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Il Risorgimento? Una pagina da ristudiare..... La Chiesa vera artefice dell'Unità

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2012 11:43
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28/03/2010 21:45
 
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25 Marzo 2010

9 - ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Risorgimento capro espiatorio

Quest’anniversario dell’Unità cade nel momento di massima distanza affettiva tra gli italiani e il Risorgimento. Da qualche decennio, con un’impennata negli ultimi anni, l’epopea ottocentesca che ha dato origine al nostro Paese è finita sul banco degli accusati, additata come colpevole di gran parte dei malanni nazionali. Per lo storico Ernesto Galli della Loggia, docente di Storia contemporanea presso l’Istituto italiano di Scienze umane di Firenze, «una responsabilità non secondaria tocca alla scuola, così come si è evoluta negli ultimi trent’anni. La disaffezione non è solo nei confronti del Risorgimento, ma della dimensione nazionale in genere: anche la letteratura italiana è sempre meno studiata».

Ma in altri Paesi europei sono concepibili critiche ai fondamenti stessi dell’unità nazionale, come quelle cui si assiste in Italia?
«No, nemmeno in quelli più vicini a noi come la Francia. Certo, sulla storia nazionale ci si divide – per esempio sulla Rivoluzione francese –, ma nessuno mette in discussione la Francia in sé, salvo qualche movimento nazionalista del tutto marginale come quelli bretone o corso. Solo in Italia si ripetono luoghi comuni di gran lunga più critici che favorevoli all’Unità. Ed è appunto qui che c’è il difetto della scuola, che ha mancato gravemente nell’insegnamento della storia e ha consentito che insegnanti e libri di testo sposassero le tesi più cervellotiche e infondate».

Come quella di un presunto depauperamento del Sud dopo l’Unità?
«Questa è un’autentica corbelleria. Gli studi dimostrano in maniera inoppugnabile che al punto di partenza, nel 1860, il divario economico tra Nord e Sud era già fortissimo. Sotto tutti i punti di vista: dall’estensione delle strade all’alfabetizzazione, dallo sviluppo dei commerci a quello dell’agricoltura».

Eppure non è raro sentir citare esempi di eccellenza meridionale: la Napoli-Portici, per esempio, fu nel 1839 la prima ferrovia italiana...
«La sempre evocata ferrovia Napoli-Portici non era altro che il giocattolo del re, mentre invece la Torino-Genova o le ferrovie costruite dagli austriaci in Lombardia servivano concretamente allo sviluppo economico. Portici è un sobborgo di Napoli, dove non c’era niente se non qualche villa… Quei sette chilometri di binari la dicono lunga sulla ratio delle scelte "economiche" dei Borboni. Intanto, in tutto il Regno delle Due Sicilie non c’era una strada degna di questo nome: a dirlo non sono le descrizioni fatte dai prefetti sabaudi, ma quelle degli alti funzionari dell’amministrazione borbonica negli anni Quaranta-Cinquanta».

Nessuna attività produttiva, quindi?
«Prendiamo la Sicilia: era come il Cile. Il Cile produceva rame e guano, poi arrivavano i bastimenti inglesi e nordamericani, li prelevavano e li portavano in patria affinché fossero lavorati. Così la Sicilia: produceva zolfo e arance, poi arrivavano i bastimenti e li caricavano. Era un’economia coloniale, che forniva soltanto un po’ di materia prima – peraltro rapidamente diventata inutile grazie alla produzione industriale chimica dell’acido solforico. Ma si può immaginare uno sviluppo economico fondato sulle arance?».

A essere contestato è anche il centralismo adottato dal neonato Stato italiano...
«Un’altra contestazione... Il processo risorgimentale trova solo difensori istituzionali, mentre nello spirito pubblico domina la contestazione. Non è però vero che l’Italia adottò subito e per principio una linea centralistica, tutt’altro: nella primavera del 1861, a immediato ridosso dell’unificazione, il ministro degli Interni Minghetti presentò un progetto di legge che prevedeva un largo decentramento ai comuni. Solo che cominciarono ad arrivare le notizie della rivolta nelle province meridionali e si diffuse la consapevolezza, immediatamente trasmessa dai prefetti, che il decentramento avrebbe restituito il potere al notabilato borbonico. Fu per questo che Minghetti ritirò il suo progetto, che fu sostituito da quello centralistico».

Ci fu un’ispirazione anticattolica, all’interno del processo risorgimentale?
«Anche su questo punto si tende a esagerare. Sicuramente ci fu una componente laicista, più o meno massonica – anche se va ricordato che la prima loggia massonica in Italia fu fondata soltanto nel 1859 –, ma il fatto è che nell’Europa dell’Ottocento il liberalismo era generalmente contiguo allo spirito massonico. A unirli era la lotta contro la Chiesa, la quale a sua volta non era certo una vittima e combatteva accanitamente contro il liberalismo. La Rivoluzione francese aveva prodotto una divaricazione tra la libertà politica e la Chiesa, tanto che l’affermazione delle istituzioni liberali – il parlamento, la costituzione – passava necessariamente attraverso il conflitto con il papato. C’è stato un momento drammatico, nella storia della Chiesa: non aver capito che lo spirito illuministico, con il suo materialismo e la sua secolarizzazione, non era la stessa cosa delle istituzioni liberali e delle istanze anti-assolutistiche».

Quale spazio rimaneva, allora, ai cattolici liberali?
«Si trovarono in un vero e proprio dramma storico: un Manzoni non poteva essere a favore del parlamento o della fine del dominio austriaco su Milano, senza essere scomunicato. E poi: vorrà dire pure qualcosa il fatto che lo stesso Cavour abbia voluto morire assistito dai conforti religiosi, no? Lo statista si era infuriato enormemente, tanto da arrivare a un accesso di anticlericalismo, quando al suo amico morente Santarosa furono rifiutati i sacramenti – gettando nella costernazione la sua famiglia, profondamente cattolica – perché da ministro aveva appoggiato la politica liberale del Piemonte. D’altra parte, dobbiamo sforzarci di comprendere anche la gravità del problema che si trovava davanti il papa: gli si chiedeva di rinunciare a quello Stato della Chiesa che gli era stato trasmesso da oltre un millennio di predecessori. Era una responsabilità politica e religiosa non da poco, e si può ben capire la resistenza di Pio IX. Nelle file del liberalismo italiano c’erano molti cattolici, così come c’era sicuramente anche un gruppetto di tenaci anticlericali, anche se assolutamente minoritario. Il problema era politico: nel momento in cui si tentava di fare l’Unità, diventavano tutti anticlericali, perché era l’unico modo per farla».

Edoardo Castagna
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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