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Mons. N. Bux: La riforma Liturgica e il Concilio Vaticano II

Ultimo Aggiornamento: 09/04/2016 16:38
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01/04/2009 22:21
 
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4. Ancora modifiche

A tutte queste modifiche si aggiungano anche l’eliminazione della quasi totalità dei segni di croce fatti dal celebrante sulle oblate, sulle e con le specie consacrate, per indicare che le specie che si hanno davanti sono realmente la Vittima di cui si parla. Le genuflessioni sono state ridotte da sei a due e sono state tolte quelle tanto importanti che il sacerdote fa appena terminate le parole di consacrazione del pane e del vino. Non è più presente nemmeno la preservazione delle dita del sacerdote dopo la consacrazione e la loro purificazione nel calice, il che affievolisce ancora di più il senso della presenza sostanziale di Cristo in ogni frammento eucaristico. Sono state omesse anche le precise e riverenti prescrizioni nel caso in cui l’Ostia consacrata abbia a cadere. La purificazione dei vasi sacri può essere posticipata E si potrebbe continuare. È chiaro che la nuova forma non esprime più in modo adeguato l’essenza sacrificale della Messa e la presenza sostanziale di Nostro Signore. Non diciamo che neghi questi aspetti, ma certamente non li significa più in modo adeguato, aprendo così la strada a ciò che di fatto è avvenuto e che è denunciato da lei stesso.

La glorificazione di Dio

E dopo l’essenza della Messa, passiamo a considerarne le finalità, la prima delle quali è senza dubbio la glorificazione della SS.ma Trinità per mezzo di Nostro Signore Gesù Cristo. La liturgia ha principalmente e sostanzialmente una dimensione verticale e tutto il rito deve esprimere e favorire questo orientamento. Nel nuovo messale la finalità ultima della liturgia (e di ogni cosa) è quasi scomparsa. Il Gloria Patri nell’antifona all’Introito è stato omesso; il Gloria in excelsis Deo è recitato meno frequentemente; solo la Colletta termina con la formula trinitaria («Per il nostro Signore Gesù Cristo...»), mentre le altre orazioni concludono semplicemente con «Per Cristo nostro Signore»; la medesima conclusione è stata tolta anche dopo le tre preghiere che preparano alla Santa Comunione e dopo il Libera nos Domine che segue il Pater noster; la bellissima preghiera dell’Offertorio Suscipe, Sancta Trinitas, bellissimo compendio della finalità del santo Sacrificio è abolita; il Prefazio della SS.ma Trinità non è più recitato tutte le domeniche ma solo il giorno della Solennità della SS.ma Trinità; è stato rimosso anche il Placeat tibi, Sancta Trinitas, al termine della Messa. Anche in questo caso siamo di fronte ad una vera e propria devastazione che priva i sacerdoti ed i fedeli di quell’abituale riferimento alla gloria della SS.ma Trinità, che è il fine della vita e di tutte le cose.

La propiziazione e l’espiazione

«L’aspetto più evidente di questa rielaborazione [delle orazioni, n.d.A.] è la quasi totale soppressione delle espressioni relative al peccato e al male (peccata nostra, imminentia pericula, mentis nostrae tenebrae), e di quelle relative alla necessità di redenzione e perdono (puriores, mundati, reparatio nostra, purificatis mentibus)»(14). È la necessaria conseguenza del principio di Bugnini, riportato più sopra, di rivedere ciò che non è conforme ai tempi moderni. L’idea di essere peccatori, profondamente debitori verso Dio, meritevoli dei Suoi castighi, radicalmente incapaci di riparare da noi stessi il debito contratto dai nostri peccati è quanto di meno accettato dall’uomo di sempre, e particolarmente quello moderno. E così i tagli fioccano! Prima vittima è l’implorazione «Deus tu conversus vivificabis nos» nelle preghiere ai piedi dell’altare, seguita dalle due orazioni che il sacerdote recita quando è salito all’altare (Aufer a nobis e Oramus te, Domine), nelle quali domanda a Dio di allontanare le proprie iniquità e perdonare i propri peccati. Il Confiteor non è più recitato dal sacerdote profondamente inchinato e dai fedeli in ginocchio, entrambe espressioni di umiltà e supplica. Con l’abolizione dell’Offertorio, sono sparite anche le due suppliche di accettazione dell’offerta immacolata «pro innumerabilibus peccatis et offensionibus et negligentiis meis», come pure l’espressione «tuam deprecantes clementiam». Il gesto di stendere le mani sull’ostia ed il calice, che indica il gesto del Sommo Sacerdote che caricava dei nostri peccati la vittima che stava per essere immolata, nelle Preghiere eucaristiche del nuovo Messale viene associato all’invocazione dello Spirito Santo, smarrendo così il significato espiatorio del Sacrificio di Cristo. Anche i riti appena precedenti la Santa Comunione, che aiutano il sacerdote ed i fedeli a ravvivare disposizioni interiori di contrizione sono stati sensibilmente modificati. Per entrambi il Domine non sum dignus oltre alla variazione del testo è stato ridotto da tre ad uno soltanto, laddove invece la ripetizione permette una sempre maggior consapevolezza della propria indegnità dinanzi a tanto mistero.

La sacralità

Anche su questo aspetto ci sarebbe molto da dire. Ci basti in questa lettera trarre qualche spunto da quanto lei scrive in quel bel primo capitolo sulla Sacra e divina liturgia: «Il sacro nella messa antica è presente e si esprime anche nei segni di croce e nelle genuflessioni. Nel silenzio dei fedeli durante la preghiera eucaristica, non gridata ma pronunciata submissa voce a voler così significare anche il gesto di sottomissione e di umiliazione, dinanzi a Dio, della nostra voce» (p. 23). E poi aggiunge profonde considerazioni sulla lingua sacra. Lei sa come tutto questo è sparito. Se c’è un rimprovero generale che si può fare alla Messa riformata è che essa vuol far capire troppo. Il leitmotiv è che tutti devono capire tutto e subito. Il sacerdote deve sempre parlare ad alta voce, i fedeli devono parlare, le letture devono essere moltiplicate, la lingua deve essere capita, ecc. E c’è sempre meno spazio per il silenzio ed il canto sacro, le due espressioni somme della preghiera e dell’adorazione. «Razionalità nella liturgia e nessuna pietà»(15): era questa l’accusa precisa che muoveva il Cardinal Antonelli. Nulla di più vero. Su questo aspetto ci sarebbero veramente molte considerazioni da fare, a partire dai paramenti, i vasi sacri, gli edifici, il canto, la lingua, gli atteggiamenti del corpo, etc.

Il sacerdozio

Una delle vittime privilegiate della riforma liturgica è il sacerdozio (e conseguentemente l’identità degli stessi sacerdoti e la fedeltà alla loro vocazione). Le annotazioni precedentemente fatte sullo slittamento in senso narrativo della formula di consacrazione incidono fortemente sull’intenzione del sacerdote che le pronuncia. Anche a causa delle carenti indicazioni rubricali circa la posizione, il tono della voce, ecc., il sacerdote è sempre meno condotto ad intendere la celebrazione come actio sacrificalis operata in persona Christi. Il suo ruolo di insostituibile e necessario mediatore e sacrificatore è stato poi posto in ombra dalla riforma liturgica sia per la rimozione di alcuni elementi, che ben sottolineano la differenza essenziale tra il sacerdote e l’assemblea dei fedeli, sia per l’eccessiva e imprecisa insistenza sul sacerdozio comune. Per quanto riguarda il primo aspetto - l’unico che esamineremo - si veda quello che si è verificato con l’atto penitenziale. Il Confiteor, laddove non è sostituito dai formulari alternativi, viene recitato comunemente dal sacerdote e dai fedeli, senza alcuna distinzione; il sacerdote da Pater, diventa uno dei fratres. Inoltre è stata omessa la formula di assoluzione, atto esclusivamente sacerdotale, che anche i protestanti tolsero nella loro messa riformata. Anche nelle nuove Preghiere eucaristiche non si afferma più la distinzione tra il sacrificio offerto dal sacerdote a cui si associano i fedeli («pro quibus tibi offerimus vel qui tibi offerunt»), ma dice in generale «ti offriamo», oppure nella Preghiera eucaristica III si parla di «un popolo che da un confine all’altro della terra offra al tuo nome un sacrificio perfetto».

La formula di Comunione del sacerdote è divenuta meno specifica ed è unita a quella dei fedeli. Da due orazione si è passati ad una; il sacerdote poi insieme ai fedeli recita per una sola volta «O Signore, non sono degno» (tralasciamo per brevità la modifica della formula) e quindi si comunica con le sole formule «Il Corpo [vel Sangue] di Cristo mi custodisca per la vita eterna». Quindi amministra subito la comunione dei fedeli. In tal modo si distingue sempre di meno il fatto che la comunione del Sacerdote è necessaria per il compimento del Sacrificio, mentre quella dei fedeli, certamente importante, non è essenziale. Nella nuova impostazione la comunione del sacerdote è semplicemente prima di quella dei fedeli, mentre dovrebbe risultare come parte strutturale e conclusiva del Sacrificio, poiché è la consumazione della Vittima divina.

La forma della ri-forma

Alla luce di tutte queste ed altre modifiche (come la soppressione della Chiesa trionfante, il biblicismo dell’attuale Lezionario, etc.) non ci si può esimere dal chiedersi che cosa sia rimasto della dottrina cattolica sul Santo Sacrificio della Messa. Si resta ancor più attoniti allorché si con- fronti il Novus Ordo con le modifiche delle liturgie protestanti e gianseniste. Di fronte alla realtà dei fatti non possiamo seguire la sua indicazione per cui «la riforma liturgica non deve essere messa in dubbio...» (p. 68). È invece doveroso per la custodia del tesoro più prezioso che Nostro Signore ci ha lasciato, per la conservazione del Sacerdozio cattolico ed infine per la salvaguardia e l’incremento della fede e pietà dei fedeli, che si abbia il coraggio di rivedere una riforma che dimostra di essere fallita. Lei ha affermato un po’ eufemisticamente: «Se non si può dire che la riforma liturgica non sia decollata, di certo ha volato basso, Dunque, restano ombre da dissipare sul come fu fatta. Si era andati oltre le intenzioni del concilio? Perciò, si faccia tregua nella battaglia: ora l’usus antiquior della messa è tornato a mo’ di specchio accanto al nuovo. Se alcune nuove forme rituali sono sembrate un cedimento allo spirito del mondo, un pacato approfondimento e una revisione o restituzione delle antiche potrà allontanare ogni timore» (p. 59). Se è veramente così, se cioè c’è stato bisogno di far ritornare la Messa tridentina perché la nuova potesse ritrovare la sua identità, ciò significa semplicemente che la riforma ha fallito. Non è stata ri-forma nel senso da lei e da noi auspicato, ma è stato il conferimento di una nuova forma alla Messa, una forma che costituisce «un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa»(16). Non è mai capitato nella storia della liturgia che un Messale riformato dovesse rifarsi al precedente per poter recuperare l’autentico spirito liturgico. Noi celebriamo con il Messale del 1962 e sebbene abbiamo in somma stima le precedenti edizioni, non abbiamo bisogno di riferirci ad esse come ad uno «specchio accanto al nuovo», perché il Messale del 1962 ha conservato lo stesso spirito - e anche la lettera! - dei precedenti. Con tutto ciò non vogliamo affermare che sia eretico chi celebra secondo il nuovo rito; ma quel che è chiaro è che esso favorisce uno spirito ed una pietà che non sono autenticamente cattoliche. Piano piano si assorbe una mentalità che non è più cattolica. E se può essere possibile che chi celebra la Messa secondo il Novus Ordo o vi assiste riesca a conservare uno spirito cattolico, è però realistico ammettere che ciò avviene non grazie a quella Messa, ma nonostante essa. In altri termini se anche la fede cattolica può essere mantenuta nell’intimo, il rito liturgico non ne è più l’espressione esterna. È un po’ come quando si entra nelle nuove chiese di pessima architettura: teoricamente in esse si può pregare, ma è bene chiudere gli occhi... Non c’è nulla in queste chiese che aiuta l’anima ad elevarsi, la mente a raccogliersi, il cuore a scaldarsi di fuoco soprannaturale. Per questo motivo non possiamo essere d’accordo con lei quando afferma che «chi celebra secondo l’uso antico deve evitare di delegittimare l’altro uso, e viceversa. Quindi non è ammesso un diniego a celebrare il nuovo per partito preso, non sarebbe segno di comunione rifiutarsi, per esempio, di concelebrare con un vescovo che intendesse farlo secondo il nuovo messale...» (p. 64). Non possumus! Davvero è impossibile coniugare questa riforma con la tradizione; e sottolineiamo ancora il dimostrativo, perché non è lo sviluppo storico che neghiamo, non è la saggezza dell’et-et cattolico in quella meravigliosa sintesi tra «rinnovamento e tradizione, innovazione e continuità, attenzione alla storia e consapevolezza dell’Eterno...» (p. 10), messo in luce da Vittorio Messori nella Prefazione. Non è questo.

Non è forse vero che il Patrono della nostra Fraternità, cioè san Pio X, è stato uno dei più grandi riformatori (anche in ambito liturgico) della storia della Chiesa? Quello che noi non possiamo accettare è che questo et-et sia dato hegelianamente, come sintesi di contraddittori, in una identità tra il reale ed il razionale. «Salvare i fenomeni»! Era questo, secondo la profonda lettura di Taylor(17), l’imperativo della filosofia di Hegel: salvare razionalmente la storia ed i suoi momenti, affermando idealisticamente che ognuno di essi è tappa di uno stadio ulteriore. E così Hegel perde l’essenza delle cose, smarrisce il criterio di verità o falsità. «Salvare la riforma» sembra essere il motto di quel nuovo movimento liturgico che lei auspica nell’ultimo capitolo. Ma non si era detto di confrontarsi sulla liturgia «senza alcun pregiudizio»?

Rev.do don Bux, tiriamo le fila di questa lunga lettera, anzitutto con un invito alla speranza. Per lei e per noi. Non è impossibile uscire da questa situazione e forse su questo lei sarà d’accordo con noi; Nostro Signore non abbandona mai chi cerca la Sua gloria ed il bene delle anime. Ma forse non sarà sulla nostra stessa linea d’onda, allorché le confessiamo che siamo certi che il ritorno al sacro non si farà cercando di mettere insieme il Vetus ed il Novus Ordo.

Umanamente può sembrare l’unica via percorribile per non provocare rotture, a scandalo della fede di tanti credenti già largamente provata. Ma non è così. La situazione liturgica nella Francia del XVIII ed inizio del XIX secolo non era meno drammatica della nostra. L’anarchia liturgica era all’ordine del giorno e si diffondevano riti fai da te , con lo scopo più che nobile di ritrovare l’autentico spirito liturgico.

Dom Prosper Guéranger, il grande abate di Solesmes, dopo aver presentato l’incredibile situazione di quel momento così conclude: «Tale era dunque lo sconvolgimento di idee nel diciottesimo secolo che vide dei prelati combattere gli eretici e nello stesso tempo, per uno zelo inspiegabile, attaccare la tradizione nelle sacre preghiere del messale; confessare che la Chiesa ha una voce propria, e far tacere questa voce per dare la parola a qualche dottore senza autorità. Tale fu la sciocca tracotanza dei nuovi liturgisti, che non si proponevano niente meno, e ne convenivano, che di ricondurre la Chiesa del loro tempo al vero spirito di preghiera; di purgare la Liturgia dagli elementi poco puri, poco esatti, poco misurati, piatti, difficili da capire correttamente, che la Chiesa, nei pii moti della sua ispirazione, aveva sventuratamente prodotto ed adottato. Per il più giusto di tutti i giudizi, tale era la barbarie entro la quale erano caduti i francesi riguardo al culto divino, essendo stata distrutta l’armonia liturgica, che la musica, la pittura, la scultura, l’architettura, che sono le arti tributarie della Liturgia, la seguirono in una decadenza che non ha fatto altro che accrescersi negli anni»(18).

Tale era dunque la situazione, che ha una rassomiglianza impressionante con la nostra. E come si uscì da questa situazione? Con il rito romano di sempre, puro e semplice. Lei chiede una "tregua" sulla liturgia ora che il Rito tradizionale "è ritornato a casa"; tuttavia pur cogliendo il suo intento ci sembra che su questa ipotetica tregua gravi ufficialmente proprio uno di quei pregiudizi che lei invita ad evitare: quello di far soffrire al Messale del 1962 condizioni di inferiorità rispetto al messale di Paolo VI.

Le facciamo notare che, mentre oggi si parla di forma "ordinaria" e "straordinaria", perfino Mons. Gamber, molti anni or sono, nel libro già citato (che poté godere della prefazione di quattro illustri prelati: Mons. Nyssen, i Cardinali Stickler e Oddi e l’allora Cardinal Ratzinger) proponeva una tregua in termini diversi (e in un certo senso opposti) ai suoi: «La forma della messa attualmente in vigore non potrà più passare per rito romano in senso stretto, ma per un rito particolare ad experimentum. Solo l’avvenire mostrerà se questo nuovo rito potrà un giorno imporsi in modo generale e per un lungo periodo. Si può supporre che i nuovi libri liturgici non resteranno per molto tempo in uso, perché gli elementi progressisti della Chiesa nel frattempo avranno certamente sviluppato nuove concezioni riguardo l’ organizzazione della celebrazione della messa»(19).

In ogni caso restiamo profondamente convinti che il Rito tridentino, con l’impianto dottrinale su cui si fonda, che esprime e che veicola non possa che evidenziare la sostanziale incompatibilità del rito di Paolo VI con la dottrina cattolica. Riteniamo che i due riti possano coesistere solo se non se ne coglie l’opposta valenza dottrinale, oppure se ci si basa su una filosofia che coniuga i contraddittori; una liturgia infatti presuppone sempre, attraverso e al di là dei segni che utilizza, una precisa dimensione dottrinale e spirituale che non può essere in alcun modo dissociata dal rito stesso. Celebrare in un modo, credendo in qualcosa di diverso non è normale e in ultima analisi non sarebbe nemmeno onesto.

Illustriamo la cosa con un esempio semplice e alla portata di chiunque. Come può un medesimo sacerdote offrire sullo stesso altare "La Vittima Immacolata" e il "pane frutto della terra e del lavoro dell’uomo", credendo e facendo credere che le due espressioni si equivalgano? Come può la medesima istituzione fare suoi due segni così manifestamente opposti illudendosi di spiegare l’uno attraverso l’altro senza perdere ulteriormente la propria identità e senza aumentare ulteriormente la confusione dei semplici? Che ci sarebbe in comune tra questo nuovo linguaggio liturgico e il sì sì-no no evangelico?

Non c’è in noi alcun dubbio che chiunque si accosti senza pregiudizi al Messale romano tradizionale possa ripetere l’esperienza che ebbe dom Guéranger, quando per la prima volta, da semplice prete, si accostò accidentalmente al rito romano, egli che di quel rito fino ad allora era tutt’altro che simpatizzante: «Malgrado la mia poca simpatia per la liturgia romana, che d’altronde non avevo mai studiato seriamente, mi sentii subito penetrato dalla grandezza e dalla maestà dello stile impiegato in questo messale. L’uso della Sacra Scrittura, così grave e così pieno d’autorità, il profumo di antichità che emana questo libro, i suoi caratteri rosso e nero, tutto ciò mi trascinava a capire che stavo scoprendo dentro questo messale l’opera ancora vivente di questa antichità ecclesiastica per la quale ero appassionato. Il tono dei messali moderni mi parvero allora sprovvisti d’autorità e di unzione, avvertendo l’opera di un secolo e di un paese e nel contempo di un lavoro personale»(20). È l’esperienza che auguriamo di cuore a Lei e a tutti i confratelli del mondo!
Con stima.


Note

(1) Lettera a Paolo VI dei Cardinali Ottaviani e Bacci, 1.
(2) L’intervista, pubblicata in lingua francese da Courrier de Rome del giugno 2004, è integralmente consultabile sul sito www.unavox.it.
(3) K. Gamber, La Réforme liturgique en question, 1992, p.42.
(4) Pio XII, Mediator Dei, 20 novembre 1947.
(5) M. Barba, La riforma conciliare dell’«Ordo Missae», Roma, 2002, p. 214.
(6) A Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Roma, 1997, p. 443.
(7) Concilio di Trento, Sessione XXIII, 17 settembre 1562, Decreto e canoni sulla Messa, c. IV:
(8) M. Barba, La riforma conciliare …, cit., p. 137.
(9) A Bugnini, La riforma liturgica…, cit., p. 446.
(10) Cfr. ibid., p. 444.
(11) ibid., p. 448.
(12) ibid., pp. 448-449.
(13) Breve esame critico del Novus Ordo Missae, Le formule consacratorie.
(14) L. Bianchi, Liturgia. Memoria o istruzioni per l’uso?, Milano, 2002, p. 59.
(15) N. Giampietro, Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Roma, 1988, p. 234.
(16) Lettera a Paolo VI dei Cardinali Ottaviani e Bacci, 1.
(17) Cfr. C. Taylor, Hegel, Cambridge, 1975, p. 494.
(18) P. Guéranger, Institution liturgique, t. II, c. XX, pp. 393-394.
(19) K. Gamber, La Réforme liturgique…, cit., p.76.
(20) P. Guéranger, Mémoires autobiographiques (1805-1833), Solesmes, 2005, p. 81


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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