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Il sacro TIMOR DI DIO uno dei Doni dello Spirito Santo

Ultimo Aggiornamento: 30/11/2009 11:40
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30/11/2009 11:31
 
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Psicologia biblica

Ogni personaggio biblico meriterebbe un'analisi relativa al dono del timore di Dio, sia tale dono presente in maniera esplicita oppure apparentemente assente. Per necessità di trattazione, ci soffermeremo inizialmente su due protagonisti, uno tratto dal VT, Giobbe (vai al libro di Giobbe), l'altro dal NT, non meno rilevante, anche se forse meno conosciuto e certamente meno approfondito, Zaccheo (cf. Lc 19, 1-10), con il desiderio, però, di aggiungere nel tempo altri personaggi, che risulteranno significativi per approfondire l'argomento in oggetto.



Richiamiamo, in prima istanza ed in maniera succinta, la figura e la storia di Giobbe.

Giobbe è un benestante, ha, da quanto la Scrittura ci fa intendere, un'alta posizione sociale, è considerato un sapiente; il suo libro, di autore ignoto, è non a caso il primo dei libri poetici e sapienziali. Il Signore consentì a satana di privare Giobbe delle sue ricchezze, dei suoi figli, della sua salute. Nonostante tutto ciò, Giobbe non si rivolta contro Dio, che alla fine lo farà guarire, donandogli dieci figli e raddoppiando le sue ricchezze.

Giobbe, con coerenza e senza mai allontanarsi da Dio, accetta, pur senza ben comprendere, il duro cammino che gli prospetta il Signore, mostrando sempre quel timor di Dio e quella sapienza che gli permettono di affermare: "[...] Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore a tolto, sia benedetto il nome del Signore! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?" (Gb 1, 21; 2, 10b).

In tutta la vicenda di Giobbe, il timore di Dio gioca un ruolo fondamentale: anzitutto, insieme alla sapienza (altro dono dello Spirito Santo), mantiene Giobbe fedele e legato al Signore, nonostante i tanti interrogativi e la profonda frustrazione che traspare in lui per non riuscire a cogliere il senso di quanto gli sta accedendo, in secondo luogo lo pone sempre in costante stato di ascolto, di tensione e di attenzione verso il Signore, pronto a cogliere ogni possibile risposta alle sue dolorose e sentite suppliche.

Le categorie di senso, analizzate nella sezione precedente, ci sono tutte in Giobbe: timore, fede ed ascolto, le quali possono benissimo essere tutte riunite nella categoria di senso dell'amore.

Giobbe ama Dio e continua ad amarlo, prescindendo la sua condizione difficile e dolorosa; Giobbe non sa darsi pace, rimugina e si colpevolizza, si carica di vittimismo e di responsabilità che in realtà non gli appartengono. La sofferenza di Giobbe, per quanto il relativo libro si dia da fare per spiegarla, non viene mai colta, vi è il mistero di Dio dietro di essa, non vi è maniera di razionalizzarla, non vi è modo di comprenderla, non è possibile neppure darle un senso, poiché, da un punto di vista umano, sarebbe il tentativo di dare un senso ad un (apparente) non senso. Eppure, come rivela la storia di Giobbe, possedere il dono del timore di Dio significa riuscire con coraggio a dare un senso alla vita, sapendo, o meglio sperimentando profondamente dentro di sé, che un (apparente) non senso di alcuni eventi ha certamente un senso di fronte agli occhi di Dio; infatti, nulla è casuale davanti a Dio e la vita di ognuno di noi è per Lui preziosa (cf. Mt 10, 29-31; Lc 12, 6-7).



Passando ora al NT, esaminiamo la figura di Zaccheo.

Zaccheo è un pubblicano, per la precisione capo dei pubblicani e Luca rimarca che è anche ricco. È noto che i pubblicani sono persone ricche, ma Luca lo sottolinea esplicitamente, quasi a voler evidenziare l'ingente quantità di beni posseduti da Zaccheo, probabilmente molto al di sopra della media del tempo. Questa ingente ricchezza l'evangelista la sottintende, ma la lascia intravedere e lascia anche immaginare le modalità con cui Zaccheo se l'è procurata: con abusi di potere, con frodi ed inganni fatti al momento della riscossione delle imposte.

Zaccheo sente dire che Gesù sta attraversando la città di Gerico ed è incuriosito di vedere chi sia, si arrampica perfino su un sicomoro per poterlo incontrare con gli occhi. Ecco che però accade qualcosa: Gesù lo vede e lo chiama, dicendogli che "oggi deve fermarsi a casa sua" (Lc 19, 5) e questo sebbene Zaccheo sia pubblicano, tanto è vero che la folla nell'intorno mormora di disapprovazione. Zaccheo ascolta Cristo e alla sua richiesta reagisce con gioia, a differenza di quanto accade al giovane ricco (cf. Mt 19, 22; Lc 18, 23; Mc 10, 22); non solo, ma apertamente confessa i suoi peccati e descrive come cerca di porvi rimedio, restituendo il mal tolto.

È la presa di consapevolezza di Zaccheo, nel momento in cui incontra Cristo, di essere un peccatore a rivelare in lui quel timore di Dio che era rimasto recondito sino a quel momento. Si potrebbe dire che Gesù ha evidenziato quel "talento" di Zaccheo e solamente Lui poteva metterlo in risalto; un dono che lo spirito Santo aveva fatto a Zaccheo, ma che non si era in lui mai rivelato, perché non aveva incontrato Cristo prima di quel momento. Inoltre, il timore di Dio è, come dimostra il storia di Zaccheo, strettamente correlato con la salvezza.

Di certo non vi può essere salvezza senza timore di Dio, ma nel momento in cui si scopre e si svela questo timore di Dio, la salvezza è sempre disponibile, è oggi, poiché nel vero incontro con Cristo il dono del timore di Dio si manifesta spontaneamente e concretamente.



Richiamando ancora l'episodio del giovane ricco (cf. ad esempio Lc 18, 18-30), diviene manifesta la necessità di ascoltare Gesù nel momento in cui Lo si incontra; senza questo ascolto (ascolto che è ben oltre il "sentire".. ma è appunto ascolto che cambia), non emerge il timore di Dio ed il rispetto della legge è "meccanico", formale e, probabilmente, auto-assolvente (in tal caso l'uomo si fa dio di se stesso con lo scudo della legge o dell'appartenenza ad un gruppo/cammino/ecc), impedendo di cogliere la salvezza anche quando la si ha veramente a portata di mano, o meglio a portata di cuore.

Il timore di Dio è dunque un dono fondamentale, accordato dallo Spirito Santo a tutti noi, per condurci nell'incontro cordiale con Cristo alla salvezza.

Non solo.

Il Timore di Dio è dono dinamico che implica un dinamismo.

Dinamico perché sempre nuovo e sempre bisognoso di essere accolto e risvegliato qualunque sia la nostra esperienza di Dio e il nostro cammino.

Pone un dinamismo perché nel cammino di fede chi si sente arrivato è perduto rischiando di cosificare Dio e non di ascoltare con cuore umile e percorrendo i passi del "sempre oltre" a cui Cristo richiama ciascuno di noi.

Anche quando comportano la incomprensibile sofferenza di Giobbe o la restituzione dei beni come per Zaccheo.

Da sottolineare inoltre che i beni da restituire potrebbero essere anche non necessariamente beni materiali, ma anche sociali, morali, psicologici e addirittura spirituali.




Parenesi

Questa parte esortativa seguendo la metodologia dei paragrafi precedenti si svilupperà prendendo in esame una figura tratta dal VT, ovvero Abramo, ed una tratta dal NT, ovvero Maria, Madre del Signore. Anche qui, come già evidenziato sopra, ci riserviamo la possibilità di aggiungere altre figure, bibliche ed extrabibliche, significative per questa sezione paranetica.



La storia del patriarca Abramo è ben nota, in linea di massima, a tutti i cristiani, ma la sua figura presenta la possibilità di una illimitata analisi teologica, psicologica e naturalmente anche parenetica, tanto ricco è il materiale biblico che direttamente o indirettamente fa riferimento a lui. Proprio per codesta ragione, questa breve trattazione non potrà mai essere esaustiva, ma intenderemo qui evidenziare alcuni passi della sacra Scrittura che ci aiuteranno attraverso la figura di Abramo a meglio comprendere il dono del timore di Dio.

È il Signore stesso che invita Abramo a non temere e ad affidarsi alle sue parole che diventano promessa solenne, tanto da evolversi in alleanza, professata con un giuramento ed in cui la responsabilità cade prevalentemente sulle spalle del Signore (cf. Gen 15, 1ss). Naturalmente Abramo in questa alleanza ci mette del suo, anzi ci deve mettere del suo: la fede, la fiducia, l'abbandono.

Tutto inizia nel momento in cui Abramo crede, "sperando contro ogni speranza" (Rm 4, 18), che il dialogo di Dio con lui possa avere valore ed incidenza universale (cf. Gen 12, 3). La fede di Abramo abbatte il muro della paura, rafforzando invece in lui quel timore nelle parole del Signore che forgeranno la sua forza, anche davanti a decisioni che possono rivelarsi umanamente impossibili, come di fronte alla richiesta del Signore di offrirgli in olocausto il suo unico figlio Isacco ed a cui Abramo risponde prontamente "Eccomi!" (cf. Gen 22, 1ss).

Quell'avverbio sulla bocca del patriarca Abramo dovrebbe essere sulla bocca di ciascuno di noi, nonostante le prove a cui il Signore ci può chiamare, poiché alla fine varranno anche per noi quelle parole che il Signore gli rivolse:

"Benedirò coloro che ti benediranno
e coloro che ti malediranno maledirò
e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra"
(Gen 12, 3).

Infatti, la presenza universale del Signore implica l'universalità della sua potenza in ciascuno di noi, ma l'essenza e la forza della Parola di Dio si può collocare in un contesto pienamente costruttivo e realizzativo solo se passa attraverso il dono che lo Spirito Santo ci fa del timore di Dio.



Anche sulla beata Vergine Maria è possibile effettuare un'infinità di analisi, nonostante le fonti di informazione su di lei si limitino in gran parte ai racconti dell'infanzia in Matteo e in Luca. Altre informazioni, meno attendibili, sono reperibili nei vangeli apocrifi dell'infanzia, in particolare nel Protovangelo di Giacomo, in cui si evidenzia la grandezza e la santità della Vergine sin dal seno materno. E Maria è veramente santa, priva della macchia del peccato originale per volere del Signore che l'ha scelta come Madre del Salvatore.

Maria manifesta all'angelo Gabriele il dono del timore di Dio e tutto l'amore e la fiducia che ha per il Signore nel momento in cui pronunzia: "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto" (Lc 1, 38).

Come Abramo anche Maria crede e la sua fede le consente di accettare tutto il cammino che suo figlio Gesù deve fare per portare agli uomini la salvezza.

Il Signore risparmia ad Abramo il sacrificio di suo figlio Isacco, ma non si tira indietro dal sacrificare il Cristo, Gesù figlio di Maria, "fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2, 8). La caratteristica che emerge nella figura di Maria è l'umiltà, una umiltà che subito si evince leggendo il Magnificat che Luca pone sulla bocca della stessa Vergine. Nel Magnificat si parla di Maria come serva di Dio ed anche che Dio è misericordioso con tutti quello che lo temono, cioè che hanno e ripongono fede in Lui, proprio come Maria.

Intelligentemente, l'evangelista Luca riporta questo bellissimo cantico attraverso la voce della Vergine, infatti vuole esaltare la virtù dell'umiltà, propria della Madre di Cristo, considerandola necessaria per poter stimolare, sperimentare e vivere il dono del timore di Dio.

Naturalmente è un invito che Luca desidera porgere anche a tutti noi, che incapsulati spesso in una realtà sociale che premia la competitività ed i traguardi raggiunti, non considera più le virtù, tra le quali essenziale appunto l'umiltà, che implicano il saper rinunziare ad obiettivi troppo materiali e remunerativi o addirittura "spiritualmente prestigiosi", consentendoci di ritrovare e riscoprire la nostra parte spirituale di cui il dono del timore di Dio ne è una immediata conseguenza.

In Maria rifulge dunque il dono del Timor di Dio e lei, che madre nella fede, ci fa capire concretamente che il potere appartiene a Dio, Signore della storia e della nostra storia. E' lui che guida e sostiene il nostro cammino anche se esso passa per vie tortuose e talvolta insindacabili. Il dono del Timor di Dio apre le porte dell'ascolto che struttura la nostra dignità di uomini e di credenti.




Applicazioni

Fino a che si filosofeggia su un argomento, le speculazioni possono essere date a profusione, a patto che rimangano sempre aderenti al tema, fedeli e coerenti con gli assiomi che delineano il cammino che ci si è proposti di percorrere; tutto questo fa sì che i sillogismi restino - vincolati - all'interno di schemi logici che, da un lato, hanno il pregio di evitare contraddizioni e paradossi, dall'altro, sfortunatamente, non consentono di cogliere tutta la libertà che è insita nell'essere umano; forse per questo, estremizzando un po', diceva il filosofo Enrico Castelli (1900-1977) che il vero libero è colui che non viene vincolato da modelli logici, ovvero il folle. Esiste folle più grande di colui che ama in Cristo? E' proprio dell'innamorato che non è ripiegato sulla propria narcisitica proiezione uscire fuori dagli schemi e co-creare una realtà nuova. E' proprio dei santi, donne ed uomini rivelati o nascosti, che hanno vissuto fino in fondo il dono del Timore del Signore.



Francesco di Assisi, per esempio, ha colto nella sua "follia" di amore per Cristo il nocciolo della minorità. Francesco non ha contemplato un valore ideale ma lo ha visto fatto carne nella persona di Cristo, il "minore" per eccellenza. "Cristo Gesù, pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua eguaglianza con Dio ma umilio se stesso..."(Fil 2, 1ss) Francesco in sostanza non ha davanti un valore ma ha davanti la Persona di Cristo che è minore, piccolo, servo, umile, timorato del Padre. In questa comunione d'amore con il Cristo nasce la "follia" creativa di Francesco che riesce a dare, obbediente allo Spirito Santo, linfa nuova alla sua vita e quindi alla Chiesa. Un timore che in Francesco si fa obbedienza come nel suo amato Cristo. Non ci addentreremo molto nell'importanza del Consiglio Evangelico dell'Obbedienza, già trattato qui, che trova le sue fondamenta nei doni dello Spirito del Timore e della Pietà ma ci piace cogliere alcune attualizzazioni dense di significato per la nostra vita di credenti.

Passare dalla teoria alla pratica non è frequentemente cosa semplice, eppure senza questo passaggio non sarebbe possibile nulla di quanto vediamo attualmente attorno a noi. Così, come è necessario passare dalla teoria alla pratica nel caso della scienza, così, ed a maggior ragione, è necessario questo passaggio quando si tratta della nostra vita, della nostra libertà e della nostra fede.

Vivere la fede, ognuno come è in grado di coglierla e sentirla - tuttavia senza personalizzazioni -, equivale, da quanto abbiamo visto nei paragrafi precedenti a ricercare e vivere il dono del timore di Dio.



Ma, come è semplice applicare un dono che si possiede, ad esempio quello di imparare una lingua alloglotta, piuttosto che effettuare calcoli matematici a mente o dipingere un quadro, così altrettanto più difficile è riuscire a vivere mantenendo un atteggiamento coerente con quanto ci richiede la nostra fede, soprattutto perché, spesso, l'etica e la morale dei tempi odierni sono tanto distanti dalle richieste che provengono dalle parole che si leggono nelle Scritture ed in particolare dalle parole di Cristo, purtroppo in numerosi ambiti sociali considerate quasi anacronistiche.

Ebbene, ricercare e coltivare il dono del timore di Dio dentro di noi equivale a non farci condizionare dal considerare anacronismi gli insegnamenti di Cristo, perseverando, al contrario, nella fiducia e nell'abbandono che dobbiamo a Gesù, se non altro per il suo sacrificio che, oltre ad essere fonte della nostra salvezza, è anche il messaggio della necessità irrinunciabile di far prevalere la volontà di Dio su quella degli uomini.

Più ancora.

Il dono del Timor di Dio è vita dentro di noi che attende di essere "spiegata", attualizzata. Non è solo coscienza e disciplina ma anche lasciare che tale dono prenda sempre più carne nel nostro quotidiano. E' Dio che compie con te il bene del Timore e che ristabilisce l'ordine e la chiarezza nel chiarirti il tuo posto prezioso di creatura.

Il sacrificio di Cristo crocifisso è prova suprema del dono del timore di Dio, poiché è in quell'istante che s'interrompe in Lui il riverbero della coscienza del Padre, mostrando un "sì" nudo e senza appigli, la solitudine amara, l'abisso del silenzio del Padre, la libertà senza condizioni al momento del sommo sacrificio.



Da quanto appena detto, emerge che per noi cristiani il dono del timore di Dio coincide con il dono che Cristo ha fatto a noi della sua vita per salvarci, per radicarci nell'amore di Dio, per innestare in noi lo Spirito di Dio, con la consapevolezza di non essere esenti dall'imitarLo anche nell'estremo sacrificio, anche quando può essersi persa, perfino, la luce della coscienza di Dio in noi - ovvero, riassumendo, applicare il dono del timore di Dio è, come dice s. Paolo, applicarsi, impegnarsi a vivere Cristo (cf. Fil 1, 21-30).

....continua....
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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