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La Musica Sacra nel Culto Cattolico (Il canto gregoriano, gli Inni)

Ultimo Aggiornamento: 25/08/2012 16:27
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17/03/2011 12:01
 
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La musica, quel gemito ineffabile che grida nel silenzio



di Aurelio Porfiri*

MACAO, martedì, 15 marzo 2011 (ZENIT.org).- “Perché contemplando te, tutto viene meno…”. Tempo fa, mi sono impegnato in un commento del bellissimo inno eucaristico medioevale “Adoro Te devote”. Proprio alla fine della prima strofa c’è questo bel verso che abbiamo appena citato. Da musicista e da credente peccatore, mi sono sentito estremamente sollecitato da questo verso, in quanto per me racchiude una verità profonda che va oltre probabilmente l’intenzione dell’autore dell’inno (tradizionalmente attribuito a san Tommaso d’Aquino).

Qui s’incontrano Dio, la musica, le nostre menti, il silenzio…Innanzitutto mettiamo le carte in tavola: chi mi legge non è certo a digiuno di tematiche che trattano il silenzio. In effetti se ne parla sempre molto e lo si nomina a proposito e, spesso, a sproposito. Ma, anche se so di parlare a degli “intenditori”, permettetemi lo stesso di dire due parole su come questo musicista vive il silenzio prima di addentrarmi per quanto possibile nel tema centrale dell’articolo.

Io sono un “cercatore del silenzio”. Come ho scritto da altre parti, ho sempre vissuto con angoscia i silenzi imposti nei ritiri parrocchiali, quando un prete di buona volontà ci intimava improvvisamente: “e ora ognuno per conto suo per due ore a meditare in silenzio!”. Due ore in silenzio!? E che faccio in questo tempo? Perché ho scoperto solo molto più tardi che questo atteggiamento nascondeva un errore di fondo ancora oggi molto vivo nel mondo cattolico e specificamente in quello liturgico. Il silenzio è visto e concepito come assenza di suono: stiamo zitti. E io per molti anni ho creduto che fosse proprio così. Poi la mia formazione musicale mi ha messo in contatto con quel repertorio venerabile della tradizione cattolica che viene chiamato con nome improprio, ma oramai convenzionale, “canto gregoriano”. Qui c’è stata una prima svolta verso una concezione del silenzio più matura. Grazie soprattutto allo “Jubilus”. Cosa è? Negli Alleluia del repertorio classico gregoriano (quello più autentico), sull’ultima sillaba di solito c’è un melisma a volte molto esteso, in cui sembra che la parola perda l’efficacia significante e il testo si perda nel regno dell’afasia. Ecco lo jubilus! È il dire non dicendo. Agostino dedicherà pagine memorabili proprio allo jubilus. Specialmente questa:

Cantate a Lui un cantico nuovo. Spogliatevi di quanto è in voi vecchio: avete conosciuto il cantico nuovo. Nuovo uomo, Nuovo Testamento, nuovo cantico. Il cantico nuovo non compete a uomini vecchi: lo apprendono solo gli uomini nuovi, rinnovati dalla vecchiaia per mezzo della grazia, che già appartengono al Nuovo Testamento, che è il Regno dei cieli. Ad esso sospira tutto il nostro amore, e canta il nuovo cantico. Lo canti però non con le labbra, ma con la vita. Cantategli un cantico nuovo: bene cantate a Lui. Ognuno chiede in qual modo cantare a Dio. Canta a Lui, ma canta bene. Egli non vuole che le sue orecchie siano offese. Canta bene, fratello.(…) Quando puoi offrirgli una così elegante bravura nel canto da non essere in nulla sgradito ad orecchie così perfette? Ecco che Egli quasi intona per te il canto: non cercare le parole, quasi che tu potessi dare forma a un canto per cui Dio si diletti. Canta nel giubilo. Che significa giubilare? Intendere senza poter spiegare a parole ciò che con il cuore si canta. Infatti coloro che cantano, sia mentre mietono, sia mentre vendemmiano, sia quando sono occupati con ardore in qualche altra attività, incominciano per le parole dei canti ad esultare di gioia, ma poi,quasi pervasi da tanta letizia da non poterla più esprimere a parole, lascian cadere le sillabe delle parole, e si abbandonano al suono del giubilo. Il giubilo è un certo suono che significa che il cuore vuol dare alla luce ciò che non può essere detto. E a chi conviene questo giubilo se non al Dio ineffabile? Ineffabile è ciò che non può essere detto: e se non puoi dirlo, e neppure puoi tacerlo, che ti resta se non giubilare, in modo che il cuore si apra a una gioia senza parole, e la gioia si dilati immensamente ben al di là dei limiti delle sillabe? Bene cantate a Lui nel giubilo”. (Esposizione II sul Salmo 32, Discorso 1, 8).

Non c’è dubbio che si tratti di un testo straordinario da leggere e meditare con attenzione. Ma vorrei soprattutto concentrarmi su una delle ultime frasi, in modo così da collegarmi all’oggetto principale dell’articolo. Sant’Agostino dice che la gioia si dilata immensamente fino ad andare ben al di là del limite delle sillabe. Ma quanto godiamo nel canto possiamo goderlo nella contemplazione orante di Dio. In effetti, il canto è contemplazione orante già di per sé. Si arriva ad un certo limite in cui quello che si può dire, fare, toccare, articolare, viene meno. Ma qual è l’oggetto di questa dilatazione contemplativa? Non so che chiamarlo “silenzio”. Ma allora il silenzio non è più assenza di suono, ma pienezza di senso. Dunque non si “fa silenzio” in modo meccanico, ma il vero silenzio è una scuola di alta mistica che merita ben altra applicazione. Quando le parole perdono efficacia, quando le sillabe vengono dilatate fino alla loro massima capacità fino a disintegrarsi, quando la voce cede il passo all’afasia, ecco che una dimensione altra si impone.. Ecco quel contemplare che crea il “deficit”, la mancanza, il “vuoto pieno”. Anche le parole, seppure ispirate, ad un certo punto falliscono. Bruno Forte:

Noi accoglieremo la Parola, ed essa sarà per noi la porta e la via, se, ascoltandola, la trascenderemo verso il Silenzio della sua origine. Obbedisce veramente alla Parola chi “tradisce” la Parola, chi non si ferma alla lettera, ma ruminando la Parola, scava in essa per entrare nei sentieri del Silenzio. Perciò è doveroso non pronunciare mai la Parola, senza prima aver lungamente camminato nei sentieri del Silenzio. Questo ci dice la rivelazione cristiana: Dio è Parola, Dio è silenzio. La Parola è e resta l’unico accesso al Silenzio della divinità, l’indispensabile luogo a cui resteremo sospesi, come inchiodati alla Croce” (Confessio Theologi, Cronopio Editore, Napoli 2002, pag. 27-28).

Il fine di ogni musica e, vorrei dire, di ogni vita, è quello di ritrovarsi in questo silenzio originario e originante, questo silenzio che è mistero ma non nel senso di arcano, magico, lontano. È mistero che si svela velandosi, è itinerario della mente a Dio (per citare san Bonaventura), è perdersi per ritrovarsi. Ecco! Lo smarrimento! Perché non invocare lo smarrimento, quello smarrimento che non è vagare nel nulla ma nuotare nella pienezza, nell’oceano di Dio di cui non sappiamo distinguere le rive ma sappiamo appena intravedere l’azzurro che ci sovrasta e circonda. Non è questo smarrimento il dono d’amore della sposa nel Cantico dei Cantici? Dove è il mio amato? Dove lo avete portato? Ne spia i rumori, “è il mio diletto che bussa…”. Questo dialogo d’amore si svolge avvolgendo i protagonisti: più ci sembra di perderci, più ci ritroviamo. Non è il perdersi in se stessi, nei propri vizi, nelle proprie paure, nei propri problemi. È il perdersi nell’altro, quello smarrirsi che fa sembrare inutile dirsi “ti amo”. Già tendiamo sempre a verbalizzare tutto, pensiamo che il debole intelletto possa supplire all’immenso che ci sovrasta. Invece è proprio la musica che ci mette dentro quel gemito ineffabile che grida senza posa dalle profondità più recondite del nostro essere. La musica è memoria di eterno, è ritorno del già perso, è ritrovare per ritrovarsi. Invece di perdersi in beghe parrocchiali, i musicisti di chiesa dovrebbero sempre meditare su questo punto e sulla responsabilità di cui sono investiti. Invece ci si battaglia sulle note e si perde di vista la musica. Certo le note sono importanti, se non ci si ferma lì.

“Totum deficit…” come ci fa paura questa “mancanza”. Il silenzio ha una sua grammatica, un suo stile, un suo modo di parlare, senza di essa abbiamo solo un’assenza di suono. Ritroviamoci alla scuola del silenzio, affinché ogni nota, ogni parola, ogni suono lasci spazio al gemito ineffabile che implora da ciascuno di noi.



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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E' professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L'Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E' socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell'Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l'ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.


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Lo “splendore del suono” che eleva a Dio


 

di Aurelio Porfiri*


ROMA, martedì, 31 maggio 2011 (ZENIT.org).- Lo “splendore del suono” che è in grado di elevare a Dio le anime dei fedeli. Questo concetto espresso nella Sacrosanctum Concilium (SC) mi sembra estremamente interessante e degno di essere considerato in tutta la sua ponderosità, chiarendoci per primo cosa intendiamo per “splendore” e cosa dovremmo intendere per “elevare”. Sembra chiaro ma bisogna un po’ rifletterci sopra. Un autore del recente passato, Fiorenzo Romita, commenta in questo modo il passo della SC in questione:

Ma in che cosa consiste allora cotesto 'notevole splendore' del suono dell’organo, di cui parla la Costituzione? Non si tratta evidentemente della semplice materialità del suono dell’organo con tutte le possibilità di grande potenza fonica e di ricca tavolozza timbrica, nel più perfetto equilibrio dinamico e ritmico. Piuttosto è il clima di grandiosità e di mistero che il suono dell’organo sa creare, ciò che conferisce obbiettivamente alle stesse cerimonie della Chiesa un notevole splendore (…) 'Per visibilia ad invisibilia': come tutti gli elementi della Liturgia, così anche, in maniera eminente, il suono dell’organo che si traduce nell’essenza stessa della Liturgia, ossia nella preghiera, giacchè quel suono 'è in grado di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti'. E qui entriamo in un fenomeno ascetico e mistico, che è difficile da descrivere compiutamente con le parole umane, ma che tuttavia già i Padri della Chiesa, gli Scrittori Ecclesiastici, i SS. Pontefici, i Concili, alcuni Santi e Mistici hanno chiaramente intuito; e che i moderni studiosi di estetica della musica potrebbero sviluppare soddisfacentemente, se tenessero conto anche della teologia, della S. Scrittura, dell’agiografia ecc.” (Fiorenzo Romita, “La Musica Sacra e la Costituzione Conciliare sulla Sacra Liturgia” Descleè e C. – Roma, pag. 117-118. Non è presente l’anno di edizione ma deve essere molto vicino a quello di promulgazione del documento conciliare, diciamo quindi intorno al 1963).

Naturalmente l’insigne studioso si esprime con linguaggio e concetti che risentono dell’estetica ancora viva nel suo periodo (ma anche oggi…). Ma alla fine è interessante quel richiamo che fa agli studiosi di varie discipline (e molte altre se ne sarebbero aggiunte negli anni, ma lui non poteva saperlo) allo studio del modo in cui l’organo aggiunge questo splendore, che per il momento lui risolveva con la categoria del “fenomeno ascetico e mistico” di non facile descrizione a parole umane e quindi “misterioso”.Lo splendore è una qualità che fa in modo che una data cosa sia ancora più visibile: se diciamo che è venuta una certa persona “in tutto il suo splendore”, intendiamo che essa era al meglio delle sue possibilità e che quindi (sottointendiamo) era al centro dell’attenzione. Lo splendore aggiunge qualcosa a qualcosa. L’organo, quindi, aggiunge qualcosa in più al rito, lo fa “risplendere”. Il problema è che spesso su questi termini si sono giocate diatribe infinite fra chi intende lo splendore in un modo e chi in un altro, come del resto per cento altre diatribe tra opposte fazioni. Un giorno mi piacerebbe dire la verità su idee e persone in cui mi sono imbattuto durante il mio impegno in questo campo, sapendo di non offendere nessuno. Ma chissà che non sia vero quanto diceva Leo Longanesi: “Quando potremo dire tutta la verità, non la ricorderemo più”.

Lo splendore, dunque. Esso è certo collegato ad un valore artistico (riferendoci all’organo in questione, ma non solo) ma è mezzo e non fine. Lo splendore non è raggiunto con la proposizione di un’opera musicale solo in quanto essa è degna e artisticamente ben fatta; ma questo splendore si ha quando quell’opera esalta la natura intrinseca di quel dato rito (lo fa “risplendere”). Quindi il valore non è prima di tutto nell’opera in sé ma nella sua funzione. Sembra appropriato ricordare quanto citato precedentemente dal Motu proprio di San Pio X del 1903, in cui si diceva che doveva risuonare in chiesa quella musica che “risente della maestà del luogo”. Potremmo dire oggi, che “risente della natura del rito”. Ci è difficile oggi quantificare visivamente termini come “maestà” o “splendore”, proprio perché si corre il pericolo di darne interpretazioni fuorvianti e non adeguate. Nei tempi in cui venivano formulate, queste parole avevano una risonanza di un certo tipo: maestà e splendore erano collegate magari al fasto delle corti reali, alla sontuosità di certi palazzi o chiese; oggi queste cose sono molto di meno prese in considerazione, a vantaggio di altre immagini che potrebbero portarci completamente al di fuori del discorso che ci proponiamo.

Partecipare alla natura del rito per renderlo più splendido significa essere consapevole della natura di “ponte” che il rito svolge tra l’umano e il soprannaturale:

Ciò che si svolge nel cosmo, nel suo corpo o nella storia, in una certa misura fuori di se stesso, l’uomo cerca di padroneggiarlo, di addomesticarlo, di sottometterlo al suo dominio. Può fare questo sia riflessivamente, sia tecnicamente, sia “ritualmente”. In quest’ultimo caso lo vediamo costruire – parallelamente all’ordine cosmico, biologico e sociale – un altro ordine, detto rituale, che dà luogo a due ordini di realtà. Ciò che è angosciante (per il fatto di essere esteriore) è così integrato nell’ordine umano e come addomesticato” (G. Sovernigo, op. cit. pag. 64-65).

Per fare

sì che questo “contatto” avvenga, il rito svolge una funzione multiforme che è di importanza fondamentale, perché canalizza le emozioni e le ordina o riordina ad un fine più alto. Il rito “controlla” il sacro. Mi piace moltissimo questa riflessione di Giorgio Bonaccorso, e vi invito ad ascoltarla e a meditarla con me:

Il sacro non ammette costrizioni, restrizioni o definizioni; non ammette regole precostituite né leggi necessarie. Esso è dalla parte del caos. Il profano, anche da questo punto di vista, è il suo opposto. Nell’esistenza quotidiana, retta dalla profanità, vi sono leggi e regole, senza le quali non si potrebbe vivere. Il profano è dalla parte del cosmo. Ma anche il rito è fatto di regole senza le quali non potrebbe esistere. Il rito è cosmo e, in questo senso, appartiene al profano. Si tratta, però, di un cosmo che, per il modo delle sue regole, ossia delle sue azioni e dei suoi simboli, rimanda alle origini precosmiche, caotiche, e, per questo, appartiene al sacro. Il rito è tra il cosmo e il caos, tra il profano e il sacro. Non è possibile all’uomo un rapporto immediato col sacro, né sarebbe, per lui, sopportabile la caduta nel caos. Il rito appare, così, come la mediazione indispensabile grazie alla quale l’uomo può aprirsi all’origine ultima del suo essere, al sacro, senza essere divorato dal vortice di quell’origine. La liturgia, rito cristiano, è la grazia concessa all’umanità di accedere a Dio senza morire per averlo visto” (Giorgio Bonaccorso, “Il rito e l’altro”, Libreria editrice Vaticana, pag. 38).

Ma parlando il rito un linguaggio simbolico, bisogna che esso sia in grado di essere decodificato dai fruitori dello stesso. Quindi per avere questo splendore, bisogna che si metta in atto una simbolizzazione che la gente possa riconoscere. Pensiamo in questo alla grande saggezza degli antichi, che intessevano spesso le loro composizioni organistiche su temi di inni o corali che la gente poteva riconoscere e che magari avrebbe cantato 5 minuti dopo. Sia nella tradizione cattolica che in quella protestante quanta musica è stata concepita in questo modo! E questo vale anche per la polifonia. Si usavano anche temi “profani” nelle messe (ma attenti a non andare qui a conclusioni affrettate…) così che la gente potesse “connettersi” facilmente con quanto stava avvenendo.

L’organo è ancora in grado di fare questo (e quindi di elevare a Dio potentemente gli animi”, per stare al linguaggio un po’ ampolloso della SC)? Io credo di sì. Basta prendere un esempio dal mondo della comunicazione, mondo in cui la gente è immersa fino al collo e che anche forma il retroterra simbolico di moltissimi di noi. Se la pubblicità vuole evocare un’atmosfera sensuale quale strumento usa? Quasi sempre il sax, forse per il suo legame con i night club e con quel mondo lì. Se, al contrario, si vuole evocare un’atmosfera “di chiesa”, quale atmosfera sonora si usa per attivare (in solo pochi secondi, non dimentichiamolo) in noi l’ambiente del religioso? O il canto gregoriano o l’organo, da qui non si scappa. Quindi anche il moderno mondo della comunicazione afferma questo legame psicologico che c’è ancora nella nostra cultura tra l’organo e la chiesa. E non dimentichiamo che il target della pubblicità non è solo quello delle persone adulte ma spesso (e qualche volta, soprattutto) quello delle persone giovani. Quindi, appurato che psicologicamente siamo ricettivi a riconoscere l’organo come strumento liturgico, vediamo come l’organo riconosce noi come soggetti liturgici. Per partecipare al fine stesso del rito (e quindi aggiungervi quel valore che chiamiamo “splendore”) l’organo deve partecipare alle caratteristiche del celebrare cristiano che un autore già citato in precedenza divide come segue: 1) Celebrare è un’azione comunitaria; 2) si vive qualcosa che ci tocca in profondità; 3) è azione espressa con gesti rituali; 4) trasforma l’esistenza (G. Sovernigo, op. cit. pag. 52). Non sono sforzi da poco...

Azione comunitaria significa che ciascuno è in comunione con gli altri e l’organista deve, con la sua arte e capacità, favorire quell’unione. Come? Sostenendo il canto unisono dell’assemblea con proprietà e forza, in modo che la gente si senta spinta a cantare con un cuore solo ed un’anima sola. Mi ha sempre enormemente colpito ascoltare, specie nelle chiese protestanti, quando l’organista attacca con il ripieno l’introduzione di qualche inno e tutta l’assemblea, come un fiume di voci (di ambrosiana memoria) si unisce alla voce dell’organo per lodare Dio. Trovo bella ed appropriata questa espressione del beato Giovanni XXIII, pronunciata il 26 settembre 1962 in occasione della benedizione del nuovo organo della Basilica di San Pietro in Vaticano:

Durante lo svolgimento dei sacri riti (l’organo) diventa l’interprete dei comuni sentimenti, dei più nobili e santi trasporti” (Discorsi Messaggi Colloqui del S.Padre Giovanni XXIII.” Poliglotta Vaticana 1963, vol. IV, pp. 548-551 in Fiorenzo Romita, op. cit. pag. 116).

L’organo si fa voce di tutti. Questo mi sembra ritualmente più splendente di cento preludi e fughe (che hanno comunque il loro posto). Favorire l’unione significa anche agire propriamente nel rito (come viene qui espressamente richiesto al terzo punto) per non disunirlo, essere pronti a coprire qualche buco rituale, magari con una piccola improvvisazione sul canto appena concluso che permetta al sacerdote di ritrovare la giusta pagina del Messale…Questa capacità è per me connaturata all’organista liturgico. Anche il nome di “organo” è in questo caso estremamente felice: dà l’idea di una parte stessa del nostro corpo, un prolungamento di noi stessi con cui agiamo ritualmente, respiriamo nella celebrazione, interagiamo in essa.

Per essere toccati in profondità bisogna che l’organista conosca il suo strumento e sappia quale linguaggio musicale è più utile parlare a quella data assemblea. Interessarsi di quale è la capacità ricettiva di una data e particolare assemblea, vuol dire poterla prendere e guidare anche verso un percorso artistico più affascinante. Ma non si può pretendere di bombardare la gente anche con musiche bellissime ma che la stessa non capisce. Ci vuole pazienza e gradualità. Bisogna darsi degli obiettivi immediatamente raggiungibili e poi darsene sempre più in alto, ma gradualmente. Un mio direttore spirituale usava un esempio calzante: se noi dovessimo vedere tutto insieme il cibo che abbiamo consumato fino ad oggi, diremmo “ma come è possibile, io non ho mai mangiato questa montagna enorme di roba!”. Eppure, giorno dopo giorno, l’abbiamo mangiata…

Per agire ritualmente bisogna essere nel rito. Essere non è inteso solo come presenza fisica, ma come respirare in uno con l’andamento del rito. Assecondarne la struttura (come detto sopra) aiuta chi suona e chi ascolta (e si partecipa anche ascoltando) ad inserirsi sempre più in pienezza e profondità nell’azione che si sta compiendo. Solo così saremo trasformati, saremo veramente quello “splendore vivente” che testimonia le meraviglie che Dio ha compiuto e sta compiendo in noi.

[Gli altri due articoli sull'organo sono stati pubblicati il 3 e il 17 maggio]




“Si abbia in grande onore l’organo a canne”



di Aurelio Porfiri*

MACAO, martedì, 3 maggio 2011 (ZENIT.org).- Cominciamo con una citazione dalla Sacrosanctum Concilium: “Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale, a norma degli articoli 22 § 2, 37 e 40, purchè siano adatti all’uso sacro, o vi si possono adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli” (n. 120).

Qui tocchiamo un altro dei punti dibattuti nel postconcilio tormentato dei musicisti di chiesa: il problema dell’organo. Come si vede l’indicazione data dalla Sacrosanctum Concilium non sembra lasciare spazio ad interpretazioni contrastanti: si abbia in grande onore l’organo a canne! Certo, dobbiamo stare attenti nel pensare che un’affermazione in favore di qualcosa si deve trasformare automaticamente in una affermazione contro qualche altra cosa. Insomma, sì all’organo ma attenzione anche ad altre opzioni. Qui varrebbe la pena di riflettere se, da un punto di vista meramente pratico, l’organo è ancora uno strumento utile e pratico per le attuali liturgie, o se le stesse possono essere meglio sostenute da altri tipi di strumenti. Allora, per riflettere su questo, farò un piccolo percorso attraverso questo paragrafo (soffermandomi specialmente sulla prima parte e includendo riflessioni sulla seconda), per vagliarne l’aderenza a quanto è poi effettivamente accaduto negli ultimi 40 anni.

ORGANUM TUBULATUM IN ECCLESIA LATINA MAGNO IN HONORE HABEATUR”

Tenere in grande onore un qualcosa significa dargli un posto importante tra altre cose. Quindi, l’organo sia tenuto in grande onore tra altri possibili strumenti. Ricordiamo che per alcuni secoli la Chiesa latina è andata avanti anche senza l’organo. Nondimeno, lo stesso strumento ha portato dei notevoli vantaggi alle celebrazioni liturgiche (e li vedremo dopo). E’ interessante confrontare questo passo con quanto diceva molti anni fa la Divini Cultus di Pio XI, la quale affermava che:

c’è uno strumento musicale che è proprio della Chiesa e che viene dagli antenati, l’organo, il quale, per la sua meravigliosa grandiosità e maestà, fu ritenuto degno di associarsi ai riti liturgici, sia accompagnando il canto, sia durante i silenzi del coro, secondo le prescrizioni della Chiesa, diffondendo armonie soavissime...Risuonino nei templi solo quelle armonie di organo che si rapportano alla maestà del luogo e profumano della santità dei riti; soltanto a questa condizione l’arte dei costruttori di organi e dei musicisti che useranno tali strumenti rivivrà quale efficace mezzo della sacra liturgia”.

In quel tempo, l’uso di altri strumenti diversi dall’organo (per il quale non c’è allora neanche l’esigenza di dover aggiungere “a canne”) non era visto favorevolmente, probabilmente per reazione all’uso che si era fatto di questi strumenti nell’esecrata musica chiesastica dell’Ottocento. Pio XI, infatti, condanna in un altro paragrafo “lo smodato uso degli strumenti”. Ora, questa condanna trova ragione nel rapporto vivo che si sentiva allora tra alcuni strumenti e la musica di derivazione operistica. Quindi, è una condanna di tipo temporale e storico ma non ha valore assoluto. Mi sembra di vedere un'apertura diversa nella SC, quando si chiede giustamente per l’organo a canne un posto d’onore tra altri strumenti, ma senza escluderli. Certo, molti potranno fare qui un’opportuna considerazione sul rapporto che c’è tra alcuni strumenti e la contemporaneità culturale e sociale che viviamo. Per esempio la chitarra.

Nessuno può negare che sia uno strumento fortemente condizionato dall’uso che se ne fa in certa cultura giovanile. Ciò non toglie che non la si può condannare in sé, come strumento. Anzi, essa è uno strumento di grande tradizione e in sé nobilissimo e che si presterebbe ad un uso interessante nella liturgia, soprattutto qualora non fosse “grattato” malamente, come spesso accade. E’ interessante quanto dice un noto esperto in materia, oltretutto già organista della Basilica di San Pietro fino ad alcuni anni fa:

La porta della Chiesa è aperta a tutti gli strumenti musicali: qualunque strumento per sé è idoneo al culto. Esistono attualmente strumenti che per il loro particolare uso extraliturgico possono provocare associazioni psicologiche conturbanti (strumenti contaminati dall’uso profano e libertino). Ma è sempre possibile una redenzione degli stessi strumenti, attraverso il graduale mutamento del gusto e del costume. Lo stesso organo a canne, oggi tanto lodato come strumento liturgico, è un illustre 'convertito'. Il giudizio, circa la possibilità di ammettere o meno in Chiesa nuovi strumenti musicali, non spetta ai singoli Vescovi, ma alla Conferenza Episcopale Nazionale” (Emidio Papinutti, “La musica sacra dal Concilio Vaticano II° al nuovo 'Ordo Missae'”, Edizioni Francescane Roma 1971, pag. 199).

Io credo che dovremmo spostare le nostre considerazioni, più che sul “cosa”, sul “come” si affrontano certi strumenti nella liturgia. Suonarli tanto per dire di aver suonato una chitarra, un pianoforte o qualsiasi altro strumento, non significa nulla. Quando sento anche parroci difendere un torturatore di chitarra dicendo che tanto Dio è contento uguale (sono molto fortunato, ho conosciuto molti parroci che sanno sempre quando Dio è contento e quando no…) mi verrebbe da reagire male, ma poi mi domando: ma questo parroco ha avuto la formazione liturgica adeguata, che gli permette di discernere il bianco dal nero? E, mutatis mutandis, le nostre considerazioni sopra esposte possono benissimo adattarsi proprio al nostro organo.

Un’organista che magari mi suona splendidamente un preludio e fuga ma che agisce nella liturgia come un pesce fuor d’acqua ai miei occhi non è molto di più (liturgicamente) di un “grattatore” di chitarra (anche se ammetto che alle mie orecchie è molto più gradito l’organista, ma questa è una considerazione di tipo “estetico”, non liturgico). Non siamo ipocriti: un organista nella liturgia non è lì per fare un concerto ma per esercitare un ministero musicale importante, per cui deve essere preparato. Per esperienza personale so che sono molto pochi coloro che escono diplomati dal conservatorio e hanno poi le carte in regola per dirsi organisti liturgici. Pensiamo bene che c’è una fondamentale differenza tra un organista concertista e un organista liturgico, differenza anche di capacità diverse che vengono richieste (anche se alcune, ovviamente, possono coincidere). Si può non avere una tecnica sopraffina ma essere perfettamente in grado di “essere” nella celebrazione; si può non saper suonare brani di alto livello ma essere in grado di sostenere il canto dell’assemblea. Io se voglio un concerto vado a sentire il concertista, se voglio pregare desidero un organista liturgico. Se le due cose coincidono, meglio così. Ma non è indispensabile. E questo naturalmente non toglie che chi non ha potuto studiare la tecnica organistica in modo approfondito, dovrebbe almeno avere il desiderio di potersi migliorare per quello che è possibile. Ho domandato un opinione tempo fa sull’argomento degli organisti tecnicamente non agguerriti a padre Theo Flury, OSB, organista del monastero svizzero di Einsiedeln e docente al Pontificio Istituto di Musica Sacra:

Innanzitutto dobbiamo essere molto grati per il loro servizio! Spesso c’è da notare tanta buona volontà, un impegno lodevole. Questo peró non dispensa dalla necessità di uno stimolo costante a imparare e a voler andare oltre i limiti di un saper fare che si è acquisito. Vedo qui una seria responsabilità da parte delle diocesi nel trovare e offrire luoghi e momenti di continua formazione per organisti liturgici di questo tipo. Come succede spesso in altri campi, anche qui un ostacolo puó essere il denaro. Peró anche in questo settore se non si vuole investire c’è poco da sperare. Per ottenere buoni risultati ci vuole sempre un adeguato sacrificio” (In “La Vita in Cristo e nella Chiesa”, Gennaio 2004).

Si torna sempre lì, senza un impegno concreto della Chiesa, anche economico, non c’è molto margine di azione.






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E  venne il giorno del gregoriano in Tv

di Antonio Giuliano
12-03-2011

 


È bene precisarlo subito: questa intervista in forma scritta non rende onore alle doti canore di Giovanni Vianini, 71 anni, milanese di origini cremonese, storico direttore e fondatore del coro Schola Gregoriana Mediolanensis che quest’anno festeggia i 30 anni di attività. Per uno come lui cresciuto a pane e gregoriano, cantore nella Cappella Musicale del Duomo di Milano già a 8 anni, è difficile rispondere anche a telefono senza sciorinare quei vocalizzi austeri e sublimi. E da vero innamorato del canto tradizionale della Chiesa, non può non accogliere con melodioso gaudio la notizia che dal 12 marzo il gregoriano sbarca stabilmente in televisione grazie a “La domenica con Benedetto XVI”, in onda su Tv 2000 ogni sabato alle 17.30. Mezz’ora di trasmissione in cui i “Cantori Gregoriani” diretti dal maestro Fulvio Rampi eseguiranno i canti della liturgia domenicale: accompagneranno il meglio della predicazione del Papa (omelie, Angelus, discorsi) illustrata anche dallo storico dell’arte Timothy Verdon. «È davvero una grande iniziativa – afferma Vianini – . Qualche anno fa Del Noce aveva proposto di portare il gregoriano nei palinsesti Rai, ma poi non ne fece più nulla. Fulvio Rampi di Cremona è bravissimo, è stato il mio maestro. Lui ha un metodo più “filologico”, io sono un po’ più popolare».

La sua fama, maestro, è legata alla Schola Gregoriana Mediolanensis che ha fondato nel lontano 1981…
Sì, avvertivo l’esigenza di dare una svolta a certe liturgie: al posto della musica sacra girano ancora oggi insulse “canzonette”. Così nella parrocchia di San Marco a Milano ho cominciato a proporre un corso di gregoriano, il canto principe della tradizione liturgica. In 30 anni hanno aderito oltre 1500 persone. La capienza massima per ogni lezione è di 40 persone, ma spesso ne sono arrivate anche 100 a serata. Il corso è del tutto gratuito e libero, nel senso che puoi seguire le lezioni che vuoi per cui ogni volta ci sono persone diverse.

Ma non occorre una certa continuità?
Basta un breve apprendimento, poi ovviamente dipende dalle capacità delle persone. Quando faccio le prove, montiamo i pezzi come un puzzle: io ti canto un pezzettino e tu lo ricanti. Fino a quando tu non l’hai acquisito non vado avanti. Nel giro di una serata di due ore di prove torni a casa con due pezzi nuovi.

Chi sono i partecipanti?
Abbiamo tanti giovani, in un gruppo in cui l'età media è 40-50 anni. Molti sono incuriositi dalla qualità del canto. Oltre ovviamente a quelli che vengono per fede perché hanno inteso il gregoriano per quel che è: una preghiera cantata. E difatti facciamo un servizio liturgico: cantiamo la messa due volte al mese nella chiesa di San Marco a Milano (ogni terza domenica del mese alle 18.30) e all’abbazia di Chiaravalle milanese (ogni seconda domenica del mese alle 18), insieme con i monaci. Mettiamo anche noi la “cocolla” per rispetto alla liturgia: l’abito fa il monaco in questo caso… Coloro che frequentano il corso (ogni mercoledì dalle 21 alle 23 nella chiesa di San Marco) fanno le professioni più svariate, dal medico all’artigiano. L’unico requisito è quello di essere intonati…

Le pare poco?
Ma non è affatto un problema. Non esistono persone stonate per natura, ma solo persone non abituate a cantare. Purtroppo in Italia le scuole non educano al canto. A chi è “stonato” chiedo di restare inizialmente ad ascoltare. Poi piano piano entrerà nel gruppo. È come se dovesse entrare in un fiume in piena: siamo in 40-50 a cantare la stessa melodia, all’inizio ascolta poi si ritroverà dentro con gli altri. Certo con qualcuno ci vuole più pazienza...Ma non faccio prove singolarmente: evito di mettere in imbarazzo la gente…

Il fatto che si canti in latino non è una difficoltà?
No, anzi è un piacere. È la nostra lingua madre. Poi lavoriamo sempre con il testo italiano a fronte, quindi si capisce che cosa stiamo cantando. Il gregoriano ha una sua metrica che è inscindibile dal latino. Accamparlo come difficoltà è solo un alibi…

Lei vorrebbe il gregoriano in tutte le liturgie?
Ci sono tante apprezzabili composizioni sacre moderne che rispettano la liturgia. Però mi è capitato più volte di entrare nelle chiese di Milano e assistere a messe accompagnate da sassofono, batteria, chitarra elettrica… La gente si guardava tra sé, voleva partecipare e non riusciva. Io dico soltanto che il gregoriano favorisce il raccoglimento.

Però anche i Salmi incitano a lodare il Signore con cembali, timpani…
Questa è una domanda cattiva… Io non ho nulla contro la chitarra che trovo sia uno strumento bellissimo. Ma c’è un motivo se la Chiesa preferisce il suono dell’organo: è lo strumento più adatto a sostenere il canto liturgico. È vero poi che in altri Paesi prevalgono tradizioni diverse. Però il gregoriano può addirittura far a meno anche dell’organo quando si è in pochi. Se vuoi far cantare l’assemblea cosa c’è di meglio di Kyriii e e ee… (e intona il celebre Kyrie della Missa De Angelis, ndr). Alla fine puoi ben dire “ho pregato”.

È indubbio che la tradizione del gregoriano si è persa nelle nostre parrocchie. Come è stato possibile?
Si è ecceduto con le “libertà” liturgiche promosse dal Concilio. Senza voler polemizzare c’è la responsabilità del clero in tante odierne esagerazioni. Non a caso già Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI sta combattendo la “sciatteria” liturgica. Io non riesco a capire perché i ragazzi possono cantare i canti Gen e non
Adoro te devote di Tommaso d’Aquino (e la linea telefonica diventa ancora un microfono, ndr…) I canti moderni spesso hanno testi letterari molto belli, ma purtroppo la musica ricalca la balera... Mentre i canti gregoriani, mi creda, ti portano in Paradiso. Per questo oggi molti sacerdoti si stanno ricredendo. Oltretutto possono essere anche strumento di evangelizzazione…

In che senso?
Anche nel mio coro ho tanti non credenti. Sono certo attirati dalla melodia, ma poi si soffermano sui testi che sono tutti legati alle Scritture. Quando tu canti
Beati mundo corde, il canto delle Beatitudini, è un messaggio che risponde alle esigenze di ogni uomo di diverso credo e visione filosofica. “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio… Beati gli afflitti… Beati i perseguitati...”. Questa è una poesia universale.

Però c’è un ritorno d’interesse per il gregoriano anche nel mercato discografico…
Sì magari i compositori moderni che lavorano su nuove melodie gregoriane non sono molto conosciuti, anche perché lo fanno per servizio liturgico, non per diventare delle star. Hanno avuto però grande successo i monaci dell’abbazia di Santo Domingo di Silos in Spagna. Son riusciti a scalare le classifiche anche perché hanno fatto molta pubblicità. Aiutano certo a diffondere il gregoriano, ma noi lo dobbiamo trovare anche domenica a messa: non può scomparire questo canto che nella Chiesa c’è sempre stato. Nel Medioevo ha raggiunto la sua massima fortuna, ha sempre scandito le giornate dei monaci. Oggi ben venga la pubblicità: io stesso uso tutti gli strumenti digitali, come i social network, per far conoscere il gregoriano. Solo su “you tube” ho pubblicato 2420 video che servono anche per studiare: mi hanno scritto perfino molti monaci per ringraziarmi.

In rete (e non solo) spopola anche il gregoriano rivisto in chiave rock, perfino nei brani più famosi dei Metallica…
Non mi meraviglio. Il gregoriano ha influenzato il rock. Prenda anche un brano come
Ubi caritas est vera di Paolino di Aquileia si presta benissimo a delle variazioni in stile rock. Ma la stessa Yesterday dei Beatles riprende antiche melodie gregoriane. Pensi anche al brano “Fratello sole sorella luna”: è il Kyrie della Missa De Angelis sviluppato a mo’ di bella canzonetta. Non vorrei essere irrispettoso: io stimo tutti i generi musicali quando c’è un lavoro serio dietro. Tutti i generi, anche il rock. Non voglio passare per invasato: credo soltanto che il gregoriano risponda anche a un bisogno profondo della nostra società…

Quale?
C’è una forte ricerca di spiritualità. La cronaca ci mostra un decadimento morale in tutti i campi. C’è una richiesta di silenzio e di fede e il gregoriano viene incontro a questo bisogno in modo potente. Noi adesso stiamo usando delle parole, ma lei provi a sentir e a cantare il gregoriano…

Faccia pure lei, è già un’intervista cantata…
C’è una bellezza del gregoriano che le parole non possono esprimere. Io sono un uomo felice e fiero perché vedo che la gente cantando percepisce questa sensazione d’incanto. Sono cresciuto in Chiesa, sono stato organista per 20 anni al Duomo e oggi mi dedico a tempo pieno alla divulgazione del canto gregoriano e ambrosiano (un canto monodico, a una voce come il gregoriano, ma con melodie diverse). Studio dalle 4 alle 6 ore al giorno. Non posso dire di avere un pezzo preferito, ma certo sono estasiato dall’Adoro te devote di san Tommaso d’Aquino e soprattutto
Jesu dulcis memoria di san Bernardo. Però davvero ogni brano gregoriano ha un suo fascino "travolgente", mi permetta di definirlo così. Vede, a volte faccio fatica a non farmi scorgere, ma mi commuovo davvero.



LA STORIA DEL CANTO GREGORIANO


[Modificato da Caterina63 02/06/2011 23:41]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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