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Nova et Vetera Tradizione e progresso dopo il Concilio: la crisi nella Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 27/08/2011 18:23
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27/08/2011 18:23
 
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[...] La difficoltà e la prova della fede è quella di essere nuovi nell’antico e originali nel permanente, poiché appartiene all’uomo di essere produttivo con la libertà nell’ambito della verità esistenziale a ogni livello, anche a quello della fede e della salvezza. Lo spirito non è un canestro che riceve passivamente, ma un principio che attua se stesso «dirimendo» con la scelta l’alternativa della propria salvezza.
È questo il progresso nella continuità e fedeltà alla tradizione secondo la regola aurea di Vincenzo di Lerines, entrata nei testi autentici del magistero:
 «Insegna le stesse cose che hai imparato, così che dicendo in modo nuovo non dica cose nuove. Ma non ci sarà allora», si domanda egli subito, «nella Chiesa di Cristo nessun progresso? E come!», risponde, «e grandissimo. E chi è mai l’uomo tanto invidioso agli uomini, tanto odioso a Dio che cercherebbe di impedire questo? Beninteso, dev’essere un progresso, non un cambiamento: un autentico aumento per ciascuno e per tutti, per ogni uomo e per tutta la Chiesa, ma nel medesimo dogma, nello stesso senso e nella stessa formula»1. Tradizione nella modernità nel senso di una ripresa sempre rinnovata della verità antica per la salvezza degli uomini nuovi.

Chi pretende avanzare tagliando i ponti con il passato non avanza ma precipita nel vuoto, non incontra l’uomo storico in cammino verso il futuro della salvezza ma viene risucchiato dai gorghi del tempo senza speranza. La teologia contemporanea sembra in crisi proprio su questo punto, cioè quello della fede come tensione aperta fra i tempi della salvezza che è illuminata dalla presenza dello spirito di Cristo con la guida del magistero della Chiesa una santa cattolica apostolica.
Perciò viene da domandarsi: quale messaggio di salvezza può annunziare al mondo una teologia la quale, sotto il pretesto razionalistico della demitizzazione, svuota della loro realtà storica gli eventi di salvezza, lascia in ombra – qualcuno li nega o li omette completamente – i misteri e dogmi fondamentali del cristianesimo per applicarsi unicamente alle strutture socio-politico-economiche dell’uomo, rifiutando il sacro del mistero della caduta e della redenzione dell’uomo?

Quale principio di rinnovamento può essere una teologia che secolarizza senza scrupoli la morale e, quasi vergognosa dell’ideale di purezza e povertà cristiane del Vangelo, irrompe anch’essa per un’esistenza all’insegna del piacere, del rifiuto del sacrificio, e per la celebrazione aperta del sesso: brevemente, per allinearsi alla lotta di classe a braccetto con il marxismo, per proclamare l’innocenza liberatrice degli istinti con la brutalità della psicanalisi più avanzata? Che cosa deve o può fare il mondo di una teologia senza pudore, che disarma di fronte al male? che cosa può significare per la società consumistica, che sprofonda nella noia e nella ribellione dell’atto gratuito, una simile teologia che per salvare il mondo si abbevera al veleno che intossica il mondo? Non è questa una teologia del disprezzo di Dio, dell’uomo e del mondo? una teologia senza amore e senza pudore, che farnetica, come ammonisce lo stesso Vincenzo di Lerines, dietro le profanae vocum novitates?

Infatti, che cosa sta accadendo ora in teologia? o, piuttosto, che cosa sta accadendo da un paio d’anni o poco più anche in Italia, in questo campo che dovrebbe rappresentare l’orientamento di fondo della coscienza religiosa e il punto di riferimento di quanti aspirano a una verità e a un conforto oltre il tempo? Termini come «secolarizzazione» e «demitizzazione» nel campo biblico-dogmatico (e nel campo morale quelli di «psicanalisi» ed «etica della situazione») sono passati sulla Chiesa post-conciliare come un turbine di fuoco facendo il deserto dello spirito. Il pubblico dei fedeli, anche quello che frequenta le chiese e segue devoto i riti liturgici, si domanda sbigottito e smarrito che cosa sta accadendo. La stessa stampa laica, una volta sprezzante e assente, si sta buttando da qualche tempo sull’argomento come su un boccone ghiotto, gongolante nell’assistere allo spettacolo o regalo offerto dagli stessi teologi e uomini di Chiesa con l’affossamento di quelle verità che fino a ieri si presentavano eterne e che traevano da questa perennità nello scorrere del tempo l’efficacia di conforto sul male e di salvezza dal peccato.

È a conoscenza di tutti che un numero di «Panorama» del 1972 (n. 349-350) ha presentato in un modo, piuttosto pittoresco, ma sintomatico, il sabba del sesso con il consenso di rappresentanti della nuova teologia. Qui la sconcezza dell’esposizione non ha carattere episodico ma è il segno e il sintomo del rigurgito di una società in putrefazione, che trova per la prima volta nella sfera della stessa teologia cattolica ammiccamenti e consensi di autentica solidarietà. Ciò che fino a pochi anni fa incuteva orrore e costituiva peccato, ed era evitato perciò come tentazione, ora anche da questa teologia è preso per tabù repressivo dell’espansione e celebrazione della vita. Nei seminari le nuove norme hanno introdotto la psicologia sessuale (non bastava per una pastorale sana un buon corso di psicologia dell’età evolutiva con elementi di psicopatologia?) e l’effetto è stato immediato: i seminari si sono svuotati e le siepi di ortiche pullulano di tonache di preti e frati convolati allegramente (ma non tanto, poi!) alla proclamata integrazione affettiva.

Nella lotta della Chiesa per la difesa della dignità della vita e per l’esaltazione della purezza degli affetti, ammirata e raccomandata (anche se raramente praticata) dallo stesso paganesimo e nel pensiero moderno da un ateo come Fichte e da un materialista come Feuerbach, questi nuovi teologi si sono decisamente schierati e si stanno schierando dall’altra parte della barricata, quella dell’edonismo e della volgarità: non sono essi certamente disposti a difendere ancora la dottrina tradizionale sulla dignità del matrimonio, a trasmettere alle anime e ad applicare i documenti del magistero (diventati piuttosto rari, ma chiari e sufficienti). Invece questi giovani teologi buttano all’aria il fondamento della dogmatica e rifiutano l’ascetica per proclamare l’impegno di esperimenti da liaisons dangereuses: quello che prima era fango e miseria morale, ora passa per attuazione della personalità e, nei casi limite, è classificato al più come aberrazione psicologica e malattia. Il peccato, che l’antica teologia qualificava come prevaricazione della libertà e offesa di Dio, è diventato ora un affare privato dell’uomo con se stesso, che non ha né può avere alcuna incidenza con il rapporto a Dio: il peccato, nel senso della teologia classica, è per costoro invece ridotto a un residuo dello schiavismo spirituale di epoche di arretramento economico e sociale.

Non per nulla questi «pornoteologi» parlano con estrema serietà della funzione liberatrice del marxismo e del freudismo più outrancé. Ma non parlano soltanto: essi si schierano apertamente a fianco dei Filistei, dei Gebusei e dei Ferezei… contro il popolo eletto dei credenti: scorrazzano per i convegni, da un capo all’altro dell’Italia – e pare che abbiano fatto Pro Civitate Christiana di Assisi la loro «Cittadella» – per proclamare la libertà sartriana dell’atto gratuito, emuli di certi Catari medievali. E se l’autorità è intervenuta qualche volta allontanando dalla cattedra qualche falso profeta o richiamando all’ordine i più esagitati – i quali comunque stanno conducendo una fortunata marcia di occupazione delle cattedre nelle stesse facoltà teologiche di Roma e fuori Roma –, costoro sono i primi a strillare e protestare. La criticano come relitto di oscurantismo, la accusano come istituzione repressiva con i «fermi di polizia» teologica, la rifiutano come istituzione decrepita «fuori del tempo» e sorda al messaggio autentico di liberazione dell’uomo da parte della scienza, della tecnica, del benessere, del week-end, ecc. ecc.

A questa teologia morale del rifiuto della legge morale naturale fa da spalla, anzi da fondamento, una teologia dogmatica del rifiuto dei dogmi e dello sviamento delle verità fondamentali del Credo: un’improvvisa e totale capitolazione di fronte al razionalismo della teologia liberale protestante, colorato oggi da un pizzico di esistenzialismo e da molto marxismo. Questo rifiuto dei dogmi, assieme a quello del princìpi della morale che mirava a restituire e a salvare nell’uomo l’immagine di Dio, fa appello allo spirito di apertura del recente Concilio e di papa Giovanni che l’ha convocato, scambiando, con impudenza pari all’audacia, la disponibilità all’ascolto e alla comprensione con lo smussamento dei confini fra il vero e il falso, fra il bene e il male. Il card. Dell’Acqua, che fu prima segretario e poi intimo collaboratore del Papa del Concilio, protestò energicamente contro una siffatta strumentalizzazione dell’aggiornamento indicato da papa Giovanni come attuazione dell’ideale cristiano di purificazione della vita privata e sociale, per portarlo avanti in una direzione che è direttamente opposta a quella voluta dal Concilio e dal Papa: «Occorre… intenderci sulla parola di moda aggiornamento. Se per aggiornamento si vuol dire adeguamento alle odierne necessità attuando le direttive del Vaticano II e del Papa, allora piena approvazione e totale appoggio.

Ma se, invece, si volesse intendere – come purtroppo da taluni almeno in pratica si fa – libertà cioè di interpretare la sacra Scrittura e la Tradizione: libertà di insegnare una morale in contrasto con il magistero, allora si deve chiaramente affermare che non si tratta di aggiornamento, bensì di scardinamento delle strutture fondamentali della Chiesa; il che è da deplorare senza sottintesi: né si dica che quello era il pensiero di papa Giovanni XXIII. Ho avuto l’onore e la gioia di servire da vicino un così grande e indimenticabile Pontefice. Posso, anzi debbo dichiarare che si farebbe un torto a un Pontefice, venerato da cattolici e non cattolici, da credenti e non credenti, sostenere una tale mostruosa tesi, ben lontana dal modo di pensare e di operare di papa Giovanni.
Questi era “ortodosso” nel senso completo della parola, tradizionalista, ma nel senso giusto e vero di tale espressione, non conservatore nel senso sopra accennato». [...] Ma i teologi di oggi preferiscono adagiarsi nei gioachimismi sociologici e politici come programma della loro «reinterpretazione» del cristianesimo. Questa pretesa «reinterpretazione» si sta dimostrando in realtà un capovolgimento della dottrina tradizionale della Chiesa, sia in dogmatica come in morale, in quanto alla presentazione dei dogmi fondata sulla trascendenza della Rivelazione viene sostituito il principio moderno di immanenza, e al posto dell’ascesi cristiana di lotta contro le passioni e di espiazione del peccato si proclama la morale permissiva di conformità al principio edonistico della società consumistica del nostro tempo.

Il successo di questo movimento teologico è imponente e si dirama con manovra avvolgente dentro e fuori il mondo ecclesiastico, penetrando i movimenti contestatori sia della borghesia clericale sia delle ampie frange marxistiche del laicismo cattolico. Questo movimento sta largamente dominando l’editoria cattolica di tutto il mondo con abbondanza di mezzi e iniziative fervide e audaci: collane di studi, enciclopedie, riviste… a getto continuo. Così essi hanno potuto polarizzare l’opinione pubblica e perfino con abili slogan intimorire, e qualche volta perfino trascinare al proprio seguito, non pochi membri dell’episcopato e personaggi influenti nel governo della Chiesa.
È vero che c’è ancora una fascia notevole di teologi che restano fedeli alla tradizione e alla guida del supremo magistero: ma spesso sono quasi paralizzati, e la valanga dei progressisti li sta isolando e boicottando. I progressisti infatti si presentano come gli interpreti autentici, capaci di «portare avanti» il progetto dell’aggiornamento proposto dal Vaticano II.

Ma i teologi tradizionali li accusano di ritorno alla gnosi, di tradimento del messaggio salvifico mediante la «resa al mondo» e l’adesione alle concezioni protestanti e «libertine» nel campo del dogma e della morale. I progressisti invece irridono alle condanne del Vaticano I, della Pascendi di S. Pio X e della Humani generis di Pio XII… e affermano che il Vaticano II avrebbe fatto un taglio netto con la tradizione, che avrebbe liquidato definitivamente il principio di autorità, introducendo il principio carismatico, glorificato i modernisti proclamando la libertà religiosa illimitata, l’ecumenismo e il pluralismo teologico incondizionati, accettando il secolarismo e la demitizzazione…

(P. Cornelio Fabro, L'avventura della teologia progressista)



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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