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LA CATASTROFE CHE FU IL LUTERANESIMO

Ultimo Aggiornamento: 09/07/2016 19:53
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11/08/2012 18:39
 
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Nella Svizzera calvinista si incontrano analoghe cautele:

«Per Calvino, la Bibbia non è direttamente accessibile a chiunque. Si tratta - come spiega nel corso di una predica - di un pane dalla crosta spessa. Per nutrire i suoi figli, Dio vuole “che il pane ci sia tagliato, che i pezzi ci siano messi in bocca e che ci siano masticati”. San Paolo mostra riguardo alla Scrittura che “non basta leggerla ciascuno nel proprio  privato, ma occorre avere le orecchie colpite dalla dottrina da essa estratta e che ci sia predicata perché possiamo esserne istruiti”. Teodoro di Beza fornisce ancora una testimonianza delle resistenze da parte calvinista a mettere la teologia sulla pubblica piazza. Nella dedica alle sue Questions et responses chretiennes, del 1572, il successore di Calvino spiega di aver accettato a malincuore questa traduzione francese del proprio trattato. Si è sentito forzato dalla curiosità del pubblico, del quale denuncia la mania di volersi gettare nei “labirinti” di questioni delicate. L'opinione di Beza è evidente: la teologia costituisce un campo riservato, che esige di “conoscere tutte le vie e i passaggi per i quali bisogna passare e ripassare”» (pp. 253-254).

Gilmont conclude affermando che nelle chiese calviniste del tempo «alla fine, prevale il punto di vista opposto: “non tutti hanno i mezzi per leggere i commenti integrali, né la fermezza di giudizio per recepirne e selezionarne opportunamente la sostanza”» (p. 254).

Pesò evidentemente in tutti quei padri riformatori che spinsero verso una direzione istituzionale i nuovi fermenti il giudizio negativo sull’utilizzo della Scrittura fatto dai capi della rivolta dei contadini, così come da altre letture del testo sacro dissonanti con quella proposta dalle correnti ufficiali della riforma. Si ebbe insomma cura di vigilare affinché una “corretta” interpretazione della Scrittura non portasse al sovvertimento dell’autorità politica e della nuova autorità religiosa.

Gilmont ricorda che solo nelle frange più estremiste della riforma, in effetti, si mantenne la libera interpretazione della Scrittura.  Ma, anche qui, egli sfuma poi subito il giudizio, attestando che presto si giunse anche in quelle ad una nuova ortodossia che restringeva le letture possibili per uniformarsi a quella dei leaders dei gruppi stessi: «A Zurigo, gli anabattisti restano fedeli alle prime prese di posizione di Zwingli e aderiscono ad un'interpretazione radicale della Scrittura: “Dopo aver preso anche noi fra le mani la Scrittura e averla interrogata su tutti i punti possibili, siamo divenuti più istruiti e abbiamo scoperto gli errori enormi e vergognosi commessi dai pastori”. Con sfumature diverse, gli spiritualisti adottano posizioni vicine, rifiutando ogni intervento autoritario nel contatto con i libri sacri. La loro posizione è strettamente connessa alla convinzione della priorità dello Spirito sul testo. Nel Manifesto di Praga, del 1521, Thomas Münzer squalifica i preti che propongono una Scrittura “celata con fare sornione nella Bibbia, con la furberia dei briganti e la crudeltà degli assassini”. Solo gli eletti sono beneficiari della Parola vivente: “Quando il seme cade sul campo fertile, vale a dire nei cuori riempiti del timor di Dio, lì si trovano la carta e la pergamena su cui Dio scrive non con l'inchiostro, ma col suo dito vivente la vera Scrittura santa, di cui la Bibbia esteriore è autentica testimonianza.

Münzer però sa di vivere in una società poco adatta alla lettura individuale. Così egli auspica, in testa alla sua Predica ai prìncipi, del 1524, “che i servitori di Dio, zelanti e infaticabili, diffondano quotidianamente la Bibbia attraverso il canto, la lettura e la predicazione”. Nella stessa logica, egli desidera una liturgia che si svolga in una lingua compresa dal popolo. E si augura che la Bibbia sia letta ad alta voce di fronte al popolo, per consentirgli di appropriarsene. È vero che questo ideale fu disatteso e che Münzer sostituì ben presto la propria predicazione al dettato della Bibbia» (pp. 254-255).

Recentemente è stato Luther Blisset, l’autore collettivo di Q (Einaudi, Torino, 1999), a ricordare in forma romanzata come tutti i rami della riforma si siano presto irrigiditi a propugnare la loro visione dell’ortodossia. Nel romanzo storico Q i gruppi minoritari della riforma divengono alla fin fine ancora più integralisti dei gruppi maggioritari e la narrazione evidenzia non solo le tensioni fra cattolicesimo e mondo protestante, ma anche quella violenta  fra luteranesimo e calvinismo da un lato ed i gruppi più rivoluzionari dall’altro.

Gilmont evidenzia la fioritura dei catechismi nel mondo protestante del tempo fu corrispettiva alla nuova prudenza nell’utilizzo della Bibbia: i riformatori ritenevano che i Catechismi fossero necessari per permettere un’istruzione che garantisse una reale “ortodossia” riformata ed una formazione dei fedeli:

«Il catechismo conosce una fioritura considerevole con la Riforma e la Controriforma. Lutero ha fortemente incoraggiato un catechismo mirante ad un insegnamento cristiano semplice a partire dall'infanzia. Si riallacciava così ad un movimento che affondava le sue radici nel medioevo. Come Jean Gerson nel Quattrocento, Lutero si rende conto che il rinnovamento religioso si scontra tanto contro l'ignoranza delle masse quanto contro l'incapacità catechetica di molti pastori, come chiarisce nella prefazione al suo grande catechismo del 1529. Col suo piccolo catechismo egli va più lontano, prospettando un modello di catechesi da realizzare in famiglia: una volta memorizzati, i testi fondamentali - i Dieci Comandamenti, il Pater, il Credo - devono essere commentati dal padre di famiglia. Ben presto - lo si è visto - Lutero finisce col voler mettere questo tipo di opera nelle mani di tutti al posto della Bibbia.

La Riforma calvinista accorda un ruolo importante al catechismo, come conferma la bibliografia. Se il numero di edizioni della Bibbia e del Nuovo Testamento è impressionante, esso è nullo al confronto di quello dei catechismi e dei salteri. Ed è certo che le nostre stime sono inferiori alla realtà, a causa delle perdite importanti subite da queste opere di uso quotidiano.

Ora, la catechesi è un'attività in cui predomina l’oralità. L’apprendimento mnemonico del catechismo ne precede la spiegazione. Senza dubbio, il libro è indispensabile: il testo letto ad alta voce dal padre di famiglia o dal catechista è seguito in silenzio dagli occhi del fanciullo che ascolta. In quest'uso dello scritto, il libro fa da supporto alla memoria: non è affatto il luogo di scoperta di un messaggio inedito. Non bisogna peraltro svalutare questo tipo di apprendimento piuttosto rigido, né trascurarne gli effetti sull’iniziazione alla lettura» (p. 260).

Ovviamente nel complesso rapporto con il testo biblico giocarono un ruolo decisivo gli apparati di note che venivano redatti appositamente per aiutare il lettore a comprendere i passaggi più difficili. Ma le note avevano anche il fine di favorire una determinata interpretazione:

«L'utilizzazione di queste Bibbie pone un altro problema. Il testo sacro è infatti illustrato con vari strumenti di ausilio alla lettura, che propongono diversi approcci paralleli al testo. Alcuni di questi complementi al testo si situano al principio o alla fine del libro: introduzioni, tavole, riassunti. Ma compaiono anche annotazioni nei margini, con o senza rinvii a partire dal testo. Queste indicazioni marginali sono di natura filologica, teologica o liturgica. Si trovano anche rimandi a passi paralleli. Come si orientava il lettore in mezzo a queste glosse? La Bibbia diveniva oggetto di consultazione dotta? Non è senza interesse ricordare, a proposito di tale “paratesto”, che le autorità cattoliche temevano più questi commentari marginali che non le tradu­zioni realizzate dai protestanti» (p. 263).

Susanna Peyronel Rambaldi, nel giungere a conclusioni analoghe a quelle di Gilmont, sottolinea come le stesse cautele fossero presenti in maniera crescente nelle aree cattoliche. La studiosa ricorda come già Erasmo si fosse espresso in merito:

«Ci sono nelle Scritture – dirà nella famosa polemica con Lutero sul libero arbitrio – “dei santuari reconditi dove Dio non ha voluto che cercassimo di entrare e nei quali, se pur tentassimo di penetrare, saremmo avvolti da caligine vieppiù spessa [... ] Perciò resta lecito trattare di queste cose nelle conferenze per i sapienti o nei corsi di teologia, purché lo si faccia sobriamente; dibatterne invece sulla pubblica piazza davanti ad un uditorio molto vario mi sembra non solo inutile ma pernicioso”» (p. 78).

All’opposto alcuni dei vescovi più illuminati vedevano in maniera fortemente critica l’assenza di formazione dei laici in merito alla Sacra Scrittura. Il cardinale Madruzzo, principe vescovo di Trento, ad esempio,

«difendeva con espressioni quasi erasmiane la volgarizzazione dei testi sacri: “noi quasi neghiamo al santo popolo di Dio questa santa consolazione delle Sacre Scritture [...] nessuna età, nessun sesso, nessuno stato di fortuna, nessuna condizione vanno tenuti lontani dalla lettura delle divine Scritture”» (pp. 79-80).

Mentre, dal canto loro, «gli stessi “spirituali” italiani, che avevano assimilato lezioni e suggestioni non solo da Erasmo, ma anche dalla teologia di Lutero e Calvino (il Beneficio di Cristo ne è la prova più evidente), indietreggeranno spaventati, come aveva fatto anche Erasmo, di fronte alle conseguenze di una teologia ed una Bibbia messa alla portata degli “idioti” e delle “donnicciole”» (p. 80).

D’altronde, la convinzione che solo una maggiore formazione cristiana diffusa fra il popolo potesse permettere di far fronte al pericolo protestante, era chiaro in molti ambienti cattolici, come attestano le riflessioni del cardinale Possevino:

«Quando si dice – scriverà nel De necessitate, utilitate ac ratione docendi catholici catechismi – che non si possa provvedere meglio alla salvezza della repubblica cristiana se non che ciascuno rimanga in quella semplicità nella quale è stato allevato, è cosa che andava nel modo più assoluto contrapposta agli eretici, nel momento in cui hanno invaso la fortezza della chiesa cattolica con falsi catechismi; ma d’altra parte proibire un antidoto quando un tale veleno serpeggia e si sparge ovunque, cos’è se non negare la salvezza alle anime ed impedire in modo efficacissimo la diffusione del nome di Dio? Le tenebre invero sono l’ignoranza, per cui cadiamo nel peccato, vaneggiando sulla verità» (p. 87).

Considerazioni come queste furono alla base dello sforzo educativo messo in atto a partire dal Concilio di Trento, con un lavoro diffuso rivolto ai vescovi, al clero, ai laici.

Dal canto suo, Gigliola Fragnito (Fragnito Gigliola, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Il Mulino, Bologna, 1997)

ha studiato il processo che portò il mondo cattolico al divieto di leggere la Scrittura, senza previa autorizzazione ecclesiastica – tale provvedimento entrò in vigore nel 1596:

«Confrontati con la determinazione e la tempestività dei provvedimenti adottati dalle autorità civili di Spagna, Francia ed Inghilterra tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento per impedire la diffusione della Bibbia nelle lingue vernacole, il ritardo e la contraddittorietà degli interventi romani non mancherebbero in effetti di lasciare stupiti, ove non si tenga conto del numero rilevante di edizioni integrali della Scrittura stampate a Venezia prima della Riforma. La lunga ed incontrastata consuetudine degli italiani con la Bibbia che esse testimoniano dovette influire non poco sulle tergiversazioni delle autorità ecclesiastiche: perfino di fronte al proliferare di versioni “eterodosse” ed alla crescita del numero dei loro lettori in ogni strato della società, in seguito alla penetrazione nella penisola delle dottrine riformate, la Chiesa esitò a lungo prima di adottare misure restrittive. Bisognerà, infatti, attendere l’indice del 1559 per imbattersi nel primo divieto, che verrà, comunque rimesso in discussione fino alla promulgazione dell’indice clementino del 1596. L’azione incerta ed oscillante di Roma – che, pur rivolgendosi all’intera cattolicità, sapeva di poter contare tutt’al più sull’ubbidienza degli Stati italiani – sembra, quindi, essere stata fortemente condizionata dalla difficoltà – ma anche dall’imbarazzo – di sradicare una antica consuetudine, riconosciuta anche dai padri riuniti a Trento, i quali nel 1546 annoveravano l’Italia tra i paesi in cui vi era un’antica familiarità con i testi sacri» (pp. 12-13).

La Fragnito confuta l’errata convinzione che la cessazione dell’utilizzo privato della Scrittura sorga da un decreto tridentino. Ricorda, d’altro canto, come effettivamente si giunse solo a cavallo del secolo ad interrompere in Italia la lettura diretta del testo biblico che era abituale nelle epoche precedenti:

«Se è stato agevole dimostrare l’infondatezza di una tesi consolidata secondo cui sarebbero stati i padri riuniti a Trento a condannare definitivamente le traduzioni bibliche nelle lingue materne – grazie anche alla documentata persistenza di edizioni veneziane postridentine – più arduo è stato ricostruire l’evoluzione tutt’altro che lineare delle posizioni romane negli anni che intercorrono tra l’indice tridentino (1564) e l’indice clementino (1596). Durante quel trentennio, mentre i conflitti ai vertici della Curia facevano insabbiare ben tre indici pronti per la promulgazione, si susseguirono una serie di interventi da parte di Roma che di fatto stravolgevano la normativa dell’indice tridentino ancora ufficialmente in vigore, grazie alla quale vescovi ed inquisitori locali avevano la facoltà di rilasciare licenze per la lettura delle traduzioni» (p. 13).

La valutazione complessiva della Fragnito conferma le ricerche di storici come Gilmont e Peyronel Rambaldi, ma sottolinea come l’assenza della Scrittura nel mondo cattolico fu più sensibile dopo il 1596:

«Anche se è ormai acclarato che sia Erasmo sia i riformatori protestanti, dopo un’iniziale propaganda a favore di un accesso diretto e indiscriminato del popolo alla Sacra Scrittura nelle lingue materne, ripiegarono su posizioni di maggiore cautela, se non addirittura di diffidenza, e se è stato dimostrato che la Bibbia ebbe un ruolo assai meno preminente nelle letture individuali e nella formazione religiosa e culturale di coloro che avevano aderito alle nuove confessioni, la tendenza ad equiparare le posizioni dei protestanti – pur con la variante dei calvinisti, maggiormente propensi ad un approccio individuale alla Bibbia – a quelle dei cattolici è quanto meno fuorviante» (pp. 318-319).

Certo è che il nuovo decreto che vietava la lettura personale della Bibbia si impose lentamente, come dimostra il grande numero di Bibbie che risultano in possesso dei laici e che non destavano nelle autorità cattoliche alcun sospetto di eresia nei confronti di quei possessori:

«Quelle liste di fine secolo [che indicavano le Bibbie sequestrate a laici che non erano minimamente sospettati di eresia], in cui tanti volgarizzamenti biblici vennero inseriti senza destare in chi li sequestrava il sospetto che i possessori fossero eretici, documentano ancor oggi il tenace attaccamento ai testi biblici e l’audace e rischiosa difesa di un’antica tradizione» (p. 328).

Al termine del suo studio, la Fragnito cita, a livello esemplificativo della prassi di fine Cinquecento, la documentazione relativa alla concessione del permesso di tenere con sé la Bibbia ricevuto da una coppia, mostrandoci la prassi che intercorse dal 1596 fino ai nuovi decreti che renderanno nuovamente libero l’accesso alla Scrittura emanati nel 1758, con Benedetto XIV:

«Si veda la supplica inoltrata il 27 ottobre 1597 al Maestro del Sacro Palazzo da due coniugi vicentini, Bartolomeo e Maddalena Camiolo, i quali chiedevano “di potere tenere gli Evangelii latini et volgari ligati insieme quali desiderano leggere per loro devotione et dal detto loro curato si farà fede [...] che gli detti oratori sono buoni Christiani et senza alcun sospetto di heresia et tutto receveranno per gratia singulare”. Allegato alla supplica l’attestato del parroco di San Salvatore a Roma, Alfonso Baldini, il quale certificava che i suoi parrocchiani erano buoni cristiani, confitentes et communicantes saepe in anno, e liberi da ogni sospetto di eresia. L’autorizzazione venne concessa a condizione che si trattasse di un’edizione annotata da Remigio Nannini. Cfr. ASO, Indice, vol. XVIII/1, f. 219r» (p. 329).

Merita ricordare che il Concilio di Trento aveva esplicitamente chiesto, in maniera tassativa, che l’opera di riforma cattolica avvenisse tramite una conoscenza dei tesori della Scrittura che dovevano esser messi a disposizione del popolo, come afferma lungamente il Secondo decreto del Concilio stesso Sulla lettura della S. Scrittura e la predicazione:

«1. Lo stesso sacrosanto sinodo, aderendo alle pie costituzioni dei sommi pontefici e dei concili approvati, le fa sue; e volendo completarle, perché non avvenga che il tesoro celeste dei libri sacri, che lo Spirito Santo ha dato agli uomini con somma liberalità, rimanga trascurato, ha stabilito e ordinato che nelle chiese, in cui vi sia una prebenda o una dotazione, o uno stipendio comunque chiamato destinato ai lettori di sacra teologia, i vescovi, gli arcivescovi, i primati e gli altri ordinari locali obblighino, anche con la sottrazione dei frutti relativi, quelli che hanno questa prebenda, dotazione o stipendio, ad esporre e spiegare la Sacra Scrittura personalmente, se sono idonei, altrimenti per mezzo di un sostituto adatto, da scegliersi dai vescovi, dagli arcivescovi, dai primati e dagli altri ordinari stessi.

Per il futuro tale prebenda, dotazione o stipendio non dovrà esser conferito se non a persone adatte, che siano capaci di esplicare tale ufficio da se stessi.

Ogni provvista fatta altrimenti sia nulla e invalida. [...]

8. Gli insegnanti di Sacra Scrittura, nel tempo in cui insegnano pubblicamente nelle scuole, e così pure gli studenti godano ed usufruiscano di tutti i privilegi concessi dal diritto di percepire i frutti delle loro prebende e dei loro benefici anche durante la loro assenza.

9. Poiché, tuttavia, alla società cristiana non è meno necessaria la predicazione del Vangelo, che la sua lettura, e questo è il principale ufficio dei vescovi, lo stesso santo sinodo ha stabilito e deciso che tutti i vescovi, arcivescovi, primati, e tutti gli altri prelati di chiese siano tenuti a predicare personalmente il santo Vangelo di Gesù Cristo se non ne sono legittimamente impediti.

10. Se i vescovi e le altre persone nominate fossero impedite da un legittimo motivo, siano tenuti, conformemente a quanto prescrive il concilio generale, a farsi sostituire da persone adatte per questo ufficio della predicazione.

Se qualcuno trascurasse di adempiere ciò, sia sottoposto ad una pena severa.

11. Anche gli arcipreti, i pievani, e tutti coloro che abbiano cura d’anime nelle parrocchie o altrove, personalmente o per mezzo d’altri se ne fossero legittimamente impediti, almeno nelle domeniche e nelle feste più solenni, nutrano il popolo loro affidato con parole salutari, secondo la propria e la loro capacità, insegnando quelle verità che sono necessarie a tutti per la salvezza e facendo loro conoscere, con una spiegazione breve e facile, i vizi che devono fuggire e le virtù che devono praticare, per evitare la pena eterna e conseguire la gloria celeste.

Se poi qualcuno di loro fosse negligente anche se pretendesse di essere esente dalla giurisdizione del vescovo per qualsiasi motivo o anche se le chiese fossero ritenute in qualsiasi modo esenti, o forse annesse o unite a qualche monastero, situato magari fuori diocesi, purché in realtà si trovino nella diocesi, non manchi la provvidenziale sollecitudine dei vescovi, perché non debba avverarsi il detto: I piccoli chiesero il pane e non vi era chi lo spezzasse loro».

Si noti come la sottolineatura è quella della predicazione, mentre è passata sotto silenzio la lettura personale del testo sacro. La Scrittura non è assente dalla visuale del Concilio di Trento, ma deve essere mediata dalla viva voce della catechesi.

A livello iconografico, l’importanza della Sacra Scrittura è manifesta anche nell’arte del Cinquecento ed in quella successiva dell’età barocca.

Si pensi allo straordinario dipinto di Lorenzo Lotto, Matrimonio mistico di Santa Caterina (1524, Roma, Galleria Nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini), dove vengono rappresentati insieme il valore del Libro Sacro, il valore della santità che legge e testimonia la rivelazione ed infine il ruolo di Cristo Bambino, Parola di Dio, che celebra le sue nozze con Santa Caterina. Nel dipinto la Vergine volta la pagina del testo sacro, poiché con il suo assenso all’Incarnazione la Parola di Dio diviene carne.

 

Si pensi anche al San Matteo e l’angelo del Caravaggio della Cappella Contarelli in San Luigi dei francesi (l’opera è del 1602), dove l’ispirazione divina delle Scritture è posta in rilievo.

4.2/ La figura di Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469-1536; prete, poi con dispensa; il papa gli offre il cardinalato nel 1535)




[SM=g1740771]  continua........
[Modificato da Caterina63 11/08/2012 18:40]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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