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Nova et Vetera Tradizione e progresso dopo il Concilio: la crisi nella Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 27/08/2011 18:23
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31/08/2009 21:59
 
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Tenendo a mente questo Thread:

CONCILIO ED ANTI-CONCILIO: le false interpretazioni

Inseriremo qui a "piccole" dosi e dunque non integralmente, un libro davvero stupendo sul quale riflettere l'attuale NOSTRA posizione nella Chiesa, dalla quale deriva poi la situazione attuale della Chiesa....

Il Libro è scaricabile dal sito amico:
www.totustuus.net qui occorre registrarsi per accedere alla pagina: LIBRI DA SCARICARE, una volta dentro andate nella sezione Pastorale e troverete il testo integralmente e molti altri....

Buona meditazione....

LUIGI MARIA CARLI (1914-1986)
GIA' VESCOVO DI SEGNI E DI GAETA

NOVA ET VETERA. TRADIZIONE E PROGRESSO NELLA CHIESA DOPO IL VATICANO II

ISTITUTO EDITORIALE DEL MEDITERRANEO, 1969

(..)
Per dirla subito e in breve, è mio convincimento che nella Chiesa cattolica si stia attraversando una crisi gravissima, sul cui esito, ove non intervengano fatti nuovi, non oso azzardare alcuna previsione. D’altronde, in un campo come questo, dove giuocano in maniera del tutto eccezionale i liberi interventi di Dio e degli uomini, non si dimostrerebbero fallaci tutte le leggi della previsione umana? Nemmeno l’esperienza della storia bimillenaria della Chiesa potrebb’essere sicuramente indicativa, perché la Chiesa non è uscita alla stessa maniera né in uguale spazio di tempo dalla crisi gnostica, dalla crisi ariana, dalla crisi delle investiture, dalla crisi protestante, dalla crisi modernista.
L’attuale è una crisi ben più grave di quella modernista; assieme a molti altri, ne sono persuaso. Che sia più grave ancora di quella protestante, sono in molti, e molto dotti, a pensarlo.

Intendiamoci bene. Non mi difetta, grazie a Dio, il fondamentale ottimismo di chi crede nella divina origine e costituzione della Chiesa cattolica, nella permanente assistenza dello Spirito Santo, nella promessa di Gesù che chiama a fiducia il drappello dei suoi primi apostoli: “Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo” (Giov. 16, 33), e assicura che “le potenze dell’inferno non prevarranno sulla sua Chiesa” (Mt. 16, 18).
Sono anch’io figlio della speranza cristiana. Tengo per indubitato che soltanto a Dio spetta l’ultima parola, la parola della vittoria. Ma, quando vorrà Egli dirla, dopo quante e quali prove, e forse battaglie perdute, io non so. “Il Padre ha riserbato al suo potere i tempi e i momenti decisivi” (Atti 1,7).

La mia fede e la mia speranza non mi autorizzano a scartare a priori l’ipotesi che la Chiesa, indefettibile per garanzia di Gesù, possa conoscere anche nell’epoca attuale giorni di grandi tribolazioni, apostasie vaste e clamorose, smarrimenti di pastori, lagrimevoli perdite di anime. Il cuore potrà suggerirmi il desiderio che Dio risparmi alla sua Chiesa una tale iattura; ma il freddo raziocinio non me ne dà, oggi come oggi, alcuna certezza.
Certo, la Chiesa possiede tante e tali risorse interiori che di qualsiasi epoca, anche la più triste, può fare una primavera pentecostale. Ma nei suoi membri umani essa ha, purtroppo, tanta fallibilità da poter vederle tutte neutralizzate, quelle risorse, e la grazia stessa di un Concilio risolversi praticamente in un fallimento, per non dire occasione di rovina per moltissimi.

Preferisco dire crisi nella Chiesa, anziché crisi della Chiesa. Già S. Ambrogio precisava che “non in se stessa, ma in noi, è ferita la Chiesa; badiamo, dunque, che il nostro fallo non diventi lacerazione della Chiesa” (2). La Chiesa, dunque, santa Sposa di Cristo, rimane danneggiata dalle colpe dei suoi stessi figli. È una eventualità verificabile in ogni tempo, anche in quello post-conciliare. Sarebbe, pertanto, una sottile forma di trionfalismo volere, a tutti i costi, attribuire alla situazione particolare della Chiesa uscita dal Vaticano II ciò che le è stato divinamente garantito solo in prospettiva globale ed escatologica.
Crisi gravi, anzi gravissime, la Chiesa ha conosciuto anche in altre epoche della sua storia, anche dopo altri Concili. Ha superato quelle; supererà anche questa, non v’è alcun dubbio. Ma è sul prezzo che essa dovrà pagare per tale superamento che qui ci si interroga con trepidazione. In altre parole: io non mi domando, come ha fatto qualcuno che non aveva più la fede, se la Chiesa avrà un domani, ma quale sarà il domani della Chiesa dopo il passaggio dell’attuale ciclone.

Dico francamente che mi stupisce assai la sicurezza, quasi aprioristica, con cui da molti si qualifica l’attuale soltanto come “crisi di crescenza”, “esuberanza di vitalità” della Chiesa, preventivata dopo ogni Concilio, anzi necessaria e provvidenziale, comunque di breve durata. Tale sicurezza, a mio avviso, è pericolosa anche perché, se di null’altro si tratta che di crescenza, viene spontaneo il concluderne: fenomeno normale, s’aggiusta da sé, non preoccupiamocene troppo!

Temo che si dia corpo ai propri lodevoli desideri. Sinceramente, bramerei anch’io che l’attuale crisi fosse per tutta la cattolicità il crogiuolo temporaneo attraverso cui la vita di fede e di grazia si faccia più pura, più ricca, più personale. Ma chi o che cosa mi autorizza a scartare il dubbio che quell’opinione, pur largamente condivisa, possa risultare un tragico tranquillante? Che non già la fede e la grazia siano in crescita, non già l’impegno morale della sequela di Cristo si vada estendendo ed affinando, ma, piuttosto, siano in fase di crescita galoppante il razionalismo e il naturalismo, che svuotano di contenuto religioso e fede e morale, e la contestazione teorica e pratica dell’autorità sacra, che mina dalle fondamenta l’edificio della Chiesa?

Si ripete spesso, con l’aria. quasi di chi alza la voce per farsi coraggio: “Non sono più i tempi degli scismi! Roba del passato!”. Fosse vero. Ma perché mai gli scismi non sarebbero oggi più possibili? Dove sta scritto? Chi l’ha decretato? E non dimentichiamo che, ancorché non più dichiarati formalmente, come un tempo, mediante la pubblica affissione di tesi ereticali da una parte e bolle di scomunica dall’altra, gli scismi più insidiosi e deleteri rimangono quelli negati a parole ma esistenti nei fatti. La conclamata volontà di certi novatori di “andare avanti restando nella Chiesa” potrebbe anche significare il deliberato proposito di giuocare allo svuotamento del cristianesimo dal di dentro, di “portare l’infedeltà nel cuore stesso della Chiesa”. Costoro potrebbero rimanere dentro le strutture, perché gli riesca più facile “non solamente interpretare la realtà della Chiesa, ma cambiarla, alla luce del vangelo di Gesù Cristo”. Questo fenomeno — riconosciamolo pure, con sincerità — non avveniva dopo i Concili del passato, quando i contestatori del magistero ecclesiastico se ne separavano apertamente. Così, almeno, la nettezza delle posizioni assicurava la purezza della fede dei cattolici!

Trovo scritto che lo sbalordimento prodotto dai fenomeni che avvengono oggi nella Chiesa “non arriverà certo al vertice parossistico quale lo vide S. Girolamo, quando nel 350, dopo furiosi dibattiti politico-conciliari, rivelò che il mondo intero, addolorato, era stupito di ritrovarsi ariano”. Non arriverà certo... Ma donde tanta certezza? Perché non potrebbe accadere, poniamo tra qualche decennio, che un secondo S. Girolamo fosse costretto a riconoscere, gemendo, che l’intera cristianità non si ritrova più cristiana?
L’espressione “crisi di crescenza” merita di essere considerata più da vicino. Essa deriva dal linguaggio della fisiologia degli organismi materiali, soggetti a leggi necessarie. Una pianta, un animale, un corpo urbano, per il fatto stesso che vivono, bene o male sono in crescita (una crescita, ovviamente, necessaria), fino al termine del periodo del loro naturale accrescimento, diverso da specie a specie. Questa crescita può essere accompagnata da fenomeni morbosi collaterali, prodotti dallo stesso sviluppo ma tali da non bloccarlo. In altre parole: gli organismi materiali si sviluppano nonostante le loro “crisi di crescenza”.

Ma una simile espressione non potrebbe applicarsi senza molte riserve ad un organismo soprannaturale come la Chiesa. Corpo mistico di Cristo, essa è, per vocazione essenziale, sempre chiamata a crescere “nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e Salvatore Gesù Cristo” (2 Pt., 3, 18). Ma trattandosi di una crescita libera e volontaria, possono darsi periodi di stasi o anche di regresso. Se fosse vero che la crisi attuale nella Chiesa è una crisi di crescenza, bisognerebbe concludere che lo stato di crisi è il suo stato normale, chiamata com’essa è a crescere sempre, senza alcun limite e senza soluzione di continuità! Viceversa, per la Chiesa le crisi consistono proprio nella mancata sua crescita. Or dunque, i fenomeni aberranti che oggi si lamentano, lungi dall’essere il segno o l’effetto della sua crescita, costituiscono piuttosto il bloccaggio del suo sviluppo, perché la crescita soprannaturale non può produrre morbilità.


“Dal frutto si conosce l’albero” (Mt. 12, 33), ha detto Gesù. Diagnostichiamo, dunque, la natura della crisi dai frutti che essa produce. Illudersi ancora sulla sua natura è, a mio avviso, uno dei sintomi più allarmanti della sua gravità.
Siamo avvertiti, pertanto, che crescita o regresso, progresso o involuzione si stabiliscono per la Chiesa in base a criteri completamente diversi da quelli delle società umane. Il parametro della sua crescita o della sua crisi è unicamente quello soprannaturale: cioè, la crescita o la crisi della fede, della speranza e della carità.
Se oggi esiste crescita nella Chiesa — ed esiste, grazie al Cielo — si trova proprio in quella porzione della Chiesa che non provoca la crisi, non partecipa alla crisi, supera la crisi altrui. L’altra porzione, quella in crisi, non produce crescita ma regresso! Altro che dire, dunque, con tanta stampa cattolica timorosa di apparire retrograda e integrista: “la crisi è segno di vitalità”; “è meglio la contestazione che l’immobilismo”; “se ci si interessa tanto delle cose di Chiesa, è segno che la Chiesa è in crescita”; “vive sono le comunità ecclesiali dove ci si ribella anche al proprio vescovo, morte le altre dove non succede niente”! Simili ragionamenti sono di pretta marca naturalistica.

Comunque una cosa è certa, e degna della massima riflessione. In termini ben diversi da quelli degli ottimisti ad oltranza, sulla crisi che travaglia il mondo cattolico, si esprime ormai da anni, quasi ogni settimana, il santo Padre Paolo VI. Egli si dimostra pienamente fiducioso in Dio ma, al tempo stesso, angosciato per i non pochi e non piccoli sintomi di un turbine di idee e di fatti, quale nessuno avrebbe immaginato potesse scatenarsi dopo il Concilio: sintomi che egli nettamente individua e descrive, sia pure con la carità che si astiene dall’indicare per nome le persone dei responsabili.

Leggerlo in quel suo ragionare sempre calibrato e suggestivo, coglierne anche solo l’inflessione della voce che fonde insieme il calore della cordiale partecipazione e la precisione di un intelletto educato alla lucidità dei concetti, e poi sapere l’accoglienza che riceve in molte parti il suo grido di allarme, viene spontaneo il ricorso ad una situazione analoga, verificatasi nella primitiva chiesa di Gerusalemme. Tra il 60 e il 70 d.C. — dicono gli esegeti — quella comunità cristiana, provata da molestie da parte dei vecchi correligionari, quasi vergognosa della propria umile condizione a confronto dello splendore del culto giudaico tuttora imperante, dovette provare la stanchezza del sentirsi cristiana in un mondo aperto a tutt’altri valori che i suoi, refrattario al messaggio di Cristo. Fu allora che l’autore ispirato della Lettera agli Ebrei rincuorò quei cristiani tentati, descrivendo la superiorità del sacerdozio di Cristo, e li esortò a non vergognarsi dell’obbrobrio della Croce del Signore. E chiuse con un monito che non è irriverente ripetere ai cattolici di oggi, non meno tentati di stanchezza di quelli gerosolimitani, a proposito della rispettosa sottomissione dovuta al loro supremo Pastore: “Ubbidite alle vostre guide e siate sottomessi; giacché esse vegliano per le anime vostre come coloro che hanno da renderne conto; affinché questo compiano con gioia, e non gemendo: ché ciò non sarebbe espediente per voi” (Ebr. 13, 17).

Ma tra i “segni dei tempi” registriamo ancor questo, con stupore e dolore: il nessun conto che fanno molti cattolici, chierici e laici, della parola del Papa, quando non la coprono d’irriverente sarcasmo o non ne fanno segno di contraddizione!
E non è privo di interesse notare come, in questi ultimi tempi, abbiano cambiato di tono anche taluni ottimisti di fama mondiale, unendosi a Paolo VI nel dare l’allarme su quella che non hanno temuto di chiamare “apostasia immanente”. Peccato che quelle brave persone non si siano domandato, con pari lealtà, quanta parte abbiano avuto i loro scritti di prima nella semina del vento, da cui stiamo raccogliendo questo po’ po’ di tempesta!

Lo so bene che, oggi, tanto è di moda adottare l’ottimismo ad oltranza, quanto impopolare accettare il rischio di passare per disfattisti atrabiliari. Non si fa in tempo ad aprire bocca per esprimere timore e dolore che ve la chiudono subito con un rimando alla santa memoria di Papa Giovanni. “A noi sembra — disse egli un giorno — di dover dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo”. Ma il Servo di Dio parlava così l’11 ottobre 1962, in apertura del Concilio Ecumenico, non già nel 1969! E, quel che più conta benché non lo si voglia affatto precisare, egli si riferiva alla situazione esterna alla Chiesa, mai e poi mai immaginando quale turbine si sarebbe scatenato, all’indomani stesso della chiusura del Concilio, proprio nell’interno della Chiesa.

Un turbine di dottrine ereticali e di fatti aberranti!
Il patrimonio della bimillenaria tradizione ecclesiastica ripudiato quasi tutto; contestato da molti il magistero del Romano Pontefice e dei vescovi; violata sfacciatamente la legge del celibato sacerdotale, e chiesta a gran voce la sua abolizione, ma senza la cessazione dei soggetti dal ministero; legittimate, applaudite e favorite le fughe più clamorose (monsignori, superiori religiosi, teologi, ex-periti conciliari, ecc.) dagli impegni giurati del sacerdozio e della vita religiosa, e perfino dal cattolicesimo stesso; le sacre vocazioni in disistima e quindi in notevole calo; i seminari e gli studentati religiosi ridotti di numero e di frequenza; reclamata una teologia con meno dogmi e una morale senza troppi obblighi! Tutto questo, ed altro ancora, esulava certo finanche dall’immaginazione di quell’Anima grande e santa.

Non era questo il “balzo in avanti” che Giovanni XXIII sognava di far compiere alla Chiesa. Non una crisi quale quella che stiamo soffrendo oggi era la ripulitura che egli intendeva apportare al volto, forse un po’ sfiorito ma sempre sostanzialmente fedele, della Sposa di Cristo. Per lui, come per Paolo VI e per quant’altri intendono rimanere fedeli alla Chiesa, la vera riforma non può significare se non crescita della fede, della speranza, della carità; culto dell’umiltà, dell’ubbidienza, della preghiera; più amore alla Ss. Eucaristia, alla Madonna, al Papa; maggiore slancio missionario ed apostolico; pratica della disciplina ascetica. In una parola, il progresso legittimo e vero consiste in una più seria e costante imitazione di Gesù Crocifisso. Se non si cresce qui, è vano cianciare di vitalità o crescenza della Chiesa!

La crisi attuale è gravissima proprio perché all’inizio e al fondo di essa esiste una crisi di fede. Ecco perché tutte quelle verità, tutte quelle scelte, tutti quei valori che poggiano sulla fede vengono contestati. È scossa alle radici la fede negli “invisibilia Dei” perché gli animi si sono lasciati sedurre dai comodi e tangibili “visibilia mundi”, dai portenti della scienza e della tecnica. Anche la crisi protestante fu crisi di fede e rifiuto dell’autorità di Roma. Ma mentre quella respingeva la fede “cattolica” per ritrovare una sua fede “evangelica”, mentre coonestava la propria disubbidienza con la vita poco edificante della gerarchia ecclesiastica, la crisi d’oggi respinge la fede in se stessa, e contesta il fondamento di principio di ogni autorità, anche se esercitata dalle persone più sante.

Oggi non può dirsi in crescita la fede oggettiva, quando non esiste articolo del Credo che non si tenti di “reinterpretare”, “ridimensionare”, “ridurre a misura d’uomo”: in parole povere, svuotare di ogni contenuto e così espungere dall’oggetto della fede cattolica. Non può dirsi in crescita la fede soggettiva, quando questa totale adesione al Dio che si è rivelato, e la certezza intellettuale che ne consegue, vengono scosse nella loro fondamentale motivazione, sottoposte al logorio del dubbio sistematico, turbate o, quanto meno, rese più difficili proprio da coloro che quella adesione e quella certezza avrebbero la missione di difendere, giustificare, rafforzare.


*******************

continueranno altri passi significativi.....






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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