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DOSSIER di Agenzia Fides sulla CLAUSURA

Ultimo Aggiornamento: 29/06/2010 22:42
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29/06/2010 22:42
 
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“Il Signore conosce la mia nullità”: intervista a Madre Scolastica Mastrocola, Abbadessa del Monastero di Santa Scolastica di Cassino, in provincia di Frosinone.

Reverenda Madre, che cos’è per lei il Monastero?

Il Monastero è, prima di tutto, il luogo d’incontro con Dio. Nel Monastero, il Signore è al centro di tutto e di tutti in ogni attimo di vita. Infatti, all’aspirante che bussa alla porta per entrare nella comunità, si chiede se “cerca veramente Dio”.

San Benedetto, più profondamente, dice che questo non avviene se Dio non ci avesse cercati per primo, attraverso il Suo amore gratuito. Quindi, l’atteggiamento della monaca è quello dell’ascolto: la Santa Regola inizia “Ascolta, o Figlio…” e questo richiamo riecheggia in altre forme in tutta la Santa Regola.
Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del tuo maestro e piega l’orecchio del tuo cuore, accogli volentieri l’esortazione di un padre pieno d’affetto e mettila concretamente in pratica, perché attraverso la fatica dell’obbedienza tu possa ritornare a colui dal quale ti eri allontanato per l’inerzia della disobbedienza.
A te, dunque, chiunque tu sia, si rivolge ora la mia parola: a te che, rinunciando alle tue volontà, per militare per Cristo Signore, vero re, prendi su di te le potenti e gloriose armi dell’obbedienza. Regola di Benedetto, Prologo I

Quali sono le caratteristiche della vita monastica?

Ve n’è una, essenziale: l’allontanamento dal mondo, perché tutta la vita della singola persona e della comunità sia fasciata di silenzio. La solitudine, quindi, proprio per favorire al massimo l’ascolto di Dio e il colloquio ininterrotto con Lui.

Lo Spirito Santo non abita volentieri dove ci sono folle, assembramenti di persone, contese e liti: anzi lo Spirito Santo ha come dimora sua propria la solitudine. Del resto anche il nostro Signore e Salvatore, quando voleva pregare, si ritirava da solo sulla montagna – come sta scritto – e là pregava per tutta la notte (Mt 14,23; Lc 6,12). Di giorno stava con i discepoli, di notte rivolgeva al Padre la sua preghiera per noi.

A che scopo dico tutto ciò? Perché alcuni fratelli dicono spesso: “Se rimango nel cenobio, non ho la possibilità di pregare da solo!”. Forse che il Signore congedava i suoi discepoli? No, restava comunque con i suoi discepoli; ma quando voleva pregare più intensamente si ritirava da solo in disparte.
Anche noi dunque se vogliamo pregare più di quanto si faccia in comune, andiamo in cella, andiamo nei campi, andiamo nei luoghi deserti! Possiamo beneficiare sia delle virtù della vita fraterna che della solitudine. (Girolamo, Omelie su Marco I, I2)

Che cos’è l’obbedienza?

Ci si obbedisce scambievolmente. L’obbedienza è lo strumento quotidiano di fare la volontà di Dio, utilizzando l’altro. Ecco che, allora, ogni cosa umana, ogni attrito umano, si copre di Divino, perché diviene il momento della perpetua redenzione nella gestualità quotidiana.
Nell’esercizio continuo di annullare il nostro ego, facciamo posto nella nostra anima alla Bellezza dell’Altissimo.

Cosa ci può essere di più dolce, di più piacevole e di più gradito del vivere come discepoli obbedienti secondo gli ordini ricevuti e senza far niente secondo la propria volontà? Questa è la vera sottomissione; questa è la vita beata; questa è la lotta a un tempo piena di dolori e, per così dire, senza dolore: piena di dolori per colui che è ancora dominato dalle proprie volontà, e senza dolore per colui che ha già reciso la volontà propria, che sarà anche libero di dire con l’Apostolo: ‘Non sono più io che vivo, ma vive in me Cristo’ (Gal 2,20). Poiché, infatti, non vive più secondo la propria volontà, grazie alla mediazione dell’igumeno ‘vive per Dio’ (Rm 6, I0), e ‘riflettendo a viso scoperto, come in uno specchio, la gloria del Signore’, viene trasformato ‘in quella stessa immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito Santo del Signore (Cor 2-3, I8), come sta scritto. Una persona del genere è distaccata dalle preoccupazioni del mondo e non ha paura della morte: egli trascorre una vita senza dolore né turbamento, dedicandosi con tutto se stesso e interamente a Dio.

Chi invece si appoggia sulle proprie volontà, e di conseguenza mutila le leggi della sottomissione, agendo di propria volontà e compiacendosi di se stesso, conduce una vita penosa, ‘catturato dal diavolo per compiere la sua volontà’ (Tm 2-2, 26). E se anche sembra digiunare, vegliare o compiere qualche altra opera buona, ciò non ha alcun valore, poiché ‘tutto quello che non viene dalla fede è peccato’ (Rm I4, 23), e quello che non avviene secondo la regola comune è proprio di colui che lo compie ed estraneo all’autentica pietà. (Teodoro Studita, Piccole catechesi I04)

Quanto tempo viene dedicato al colloquio intimo e comunitario con Dio?

Il colloquio con Dio, come dicevo, è ininterrotto. Alcune ore del giorno, quelle più feconde, sono dedicate alla Lectio Divina. Essa è la lettura comunitaria o personale della Parola di Dio, che poi, in realtà, accompagna tutta la giornata: il coro, nel refettorio, durante il lavoro.

Viveva con me in monastero un fratello di nome Antonio, che ogni giorno anelava alla gioie della patria celeste con lacrime abbondanti: quando meditava le parole della Sacra Scrittura, non vi ricercava le parole della scienza, ma il pianto della compunzione, affinché la sua mente ne fosse risvegliata e infiammata e, abbandonando le realtà terrene, si elevasse attraverso la contemplazione verso la patria celeste. (Gregorio Magno, Dialoghi IV, 49,2)

Che valore ha per la vita monacale la Parola di Dio?

La Parola di Dio è il cibo principale della vita monastica, che poi viene ruminato e assimilato interiormente in ciascuna di noi; fa germogliare la preghiera-colloquio con Dio fino alla vetta più alta della contemplazione, se la grazia di Dio trova un’anima attenta e generosa.

La via migliore per arrivare a scoprire il proprio dovere è la meditazione delle Scritture ispirate da Dio. In esse, infatti, si possono trovare anche dei suggerimenti per le azioni e ci vengono trasmesse per iscritto le vite degli uomini beati, quali immagini viventi della vita secondo Dio, a noi proposte perché ne imitiamo le buone azioni. Ciascuno, dunque, soffermandosi su ciò in cui si sente carente, può trovare, come in un ospedale pubblico, il farmaco adatto alla propria malattia. (Basilio di Cesarea, Lettere 2,3)

Che cos’è per voi la Liturgia delle Ore?

E’ il culmine della Lectio Divina: quello che si chiama Opus Dei per eccellenza (= Liturgia delle Ore). Questa scandisce tutto il corso della giornata e della notte, dove la Parola di Dio non solo viene ascoltata, ma celebrata e cantata (i Salmi), in unione col coro delle consorelle “davanti agli Angeli e in cospetto della Divinità”.

Nella tua preghiera, non usare parole sofisticate, perché spesso il balbettio semplice e ripetitivo dei bambini è riuscito a intenerire il loro Padre che è nei cieli (Mt 6, 9).
Non affannarti a parlare molto quando preghi (Mt 6, 7), perché la tua mente non si disperda nella ricerca delle parole.
Una sola parola da parte del pubblicano bastò a procurargli la misericordia di Dio (Lc I8, I3), e un solo grido di fede salvò il ladrone (Lc 23, 42-43).

L’uso di molte parole nella preghiera spesso disperde la mente e la colma di immagini, mentre la ripetizione di una sola formula spesso la raccoglie.
Quando una parola della tua preghiera ti pervade di dolcezza o di compunzione, rimani in essa, perché in quel momento il nostro angelo custode sta pregando per noi.
(Giovanni Climaco, La scala XXVIII, 8-I0)

E l’Eucaristia che cosa rappresenta per la vita monacale?

E’ il momento più alto e la sintesi di tutto quello che si vive. San Benedetto intuì sin da subito e indicò come sorgente vocazionale monastica non solo il Battesimo, ma anche e specialmente il Mistero che si celebra sull’altare. Infatti, egli vide inclusa nell’offerta di Cristo la donazione totale di sé che la monaca fa nella Professione col triplice Suscipe me, Domine, secundum eloquim tuum…”, cantato davanti all’altare e alla comunità dei fratelli. E’ per questa ragione che la scheda di Professione viene sottoscritta e deposta sulla mensa dell’altare.

Quindi, il carisma monastico non fa uscire il monaco o la monaca dall’esistenza cristiana, ma la radica in maniera più profonda alla realtà battesimale-eucaristica, cioè nel Ministero del Cristo morto e risorto. Insomma, la vita monastica è unita alla Lectio Divina, all’Opus Dei, che hanno il loro culmine nel Mistero eucaristico: ecco l’atmosfera in cui vive la donna-monaca, pura di cuore, alla ricerca di Dio.

Antonio non si distingueva dagli altri né per la sua altezza né per l’imponenza del suo aspetto, ma per la disposizione del suo carattere e la purezza dell’anima. Infatti, poiché la sua anima era in pace, anche il suo comportamento esterno era tranquillo: la gioia del cuore rendeva lieto il suo volto e i movimenti del corpo lasciavano percepire e intuire lo stato interiore della sua anima, come sta scritto: “Quando il cuore è nella gioia, il volto rifiorisce; ma quando il cuore è nella tristezza, il volto si oscura” (Pr I5, I3).
Così Giacobbe comprese che Labano stava meditando qualche insidia, e disse alle donne: “Il volto di vostro padre non è quello di ieri e dell’altro ieri” (Gen 3I, 5); così Samuele riconobbe David (Sam I6, I2): i suoi occhi infatti infondevano gioia e i suoi denti erano bianchi come latte (Gen 49, I”). E così si poteva riconoscere anche Antonio: non era mai turbato, perché la sua anima era in pace; non era mai scuro in volto, perché la sua anima era piena di gioia. (Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio 67, 5-8)

Le suore di clausura, spesso, sono stigmatizzate come inutili, perché non immerse – si dice – nel “fare” della vita…
Vediamo sorgere, spontaneo, un sorriso sulle labbra della Reverenda Madre.

Le monache hanno sempre gli occhi e gli orecchi e direi tutti i loro sensi tesi e rivolti all’Onnipotente. Questo fa sì che, educate solo a leggere e ad interpretare i testi e gli avvenimenti del passato, impariamo a leggere noi stesse e la comunità che ci circonda, le vicende della Chiesa e del mondo, i “segni dei tempi”, dal punto di vista di Dio e dei veri interessi del regno.
La lunga familiarità acquisita con il pensiero di Dio, presente nella Sua parola e nel Suo grande disegno d’amore che abbraccia ogni evento e ogni persona, fornisce la chiave nuova di lettura di tutta la realtà e questo vuol dire “profezia”, dono eminente, messo in forte risalto da San Gregorio Magno e partecipato anche da ogni vera monaca.

Vivi e considera te stesso come uno straniero rispetto a ognuno dei fratelli della comunità e, a maggior ragione, rispetto alle persone che conosci nel mondo.
Con il cuore contrito e umiliato rotolati ai piedi di tutti i fratelli della comunità, come una persona che scompare nell’ombra, sconosciuta e del tutto inesistente. (Simeone Studita, Discorso ascetico II.I9)

E’ questa la ragione per la quale a chi è solito dialogare con i monaci sembra che questi “leggano” le cose del mondo meglio di chi vive nel mondo?

Accade sovente, è vero. Ma questo, come le dicevo, è un dono grandissimo di Dio. La “profezia”, quando è autentica, fa evitare da una parte l’eccessiva sacralizzazione, cioè l’incapacità di rispettare la legittima autonomia del mondo creato; dall’altra, preserva dall’erroneo dualismo che contrappone il Sacro e il profano, il Cielo e la terra, la Chiesa e il mondo.
Non è senza significato, del resto, il fatto, universalmente riconosciuto, che la cultura benedettina ha stimato, coltivato, salvaguardato i beni di questa terra, dall’economia al lavoro, dalle arti alla cultura, antica e nuova.

Se vivi nel mondo, sforzati di praticare le virtù adatte a chi è nel mondo; ma se sei monaco, distinguiti nelle opere in cui eccellono i monaci. Se però vuoi occuparti sia delle une che delle altre cose, fallirai in entrambe… Il Signore ha lasciato nel mondo coloro che lo servono e che si prendono cura dei suoi figli, e ha scelto per sé coloro che celebrano davanti a lui la sua liturgia. (Isacco di Ninive, Discorsi ascetici 79)

Quali sono le prerogative di una Madre Abbadessa?

Nella mia personale esperienza, mi sento e sono una monaca come le altre, con l’unico obbligo di amare di più ognuna delle mie consorelle, con spirito di servizio. Non mi sento donata a Dio soltanto attraverso la preghiera ascetica, ma sono intimamente convinta di poterlo raggiungere in maniera autentica solo se io stessa mi faccio dono umile alla mia comunità.
Vede, tutte noi viviamo nell’anelito “sibi ivicem e sub caritate”, nell’aprirsi all’amore e nel rapportarsi costantemente molto più agli altri che a se stessi e al proprio giudizio, comodo o tornaconto. Il mio precipuo compito è ascoltare ed accogliere le mie consorelle, perché la “cosa dell’uomo” diventi “cosa di Dio”. Sono umilmente consapevole del fatto che il Signore conosce la mia nullità e vivo nella certezza del Suo amore, che copre ogni mia debolezza con la Sua Infinita Misericordia.

Tutto ciò nutre un’atmosfera di pace interiore che ci lascia intravedere come sarà la Bellezza del Paradiso. Siamo in cammino perenne alla ricerca assetata solo di Lui, perché questo è il motivo di vita di ogni essere umano, che sia sposato intimamente a Dio o che viva da laico.

Vede, il laico non ha il dono infinito di cui immeritatamente godiamo noi ed è per questo che preghiamo, imploriamo e ci uniamo quotidianamente al suo dolore. E’ il medesimo sforzo che compiamo unendoci al dolore delle anime purganti, perché – vede – fin da ora, per noi, non c’è più bisogno delle due dimensioni dello spazio e del tempo, non c’è più terra e cielo. Esiste solo il desiderio d’immergerci in Lui con tutte le anime dell’universo.

Voi, guide e superiori dei monasteri e delle case, a cui sono stati affidati degli uomini… attendete la venuta del Salvatore (Tt 2, I3) e preparate l’esercito in armi davanti a lui. Guardatevi dal dar loro ristoro nelle cose materiali senza concedere loro il nutrimento spirituale, o al contrario dall’insegnare le cose spirituali affliggendoli in quelle materiali, cioè nel cibo e nel vestito, ma fornite loro ugualmente cibi spirituali e materiali, senza dar loro alcuna occasione di negligenza. Che giustizia è mai questa: opprimere di fatica i fratelli mentre noi stessi ce ne stiamo in ozio? Oppure imporre loro un giogo che noi stessi non possiamo portare (At 15, I0)? Leggiamo nell’evangelo: “Con la misura con la quale misurate, vi sarà misurato” (Mt 7, 2). Condividiamo dunque con loro fatica e riposo, e non consideriamo i nostri discepoli come schiavi, né la loro afflizione come una nostra gioia, perché la parola evangelica non abbia rimproverarci insieme ai farisei: “Guai a voi, dottori della legge, che legate pesi insopportabili e li imponete sulle spalle degli uomini, mentre voi non osate toccarli neppure con un dito” (Lc II, 46; Mt 23, 4) (Orsiesi, Testamento 7)

Reverenda Madre, voi guardate la televisione?

Solo per le grandi celebrazioni o trasmissioni che riguardano il Santo Padre, però leggiamo tanti quotidiani. Siamo nel mondo, senza essere del mondo. Conosciamo il mondo e l’amiamo con tutti i suoi mali, perché certe che Dio li consente per un bene superiore…… In Dio tutto è perfetto, ogni Suo disegno diviene un nostro desiderio e compiere la Sua volontà, la nostra gioia.

Ritirarsi dal mondo non significa venirne fuori fisicamente, ma strappare l’anima dal suo attaccamento al corpo e diventare senza città, senza casa, senza proprietà, senza attaccamento agli amici, senza beni privati, senza mezzi di sussistenza, senza affari, senza relazioni, ignari degli insegnamenti umani, pronti a ricevere nel cuore le impronte dell’insegnamento divino. (Basilio di Cesarea, Lettere 2, 2)

Come vive il rapporto familiare, una monaca?

Amiamo i nostri familiari non meno delle persone che vivono nel mondo, ma in maniera diversa. Non sentiamo il bisogno di vederli o il desiderio di tornare nelle nostre case. Il nostro desiderio è di vivere stabilmente nel Monastero. Infatti, la clausura ha il quarto voto: la stabilità, come dice la Regola di San Benedetto (4, 78): “L’officina nella quale possiamo adoperare con impegno tutti questi strumenti sono i recinti del monastero e la stabilità nella comunità”. Qui entriamo per uscire solo per raggiungere l’unica casa che amiamo più di questa: la Casa del Padre.

Teodoro chiese a un fratello anziano riguardo a quel passo dell’evangelo che dice: “Se uno viene a me e non odia suo padre e sua madre” e ciò che segue (Lc I4, 26): “Tu come lo intendi?”. E il fratello gli disse: “La Scrittura ha usato parole molto esigenti, perché arrivassimo ad osservarle almeno in parte. Come potremmo infatti odiare i nostri genitori?”. Diceva così perché visitava spesso i propri genitori ed era incapace di distaccarsi dal modo di pensare della carne (Rm 8,6) pur avendo udito un così autorevole insegnamento. Teodoro allora gli rispose per metterlo alla prova: “E’ dunque questa la vostra fede, o tabennesioti? L’evangelo dice questo, e tu dici quest’altro? Me ne vado di qui, non voglio rimanere! Stavo bene là dov’ero prima: laggiù i padri non hanno mai rinnegato l’evangelo!”. E fece finta di ritirarsi da qualche parte per nascondersi per un po’ di tempo. Il fratello andò da abba Pacomio e lo informò della cosa; e Pacomio gli rispose: “Non sai che è novizio? Su, sbrigati a cercarlo, perché se se ne va di qui per questo motivo, non ne avremo una buona fama”. E così il fratello, dopo averlo trovato, cominciò a fargli molte esortazioni, e Teodoro gli disse: Se vuoi che resti e che veda che quanto dici è vero, confessa davanti al Signore e ai fratelli che obbedirai all’evangelo!”. Ed egli lo fece, e da quel momento non andò più dai suoi genitori. (Vite greche di Pacomio I, 68)

Cos’è la morte per una monaca?

Il sospirato abbraccio con l’Amato. Il compimento della nostra vita. Pensi che quando entriamo in convento, le campane del Monastero suonano a morte e, nella morte, suonano a festa!!!


Tra i monaci non si sentono mai né grida né gemiti strazianti: la loro casa non è contaminata da queste cose sgradevoli, né turbata da tali rumori. Anche tra di loro, certo, si muore, poiché il loro corpo non è immortale; ma essi non considerano la morte come una morte.

Accompagnano chi è morto alla tomba cantando inni, e chiamano quest’atto “processione” e non “funerale”.

E quando viene annunciato che il tale è morto, è grande gioia e grande letizia, o meglio nessuno osa dire che quel tale è morto, ma che è giunto a perfezione. Poi seguono ringraziamenti, lunghe preghiere di lode e manifestazioni di gioia, e ciascuno si augura di avere una tal fine e di terminare così la lotta di questa vita, di riposare dalle fatiche e dai tormenti, e di vedere Cristo. E quando qualcuno si ammala, non ci sono né lacrime, né lamenti, ma di nuovo preghiere: spesso a guarire un malato non sono state le mani dei medici, ma soltanto la fede. E se anche c’è bisogno dei medici, è grande anche in questo caso la loro sapienza e la loro moderazione. Qui non c’è né moglie che si sciolga i capelli, né bambini che si lamentino di essere orfani ancor prima di esserlo, né servi che preghino chi sta esalando l’ultimo respiro di metterli al sicuro affidandoli a qualcuno, ma l’anima, libera da tutto ciò, pensa a una cosa sola nell’ultimo respiro: a come può andarsene in modo da piacere a Dio. (Giovanni Crisostomo, Omelie su Timoteo I4, 5)

(Le citazioni usate a commento dell’intervista sono tratte dal libro edito da Edizioni Qiqajon nel 2009, intitolato “Il cammino del monaco” – La vita monastica secondo la tradizione dei padri, a cura di Luigi d’Ayala Valva)


Dossier a cura di D.Q. - Agenzia Fides 10/08/2009; Direttore Luca de Mata



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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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