Claudio Antonio Testi
SANTI PAGANI NELLA TERRA DI MEZZO DI TOLKIEN
ISBN: 978887094-881-3
dimensioni: 140 x 210 mm
rilegatura: brossura
collana: Filosofia e Teologia
pagine: 224
anno: 2014
€ 22,00
L’opera di Tolkien è cristiana o pagana? La domanda ha interpellato lettori e studiosi fin dal 1954, anno di pubblicazione del primo volume del Signore degli Anelli.
Ad oggi però, nonostante la notorietà “planetaria” di Tolkien (dovuta anche alle trasposizioni cinematografiche di Peter Jackson) questo importante snodo non è ancora stato affrontato con quella completezza critica che merita un autentico classico della letteratura. Il presente volume è un tentativo in questa direzione.
Dopo un dettagliato esame delle principali interpretazioni italiane ed estere sul tema, viene proposta un’“originale” lettura sintetica che pone in luce l’inesauribile profondità dell’opera tolkieniana. Si vedrà così come Frodo, Gandalf o i Cavalieri di Rohan, pur essendo a tutti gli effetti dei pagani, esemplificano gli aspetti migliori della natura umana, capace di cogliere che oltre i confini del mondo vi è qualcosa «più dei ricordi» (Aragorn ne Il Signore degli Anelli, Appendice A.5).
Corredano il volume una vastissima bibliografia e dettagliati indici e sommari.
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Claudio Antonio Testi - nato a Modena nel 1967, è laureato in Filosofia all'Università di Bologna e co-fondatore dell'Istituto Filosofico di Studi Tomistici. Le sue numerose pubblicazioni spaziano da studi esegetici sulla metafisica tomista a scritti di logica formale. Da sempre attento all’opera di Tolkien, ha negli ultimi anni scritto numerosi contributi sul tema e curato molti volumi per la collana «Tolkien e dintorni», della quale è direttore. È stato il primo italiano a vedere pubblicato un suo articolo sulla prestigiosa rivista internazionale «Tolkien Studies». È membro dell´Istituto Filosofico di Studi Tomistici di Modena, presso il quale insegna abitualmente, www.istitutotomistico.it/
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«In fondo, che male c’è? Non ho mica ucciso qualcuno!» è questa la giustificazione che ci diamo, non appena aver ceduto a una delle tentazioni più diffuse e difficili da estirpare, quasi fosse intrinsecamente legata alla natura umana. E che, pur non risparmiando gli uomini, è particolarmente feconda sulle bocche femminili.
Di che parlo? Pettegolezzi, dicerie, che spesso diventano ingiurie ben più offensive: si rivelano calunnie, spesso senza alcun fondamento: minano la dignità e la credibilità delle vittime, viaggiano a gran velocità in ogni direzione e intaccano la serietà e la tranquillità di chi ne è stato fatto oggetto.
Non solo, in molti casi si tratta di parole al vento, prive di qualsiasi fondamento; e si arriva persino a molto, molto peggio: alle volte, si tratta addirittura di insinuazioni diffuse ad arte, proprio con l’intenzione di ferire chi è protagonista di queste chiacchiere di paese o di quartiere. Quando non di parrocchia. Eh sì, perché neanche le nostre parrocchie sono esenti: anzi, purtroppo, è proprio questo il luogo in cui si producono e proliferano con maggiore fecondità!
Ben lungi dall’essere “chiacchiere innocenti”, tanto per rompere il silenzio condominiale o il gelo che cala nei fugaci e occasionali incontri nei luoghi comuni (intesi come posti frequentati da chi vive nello stesso palazzo!), sono purtroppo vere e proprie armi, consapevolmente utilizzate per isolare l’avversario e sconfiggerlo con l’attacco più potente: quello della solitudine e dell’indifferenza.
Del resto, meccanismi molto simili accadono anche sul luogo di lavoro. Non si svolge forse in questo modo il mobbing, che punta a distruggere interiormente le persone, fino a costringerle a una resa innocua e pacifica?
Un giorno, una chiacchierona nota in tutta Roma, andò a confessarsi da San Filippo Neri. Il confessore ascoltò attentamente e poi le assegnò questa penitenza: “Dopo aver spennato una gallina dovrai andare per le strade di Roma e spargerai un po' dappertutto le penne e le piume della gallina! Dopo torna da me!”.
La donna, un po’ a malincuore, eseguì questa strana penitenza e andò a riferirlo a Filippo Neri.
Lui le disse: “La penitenza non è finita! Ora devi andare per tutta Roma a raccogliere le penne e le piume che hai sparso!”.
“Tu mi chiedi una cosa impossibile!”, disse la donna.
E il confessore le rispose così: “Anche le chiacchiere che hai sparso per tutta Roma non si possono più raccogliere! Sono come le piume e le penne di questa gallina che hai sparso dappertutto! Non c’è rimedio per il danno che hai fatto con le tue chiacchiere!”.
Questo piccolo aneddoto della vita di san Filippo Neri, strappandoci un sorriso, evidenzia come dettagli che trascuriamo si rivelano in verità fondamentali. A volte ciò che rovina ha proprio questo nome: la superficialità con cui si pensa di poter (o dover) “passare sopra” a tante cose.
Invece, rendere noti gli sbagli altrui a terzi è molto grave, in particolar modo quando si evita, per i più svariati motivi, di parlarne col diretto interessato. Innanzitutto è – con grande mancanza di stile – dribblata l’opportuna e necessaria correzione fraterna, che rappresenta sempre, oltre ad un confronto schietto e verace, una reciproca occasione di crescita – non solo spirituale ma anche umana –.
È poi del tutto evidente come, qualora manchino perfino argomentazioni che possano almeno in minima parte giustificare o, addirittura, sia presente un’espressa volontà di ferire, denigrare, offendere, mettere in cattiva luce l’altra persona, avviene qualcosa forse anche peggiore della violenza fisica. Perché abbiamo tutti avuto esperienza della sofferenza che può essere causata dalle parole: utilizzarla come subdola arma di offesa cela una macchinazione che è ben peggiore di tante altre malefatte – molto più visibili e concrete e, per questo motivo, molto più facili da individuare e contrastare –.