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Il Caravaggio tra il genio e le incomprensioni, tra l'arte e il suo carattere...

Ultimo Aggiornamento: 17/07/2010 18:18
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25/01/2010 19:45
 
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Oltre il mito dell'artista maledetto

Ecco il vero Caravaggio


di Paolo Portoghesi


Che Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, sia stato un personaggio passionale e violento è fuor di dubbio e molti documenti lo confermano; ma l'immagine che gran parte dei suoi critici hanno costruito e che cinema e televisione hanno divulgato risente molto di un mito che ha origine nel risentimento con cui l'ambiente artistico lo accolse durante la sua vita e dalle biografie scritte in conseguenza dai suoi contemporanei.

La biografia del Baglione, mediocre e invidioso pittore che lo portò in tribunale perché si riteneva offeso da un suo sonetto ironico, sembra il frutto di un vero e proprio complesso di inferiorità che gli fece attribuire la fama del rivale "all'aura popolare che non giudica con gli occhi ma guarda con le orecchie".

Il mito secentesco dell'artista scapestrato si è poi combinato in modo perverso con il mito decadente dell'artista maledetto, consegnandoci l'immagine di un Caravaggio istintivo e incolto, omosessuale, laico fino alla miscredenza, ostile alla tradizione, in polemica con tutti e con tutto, eroe insomma di una sorta di nichilismo ante litteram.
 
I documenti, ma soprattutto la corretta lettura dei suoi dipinti, hanno consentito però a Maurizio Calvesi e ad altri studiosi, come Maurizio Marini, Alessandro Zuccari, Marco Pupilio e altri, di correggere questa caricatura mettendo in rilievo la spiritualità caravaggesca, senza la quale la statura intellettuale delle sue opere risulterebbe incomprensibile.

In realtà Michelangelo Merisi apparteneva a una famiglia che il Sandrart definiva di piccola nobiltà; suo padre Fermo era maestro di casa e architetto di Francesco Sforza, marchese di Caravaggio e la sua formazione milanese avvenne, sotto la protezione della famiglia del marchese, imparentata con i Colonna e con i Borromeo (la famiglia di san Carlo e del cardinale Federico) in un clima culturale, quello appunto della religiosità lombarda dei Borromeo, che doveva lasciare una impronta profonda nella sua sensibilità.

Anche a Roma il pittore poté contare sulla protezione di Federico Borromeo, proprietario della canestra di frutti di Brera, e della marchesa di Caravaggio, Costanza Colonna Sforza (cognata della sorella di San Carlo) e figlia di Marcantonio vincitore della battaglia di Lepanto.

L'imprinting, afferma Calvesi, Caravaggio lo ricevette a Milano, ancora bambino negli anni della peste del 1575, un evento sconvolgente in cui Carlo Borromeo con la sua figura carismatica giganteggiava nella sua missione di carità e di misericordia. La sua sensibilità religiosa si formò dunque a contatto con l'ala della Riforma cattolica più sensibile all'imperativo evangelico di vedere nei poveri l'immagine del Cristo e questo spiega bene perché nella pittura di Caravaggio la presenza degli umili acquisti un'evidenza e un valore senza precedenti proprio nei quadri di soggetto religioso.

A Roma, dove arrivò presumibilmente intorno al 1592, ancora prima di entrare in contatto con i suoi committenti più significativi, Caravaggio trascorse i primi anni, in cui senza risorse economiche dovette, per farsi strada, vivere di espedienti, frequentando l'ambiente in cui gli artisti, riuniti in gruppi contrapposti, si mescolavano con gente di ogni risma.

L'accusa che portò alla rimozione, dalla chiesa di Santa Maria della Scala, della Morte della Vergine, che il volto della Madonna fosse quello di una nota prostituta, fa capire quali fossero le sue frequentazioni abituali e spiega molti degli incidenti in cui, per "questioni di donne", fu coinvolto anche in seguito. Metter mano alla spada in quei tempi era vizio comune e a dimostrarlo si potrebbe ricordare l'aneddoto del giovane Bernini che rincorse il fratello con la spada sguainata fin dentro la basilica di Santa Maria Maggiore, sempre per "questione di donne".

Il cardinale Del Monte, che lo accolse nella sua villa di porta Pinciana, acquistò dal giovane pittore alcune opere che lo resero subito celebre:  la Musica di alcuni giovani, ora al Metropolitan di New York, I bari del Kimbal Art Museum di Fort Worth, il Sonatore di liuto, la Buona Ventura della Capitolina. La produzione giovanile, che si distingue per la leggerezza dei toni e la fusione dei generi, letta all'insegna del puro edonismo e dell'abilità tecnica, non rivela la sua vera grandezza che sta anche nel ruolo fondamentale dei significati che trapelano dalle immagini narrative, spesso in voluto contrasto con la loro piacevolezza narrativa.
 
Nella Musica del Metropolitan, per esempio, è descritta con straordinaria efficacia non solo e non tanto l'armonia dei corpi e delle vesti sfiorate dalla luce quanto lo stato d'animo del suonatore che guarda in uno spazio immateriale e inafferrabile, lo spazio sonoro appunto, e attraversandolo attinge un diverso livello di intangibile realtà, in cui si sente naufragare.

Nella Fuga in Egitto della Galleria Doria Pamphili appaiono una quantità di elementi simbolici che arricchiscono di significati teologici la scena. Per esempio, nello spartito che san Giuseppe mostra all'angelo è stato riconosciuto un mottetto composto su dei versi del Cantico dei Cantici, il libro della Bibbia che celebra l'amore e che nell'esegesi cattolica esprime l'amore tra Cristo e la sua Chiesa.

Fondamentale è poi la proposta di Calvesi di leggere come motivazione profonda della luce caravaggesca il suo valore simbolico come espressione della grazia divina, interpretazione che consente di motivare aspetti altrimentì incomprensibili del ruolo che svolge nelle diverse scene di carattere religioso. In effetti le fasce di luce che penetrano lo spazio appaiono improvvisamente quando il pittore può affrontare quello che sarà poi il suo lavoro prediletto, introdurre nello spazio sacro delle chiese immagini di alto valore devozionale non solo accessibili ai fedeli di qualunque estrazione sociale, ma percepibili in modo particolare dai più umili tra i fedeli come rivolte ad esaltare la loro umiltà, a renderli in qualche modo privilegiati rispetto al dono della grazia.

Il "filopauperismo" caravaggesco si incarna in questo programma che urta spesso contro la sensibilità di committenti conformisti, ma trova accoglienza presso altri personaggi più colti e sensibili e ha un valore profetico rispetto alla storia della Chiesa.

Il filopauperismo infatti non è che il risultato di una lettura non filtrata dei testi biblici e dimostra la vicinanza del pittore all'ambiente dei seguaci di san Filippo Neri, gli oratoriani che lo stesso Federico Borromeo aveva aiutato e incoraggiato. In questa capacità di prefigurare una sensibilità che avrebbe trovato in futuro ben altra risonanza si realizza la missione più misteriosa dell'arte che è quella di mettere in comunicazione tra loro generazioni diverse, a dispetto della lontananza nel tempo e nello spazio.

La luce come materializzazione della grazia domina le grandi visioni religiose della cappella Contarelli a San Luigi dei Francesi e della cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo. Nella Vocazione di San Matteo la luce guidata risplende sulla mano del Cristo accanto a san Pietro (che nella sua prossimità enuncia il primato della Chiesa) e raggiunge il volto reclinato di san Matteo penetrando tra i capelli arruffati; una luce che non proviene dalla finestra nascosta, ma, come sembra indicare la linea d'ombra della parete, da una sorgente più alta, con una intensità che evoca il divino.

Ci si può chiedere perché questa luce così netta e così esplicita nella sua direzione diventi, nelle opere tarde, una luce più vibrante e misteriosa e lo spazio sembri ripiegarsi su se stesso. Le vicende della vita spiegano perché in così breve arco di tempo, dai trentacinque ai trentanove anni della sua vita, Caravaggio modifichi il suo punto di vista nei confronti della realtà.

Sappiamo che, stimolato dalla fama conquistata, il pittore aveva rischiato più volte la prigione, evitandola spesso in virtù delle protezioni di cui godeva. Anche il ferimento del notaio Pasqualone si era concluso felicemente con una riconciliazione. Ma nel 1606, per una questione di donne avviene un fatto decisivo per la sua vita:  l'uccisione di un certo Ranuccio Tomassoni, a quanto pare un losco figuro protettore di prostitute, avvenuta in seguito a un duello.

La condanna a morte che gli fu comminata in questa occasione è alla base delle peregrinazioni degli ultimi anni, fino alla morte nel 1610 che non avvenne, secondo la mitologia corrente, vagando sulla spiaggia della Feniglia, ma nell'ospedale di Santa Maria Ausiliatrice di Porto Ercole, dopo aver ricevuto i sacramenti.

La condanna a morte subita era di un tipo specialissimo in quanto comportava la possibilità di essere eseguita dovunque e comunque. Per il Merisi si apre quindi un periodo di clandestinità, diviso tra la paura di essere ucciso e la speranza di essere perdonato dal Papa Paolo v Borghese, per l'intercessione del cardinale Gonzaga. Terrore e speranza coesistono nelle ultime opere dipinte a Napoli, a Malta e a Messina. E anche in questo caso sono proprio i soggetti religiosi che affrontò a consentirgli di esprimere con grande intensità sentimenti contrapposti, la fede e la speranza da una parte e il pentimento, il dolore, il terrore dall'altra, la sensazione tragica di un mondo, goduto in tutte le sue promesse avvincenti, che si dissolve, si ripiega, si chiude.

L'ossessione di una condanna che avrebbe potuto concludersi in qualunque momento e un sincero pentimento per i delitti compiuti più o meno intenzionalmente fa capire il senso, come scrive Calvesi, "di quel ritrarre se stesso accanto a santi trucidati (a sant'Orsola di cui l'autoritratto è come una "controfigura") o morti che risorgono (il Lazzaro), l'autoritratto come Golia decapitato, il ricorrere di figure dal capo mozzato (oltre al san Giovanni di Malta e al Golia Borghese, l'altro Golia di Vienna, le due Salomè con la testa del Battista, il santo Vescovo decollato portato in Spagna dal Vicerè, la nuova redazione napoletana della Giuditta, la prima versione del seppellimento di santa Lucia e il sant'Agapito di Palestrina).

Il segno più eloquente di questo stato d'animo, oltre al dolente autoritratto come Golia, è un particolare della Decollazione di San Giovanni Battista a Malta in cui la firma dell'autore appare tracciata con lo stesso colore della pozza di sangue che sgorga dalla testa mozzata di san Giovanni.

In questo scenario tragico la luce perde la sua forza ma non si estingue, si mescola all'ombra, balugina; come figura simbolica della grazia sembra aver perso consistenza e direzionalità, ma resta la forza segreta che anima l'intreccio dei corpi e dà un senso al dipingere stesso, canto di dolore, di pentimento e di attesa che fa pensare al salmo 130, che cito dalla traduzione dall'ebraico di Gianfranco Ravasi:  "Dal profondo a te grido o Jahveh / ascolta la mia voce, / siano le tue orecchie attente / alla voce della mia supplica! / Se osservi le iniquità, o Jahveh, chi mai potrà sussistere? / Ma presso di te è il perdono / perché tu sia temuto. / Io spero Signore, spera l'anima mia / attendo la sua parola. / L'anima mia è verso il Signore / più che le sentinelle verso l'aurora".

Proprio quando l'aurora del perdono pontificio stava per arrivare, Caravaggio, secondo quanto si può dedurre dalle lettere citate dal Pacelli, sbarcato da una feluca a Palo, a pochi chilometri da Roma, sarebbe stato fermato per accertamenti e, una volta liberato in seguito a una cauzione, si sarebbe recato a Porto Ercole, dove la feluca si sarebbe recata prima di tornare a Napoli, per recuperare le sue cose tra le quali vi erano tre tele, due dedicate a san Giovanni (una delle quali è quella della galleria Borghese) e una dedicata alla Maddalena che, riportata a Napoli dalla feluca, arrivò nelle mani di Costanza Sforza Colonna, marchesa di Caravaggio che lo aveva ospitato nel suo palazzo e lo aveva aiutato fin dagli anni della adolescenza lombarda.

La grazia del perdono pontificio che gli avrebbe consentito di tornare a Roma non ebbe esito, ma un'altra grazia, quella immateriale e divina simbolizzata dalla sua "luce guidata" che investe dall'alto le sofferenze umane, lo avrebbe comunque raggiunto, attraverso l'Ostia Consacrata, nell'Ospedale di Santa Maria Ausiliatrice a Porto Ercole così da poter morire, il 18 luglio 1610, nella pace del Signore, lasciando alla umanità intera un'eredità che nessuna feluca poteva ormai sottrargli.


(©L'Osservatore Romano - 25-26 gennaio 2010)

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Alle Scuderie del Quirinale una mostra a quattrocento anni dalla morte di Caravaggio

Il pittore "maledetto" che capì
il senso della spiritualità moderna


Gli studiosi che hanno partecipato alla preparazione della mostra "Caravaggio" - il catalogo è edito da Skira (Milano, 2010, pagine 248, euro 49) - hanno dedicato una scheda-saggio a una delle opere esposte. Pubblichiamo il contributo del direttore dei Musei Vaticani, che ricopre anche la carica di presidente della Commissione scientifica delle mostre nelle Scuderie del Quirinale.

di Antonio Paolucci

"Nella Chiesa Nuova alla man dritta c'è del suo nella seconda cappella il Christo morto, che lo vogliono seppellire con alcune figure, a olio lavorato; e questa dicono che sia la miglior opera di lui...". Così il Baglione (Giovanni Baglione, Le vite de' pittori scultori et architetti dal pontificato di Gregorio xiii dal 1572 in fino ai tempi di Papa Urbano viii nel 1642, Roma 1642, p. 137).

Che il dipinto ora nella Pinacoteca Vaticana (cm. 300 x 203) fosse il capolavoro assoluto di Caravaggio romano, lo pensavano anche i francesi che lo requisirono nel 1797 per esporlo nel Museé Napoleon di Parigi; unico fra i quadri del Merisi sottratti alle chiese della capitale. Al suo posto venne collocata una copia realizzata dal Camuccini, a sua volta sostituita nel 1818 da quella di Michael Köck ancor oggi nella chiesa.

Restituita a Roma da Parigi nel 1817, la Deposizione entrò a far parte della Pinacoteca Vaticana nelle sue varie dislocazioni fino all'ultimo allestimento curato da Biagio Biagetti e inaugurato da Papa Pio xi Ratti nel 1932.
 
Per il Baglione, come per i commissari francesi e come per la sensibilità e il gusto del xix secolo, la Deposizione della Chiesa Nuova era il capolavoro di Caravaggio perché fra tutti appariva come il più classico, il più nobilmente impostato sui modelli della tradizione. Anche a noi sembra tale e questo ci permette di capire meglio la formazione culturale e l'immaginario estetico del pittore.

Caravaggio è un formidabile innovatore. È il primo a far saltare la gerarchia dei generi con la sua celebre "galileiana" sentenza:  "Tanta manifattura è fare un quadro buono di fiori come di figure".

È il primo a usare la luce come disvelamento, come colpo di mano sul Vero visibile. È il primo a intuire e a rappresentare la terribile moralità immanente alle cose quando il lume e l'ombra ce le fanno apparire così come sono.

Eppure la proposta rivoluzionaria di Caravaggio poggia su una catena di riferimenti stilistici ben individuabili. Il suo nome di battesimo era Michelangelo e con un altro Michelangelo, il Buonarroti da Firenze, voleva confrontarsi. Non c'è chi non veda come il corpo del "Deposto" nel quadro vaticano sia una citazione dal bellissimo nudo che sta sulle ginocchia della Vergine nella Pietà di San Pietro, scolpita dal Buonarroti più di un secolo prima. Allo stesso modo una citazione dall'affresco michelangiolesco con la Crocifissione di san Pietro nella Cappella Paolina, è l'Apostolo che ci guarda irato nel quadro di uguale soggetto che Caravaggio dipinse per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo.

La Discesa nel Sepolcro già in Santa Maria in Vallicella, meglio nota come Chiesa Nuova, e ora nella Pinacoteca Vaticana, è dunque consapevole riferimento a una tradizione illustre, si colloca su una linea stilistica che la rivoluzione rinnova e vivifica ma non cancella.

E ora esaminiamo con qualche attenzione la Deposizione già nella Chiesa Nuova. Cominciamo col dire, prima di tutto, che il termine iconografico con il quale il quadro è conosciuto è solo genericamente corretto. L'episodio che qui Caravaggio mette in figura è l'atto che, nel rito giudaico comune del resto a tutte le culture del Mediterraneo, immediatamente precede l'inumazione vera e propria. Il corpo di Cristo, appena disceso dalla croce, verrà spogliato, disteso sulla grande pietra ben visibile (dopo diremo del significato di quella pietra) per essere lavato, unto, profumato.

Non della pietra destinata a coprire e a sigillare il sepolcro dunque si tratta, ma del letto marmoreo, destinato ai riti funerari, che in latino veniva chiamato lapis untionis.

La tela oggi in Vaticano si trovava in una cappella minore di patronato Vittrice, sul lato destro della Chiesa Nuova. Pietro Vittrice, titolare del patronato, era morto nel 1600. Il nipote Girolamo volle onorarne la memoria commissionando il dipinto a Caravaggio il quale frequentava il circolo degli Oratoriani, custodi allora come oggi della chiesa (Luigi Spezzaferro, Il recupero del Rinascimento, in Storia dell'Arte italiana, Torino 1981, vol. vi, pp. 185-274).

All'inizio del 1600 gli Oratoriani di San Filippo Neri erano un ordine nuovo nato nello spirito della Controriforma. La loro missione si rivolgeva ai ceti urbani popolari e borghesi. Predicavano una religiosità riflessiva e personalistica che attirava i giovani, gli intellettuali, gli artisti. È nel circolo degli Oratoriani da lui frequentato che Caravaggio ebbe l'incarico di dipingere la Deposizione. È in quel clima di profonda e moderna spiritualità cattolica che prende forma e significato l'iconografia del dipinto.

Notiamo subito, in primo piano, la figura di Nicodemo che sostiene, reggendolo per le gambe, il corpo di Cristo. Volge lo sguardo verso di noi e il suo volto ha tutte le caratteristiche di un ritratto. In effetti - io credo - è il ritratto di Pietro Vittrice alla cui memoria è dedicata la tela. Posto nei panni di Nicodemo, il giudeo misericordioso che schiodò Gesù dalla croce e lo depose nel sepolcro, il defunto viene qui presentato come custode del Corpus Christi. Per questo verrà salvato.

Dietro di lui ci sono i testimoni storici della Passione e della Morte di nostro Signore. C'è il grido disperato di Maria di Cleofa che alza le braccia al cielo urlando la sua disperazione, c'è Maria Maddalena che piange tutte le sue lacrime, c'è la Madre, il volto impietrito dal dolore, c'è Giovanni l'Evangelista che cerca di sfiorare per una ultima carezza il corpo del Maestro amato.
E poi c'è la pietra, la vera silenziosa protagonista del quadro. La lastra marmorea presenta verso di noi il suo angolo e subito viene alla mente il Salmo 118:  "La pietra scartata dal costruttore è diventata testata d'angolo".

In questo momento Cristo è la pietra scartata dalla storia. I suoi discepoli lo hanno abbandonato, rinnegato, si sono dispersi. La sua meravigliosa utopia è finita sulla croce e ora si dissolverà per sempre nel sepolcro. Questi pensieri, in questo momento, attraversano gli astanti e Caravaggio li rappresenta con implacabile verità.

Eppure noi sappiamo, Caravaggio sa, che su quella pietra riposa la speranza di salvezza per Pietro Vittrice e per ognuno di noi. Quando il celebrante, nel momento della consacrazione, elevava l'ostia (Hoc est enim corpus meum) essa si trovava allineata con il corpo di Cristo e con l'angolo della pietra profetica. Il messaggio non poteva essere più efficace e più immediatamente comprensibile.
"Il dirompersi delle tenebre rivelava l'accaduto e nient'altro che l'accaduto...".
 
Così scriveva il giovane Roberto Longhi nei Quesiti caravaggeschi del 1928-1929 a proposito della rivoluzione della luce inaugurata da Caravaggio. Occorre aggiungere tuttavia che il mondo svelato dalla luce con inesorabile obiettività per il Merisi è, può essere, un mistero ontologico abitato dai segni del Sacro.
In questo senso il dipinto vaticano ha offerto alla moderna critica specialistica argomenti di riflessione e di decodificazione importanti.

Per il primo Novecento delle avanguardie e delle rivoluzioni e dunque per Roberto Longhi, Caravaggio era il peintre maudit descrittoci nel 1603 dal contemporaneo Karel van Mander ("quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da un gioco di palla all'altro, molto incline a duellare e a far baruffe") ed era soprattutto l'alfiere di un rinnovamento artistico radicale, ideologicamente connotato in senso laico e progressista.

È stato il secondo Novecento a capire e a dimostrare che il Merisi da Caravaggio, questo personaggio irascibile e violento, frequentatore di cattive compagnie, più a suo agio fra donne di malaffare e ragazzi di vita che fra i gentiluomini e i prelati che pure lo ammiravano e lo collezionavano (i Cardinali Del Monte e Borromeo, il Marchese Giustiniani, fra gli altri) era uno spirito autenticamente religioso portatore delle idee e delle sensibilità più avanzate nella moderna estetica cristiana.

La spiritualità cattolica che i manuali chiamano della Controriforma invitava gli artisti ad aderire alla lettera e al senso della Scrittura e, allo stesso tempo, ad attualizzarne il messaggio, così da renderlo a tutti comprensibile e per tutti efficace. Nella Vocazione di Matteo di San Luigi dei Francesi, nella Madonna di Loreto di Sant'Agostino, nella Conversione di Saulo e nella Crocifissione di san Pietro di Santa Maria del Popolo, nella Morte della Vergine del Louvre, nei capolavori di Napoli, di Malta, di Siracusa, di Messina, in tutti i quadri di soggetto religioso di Caravaggio, la moralità del Vero visibile svelato dalla luce, diventa moderna epifania del Sacro, essenziale catechesi spoglia di ogni retorica.

Tutto questo lo vediamo significato in maniera mirabile nella Deposizione della Pinacoteca Vaticana.


(©L'Osservatore Romano - 18 febbraio 2010)

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La "Deposizione" dipinta per la Chiesa Nuova

L'invito di Caravaggio


Il procuratore generale degli oratoriani ha sintetizzato per il nostro giornale il contenuto della conferenza tenuta il 22 aprile nella chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma nell'ambito dei "Sermoni dell'Oratorio".

di Edoardo Aldo Cerrato

Pur nella semplicità di un sermone dell'Oratorio secolare, non poteva mancare alla Vallicella, nel iv centenario della morte di Caravaggio, il ricordo del "gran peccatore, specie nell'ira, ma cattolico peccatore, ben cosciente che gli insegnamenti della Chiesa erano veri", il quale ha dipinto per la cappella Vittrici della Chiesa Nuova la Deposizione conservata nei Musei Vaticani.

Pietro Vittrici, già maggiordomo del cardinale Ugo Boncompagni e suo famigliare dopo l'elezione al Soglio pontificio (1572), era stato guarito miracolosamente per intervento di Filippo Neri e si era spiritualmente legato a lui e all'Oratorio, tanto da essere il primo ad aver assegnata, nel 1577, nella Chiesa Nuova che stava sorgendo, una cappella sul cui altare una pala di ignoto, ora perduta, raffigurava la Pietà e accanto a essa lo stesso Papa Boncompagni.

Questa cappella fu ben presto sostituita dalla attuale - decorata ad affresco e stucco sui temi della morte e sepoltura di Cristo, illustrati con raffigurazioni della sacra Sindone, della Pietà e dei profeti che mostrano tavolette con versetti appropriati dei salmi - innalzata a spese della Congregazione a partire dal settembre 1596 (padre Filippo era morto il 26 maggio dell'anno precedente) e terminata nel 1605. Per essa, in ricordo di Pietro Vittrici, morto il 26 marzo 1600, il nipote Girolamo, suo erede, aveva commissionato "di sua cortesia" al Caravaggio la nuova pala, realizzata tra il 1602 e il 1604.

La scelta di affidare all'artista il quadro maturò nell'ambito dell'entourage di Clemente viii Aldobrandini e degli Oratoriani, oltre che nel rapporto di familiarità che il Vittrici intratteneva con importanti committenti e amici di Caravaggio:  i Cerasi, i Giustiniani - tre dei quali, Fabiano, Orazio e Giuliano, entrarono nella Congregazione dell'Oratorio - i Mattei, la cui villa sul Celio ospitava la sosta dei partecipanti alla Visita delle Sette Chiese.

Era stata accettata, per la Chiesa Nuova, una tela del pittore maledetto, insofferente di ogni vincolo religioso, istintivo e bizzarro che Caravaggio appariva a non pochi, o, in quell'ambiente di profonda pietà, si apprezzava la religiosità di un artista discusso ma passionalmente impegnato a interpretare il messaggio di verità e di evangelica povertà caro a Filippo, al Baronio, agli oratoriani? La Congregazione dell'Oratorio era esigente con gli artisti, come dovrà sperimentare anche Pier Paolo Rubens. La tela di Caravaggio entrò nella nuova chiesa già ornata dalla Crocifissione di Scipione Pulzoni, dall'Ascensione di Gesù di Girolamo Muziano, dall'Adorazione dei Magi di Cesare Nebbia, dalla Visitazione di Maria a Elisabetta di Federico Barocci, davanti alla quale padre Filippo "si tratteneva volentieri" - testimonia il Bacci - piacendogli assai quell'immagine".

La pala della cappella Vittrici presenta la deposizione di Gesù nel sepolcro. Il corpo del Cristo è bellissimo (evidente l'omaggio alla Pietà di Michelangelo in San Pietro), ma la realtà della morte è espressa dal volto livido e dalla bocca dischiusa, dal braccio, attirato in basso dalla forza di gravità che lo domina. Eppure quel braccio si inarca e le dita della mano sembrano indicare la pietra il cui angolo punta verso chi contempla la scena:  Cristo è stato sconfitto, i suoi discepoli sono fuggiti, lo hanno rinnegato, si sono dispersi, ma il lapis angularis rimane lui, anche ora che tutto consumatum est. La sindone avvolge il Cristo morto, ma ha un lembo mosso da un soffio leggero, mentre dal buio già una pianta emerge, con il suo verde fogliame, a indicare che la morte, dentro a tale sepolcro, non è vittoriosa.

Chi sta per scendere nella tomba è un morto particolare:  la mattina di Pasqua ne svelerà al mondo la piena identità, rivelando al tempo stesso lo stupendo disegno di Dio.

Il corpo di Cristo è sostenuto da Giovanni e da Nicodemo (per altri Giuseppe di Arimatea):  Nicodemo - le gambe vigorose e i piedi ben piantati sulla pietra sono quelli che lo portarono, di notte, a incontrare Gesù - più che sorreggere quel corpo sembra a esso abbracciato; Giovanni, il capo che si piega sul petto del Maestro, sembra rivivere l'esperienza della notte precedente, quando nel suo cuore risuonarono i palpiti del Cuore di Dio.

In secondo piano, Maria e due donne accompagnano Cristo al sepolcro:  le braccia spalancate e il volto reclinato, conformata a Cristo nel dono supremo, la Madre abbraccia tutto il corpo del Figlio; le donne con lacrime di dolore cantano la fedeltà dell'amore.

Ma con lo sguardo rivolto a cercare gli occhi di chi sta davanti alla scena, è Nicodemo che colpisce in modo particolare. Il suo volto è caratterizzato come un ritratto, tanto che qualcuno vi ha voluto vedere il volto di Pietro Vittrice; Romeo De Maio il volto di Cesare Baronio; altri quello di Michelangelo, il quale, peraltro, nella Pietà conservata al Museo del Duomo di Firenze, aveva scolpito le proprie sembianze in quelle del discepolo.

Quel volto è quello dell'artista-testimone che non si limita a rievocare un fatto del passato, ma lo riconosce presente nell'oggi? Quel che è certo è che su quel volto solcato di rughe c'è un invito:  "E tu? Vuoi entrare anche tu in questo avvenimento?". "Nelle figure che spesso affollano le pitture di Caravaggio - scrive Rodolfo Papa - rintracciamo qualcosa di noi, qualcosa della nostra vita quotidiana, o, meglio, della fatica della nostra vita quotidiana posta al cospetto del mistero che irrompe salvifico tra noi. L'arte di Caravaggio ci parla della nostra fede e per questo l'amiamo istintivamente".

L'arte di Caravaggio, arrivato addirittura a uccidere, è il "paradosso" di cui parla Bona Castellotti:  il paradosso di una mano mai frenata dalla coscienza del proprio male, ma spesa nella consapevolezza di un grande bene; il paradosso di uno sguardo che vede le cose che non vanno bene, ma è tutto proteso a valorizzare l'unica cosa buona presente in ogni realtà.

Sotto il lino che avvolge la carne del Mistero, sotto la dura pietra che spinge il suo angolo aguzzo verso il fedele, quella pianticella giovane che già alza il capo è il segno che la vita nuova è nata, e che il desiderio del cuore non è vano. Quella pianticella è il canto umile ed esultante della Risurrezione:  quella di Cristo e la nostra.

Caravaggio ha offerto la visione del mistero pasquale da artista che, dentro alle ansie e ai drammi della vita, seppe lasciarsi affascinare dalla bellezza della carne di Cristo. Lo fece con la consapevolezza con cui, nei giorni di Pasqua, il Victimae paschali canta, con la maestà pacata di ciò che non ammette evasioni, l'evento storico che ha cambiato la vita:  mortuus, vivus, redemit, reconciliavit. La fede nel Mistero è garantita da accertamenti sicuri, che la tutelano dai sogni e dalle illusioni. C'è la testimonianza di chi reca la prova della sua constatazione personale:  Quid vidisti, Maria? Sepulcrum Christi viventis, et gloriam vidi resurgentis, Angelicos testes, sudarium et vestes.


(©L'Osservatore Romano - 23 aprile 2010)
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Scoperto nel quarto centenario della morte

Un nuovo Caravaggio


Il "Martirio di san Lorenzo" rinvenuto a Roma offre l'occasione per analizzare il rapporto dell'artista con i gesuiti

di Lydia Salviucci Insolera

Quattrocento anni fa, il 18 luglio 1610, moriva sulla spiaggia di Porto Ercole Michelangelo Merisi da Caravaggio, dopo aver trascorso una delle vite artistiche più famose e appassionate, tra il successo raggiunto, l'amicizia di influenti committenti e le ultime fughe disperate nell'Italia meridionale a causa di una condanna per omicidio.

L'eccezionalità della sua vita è diventata quasi leggenda, e all'inizio del Novecento addirittura materia di studio per Mariano Patrizi, l'allievo più dotato di Cesare Lombroso, tanto da dedicargli una serie di studi incentrati sul binomio genio e follia.

Ci sarebbero moltissimi modi per ricordare oggi e festeggiare Caravaggio. In questo anno ogni sua opera d'arte è stata analizzata e sviscerata attraverso mostre, articoli e occasioni di vario tipo. Originali, copie, presunti autografi, tutto l'universo dell'artista è diventato notizia mediatica; capolavori e non, sono stati rimessi in gioco per ulteriori considerazioni e dibattiti. Il catalogo delle opere certe è diventato il tema della mostra (alle Scuderie del Quirinale) più visitata a Roma in questi ultimi tempi.

Per evitare di entrare in queste querelles caravaggesche, si è scelto di trarre spunto da un quadro rimasto inedito fino ad oggi, il Martirio di san Lorenzo, di proprietà della Compagnia di Gesù. Di certo è un dipinto stilisticamente "impeccabile", però non si vuole ora cadere nel facile tranello di un "Caravaggio a tutti i costi". Saranno ulteriori indagini diagnostiche e un circostanziato approfondimento documentario, stilistico e critico a fornire le risposte. Per rendere omaggio a Caravaggio non interessa tanto ora stabilire una attribuzione certa, ma seguire quelle molteplici fila legate al dipinto che, con sorprendente naturalezza, si stringono intorno ad alcuni aspetti ancora inesplorati della sua vita a Roma.

Che il dipinto sia di grande bellezza è un fatto inequivocabile. Che sia, se non altro, un caravaggesco della primissima ora, risulta alquanto evidente. Notevole è la luce che dal fondo scuro sferza e modella con bagliori improvvisi la superficie dei volumi. L'originalità della posa del santo è sorprendente:  all'apparenza quasi irriverente, san Lorenzo appare disteso a pancia in giù sulla graticola con le braccia in avanti, quasi a cercare la salvezza. Invece proprio questo volto giovane, sofferente e disperato mostra quell'umanità presente nel profondo significato teologico del martirio. La dimensione umana, espressa dallo sguardo e dal movimento della testa, tutta tesa in avanti, viene efficacemente comunicata allo spettatore, o meglio al fedele. Questa stessa sensazione si percepisce osservando le opere di Caravaggio per la cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo.

Ad esempio, nella prima versione rifiutata della Conversione di san Paolo (ora collezione Odescalchi), il santo istintivamente si copre con le mani gli occhi. L'impatto emotivo d'insieme con il corpo giacente del martire, invece, ricorda il Martirio di san Matteo nella cappella Contarelli, chiesa di San Luigi dei Francesi. Il particolare del braccio e della mano destra di san Lorenzo, inoltre, presenta lo stesso vigore di quelli di Oloferne nella Giuditta e Oloferne a palazzo Barberini. Come contrappunto compositivo, sempre nel quadro di san Lorenzo, vi sono tre personaggi che con crudo realismo fisiognomico e gestuale esaltano il pathos diffuso della scena. La torsione della schiena dell'aguzzino a sinistra, che sta svuotando la cesta con i carboni per la brace, si può accostare addirittura a quella del carnefice nella Decollazione di san Giovanni Battista nella cattedrale a La Valletta, Malta. Né biografie, né fonti caravaggesche nominano però questo soggetto, anche se il pittore affronta altri temi, sempre cruenti, in linea con le scelte religiose del tempo.
 
Il Martirio di san Lorenzo costituisce, infatti, un chiaro riferimento ai dettami iconografici di evidente matrice gesuitica, non a causa, però, dello specifico tema agiografico del santo diacono Lorenzo, anche se nella chiesa dei gesuiti a Venezia si trova un importante precedente:  il famoso dipinto di Tiziano della metà del Cinquecento con una straordinaria soluzione luministica. L'iconografia si ricollega, invece, alla portata teologica del tema del martirio in genere, fortemente diffuso dalla Compagnia di Gesù.

Si è, infatti, già da tempo ritenuto possibile che Caravaggio, giunto a Roma nel 1592, abbia avuto modo di conoscere il ciclo dei martiri, all'avanguardia per l'epoca, affrescato da Pomarancio nella chiesa di Santo Stefano Rotondo del collegio Germanico-Ungarico (1583 circa). Il marcato realismo voluto espressamente dai gesuiti, serve a facilitare nei novizi, destinati nelle terre di missione, la comprensione del momento del martirio, trasformando la paura in accettazione del proprio stato, per il tramite della grazia, proprio come avviene nel giovane san Lorenzo. Il coinvolgimento è essenziale. Il racconto della medievale Legenda aurea, fonte base per ogni artista, viene riletto, in seguito ai dettami tridentini, con maggiore attenzione per rendere una rigorosa descrizione dei fatti. Qui la capacità espressiva dell'artista nel mostrare le mani tese del santo forse si manifesta in modo esageratamente realistico per il luogo sacro a cui il dipinto era destinato. Quale cappella dei gesuiti, infatti, avrebbe dovuto ospitarlo? Anche di questo dato non si hanno per ora notizie, lasciando così spazio a qualche ipotesi. 

Nella cappella dei martiri o di sant'Andrea al Gesù, Agostino Ciampelli, entrò il 1603 e dipinse sulla parete di sinistra un Martirio di san Lorenzo. Il semplice affresco ritrae il santo con la classica posa delle braccia rivolte verso l'alto, ma l'iconografia riecheggia molto il dipinto qui esaminato, soprattutto nel particolare insolito dell'aguzzino che svuota la cesta. Il patronato era di Salustia Cerrini, moglie di Ottavio Crescenzi, della nobile famiglia romana strettamente collegata alle vicende della committenza a Caravaggio della cappella Contarelli.
 
Questa potente famiglia viene nominata frequentemente dagli studiosi a proposito dei contatti di Caravaggio con i suoi committenti, anche se non si hanno opere dirette da riferirle, né, ad un primo spoglio dei documenti archivistici Serlupi-Crescenzi, si è trovata qualche traccia. Forse i Crescenzi - come esecutori testamentari dei Contarelli - nello stesso tempo in cui trattano con Caravaggio le tele con le scene di san Matteo, possono aver pensato a lui per la loro cappella al Gesù. Poi, però, accantonato il dipinto ottenuto, subentra Ciampelli, che ne mantiene memoria nel suo affresco. Questi, infatti, viene chiamato direttamente dai gesuiti per concludere in maniera tradizionale le decorazioni rimaste vacanti al Gesù e a San Vitale.

Se queste possono fin qui sembrare facili suggestioni, rimane sempre il legame documentario di Caravaggio con i Crescenzi, che a loro volta hanno la cappella al Gesù. Per l'ipotesi di un'eventuale committenza di Caravaggio al Gesù - come tassello finale di questo percorso inesplorato - si aggiunge ora una nuova riflessione sul famoso processo del 1603, causato dal pittore Giovanni Baglione contro Caravaggio, Orazio Gentileschi e altri che lo avrebbero diffamato per invidia, facendo circolare per Roma dei versi satirici. Caravaggio, pur ricevendo già importanti committenze religiose, avrebbe voluto per sé quella ricevuta da Baglione:  la pala d'altare del transetto destro della chiesa del Gesù, dedicato all'epoca alla Resurrezione di Gesù (attuale Cappella di san Francesco Saverio).

Dalle vive parole di Caravaggio, trascritte nel verbale del processo (13 settembre 1603), si scopre così che egli conosce bene sia la chiesa sia la pittura di Baglione:  "l'ho vista altre volte con l'occasione d'andare al Giesù, ma non me ne ricordo se c'era con me altri pittori". Del perché di queste ripetute visite alla chiesa non si ha riscontro, forse potrebbero essere state motivate anche dai legami con la famiglia Crescenzi. Sempre nel verbale del processo, Caravaggio fornisce un'ulteriore informazione di natura stilistica sul dipinto di Baglione:  "Quella pittura a me non me piace perché è goffa (...) e a nessuno ha piaciuto". Più avanti invece dice che un vero pittore si può definire un "valent'huomo (...) perché sa dipingere bene e imitare bene le cose naturali". Ecco, in questa sintesi spontanea di concetti si trova la spiegazione più sincera dell'arte di Caravaggio:  è giusto accettare pure il soggetto più esageratamente realistico e simile alla natura, come farà lui stesso ritraendo anche i piedi sporchi di personaggi in primo piano (Madonna di Loreto nella cappella Cavalletti, chiesa di Sant'Agostino a Roma), purché però sia dipinto bene e non in maniera sbagliata tanto da essere considerato da tutti "goffa".


(©L'Osservatore Romano - 18 luglio 2010)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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