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02/11/2009 10:49 | |
È ttant’avaro quer vecchio assassino che schiatterebbe pe nun dà una spilla, e ppe nun spenne l’arma d’un quadrino nun ze farebbe dì mmezza diasilla.
La matina, in ner batte l’acciarino pe ppreparasse er tè de capomilla, pijja un pezzo de lesca piccinino piccinino ppiù assai de la favilla.
La bbarba se la fa ssenza sapone, e ’r zu’ rasore nu l’affila mai pe ppavura che vvadi in cunzunzione.
E ar tempo de li frutti fa er mistiere d’ariccojje ossi, e cquanno ce n’ha assai ne va a vvenne le mànnole ar drughiere.
(E’ tanto avaro, quel vecchio maledetto, che preferirebbe crepare piuttosto che regalare uno spillo, e per non spendere l’anima di un quattrino non si farebbe recitare nemmeno mezza “diasilla”. Al mattino, nel battere l’acciarino per prepararsi un tè di camomilla, usa un pezzetto di esca proprio minuscolo, molto più piccolo di una scintilla. La barba se la fa senza sapone, e il rasoio non lo affila mai per paura che vada in consunzione. E al tempo della frutta fa il mestiere di raccogliere i nòccioli, e quando ne ha tanti va a vendere le mandorle al droghiere).
Il sonetto, datato 13 settembre 1835, presenta – sotto il titolo “L’avaro” – una figura efficacemente scolpita, un pitocco senza dignità. Il motivo della nostra scelta è, peraltro, in quella misteriosa parola che non abbiamo voluto né potuto tradurre: “diasilla”. E’ questa, l’eco tridentina: dietro la misteriosa “diasilla”, che il vecchio miserabile, pur di risparmiare quattrini, eviterebbe di farsi recitare all’occorrenza, c’è la notissima sequenza della messa dei morti, il “Dies irae”.
La “diasilla” conserva un posto non cancellabile nei miei ricordi d’infanzia: era una lunga preghiera, in un italiano mescolato con voci dialettali e misteriose radici latine; preghiera e, insieme, una sorta di profezia, che veniva recitata in occasioni extra-liturgiche. Non tutti ne conoscevano il testo, considerato in qualche modo riservato a pochi, anche se non esplicitamente segreto; alcune donne, povere e anziane, si offrivano di recitarlo in cambio di qualche moneta o un po’ di cibo (due patate, un frutto, un pezzo di pane). [Chiara, adesso, la metafora paradossale utilizzata dal Belli nel suo sonetto?].
Nella cultura contadina fino a una cinquantina d’anni fa, pregare per la salvezza dell’anima dei “poveri morti”, recitare orazioni “in suffragio di quelle anime sante e benedette in Purgatorio”, era un dovere importante, rappresentava un legame di pensieri e di affetti consolante e ristoratore; significava, oltre al resto, fare i conti con l’idea della morte, trovare la formula che alleggerisse la naturale paura della fine, del distacco inevitabile e inesorabile. La Messa dei morti e le esequie, prima dell’incongrua riforma bugniniana, erano una cosa seria. Non s’insultava il dolore cocente gridando “Alleluia!” e via schitarrando: i testi e i canti oscillavano fra il terrore del passo estremo e del giudizio, da una parte, e la speranza della luce e del riposo, dall’altra. Nel cuore della celebrazione, il canto del “Dies irae” ne rappresentava la sintesi mirabile: la Chiesa di Cristo, madre e maestra, porgeva ai parenti e agli amici in lacrime il dono della “caritas in veritate”.
Per quelli, fra i nostri “naviganti”, che non dovessero averla familiare, vorrei qui presentarla, proponendone il testo integrale e una proposta di traduzione in italiano; alla fine, per chi avrà voglia di seguirmi in un’escursione nella tradizione popolare tosco-laziale, giungeremo a un esempio di “diasilla”.
Dies irae dies illa, solvet saeclum in favilla teste David cum Sibylla.
Quantus tremor est futurus quando judex est venturus cuncta stricte discussurus!
Tuba mirum spargens sonum per sepulcra regionum, coget omnes ante thronum.
Mors stupebit et natura, cum resurget creatura Judicanti responsura.
Liber scriptus proferetur in quo totum continetur unde mundus judicetur.
Judex ergo cum sedebit quicquid latet apparebit, nil inultum remanebit.
Quid sum, miser, tunc dicturus, quem patronum rogaturus dum vix justus sit securus?
Rex tremendae maiestatis, qui salvandos salvas gratis, salva me, fons pietatis.
Recordare, Jesu pie, quod sum causa tuae viae, ne me perdas illa die.
Quaerens me sedisti lassus, redemisti crucem passus; tantus labor non sit cassus.
Juste Judex ultionis, donum fac remissionis ante diem rationis.
Ingemisco tamquam reus, culpa rubet vultus meus: supplicanti parce, Deus.
Qui Mariam absolvisti et latronem exaudisti, mihi quoque spem dedisti.
Preces meae non sunt dignae, sed tu, bonus, fac benigne ne perenni cremer igne.
Inter oves locum praesta et ab haedis me sequestra statuens in parte dextra.
Confutatis maledictis flammis acribus addictis, voca me cum benedictis.
Oro supplex et acclinis, cor contritum quasi cinis, gere curam mei finis.
Lacrimosa dies illa qua resurget ex favilla judicandus homo reus: huic ergo parce, Deus. Pie Jesu Domine, dona eis requiem. Amen.
(Giorno d’ira, quel giorno che dissolverà il mondo nel fuoco, come già previdero David e la Sibilla. Come tremeremo quando il Giudice verrà a contestarci, inesorabile, ogni colpa! Uno squillo di tromba, mirabilmente risuonando per i sepolcri di regione in regione, tutti trascinerà dinanzi al trono. Stupefatta la morte, e con lei la natura, quando ogni creatura riprenderà vita per rispondere al Giudice divino. Un libro verrà mostrato, in cui tutto sarà compreso, ogni elemento di giudizio. Quando infine il Giudice prenderà posto, ogni cosa nascosta apparirà in piena luce, nulla rimarrà invendicato. Che dirò allora, disgraziato? A chi chiederò protezione quando a malapena i santi saranno al sicuro? Re di tremenda maestà, tu che salvi chi vuoi, per tua grazia salva me, fonte di pietà. Ricorda, Gesù pietoso, che io sono la causa del tuo venire al mondo: quel giorno, non condannarmi. Cercando me, pecorella smarrita, stanco ti sedesti; mi hai redento soffrendo la croce; non sia inutile tanta fatica. Giusto Giudice di vendetta, donami il perdono prima del giorno della resa dei conti. Pianti e lamenti per me, colpevole, il viso mi s’infiamma di rossore; Dio, abbi pietà di chi ti supplica. Hai assolto Maria, hai esaudito la preghiera del ladrone, e anche a me hai dato speranza. Non son degno neppure di pregarti, ma nella tua bontà fa’ ch’io non debba bruciare nel fuoco eterno. Preparami un rifugio fra le tue pecorelle, separami dai caproni, ponimi alla tua destra. Confutati i maledetti destinati alle fiamme soffocanti, chiamami fra i benedetti. Supplice, disteso ai tuoi piedi, ti prego col cuore incenerito dal rimorso: prenditi cura della mia morte. Giorno di lacrime, quello in cui dal fuoco risorgerà l’uomo reo, pronto per il giudizio; Dio, perdona dunque anche lui. Gesù, Signore di pietà, dona a tutti riposo. Amen.)
Sequenza composta di diciassette terzine a rima baciata; i versi sono ottonari (nella metrica latina, quantitativa, corrisponderebbero al trocaico). Esse sono seguite da un finale, articolato in due distici di ottonari a rima baciata e in un distico di senari sdruccioli non rimati. E’ attribuita al frate francescano Tommaso da Celano, morto nel 1256.
Nel “Dies irae” è ravvisabile un’articolazione tematica in tre parti. Le prime sei strofe presentano una sorta di cronaca di quanto avverrà, in un futuro indeterminato e perciò tanto più pauroso: il mondo che si dissolve nel fuoco dell’ira divina, il terrore di tutti all’apparire del Giudice, gli squilli di tromba che ridesteranno tutte le anime, costrette a riassumere sembianze umane per l’ultimo atto, lo stupore della Morte e della Natura di fronte al capovolgimento di ogni legge (i morti risorgono!), il grande libro in cui colpe e meriti saranno scritti nero su bianco e mostrati a tutti, prima della sentenza finale. La seconda parte (dalla settima alla diciassettesima strofa) procede presentando, accostate per contrasto o analogia, immagini e riflessioni di paura e speranza; la forma prevalente è quella della preghiera: Gesù ha tanto amato l’umanità, per essa si è incarnato e ha sopportato passione e morte, ha perdonato ladroni e prostitute, avrà dunque pietà anche di noi peccatori; ma a queste immagini si alternano lampi di terrore: il Re di tremenda maestà, il giusto Giudice di vendetta, i maledetti destinati alle fiamme soffocanti. Nei tre distici finali la tensione sembra sciogliersi in lacrime di pentimento, attraverso le quali anche gli occhi del “reo” possano intravedere il perdono e il riposo eterno.
Musicalmente il “Dies irae” presenta – a parte i distici finali, che seguono una loro melodia originale – tre schemi, che si ripetono nelle varie strofe raccolte a due a due. Il primo schema, di grande impatto per la sua terribile semplicità, riveste le strofe 1 e 2, 7 e 8, 13 e 14. Indimenticabile l’incipit, che scandisce martellante e inesorabile l’idea stessa di Giudizio Finale: fa mi fa re mi do re re. Il secondo schema – che riguarda le strofe 3 e 4, 9 e 10, 15 e 16 – si apre quasi con un grido di paura (la do do si sol la la sol fa sol la la re), per poi ripiegare sulla melodia del primo schema, conferendogli in tal modo una presenza ossessiva e, nella sua ripetitività, inesorabile. Il terzo schema, più ampio e rasserenante, sembra assumere le movenze di una preghiera; le strofe interessate sono la 5 e 6, la 11 e 12, la 17.
Precisi elementi testuali e musicali rendono evidente la dipendenza del “Dies irae” dallo splendido responsorio “Libera me Domine”, molto più antico; prima della sciagurata riforma bugniniana esso veniva eseguito durante il rito delle esequie:
Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda, quando coeli movendi sunt et terra, dum veneris judicare saeculum per ignem.
Tremens factus sum ego et timeo, dum discussio venerit atque ventura ira, quando coeli movendi sunt et terra.
Dies illa dies irae, calamitatis et miseriae, dies magna et amara valde, dum veneris judicare saeculum per ignem.
Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.
Libera me, Domine...
(Liberami, Signore, dalla morte eterna in quel giorno tremendo quando cieli e terra saranno sconvolti e tu verrai a giudicare il mondo col fuoco. Io sarò tutto tremante di paura quando verrà il giudizio e l’ira, mentre cieli e terra saranno sconvolti. Giorno d’ira quel giorno, di calamità e miseria, giorno grande e di grande amarezza, quando verrai a giudicare il mondo col fuoco. L’eterno riposo dona loro, Signore, e per essi risplenda la luce perpetua. Liberami, Signore...).
Ma torniamo al “Dies irae”, e alla “diasilla” sua derivazione. Non è difficile immaginare perché questa sequenza abbia tanto colpito la sensibilità popolare da restare per qualcosa come sette secoli nella tradizione folclorica, in vaste zone d’Italia: personalmente conosco varianti venete, toscane, laziali, marchigiane, campane. Fra le tante privilegio la “mia” versione, che ho appreso quasi sessant’anni fa da un’anziana donna, contadina analfabeta dell’alto Lazio:
Diasilla diasilla tutti secoli in favilla, scrisse Davide e Sibilla.
Giorno trema, giorno scuro il Giudizio sarà duro, giorno senza più futuro.
Soneranno quattro trombe, scapparanno dalle tombe brutte facce e brutte ombre
e ripiglia la figura che gli tolse la natura, lasciarà la seppoltura.
Libro scritto e tribbunale pesaranno bene e male, come e quanto, tale e quale.
Ce sarà pena e dolore: a giudizio il peccatore della colpa e dell’errore.
Ce sarà pena e tormenti: pure il giusto batte i denti, ‘un contaranno i pentimenti.
La tremenda maestà, salva ............... per bontà, Tu sei fonte di pietà.
Mi cercasti in ogni chiasso, mi seguisti passo passo, salva me da Satanasso!
Ci creasti e ci salvasti, nel legno della Santissima Croce ci ricomprasti. Fa’, Dio mio, che questo basti.
Giusto Giudice in funzione, dacci Tu la remissione, della pena la razione.
Arrossisco come rio pe la colpa e ‘l fallo mio e così m’aiuti Iddio!
A Maria li giorni tristi e a Ladrone compatisti, pure a me t’impietosisti.
O Signore, non so’ degno, ma la Croce, il santo legno... dammi un posto nel tuo Regno.
Non c’è in giro anima onesta: scegli quella e scegli questa, io mi siedo alla tua destra.
Contristati maledetti stanno al fuoco e stanno stretti, chiama me fra i benedetti.
Nello giorno spaventoso, Gesù Cristo pietoso, dàtece pace e riposo.
Lacrimosa diasilla quando tutto va in favilla, giudicando l’uomo rio ci perdona e assolvi Iddio. Diasilla lacrimosa in eterno ci riposa. Amen.
Giuseppe
Fraternamente CaterinaLD
"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine) |