la quale ― per questo, come per tanti altri motivi ― necessita di una efficace difesa sul piano scientifico-culturale. 
 
Presupposto essenziale di questa difesa (apologia) è l’aver compreso a fondo, innanzitutto, l’essenza eminentemente razionale della dottrina cristiana, e poi anche l’aver saputo individuare da quale parte essa viene contestata. Nei discorsi di Benedetto XVI ci sono indicazioni precise e tecnicamente inappuntabili sui termini do questa dialettica: da una parte, appunto, il messaggio cristiano, che si presenta legittimamente come l’unica verità che salva; dall’altra, la reazione neopagana, che pretende di fornire argomenti razionalmente validi (filosofici, antropologici, scientifici, storici) con i quali si dimostrerebbe la non-credibilità del cristianesimo. 

Questa reazione neopagana, peraltro, si presenta con i connotati più vistosi della modernità occidentale (il soggettivismo, l’intellettualismo illuministico, l’estetismo romantico, lo scientismo neopositivistico, il pragmatismo politico, sia conservatore che rivoluzionario), ma non è affatto dissimile dall’antica reazione pagana, quella che si servì della filosofia stoica, epicurea e neoplatonica per squalificare la religione cristiana proprio sul piano della verità, come quando Celso scrisse il suo Discorso vero (Ho alethes logos), volendo dimostrare che i principi metafisici e morali del dogma cristiano (soprattutto l’idea di creazione del nulla e di libertà nell’incontro tra Dio e l’uomo) erano incompatibili con la perfetta razionalità ellenistica.

Anche oggi, la critica del cristianesimo viene condotta da gruppi di pressione ideologica che si servono della filosofia per smentire il cristianesimo sul piano della verità: la differenza, rispetto all’epoca antica, è che oggi la polemica contro la pretese di verità del cristianesimo viene condotta, paradossalmente, con argomenti che si riducono alla negazione di ogni verità. 

Negazione solo retorica, non effettivamente pensata e argomentata, come presto dirò. Gli argomenti sono tanti e diversi l’uno dall’altro, anzi spesso incompatibili l’uno con l’altro (il che conferma il loro uso meramente retorico, ossia strumentale): viene utilizzato, di volta in volta, il soggettivismo di Descartes oppure lo scetticismo di Hume, il fenomenismo di Kant, la dialettica di Hegel, l’irrazionalismo di Kierkegaard, l’antiteismo di Nietzsche, l’empirismo logico del Circolo di Vienna, il materialismo dialettico di Marx-Engels, il pragmatismo di James, la fenomenologia di Husserl, l’esistenzialismo di Sartre, l’ontologia esistenziale di Heidegger, l’ermeneutica di Gadamer. 

Il “pensiero debole” di Vattimo è oggi, in Italia (ma anche negli Stati Uniti, grazie alla collaborazione di Richard Rorty e della Columbia University), l’espressione più completa dell’assemblaggio di tutte queste categorie filosofiche , con l’inevitabile esito di un’incessante produzione di discorsi intrinsecamente contraddittori (ma di questo si accorgono solo quei pochi che si sottraggono al fascino ambiguo della retorica, perché dai filosofi si aspettano ragionamenti convincenti).
 
Si può e si deve parlare di “dittatura”. Prenderne coscienza è la premessa necessaria per una resistenza attiva

A taluni non è piaciuto (è sembrato esagerato, è stato etichettato come ingiustificato allarmismo e come retorico vittimismo) il termine “dittatura” applicato da Ratzinger all’ideologia del relativismo. Ma anche un intellettuale come Marcello Veneziani, che non amerebbe essere definito “cattolico”, ha ancora recentemente fatto delle considerazioni (riguardanti in particolare la questione giudiziaria in Italia) che confermano il legame intrinseco tra l’ideologia del relativismo e l’istaurazione di sistemi di potere politico di stampo dittatoriale: "Quando cadono i principi fondamentali di una civiltà, quando si respinge ogni verità oggettiva, e non c'è più una morale condivisa, una religione rispettata, un comune amor patrio a cui rispondere, allora l'unico criterio supremo che stabilisce i confini del bene e del male e le relative sanzioni è la Legge. In teoria, la legge è un argine al male. Ma in una società relativista che non crede più in niente, chi amministra la Legge, chi decide e sentenzia in suo nome, dispone di un potere assoluto, irrevocabile e autonomo che spaventa. Risponde solo a se stesso, in quanto è la stessa magistratura a interpretare la legge. L'unica differenza che c'è tra il potere dei magistrati e il potere degli ayatollah è che questi decidono e agiscono nel nome di una religione millenaria, radicata e largamente condivisa dal popolo su cui esercitano la loro autorità".
 
I magistrati, invece, sono la voce e il bastone di una setta che dispone del monopolio della forza, cioè il potere di revocare libertà, diritti e proprietà secondo la loro indiscutibile interpretazione della Legge. I confini tra le prove e gli indizi vengono superati a loro illimitata discrezione, e così quelli tra testimoni e imputati, se i primi non confermano i dettami del magistrato; le garanzie e i diritti elementari non contano rispetto ai loro responsi sovrani e non contano nemmeno gli effetti pubblici, politici, economici, che essi producono con le loro sciagurate sentenze. Possono sfasciare imprese e perfino economie nazionali, governi, alleanze, partiti, famiglie e persone.

L'arbitrio nel nome della Legge è il peggiore degli arbitri perché è ammantato di oggettività e di obbligatorietà, non è sottoposto a nessun vincolo se non la legge da loro stessi interpretata e amministrata. Talvolta il dispotismo giudiziario viene esteso ad altri enti, come le agenzie delle entrate quando possono usare poteri enormi in materia di controllo, sanzione, pignoramenti e interessi di mora. Gli effetti anche in quel caso sono devastanti. Non credo che i magistrati siano una specie malefica, quasi un'etnia feroce e una razza padrona. Sono nella media. Così come non credo che le agenzie di prelievo siano guidate da vampiri malvagi. Il problema è che se in una società incarognita e nichilista come la nostra che ha perso i confini del bene e del male, dove tutto è soggettivo e ognuno si stabilisce le regole di vita, dai a qualcuno un potere smisurato, l'abuso di potere è pressoché inevitabile. 

È questo che rende particolarmente efferata e nefasta la loro azione al riparo da chiunque contesti la facoltà, il metodo e il merito delle loro decisioni» . “Dittatura”, in fondo, vuol dire violenza: la legge della forza che sostituisce nei fatti la forza della legge; non più iussum quia iustum ma iustum quia iussum. 
È proprio il contrario di quello che vorrebbe far credere un relativista esemplare come Gianni Vattimo quando sostiene che la pretesa di una verità assoluta, quale che sia, porta alla violenza.
 
Il dovere di resistere

Se l’espressione “dittatura”, usata da Ratzinger, aveva un senso preciso- e chi ne abbia seguito gli insegnamenti non può dubitare che ce l’avesse –, allora la reazione dei credenti – ognuno nel suo proprio ambito di attività civile, ed eventualmente anche ecclesiale – non può che essere designata come “resistenza”: resistenza a un trend ormai non più solo occidentale ma addirittura globale di riforme legislative (soprattutto in materia di diritto di famiglia e di tutela dei nascituri, dei minori e degli anziani) che rilevano il disegno di eliminare dalla coscienza pubblica la nozione di legge naturale, anzi l’idea stessa che le cose tutte siano create da Dio e abbiano una “natura” voluta dal Creatore e quindi vadano gestite dall’uomo, lì dove egli può intervenire, nel rispetto dell’ordine creato. 

Il sovvertimento dell’ordine sociale e del diritto positivo in quelle materie che Benedetto XVI indicava come particolarmente esposte al relativismo giuridico (egli, si ricorderà, ammoniva in cattolici che operano nella sfera politica a considerarle come connesse a «principi non negoziabili») appare chiaramente come un tentativo dell’ideologia relativistica di ignorare nei discorsi e di distruggere nei fatti l’«opera di Dio» (opus creationis e opus redemptionis), quella che i Padri della Chiesa d’Oriente chiamavano l’oikonomia. Si tratta, insomma, non tanto di ingenuo ateismo professato dalle masse secolarizzate, quanto di vero e proprio antiteismo (un tentativo folle di “uccidere Dio” che appare, alla luce della Rivelazione, come tipicamente satanico, quale che sia di fatto la consapevolezza di chi lo attua).

In questa prospettiva storico-cultuale, la difesa scientifica della verità cattolica richiede di smentire sistematicamente le pretese di ragione, di razionalità e di ragionevolezza del relativismo. 

La razionalità sta tutta dalla parte della verità cattolica: sia perché è dimostrabile e dimostrato che essa è razionalmente credibile, sia anche perché l’accettazione dei misteri rivelati, ossia la fede dei credenti in Cristo, poggia su ragioni personali che hanno tutte il crisma della piena razionalità, anche se appartengono alla coscienza del singolo. 

I credenti hanno dunque il diritto e il dovere di proclamare la dottrina rivelata da Dio come assolutamente vera, anzi come l’unica verità che salva. Ma tutto ciò comporta che ci siano anche delle verità naturali, con carattere assoluto, che rendono possibile comprendere e accettare la rivelazione divina: sono quelle verità che Tommaso d’Aquino ha chiamato «praeambula fidei». 

Esse coincidono con quelle evidenze naturali, innegabili, che io chiamo, con un termine moderno, il “senso comune”.
Esse consentono di individuare nella conoscenza umana una gerarchia, una struttura consequenziale, per cui una verità presuppone un’altra come sua condizione di possibilità, fino ad arrivare, appunto, alle verità originarie del senso comune. 

Contro di esse, nessuna tesi può essere presa per vera ma è da considerarsi falsa; senza di esse, una tesi può essere solo ipotetica, ossia è da considerarsi come mera opinione soggettiva o di gruppo. 
L’opinione, questa sì, è il campo del relativo. Ma il relativo non annulla l’assoluto, anzi, lo presuppone. Ecco allora fissare le leggi fondamentali della logica aletica

Ora, dunque, la logica aletica fa comprendere che le certezze del senso comune e i primi principi sono di fatto alla base del pensiero umano, e quindi sono la premessa, almeno implicita, di ogni tesi, di ogni affermazione, di ogni ragionamento. Ma la volontà di negare l’evidenza può portare a negare che ci sia una verità assoluta in qualche ambito della conoscenza umana. 

Di qui la contraddittorietà intrinseca a ogni forma di relativismo. 

In ogni momento del suo ragionamento, il fautore del relativismo nega ciò che prima ha affermato e afferma ciò che prima ha negato. Ma la contraddizione sta proprio nell’affermazione assoluta della relatività (storica, economica, culturale) di ogni pretesa di verità, il che costituisce logicamente un self-denying principle. 

Così la logica aletica viene confermata dalla logica pragmatica. In polemica con il cristianesimo, il fautore del relativismo nega per principio che si possa sostenere e annunciare una verità assoluta riguardo a Dio (che è innegabilmente l’Assoluto), ma poi difende il fanatismo politico-religioso dell’Islam, censurato solo occasionalmente, ad esempio quando si tratta di omologare il “fondamentalismo islamico” al “fondamentalismo cattolico” (come facevano i Radicali con lo slogan: “No Taleban, no Vatican!”); non solo, ma impone all’opinione pubblica, con la perentorietà e l’assolutezza che sono tipiche del fanatismo religioso, tesi politiche di per sé solo opinabili, nel migliore dei casi. 

Già il Santo papa Giovanni Paolo II, sollecito dell’ordine politico mondiale basato sul rispetto dei dritti e la soluzione pacifica dei conflitti non esitò a rilevare: «Chi uccide con atti terroristici coltiva sentimenti di disprezzo verso l'umanità, manifestando disperazione nei confronti della vita e del futuro : tutto, in questa prospettiva, può essere odiato e distrutto. Il terrorista ritiene che la verità in cui crede o la sofferenza patita siano talmente assolute da legittimarlo a reagire distruggendo anche vite umane innocenti» .
 
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  GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la Giornata mondiale della pace dell’anno 2002, § 6-8.




Il cardinale Ouellet si oppone alla riforma sulla comunione ai divorziati

 
Ancora una voce autorevole che si oppone alla famigerata Linea Kasper.
Link alle altre opere dalle firme illustri: qui - qui - qui - qui - qui -qui.  

Canadian Catholic News 10 Settembre 2015 - In un libro appena pubblicato il cardinale canadese Marc Ouellet ha versato acqua fredda sulla questione dell'ammissibilità alla comunione per i cattolici divorziati risposati da parte della Chiesa.
 
Ouellet, uno dei prelati di più alto rango in Vaticano, Cardinale Prefetto della Congregazione per i Vescovi, ha pubblicato una traduzione in inglese di Mistero e sacramento dell'amore: Una teologia del Matrimonio e della Famiglia per la Nuova Evangelizzazione. Il libro è uscito in italiano nel 2007, quando Ouellet era arcivescovo di Québec e primate del Canada e successivamente pubblicato in francese. L'edizione aggiornata inglese arriva alla luce delle edizioni 2014 e 2015 del Sinodo sulla Famiglia.
 
Il tema del divorzio e della comunione dovrebbe essere di primo piano quando i vescovi si riuniranno a Roma il mese prossimo per un Sinodo ordinario che riprenderà le discussioni sulle questioni riguardanti la famiglia iniziate lo scorso autunno.
Il libro di Ouellet non offre alcun supporto a coloro che, come il cardinale tedesco Walter Kasper, hanno proposto per i cattolici divorziati risposati un percorso penitenziale per ricevere la comunione. Neppure è di supporto per i teologi che hanno sostenuto una maggiore apertura alle unioni dello stesso sesso.


Il libro spiega come si è evoluta la dottrina a partire dal Vaticano II, ma dà poche speranze a coloro che credono che la Chiesa ha bisogno di 'aprire' in ordine alla comunione per coloro che vivono relazioni irregolari.
Scrive Ouellet: Per la Chiesa, «non è questione di essere più o meno 'misericordiosa' per quanto riguarda le persone in situazioni irregolari, ma di prendere sul serio la verità dei sacramenti (i doni dello Sposo) e la loro dimensione missionaria».
Egli ha detto che la comunione non è solo nutrimento spirituale, ma è anche «un segno oggettivo che esprime sacramentalmente l'unione personale con Cristo, anzi è testimoniare Cristo nel mondo».
Scrive inoltre: «Coloro che sono divorziati risposati si trovano in una situazione che contraddice obiettivamente il legame ecclesiale inscindibile che hanno espresso solennemente davanti alla comunità».
Allo stesso tempo, Ouellet esorta la Chiesa ad aiutare le persone in situazioni irregolari per trovare «altri mezzi per esprimere la propria fede e l'appartenenza alla comunità».
L'Arcivescovo Terrence Prendergast di Ottawa, che ha approvato il libro, ha detto che spera che avrà influenza sui partecipanti al Sinodo di ottobre.
Prendergast in un'intervista via e-mail ha detto: «Il Sinodo sulla famiglia sia lo scorso anno che il prossimo mese di ottobre ha a che fare con le numerose sfide poste all'unità basilare della cellula fondamentale della società e della coppia al suo interno». «Durante il suo pontificato, san Giovanni Paolo II ha prodotto bellissimi scritti sulla famiglia e il loro valore resta immutato».
Ha quindi dichiarato: «Spero che i delegati sinodali porteranno questa sintesi a supporto delle questioni che cercano di affrontare, questioni che tendono ad essere inquadrate in categorie semplicemente sociologiche».
Prendergast ha elogiato l'intuizione di Ouellet su «L'amore trinitario che discende e tocca la Terra e la vita delle persone, in particolare di coloro che sono chiamati al matrimonio». Ha detto inoltre: «Questo è un brillante tour-de-force che può dare speranza a persone che a volte vedono nel matrimonio e nella vita familiare solo rottura, lotte, delusioni e sconfitte».
L' Arcivescovo di Montreal Christian Lépine, esperto sulla teologia del corpo di san Giovanni Paolo II, ha detto che
il libro di Ouellet è pieno di speranza perché mette «Cristo al centro; la Santissima Trinità al centro». «Alla fine si tratta di Gesù Cristo e del piano di Dio», «Questo libro vuole aiutarci ad accogliere con favore il piano di Dio nella nostra vita. In questo senso si tratta di un libro molto prezioso, e di un tema importante».
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]






Dichiarazione di Mons. Huonder dopo l'accusa di omofobia

 
È apparsa sul sito della diocesi di Coira(Svizzera) la traduzione in italiano della seconda dichiarazione del vescovo mons. Vitus Huonder riguardo all'accusa di omofobia rivoltagli da una lobby gay, la PinkCross, in seguito alla sua citazione, durante una conferenza teologica a Fulda (Germania) avvenuta durante l'estate, di alcuni passaggi biblici dal libro del Levitico riguardanti l'omosessualità.
Egli contestualizza con precisione il discorso da lui fatto, spiega e ribadisce la sua aderenza alla dottrina della Chiesa Cattolica. 
E formula le sue scuse verso le persone che si sono sentite offese, riconoscendo anche delle "dimenticanze" che di certo non saranno molto gradite ai suoi accusatori, i quali ben si guardano di avventarsi in un simil modo contro un qualche rappresentante islamico, per evitare di venirne brutalizzati ancor di più di quel già normalmente sono.
Emblematico del clima che si respira nelle Conferenze Episcopali. Ma, quanto a mond. Huonder, è doveroso precisare:



C'è chi chiede scusa per ciò che ha detto come se ciò non fosse stato giusto e vero, con atteggiamento pavido e insicuro, ritrattando, facendo marcia indietro. Non è certo il caso di mons. Huonder! Però c'è anche chi chiede sì scusa, ma lo fa nel contempo confermando, sottolineando e e approfondendo i medesimi principi già espressi prima.
Perché dunque le parole di scusa? Perché oltre a sostenere una causa e ad affermare dei sacrosanti principi tiene presente le persone di cui potrebbe aver urtato la sensibilità. Perché quella verità affermata e poi confermata e ancor meglio spiegata è proprio per loro, soprattutto per quelle persone che hanno reagito, non certo fine a se stessa.
Come dice il proverbio "la verità offende", la verità può non piacere affatto anche se in realtà è l'unica vera medicina. Chi la somministra con autorevolezza è sicuro di questo, e nel contempo è comprensivo; è un vero pastore, e in quanto tale non solo contrappone la verità alla menzogna come ben si fa in un dibattito culturale, ma offre la cura per la salvezza delle anime, ben conscio del dolore che un salvifico bisturi come la parola di Dio può provocare. Leggendo attentamente la lettera del vescovo di Coira non si può non notare questa sua solerte cura pastorale nel prescrivere e raccomandare la medicina e fornire anche il foglietto illustrativo.
D'altronde questa è esperienza comune nel vissuto spicciolo di ognuno di noi. Più di una volta il mio medico mi ha detto "scusa, adesso dovrò farti un po' male, ma poi starai meglio". Se il mio medico si limitasse a citarmi un capitolo di un libro di medicina non farebbe il suo mestiere di medico, ma piuttosto di formatore accademico. Nella fattispecie a che mi gioverebbe? (Marius)


A tutti i sacerdoti, diaconi e alle collaboratrici e ai collaboratori nella pastorale della diocesi di Coira

7000 Coira, 12 agosto 2015
 

Sulla relazione tenuta a Fulda il 31 luglio 2015

Cari confratelli nel servizio sacerdotale e diaconale,
Cari collaboratrici e collaboratori nella cura d’anime,

Vi scrivo riguardo ad una questione incresciosa, la quale indirettamente tocca anche Voi. Come avete potuto apprendere dai media, due citazioni della mia relazione tenuta a Fulda il 31 luglio 2015 sono state interpretate come „diffamazione“ contro persone con sentimenti omosessuali. La mia dichiarazione del 3 agosto 2015 purtroppo non è riuscita a cambiare di molto questa interpretazione.

Ovviamente non sostengo la richiesta veterotestamentaria della pena di morte per persone con sentimenti omosessuali. E neanche in forma celata mediante accurate riflessioni teologiche, di cui sembra volermisi accusare. Le citazioni scelte non sono un’espressione del mio modo di pensare, piuttosto invece della mia convinzione che nel quadro di una riflessione teologica non può essere escluso nessun passo della Sacra Scrittura, solo perché crea difficoltà nel contesto odierno. Ho redatto un testo di 22 pagine con 16 note in calce, in parte piuttosto estese con note bibliografiche. In tutto vengono citati integralmente 11 passi dell’Antico e del Nuovo Testamento con un breve commento per ognuno di essi. Questo grande numero di citazioni mi è parso doveroso dato che primo si trattava di una relazione orale e secondo non volevo censurare l’Antico Testamento. Per questo ho inserito al sesto posto anche una citazione integrale dei passi veterotestamentari del Levitico (Lv) 18,22 e 20,13.

Dopo una frase introduttiva, ho suddiviso il commento di questi versetti in due parti. La prima parte riguarda la valutazione teologica di pratiche omosessuali nel quadro dell’Antico Testamento, la seconda dell’agire della Chiesa dal punto di vista odierno, cristiano (neotestamentario).
 
La valutazione teologica delle pratiche omosessuali, come è noto, è attualmente oggetto di discussione nella Chiesa cattolica. A proposito, si parla della necessità di una „svolta pastorale“, come espresso anche nel documento preparatorio per il prossimo Sinodo dei Vescovi (Domande per la recezione e l’approfondimento della Relatio Synodi, Introduzione prima delle domande 23 sgg.) a questo che alludevo esprimendo che i due brani biblici basterebbero a „dare alla questione dell’omosessualità la svolta giusta, dal punto di vista della fede“, una formulazione che non può essere compresa al di fuori del contesto ecclesiale e pertanto è stata infelice.
Con questa formulazione non intendevo dire che questi brani della Bibbia rappresentano una direttiva per l’agire della Chiesa, come se noi cristiani dovessimo orientarci a questi passi della Bibbia per quanto riguarda il nostro modo di pensare. Volevo mostrare che nel Levitico vi è un rigetto drastico delle pratiche omosessuali e che noi come cristiani dobbiamo essere coscienti di questo. Se nella Chiesa si cerca una svolta pastorale, allora è opportuna una riflessione incensurata anche riguardo all’Antico Testamento – non in ultimo per illustrare che cosa ci hanno dato Cristo, il Nuovo Testamento e la tradizione della Chiesa.
 
Solo dopo queste riflessioni teologiche sono passato, nel paragrafo successivo, al tema dell’agire della Chiesa, della cura d’anime. Lì specifico che questo agire deve orientarsi all’ordine divino. Si tratta di liberare „con amore pastorale“ gli uomini dallo stato di corruzione della natura alla vita come figli della luce (Ef 5,8). A questo fine la fede è un aiuto per tutti, anche per le persone con sentimenti omosessuali.

A causa di questa bipartizione del mio ragionamento in riflessione teologica e dichiarazioni sull’agire della Chiesa, era chiaro per me che l’agire della Chiesa è sempre un aiuto alla vita e non porta la morte. Questo agire della Chiesa è contraddistinto da compassione e delicatezza e non da degradazione. Questo corrisponde anche al „Catechismo della Chiesa Cattolica“ (nn. 2357-2359), che cito a proposito nella nota n. 10.

Nel frattempo vedo che i passi del Levitico possono essere fraintesi come un mio personale modo di pensare e che si possa pensare che io voglia, come vescovo, reintrodurre la pena di morte per le pratiche omosessuali. Ovviamente per me è sempre stato chiaro che il discorso drastico della pena di morte mostri il drastico rifiuto veterotestamentario di una pratica e che questo discorso non va interpretato come una direttiva del nostro agire pastorale nella Chiesa.

Come cristiani siamo chiamati ad interpretare l’Antico Testamento dal punto di vista dell’adempimento in Cristo. E per me, come vescovo, vi è ovviamente una fondamentale distinzione tra valutazione teologica di un atto dell’uomo e l’agire della Chiesa per la cura delle anime. Questa è una distinzione alla quale mi attengo, con il „Catechismo della Chiesa Cattolica“, che è riconosciuto da tutti i vescovi in Svizzera.

Anche riguardo all’omosessualità il Catechismo infatti fa questa distinzione, quando da un lato afferma che atti omosessuali „in nessun caso possono essere approvati“ (valutazione ecclesiale, n. 2357), e dall’altro rileva che dobbiamo evitare „ogni marchio di ingiusta discriminazione“ (agire ecclesiale, n. 2358). Ed è assolutamente ovvio per me, che di fronte alla tensione tra la valutazione teologica degli atti e l’agire pastorale della Chiesa bisogna comportarsi come espresso nel brano dalla Lettera agli Efesini (5,8) citato nella mia relazione: la Chiesa vuole aiutare tutte le persone, in qualsiasi situazione si trovino, a vivere come figli della luce.
Conformemente a ciò, anche nel „Catechismo della Chiesa Cattolica“ (n. 2359) si legge: „Le persone omosessuali sono chiamate alla castità. Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un’amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana“.

Ciò nondimeno desidero chiedere scusa a tutte le persone che si sono sentite offese dalla mia relazione, soprattutto alle persone con sentimenti omosessuali. Desidero assicurare loro che la Chiesa non vuole emarginare nessuno, anzi, vuole essere disponibile per tutti, nel senso come sopra descritto. Anche se la mia relazione era diretta ad un pubblico strettamente legato alla Chiesa ed esperto in questioni teologiche, è stato un errore − durante l’elaborazione del testo e la valutazione delle sue eventuali ripercussioni − pensare solamente al livello accademico-riflessivo o ad un dibattito tra esperti all’interno della Chiesa in vista del Sinodo dei Vescovi.
Avrei anche dovuto prendere maggiormente in considerazione l’attuale situazione sociale globale, come ad esempio le atrocità dello „Stato Islamico“ o i crimini di altri gruppi, che si rivolgono in maniera brutale non solo contro i cristiani e persone con vedute diverse, ma anche contro gli omosessuali. È stato inoltre un errore elaborare il testo durante il periodo delle vacanze estive e non aver così fatto rileggere il testo da nessuno. Sicuramente i miei collaboratori mi avrebbero avvertito circa i pericoli.
 
Cari collaboratori nel servizio sacerdotale e diaconale, care collaboratrici e collaboratori nella cura d’anime: chiedo la vostra preghiera per il prossimo Sinodo dei Vescovi, per tutti coloro che vi parteciperanno e soprattutto per Papa Francesco, affinché si possano tutti aprire in modo nuovo all’azione dello Spirito Santo. La Chiesa così potrà trovare, anche dinnanzi alle imminenti difficili questioni, mezzi e vie per riproporre ai nostri tempi nuovamente, integralmente e in modo comprensibile il Vangelo donatoci da nostro Signore Gesù Cristo.
Vi saluto cordialmente insieme ai miei più sinceri auguri di benedizioni,

+ Vitus Huonder
Vescovo di Coira




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Card. Menichelli: accompagnare senza “condonismi” misericordiosi

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menichelli“Va sottolineato che misericordia e verità non possono né confliggere, né separarsi, dal momento che nascono insieme dalla persona di Gesù Cristo e svelano la forza della sua Pasqua. La misericordia di Cristo unita alla parola di salvezza aiuterà la Chiesa, chiamata a annunciarle e a viverle, a evitare “condonismi” misericordiosi e affermare scelte di verità.” Con queste parole il cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona-Osimo, nonché padre sinodale di fresca nomina pontificia, ha risposto alla domanda sul rapporto tra misericordia e verità in vista del prossimo sinodo di ottobre.

Al quotidiano Avvenire Menichelli ha anche ricordato che “non è assolutamente pensabile che, a conclusione del Sinodo, vengano presentate delle decisioni.” Il Sinodo, ha detto “è chiamato a offrire al Santo Padre orientamenti e approfondimenti dai quali solo lui stesso trarrà le conclusioni da offrire a tutta la chiesa.”

A proposito delle cosiddette “famiglie ferite”, tra cui anche i divorziati risposati, “il verbo chiave resta “accompagnare”. La Chiesa troverà le strade giuste, nella consapevolezza che innanzitutto è Dio che opera nelle coscienze delle persone e che “misura” a suo modo le scelte dei suoi figli. Se la Chiesa accompagna, se è madre che ama, sarà consolata anche da figli che si convertono. Per il resto, il rapporto con Dio è personale e la Chiesa oltre che educare e accompagnare, non credo che possa fare altro.”

Sull’accompagnamento e l’accoglienza delle persone omosessuali il cardinale ha osservato che “le persone vanno aiutate a raggiungere un equilibrio di ubbidienza e a celebrare la sessualità non nella sfinitezza autarchica, ma nell’armonia di tutta la persona. Questo impegno riguarda le persone vivono sia l’omosessualità, che l’eterosessualità. Sembra che siamo caduti in una sorta di rozzezza e di superficiali giudizi nei confronti delle persone.”



[Modificato da Caterina63 18/09/2015 10:33]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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