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DIFENDERE LA VERA FEDE

La Fede Cristiana e l'autentica demonologia; il tema dell'escatologia e della Preghiera di Guarigione

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    Caterina63
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    00 17/05/2012 14:29

    FEDE CRISTIANA E DEMONOLOGIA*

     

    La S. Congrégation pour la Doctrine de la Foi a chargé un expert de préparer l’étude suivante, qu’elle recommande vivement comme base sûre pour réaffirmer la doctrine du Magistère sur le thème : « Foi chrétienne et démonologie ».

    Nel corso dei secoli la Chiesa ha sempre riprovato le varie forme di superstizione, la preoccupazione ossessiva di satana e dei demoni, i diversi tipi di culto e di morboso attaccamento a questi spiriti;1 sarebbe perciò ingiusto affermare che il cristianesimo, dimentico della signoria universale di Cristo, abbia fatto di satana l’argomento preferito della sua predicazione, trasformando la buona novella del Signore risorto in messaggio di terrore. Al suo tempo, san Giovanni Crisostomo dichiarava ai cristiani di Antiochia: « Non ci fa certamente piacere intrattenervi sul diavolo, ma la dottrina della quale esso mi offre lo spunto risulterà assai utile a voi ».2 In realtà, sarebbe un errore funesto comportarsi come se, considerando la storia già risolta, la redenzione avesse ottenuto tutti i suoi effetti, senza che sia più necessario impegnarsi nella lotta di cui parlano il nuovo testamento e i maestri della vita spirituale.

    UN DISAGIO DEL NOSTRO TEMPO

    In questo errore si potrebbe cadere anche oggi. Da molte parti, infatti, ci si domanda se non sia il caso di riesaminare su questo punto la dottrina cattolica, a cominciare dalla sacra scrittura. Certuni credono impossibile una qualsiasi presa di posizione – come se il problema potesse esser lasciato in sospeso! – osservando che i libri santi non permetterebbero di pronunziarsi né a favore né contro l’esistenza di satana e dei suoi demoni; il più spesso, però, questa esistenza è apertamente revocata in dubbio. Certi critici, ritenendo di poter identificare la posizione propria di Gesù, pretendono che nessuna sua parola garantirebbe la realtà del mondo demoniaco, mentre l’affermazione della sua esistenza rifletterebbe piuttosto, là dove ricorre, le idee di scritti giudaici, oppure dipenderebbe da tradizioni neotestamentarie e non da Cristo; poiché essa non farebbe parte del messaggio evangelico centrale, non impegnerebbe più, oggi, la nostra fede e noi saremmo liberi di abbandonarla. Altri, più obiettivi e più radicali nello stesso tempo, accettano le asserzioni della sacra scrittura sui demoni nel loro senso ovvio, ma aggiungono subito che, nel mondo d’oggi, esse non sarebbero accettabili neppure per i cristiani. Anch’essi, dunque, le eliminano. Per alcuni, infine, l’idea di satana, qualunque ne sia l’origine, non avrebbe più importanza e, attardandosi a giustificarla, il nostro insegnamento perderebbe credito e farebbe ombra al discorso su Dio, che, solo, merita il nostro interesse. Per gli uni e per gli altri, finalmente, i nomi di satana e del diavolo non sarebbero altro che personificazioni mitiche e funzionali, il cui significato sarebbe soltanto quello di sottolineare drammaticamente l’influsso del male e del peccato sulla umanità. Puro linguaggio, quindi, che la nostra epoca dovrebbe decifrare per trovare un modo diverso di inculcare ai cristiani il dovere di lottare contro tutte le forze del male nel mondo.

    Queste prese di posizione, ripetute con sfoggio di erudizione e diffuse da riviste e da certi dizionari teologici, non possono non turbare gli spiriti: i fedeli, abituati a prendere sul serio gli avvertimenti di Cristo e degli scritti apostolici, hanno l’impressione che discorsi del genere intendano, in questo campo, imprimere una svolta alla opinione pubblica e coloro, tra essi, che hanno una conoscenza delle scienze bibliche e religiose, si domandano fin dove condurrà il processo di smitizzazione avviato in nome di una certa ermeneutica.

    * * *

    Di fronte a postulati di questo genere e per rispondere al loro processo mentale, dobbiamo, in breve, fermarci anzitutto al nuovo testamento per invocarne la testimonianza e l’autorità.


    IL NUOVO TESTAMENTO E IL SUO CONTESTO

    Prima di ricordare con quale indipendenza di spirito Gesù si sia sempre comportato nei confronti delle opinioni del suo tempo, è importante notare che i suoi contemporanei non avevano tutti, a proposito di angeli e di demoni, la credenza comune che certuni sembrano oggi loro attribuire e dalla quale Gesù stesso dipenderebbe. Un’annotazione con la quale il libro degli Atti illustra la polemica provocata tra i membri del sinedrio da una dichiarazione di san Paolo, ci fa sapere infatti che, a differenza dei farisei, i sadducei non ammettevano « né risurrezione, né angelo, né spirito », cioè, come il testo viene inteso da buoni interpreti, non credevano alla risurrezione e, quindi, neppure agli angeli e ai demoni.3 Così, a proposito di satana, dei demoni e degli angeli, l’opinione dei contemporanei sembra divisa tra due concezioni diametralmente opposte; come, dunque, pretendere che Gesù, esercitando e dando ad altri il potere di scacciare i demoni e, nella sua scia, gli scrittori del nuovo testamento, non abbiano fatto altro che adottare, senza il minimo spirito critico, le idee e le pratiche del loro tempo? Certo, Cristo, e a maggior ragione gli apostoli, appartenevano alla loro epoca e ne condividevano la cultura; Gesù tuttavia, a motivo della sua natura divina e della rivelazione che era venuto a comunicare, trascendeva il suo ambiente e il suo tempo, sfuggiva alla loro pressione. La lettura del discorso sulla montagna è sufficiente del resto a convincersi della sua libertà di spirito come del suo rispetto per la tradizione.4 Perciò, quando egli rivelò il significato della sua redenzione, dovette tener conto evidentemente dei farisei, i quali, come lui, credevano al mondo futuro, all’anima, agli spiriti e alla risurrezione; ma anche dei sadducei, i quali non ammettevano queste credenze. Quando i primi lo accusarono di scacciare i demoni con la complicità del loro principe, egli avrebbe potuto scagionarsi, schierandosi con i sadducei; ma, così facendo, avrebbe smentito ciò che egli era e la sua missione. Egli dunque, doveva, senza rinnegare la credenza agli spiriti e alla risurrezione – che aveva in comune con i farisei – dissociarsi da costoro ed opporsi, non meno, ai sadducei. Pretendere dunque oggi che il discorso di Gesù su satana esprima soltanto una dottrina mutuata dall’ambiente, senza importanza per la fede universale, appare, di primo acchito, come un’opinione poco informata sull’epoca e la personalità del Maestro. Se Gesù ha usato questo linguaggio, se soprattutto egli lo ha tradotto in pratica nel suo ministero, è perché esso esprimeva una dottrina necessaria – almeno per una parte – alla nozione e alla realtà della salvezza da lui portata.

    LA TESTIMONIANZA PERSONALE DI GESÙ

    Anche le principali guarigioni di ossessi furono da Cristo compiute in momenti che risultano decisivi nei racconti del suo ministero. I suoi esorcismi ponevano e orientavano il problema della sua missione e della sua persona, come provano a sufficienza le reazioni che suscitarono.5 Senza mettere mai satana al centro del suo vangelo, Gesù ne parlò tuttavia solo in momenti evidentemente cruciali e con dichiarazioni importanti. Prima di tutto diede inizio al suo ministero pubblico accettando di essere tentato dal diavolo nel deserto: il racconto di Marco, proprio a motivo della sua sobrietà, è decisivo quanto quello di Matteo e di Luca.6 Contro questo avversario egli mise in guardia nel discorso sulla montagna, e nella preghiera che insegnò ai suoi, il Padre nostro, come ammettono oggi molti esegeti,7 appoggiati sulla testimonianza di parecchie liturgie.8 Nelle parabole, Gesù attribuì a satana gli ostacoli incontrati dalla sua predicazione,9 come nel caso della zizzania nel campo del padre di famiglia.10 A Simon Pietro egli annunziò che « la potenza degli inferi » avrebbe tentato di prevalere sulla Chiesa,11 che satana lo avrebbe passato al vaglio insieme con gli altri apostoli.12 Al momento di lasciare il cenacolo, Cristo dichiarò imminente la venuta del « principe di questo mondo ».13 Nel Getsemani, quando i soldati gli misero addosso le mani per arrestarlo, affermò ch’era giunta l’ora della « potenza delle tenebre »:14 ciò nonostante, egli sapeva e aveva dichiarato nel cenacolo che «il principe di questo mondo era ormai condannato ».15 Questi fatti e queste dichiarazioni – bene inquadrati, ripetuti e concordanti – non sono casuali e non è possibile trattarli come dati favolistici da smitizzare. Altrimenti, bisognerebbe ammettere che in quelle ore critiche la coscienza di Gesù, di cui è attestata la lucidità e la padronanza di sé davanti ai giudici, era in preda a fantasmi illusori, e che la sua parola era priva di ogni fermezza; ciò che contrasterebbe con l’impressione dei primi ascoltatori e dei lettori dei vangeli. Si impone perciò la conclusione: satana, che Gesù aveva affrontato con i suoi esorcismi, che aveva incontrato nel deserto e nella passione, non può essere il semplice prodotto della facoltà umana di favoleggiare e di personificare le idee, oppure un relitto aberrante di un lin­guaggio culturale primitivo.


    GLI SCRITTI PAOLINI

    È vero che san Paolo, riassumendo a larghe linee nella lettera ai romani la situazione dell’umanità prima di Cristo, personifica il peccato e la morte, di cui mostra la temibile potenza; ma si tratta, nel complesso della sua dottrina, di un momento, che non è l’effetto di una risorsa puramente letteraria, ma della sua acuta coscienza dell’importanza della croce di Gesù e della necessità dell’opzione di fede che egli richiede. D’altra parte, Paolo non identifica il peccato con satana; nel peccato, infatti, egli vede prima di tutto ciò che esso è essenzialmente, un atto personale degli uomini, e anche lo stato di colpevolezza e di accecamento nel quale satana effettivamente cerca di gettarli e mantenerli.16 In tal modo, Paolo distingue bene satana dal peccato. L’apostolo, il quale davanti alla « legge del peccato che sente nelle sue membra » confessa anzitutto la sua impotenza senza la grazia,17 è quello stesso che, con estrema decisione, invita a resistere a satana,18 a non farsi dominare da lui, a non dargli occasione o vantaggio19 e a schiacciarlo sotto i piedi.20 Perché satana è per lui una entità personale, « il dio di questo mondo »,21 un avversario furbo, distinto sia da noi che dal peccato, che egli suggerisce. Come nel vangelo, l’apostolo lo vede all’opera nella storia del mondo, in quello che egli chiama « il mistero della iniquità »:22 nella incredulità che si rifiuta di riconoscere il signore Gesù23 e anche nell’aberrazione della idolatria,24 nella seduzione che minaccia la fedeltà della Chiesa a Cristo suo sposo,25 infine nel traviamento escatologico che conduce al culto dell’uomo messo al posto di Dio.26 Certamente, satana induce al peccato, ma si distingue dal male che egli fa commettere.


    L’APOCALISSE E IL VANGELO DI SAN GIOVANNI

    L’Apocalisse è soprattutto il grandioso affresco in cui risplende la potenza di Cristo risorto nei testimoni del suo vangelo: essa proclama il trionfo dell’Agnello immolato; ma ci si ingannerebbe completamente sulla natura di questa vittoria se non vi si vedesse il termine di una lunga lotta in cui intervengono, mediante le potenze umane che si oppongono al signore Gesù, satana e i suoi angeli, distinti gli uni dagli altri, come pure i loro agenti storici. È infatti l’Apocalisse che, sottolineando l’enigma dei diversi nomi e simboli di satana nella sacra scrittura, ne smaschera definitivamente l’identità.27 La sua azione si svolge in tutti i secoli della storia umana sotto gli occhi di Dio.

    Non sorprende perciò che, nel vangelo di san Giovanni, Gesù parli del diavolo e che lo qualifichi « principe di questo mondo ».28 Certamente, la sua azione sull’uomo è interiore; ma è impossibile vedere nella sua figura soltanto una personificazione del peccato e della tentazione. Gesù riconosce che peccare significa essere « schiavo »,29 ma non identifica per questo con satana né questa schiavitù né il peccato, che in essa si manifesta. Il diavolo esercita sui peccatori solo una influenza morale, nella misura in cui ciascuno acconsente alla sua ispirazione:30 liberamente essi ne eseguono i « desideri »31 e fanno « la sua opera ».32 Soltanto in questo senso e in questa misura satana è il loro « padre »,33 perché tra lui e la coscienza della persona umana resta sempre la distanza spirituale che separa la « menzogna » diabolica dal consenso che ad essa si può dare o negare,34 allo stesso modo che tra Cristo e noi esiste sempre la distanza tra la « verità » che egli rivela e propone, e la fede con la quale viene accolta.

    Per questo motivo i Padri della Chiesa, convinti dalla sacra scrittura che satana e i demoni sono gli avversari della redenzione, non hanno mancato di ricordare ai fedeli la loro esistenza e la loro azione.

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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 17/05/2012 14:31
    LA DOTTRINA GENERALE DEI PADRI

    Fin dal II secolo della nostra era Melitone di Sardi aveva scritto un’opera « Sul demonio »35 e sarebbe difficile citare un solo padre che su questo argomento abbia taciuto. Ovviamente, i più attenti a mettere in luce l’azione del diavolo furono quelli che illustrarono il disegno divino nella storia, specialmente sant’Ireneo e Tertulliano, i quali affrontarono successivamente il dualismo gnostico e Marcione; poi la volta di Vittorino di Pettau, e finalmente di sant’Agostino. Sant’Ireneo insegnò che il diavolo è un « angelo apostata »;36 che Cristo, ricapitolando in se stesso la guerra di questo nemico contro di noi, dovette affrontarlo agli inizi del suo ministero.37 Con maggiore ampiezza e vigore sant’Agostino lo mostrò all’opera nella lotta delle « due città », che hanno origine in cielo, quando le prime creature di Dio, gli angeli, si dichiararono fedeli o infedeli al loro Signore;38 nella società dei peccatori egli vide un « corpo » mistico del diavolo,39 di cui parlerà più tardi, nei Moralia in Job, anche s. Gregorio magno.40

    Evidentemente, la maggioranza dei Padri, abbandonando con Origene l’idea di un peccato carnale degli angeli decaduti, videro nel loro orgoglio – cioè nel desiderio di innalzarsi al disopra della loro condizione, di affermare la loro indipendenza, di farsi credere Dio – il principio della loro caduta; ma, accanto a quest’orgoglio, molti sottolinearono anche la loro cattiveria nei confronti dell’uomo. Per sant’Ireneo, l’apostasia del diavolo sarebbe cominciata quando egli ebbe gelosia della creazione dell’uomo e cercò di farlo ribellare al suo autore.41 Secondo Tertulliano, satana, per contrastare il piano del Signore, avrebbe plagiato nei misteri pagani i sacramenti istituiti da Cristo.42 L’insegnamento patristico echeggiò dunque in maniera sostanzialmente fedele la dottrina e gli orientamenti del nuovo testamento.


    IL CONCILIO LATERANENSE IV (1215)
    E IL SUO ENUNCIATO DEMONOLOGICO

    È vero che in venti secoli di storia il magistero consacrò alla demonologia soltanto poche dichiarazioni propriamente dogmatiche. La ragione è che l’occasione si presentò raramente, a due riprese soltanto, la più importante delle quali si situa all’inizio del XIII secolo, quando si manifestò una reviviscenza del dualismo manicheo e priscillianista con l’apparizione dei catari o albigesi; ma l’enunciato dogmatico di allora, formulato in un quadro dottrinale familiare, corrisponde molto da vicino alla nostra sensibilità, perché è coinvolta la visione dell’universo e la sua creazione da parte di Dio. « Noi crediamo fermamente e professiamo con semplicità... un principio unico dell’universo, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e corporee: con la sua onnipotenza all’inizio del tempo egli creò insieme dal nulla l’una e l’altra creatura, la spirituale e la corporea, cioè gli angeli e il mondo, poi la creatura umana che appartiene in qualche modo all’una e all’altra, composta di spirito e di corpo. Perché il diavolo e gli altri demoni sono stati creati da Dio naturalmente buoni, ma son diventati cattivi da se stessi, per propria iniziativa; quanto all’uomo, egli ha peccato per istigazione del diavolo ».43

    L’essenziale di questa esposizione è sobrio. Sul diavolo e i demoni il Concilio si limita ad affermare che, creature dell’unico Dio, essi non sono sostanzialmente cattivi, ma lo divennero per il loro libero arbitrio. Non vengono precisati né il loro numero né la loro colpa, né l’estensione del loro potere: queste questioni, estranee allora al problema dogmatico, furono lasciate alle discussioni scolastiche. Ma l’affermazione del Concilio, per quanto sia succinta, resta di capitale importanza perché è emanazione del più grande Concilio del secolo XIII ed è messa in evidenza nella sua professione di fede, che, preceduta storicamente di poco da quelle imposte ai catari e ai valdesi,44 si collegava con le condanne pronunziate contro il priscillianismo di parecchi secoli prima.45 Questa professione di fede merita dunque d’essere considerata con attenzione.

    Essa adotta la abituale struttura dei simboli dogmatici e trova facilmente posto nella loro serie, a partire dal Concilio di Nicea. Secondo il testo citato, si riassume dal nostro punto di vista in due temi connessi ed egualmente importanti per la fede: l’enunciato relativo al diavolo, sul quale dovremo fermarci in particolare, segue infatti una dichiarazione sul Dio creatore di tutte le cose « visibili e invisibili », cioè degli esseri corporei e angelici.


    IL PRIMO TEMA DEL CONCILIO:
    DIO CREATORE DEGLI ESSERI « VISIBILI E INVISIBILI»

    Questa affermazione sul Creatore e la formula che la esprime hanno una importanza particolare per il nostro argomento, perché antiche al punto d’affondare le loro radici nella dottrina di san Paolo. L’apostolo infatti, glorificando il Cristo risorto, aveva affermato che egli esercita il dominio su tutti gli esseri « nei cieli, sulla terra e negli inferi »,46 « nel mondo presente e in quello futuro»;47 poi, affermandone la preesistenza, insegnò che « egli aveva creato tutto nei cieli e sulla terra, gli (esseri) visibili e quelli invisibili ».48 Questa dottrina della creazione ebbe ben presto la sua importanza per la fede cristiana, perché la gnosi e il marcionismo tentarono molto per tempo, prima del manicheismo e del priscillianismo, di farla vacillare. I primi simboli di fede specificarono regolarmente che « gli (esseri) visibili, e invisibili » sono tutti creati da Dio. Questa dottrina, affermata dal Concilio niceno-costantinopolitano,49 poi da quello di Toledo,50 si leggeva nelle professioni di fede di cui le grandi chiese si servivano nella celebrazione del battesimo;51 entrò anche nella grande preghiera eucaristica di san Giacomo a Gerusalemme,52 di san Basilio in Asia minore e ad Alessandria53 e di altre chiese d’oriente.54 Presso i Padri greci, essa appare fin da sant’Ireneo55 e nella Expositio fidei di sant’Atanasio.56 In occidente, la ritroviamo in Gregorio di Elvira,57 sant’Agostino,58 san Fulgenzio59 ecc.

    Al tempo in cui i catari d’occidente, come i bogomili nell’Europa orientale, restaurarono il dualismo manicheo, la professione di fede del Concilio Lateranense IV non poteva far di meglio che riprendere questa dichiarazione e la sua formula, fin da allora di importanza definitiva. Ripetute, infatti, ben presto dalle professioni di fede del II Concilio di Lione,60 di Firenze61 e di Trento,62 riapparvero infine nella costituzioneDei Filius del Concilio Vaticano I,63 nei termini stessi del Concilio Lateranense IV del 1215. Si tratta dunque di una affermazione primordiale e costante della fede, che il Concilio Lateranense provvidenzialmente sottolineò per collegarvi il suo enunciato relativo a satana e ai demoni. In questo modo, indicò che il loro caso, già importante in se stesso, s’inseriva nel contesto più generale della dottrina sulla creazione universale e della fede agli esseri angelici.

     



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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 17/05/2012 14:32
    SECONDO TEMA DEL CONCILIO: IL DIAVOLO

    1. Il testo

    Per ciò che riguarda questo enunciato demonologico, esso è lungi dal presentarsi come una novità aggiunta per la circostanza, alla stregua di una conseguenza dottrinale o di una deduzione teologica; al contrario, appare come un punto fermo, acquisito da lungo tempo. Ne è già indice la formulazione del testo. Infatti, dopo aver affermata la creazione universale, il documento non passa al diavolo e ai demoni come a una conclusione logicamente dedotta: non scrive « Per conseguenza, satana e i demoni sono stati creati naturalmente buoni... » come sarebbe stato necessario se la dichiarazione fosse stata nuova e dedotta dalla precedente; al contrario, presenta il caso di satana come una prova dell’affermazione precedente, come un argomento contro il dualismo. Scrive effettivamente: « Perché satana e i demoni sono stati creati naturalmente buoni... »: In breve, l’enunciato che li concerne si presenta come una affermazione indiscussa della coscienza cristiana: è, questo, un punto rilevante del documento, e non poteva essere altrimenti se si vuol tener conto delle circostanze storiche.

    2. La preparazione:
    le formulazioni positive e negative
    (IV-V sec.)

    Di fatto, fin dal IV secolo la Chiesa aveva preso posizione contro la tesi manichea dei due princìpi coeterni e opposti;64 sia in oriente che in occidente, insegnava fermamente che satana e i demoni sono stati creati e fatti naturalmente buoni. « Devi credere, dichiarava san Gregorio di Nazianzo al neofìta, che non esiste una essenza del male, né un regno (del male), privo di principio o sussistente per se stesso o creato da Dio ».65 Il diavolo era considerato creatura di Dio, all’origine buona e luminosa, che disgraziatamente non aveva perseverato nella verità nella quale era stata stabilita (Gv 8,44), ma si era ribellata al Signore.66 Il male dunque non era nella sua natura, ma in un atto libero e contingente della sua volontà.67 Affermazioni del genere – che si leggono equivalentemente in san Basilio,68 san Gregorio di Nazianzo,69 san Giovanni Crisostomo,70 Didimo di Alessandria71 in oriente; in Tertulliano,72 Eusebio di Vercelli,73 sant’Ambrogio74 e sant’Agostino75 in occidente – potevano assumere eventualmente una forma dogmatica ferma. Essi si incontrano anche sotto forma di condanna dottrinale oppure di professione di fede.

    Il De Trinitate attribuito ad Eusebio di Vercelli l’esprimeva fermamente in termini di anatemi successivi: « Se qualcuno professa che nella natura in cui è stato fatto l’angelo apostata non è opera di Dio, ma che egli esiste da se stesso, giungendo fino ad attribuirgli di trovare in se stesso il proprio principio, sia anatema. Se qualcuno professa che l’angelo apostata è stato fatto da Dio con una natura cattiva, e non dice che egli ha concepito il male da se stesso per suo proprio volere, sia anatema. Se qualcuno professa che l’angelo di satana ha fatto il mondo – lungi da noi questa credenza! – e non avrà dichiarato che ogni peccato è invenzione sua, sia anatema ».76

    Tale redazione in forma di anatemi non era allora un caso unico: la si trova nel Commonitorium, attribuito a sant’Agostino e scritto in vista dell’abiura dei manichei. Questa istruzione, infatti, votava all’anatema « colui, il quale crede che ci sono due nature, che hanno origine da due princìpi diversi, l’una buona, che è Dio, l’altra cattiva, non creata da lui ».77

    Questo insegnamento veniva tuttavia espresso più volentieri sotto la forma diretta e positiva di un’affermazione da credere. Sant’Agostino, all’inizio del suo De Genesi ad litteram, così diceva: «L’insegnamento cattolico ordina di credere che la Trinità è un solo Dio, il quale ha fatto e creato tutti gli esseri che esistono, in quanto esistono; di modo che ogni creatura, sia intellettuale che corporea, o per dirla in breve secondo i termini delle divine scritture, sia invisibile che visibile, non appartiene alla natura divina, ma è stata fatta dal nulla da Dio ».78

    In Spagna, il primo Concilio di Toledo professava egualmente che Dio è il creatore di « tutti [gli esseri] visibili e invisibili » e che al di fuori di lui « non esiste natura divina, angelo, spirito o potenza alcuna che possa essere ritenuta Dio ».79

    Così, fin dal IV secolo, l’espressione della fede cristiana – insegnata e vissuta – presentava su questo punto le due formulazioni dogmatiche, positiva e negativa, che ritroveremo otto secoli dopo al tempo d’Innocenzo III e del Concilio Lateranense IV.

    San Leone Magno

    Nel frattempo, queste espressioni dogmatiche non caddero in disuso. Infatti, nel V secolo, la lettera del papa san Leone magno a Turibio vescovo di Astorga – la cui autenticità non può più essere messa in dubbio – parlava con lo stesso tono e la medesima chiarezza. Fra gli errori priscillianisti da lui condannati si incontrano infatti i seguenti; «L’annotazione sesta80 segnala che essi pretendono che il diavolo non sia mai stato buono e che la sua natura non è opera di Dio, ma che egli è uscito dal caos e dalle tenebre, perché di fatto non ha un autore del suo essere, ma è egli stesso il principio e la sostanza di ogni male, mentre la vera fede, la fede cattolica, professa che la sostanza di tutte le creature, sia spirituali che corporee, è buona, e che il male non è una natura, dal momento che Dio, creatore dell’universo, ha fatto soltanto ciò ch’è buono. Perciò lo stesso diavolo sarebbe buono se fosse rimasto nello stato in cui era stato fatto. Purtroppo, poiché egli ha fatto cattivo uso della sua naturale eccellenza e non è rimasto nella verità (Gv 8,44), non si è [senza dubbio] trasformato in una sostanza contraria, ma si è separato dal sommo bene, al quale avrebbe dovuto aderire… ».81

    Questa affermazione dottrinale (a cominciare dalle parole « la vera fede, la fede cattolica professa... » fino alla fine) fu ritenuta così importante da venir ripresa negli stessi termini tra le aggiunte fatte nel VI secolo al Libro dei dogmi ecclesiastici, attribuito a Gennadio di Marsiglia.82 Infine, la stessa dottrina sarà sostenuta con tono magisteriale nella Regola di fede a Pietro, opera di san Fulgenzio, dove si troverà affermata la necessità di « ritenere principalmente », di « ritenere fermamente », che tutto ciò che non è Dio è creatura di Dio, e questo è il caso di tutti gli esseri «visibili e invisibili»; «che una parte degli angeli si sono sviati e allontanati volontariamente dal loro Creatore », e « che il male non è una natura ».83

    Non sorprende dunque che in un tale contesto storico gli Statuta Ecclesiae antiqua – una raccolta canonica del V secolo – abbiano introdotto tra le interrogazioni destinate all’esame della fede cattolica dei candidati all’episcopato la seguente domanda: « Se il diavolo è cattivo per condizione o se è diventato tale per libero arbitrio »,84 formula che si ritroverà nelle professioni di fede imposte da Innocenzo III ai valdesi.85

    Il primo Concilio di Braga (VI secolo)

    La dottrina era dunque comune e ferma. I numerosi documenti che la esprimono, e di cui abbiamo indicato i principali, costituiscono lo sfondo dottrinale sul quale spicca il primo Concilio di Braga nella metà del VI secolo. Su questo sfondo, il c. 7 di questo sinodo non appare come testo isolato, ma come sintesi dell’insegnamento del IV e V secolo in questa materia e specialmente della dottrina del papa san Leone magno: « Se qualcuno pretende che il diavolo non è stato prima un angelo [buono] fatto da Dio e che la sua natura non è stata opera di Dio, ma pretende che egli è uscito dal caos e dalle tenebre e che non c’è alcun autore del suo essere, ma che è egli stesso il principio e la sostanza del male, come dicono Mani e Priscilliano, sia anatema ».86

    3. L’avvento dei catari (XII e XIII secolo)

    Fanno anche parte, da lungo tempo, della fede esplicita della Chiesa la condizione di creatura e l’atto libero con il quale il diavolo si è pervertito. Al Concilio Lateranense IV era sufficiente introdurre queste affermazioni nel suo simbolo senza bisogno di documentarle, perché si trattava di credenze chiaramente professate. Questa inserzione, che dal punto di vista dogmatico era possibile anche prima, allora era diventata necessaria, perché l’eresia dei catari aveva adottato alcuni antichi errori manichei. Tra il XII e il XIII secolo molte professioni di fede avevano dovuto affrettarsi a riaffermare che Dio è creatore degli esseri « visibili e invisibili », che è l’autore dei due testamenti, e specificare che il diavolo non era cattivo per natura ma in seguito a una scelta.87 Le antiche proposizioni dualistiche, inquadrate in vasti movimenti dottrinali e spirituali, costituivano allora, nella Francia meridionale e nell’Italia settentrionale, un reale danno per la fede.

    In Francia, Ermengaudo di Béziers aveva dovuto scrivere un trattato contro gli eretici, « i quali dicono e credono che il mondo presente e tutti gli esseri visibili non sono stati creati da Dio, ma dal diavolo » e che esistevano un Dio buono e onnipotente e un dio cattivo, cioè il diavolo.88 Nell’Italia settentrionale un ex-cataro convertito, Bonacursus, aveva anche gridato all’allarme e precisato le diverse scuole della setta.89 Poco dopo il suo intervento, la Summa contra haereticos per molto tempo attribuita a Prepositino di Cremona, nota meglio per il nostro problema l’impatto dell’eresia dualista sull’insegnamento di quell’epoca, quando comincia così la trattazione sui catari: « Il Dio onnipotente ha creato soltanto gli [esseri] invisibili e incorporei. Quanto al diavolo, che questo eretico chiama il dio delle tenebre, egli ha creato gli [esseri] visibili e corporei. Dopo aver detto ciò, l’eretico aggiunge che ci sono due princìpi delle cose: il principio del bene, cioè Dio onnipotente, e il principio del male, cioè il diavolo; aggiunge anche che esistono due nature: una buona, degli [esseri] incorporei, creata dal Dio onnipotente; l’altra, cattiva, [quella] degli [esseri] corporei, creata dal diavolo. L’eretico che così si esprime si chiamava in antico manicheo, oggi cataro ».90

    Malgrado la sua brevità, questo riassunto è significativo per la sua densità. Oggi, possiamo completarlo riferendoci al Libro dei due princìpi, scritto da un teologo cataro poco dopo il Concilio Lateranense IV.91 Addentrandosi nei particolari dell’argomentazione e basandosi sulla sacra scrittura, questa piccola somma dei militanti della setta pretendeva di confutare la dottrina dell’unico Creatore e di fondare su testi biblici l’esistenza dei due opposti princìpi.92 Accanto al Dio buono, diceva, « dobbiamo necessariamente riconoscere l’esistenza di un altro principio, quello del male, che agisce perniciosamente contro il vero Dio e contro la sua creatura ».93

     




    [SM=g1740771] continua....
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 17/05/2012 14:33
    [SM=g1740722]  VALORE DELLA DECISIONE DEL LATERANENSE IV

    All’inizio del XIII secolo queste dichiarazioni, lungi dall’essere soltanto teorie di intellettuali esperti, corrispondevano a un complesso di credenze erronee, vissute e diffuse da una folla di conventicole ramificate, organizzate e attive. La Chiesa aveva il dovere di intervenire, ripetendo energicamente le affermazioni dottrinali dei secoli precedenti, e ciò fece papa Innocenzo III, introducendo i due enunciati dogmatici di fede del Concilio ecumenico Lateranense IV. Questa, letta ufficialmente ai vescovi, fu da essi approvata. Interrogati ad alta voce: « Credete queste [verità] punto per punto? », essi risposero con unanime acclamazione: « [Le] crediamo ».94 Nel suo complesso, dunque, il documento conciliare è un documento di fede e, a motivo della sua natura e forma, che sono quelle di un simbolo, ciascun punto principale di esso ha egualmente valore dogmatico.

    Si cadrebbe in manifesto errore se si pretendesse che ogni paragrafo di un simbolo di fede debba contenere una sola affermazione dogmatica: ciò significherebbe applicare alla sua interpretazione una ermeneutica valida, per esempio, nel caso di un decreto del Concilio di Trento, nel quale ogni capitolo insegna di solito un solo tema dogmatico: necessità di prepararsi alla giustificazione,95 verità della presenza reale di Cristo nella eucaristia,96 ecc. Il primo paragrafo del Lateranense IV, invece, condensa in un numero di righe uguali a quelle del capitolo del Tridentino sul « dono della perseveranza »97 una quantità di affermazioni di fede, in gran parte già definite, sull’unità di Dio, la trinità e l’eguaglianza delle Persone, la semplicità della loro natura, le « processioni » del Figlio e dello Spirito santo. Lo stesso accade per la creazione, specialmente per i due passaggi concernenti il complesso degli esseri spirituali e corporei creati da Dio come anche per la creazione del diavolo e per il suo peccato. Si trattava, come abbiamo stabilito, di altrettanti punti, che dal IV al V secolo appartenevano all’insegnamento della Chiesa; inserendoli nel proprio simbolo, il Concilio non fece altro che consacrare la loro appartenenza alla regola universale della fede.

    Anche l’esistenza della realtà demoniaca e l’affermazione della sua potenza si basano non soltanto su questi documenti più specifici, ma trovano un’altra espressione, più generale e meno rigida, negli enunciati conciliari, ogni volta che essi descrivono la condizione dell’uomo senza Cristo.


    L’INSEGNAMENTO COMUNE DEI PAPI E DEI CONCILI

    Nella metà del V secolo, alla vigilia del Concilio di Calcedonia, il « Tomo » del papa san Leone magno a Flaviano precisò uno dei fini della economia della salvezza evocando la vittoria sulla morte e sul diavolo che secondo le lettera agli ebrei ne detiene l’impero.98 Più tardi, quando il Concilio di Firenze parlò della redenzione, la presentò biblicamente come una liberazione dal dominio del diavolo.99 Il Concilio di Trento, riassumendo la dottrina di san Paolo, dichiara che l’uomo peccatore « è sotto la potenza del diavolo e della morte »;100 salvandoci, Dio « ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, nel quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati ».101 Commettere il peccato dopo il battesimo è « abbandonarsi in potere del demonio ».102 Questa è infatti la fede primitiva e universale della Chiesa, attestata fin dai primi secoli nella liturgia della iniziazione cristiana, quando i catecumeni, sul punto di essere battezzati, rinunciavano a satana, professavano la loro fede nella santissima Trinità e aderivano a Cristo loro Salvatore.103

    È per questo che il Concilio Vaticano II, che si è interessato più del presente della Chiesa che della dottrina della creazione, non ha mancato di mettere in guardia contro l’attività di satana e dei demoni. Di nuovo, come nei concili di Firenze e di Trento, esso ha richiamato con l’apostolo che Cristo ci « libera dal potere delle tenebre »104e, riassumendo la sacra scrittura alla maniera di san Paolo e dell’Apocalisse, la costituzione Gaudium et spes ha detto che la nostra storia, la storia universale, « è una dura lotta contro le potenze delle tenebre, lotta cominciata fin dall’origine del mondo e che durerà, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno ».105 Altrove, il Vaticano II rinnova gli ammonimenti dell’epistola agli efesini ad « indossare l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo ».106 Perché, come la stessa costituzione ricorda ai laici, « noi dobbiamo lottare contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male ».107 Non sorprende infine constatare che lo stesso Concilio, volendo presentare la Chiesa come il regno di Dio che ha già avuto inizio, invoca i miracoli di Gesù e a questo scopo fa precisamente appello ai suoi esorcismi.108 È in questa occasione, effettivamente, che fu pronunziata da Gesù la famosa dichiarazione: « è dunque giunto a voi il regno di Dio ».109


    L’ARGOMENTO LITURGICO

    Quanto alla liturgia, che già occasionalmente abbiamo invocato, essa contribuisce con una particolare testimonianza, perché è l’espressione concreta della fede vissuta; ma non dobbiamo domandarle di rispondere alla nostra curiosità sulla natura dei demoni, le loro categorie e i loro nomi. La liturgia si accontenta di insistere, secondo il suo compito, sulla loro esistenza e la minaccia che essi costituiscono per i cristiani; fondata sull’insegnamento del nuovo testamento, la liturgia lo echeggia direttamente, ricordando che la vita dei battezzati è un combattimento condotto, con la grazia di Cristo e la forza del suo Spirito, contro il mondo, la carne e gli esseri demoniaci.110




    [SM=g1740771]continua...

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    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 17/05/2012 14:34
    IL SIGNIFICATO DEI NUOVI RITUALI

    Oggi tuttavia questo argomento liturgico dev’essere utilizzato con circospezione. Da una parte, i rituali e i sacramentari orientali, con i loro successivi arricchimenti e con una complessa demonologia, rischiano di sviarci; dall’altra, i documenti liturgici latini, spesso rimaneggiati nel corso della storia, invitano, proprio a motivo di questi mutamenti, a conclusioni ugualmente prudenti. Il nostro antico rituale della penitenza pubblica esprimeva con forza l’azione del demonio sui peccatori: purtroppo, questi testi, sopravvissuti fino ai nostri giorni nel pontificale romano,111 da molto tempo non sono più nella pratica. Prima del 1972 si potevano anche citare le preghiere della raccomandazione dell’anima, che evocavano l’orrore dell’inferno e gli ultimi assalti del demonio;112 ma questi testi significativi sono adesso scomparsi. Soprattutto ai nostri giorni, il caratteristico ministero dell’esorcista, senza essere stato radicalmente abolito, è ridotto a un servizio eventuale, e sussisterà di fatto solo su domanda dei vescovi,113 senza che alcun rito sia previsto per il suo conferimento. Un provvedimento del genere non significa, evidentemente, che il sacerdote non ha più il potere di esorcizzare, né che egli non deve più esercitarlo; tuttavia ciò obbliga a constatare che la Chiesa, non facendo più di questo ministero una funzione specifica non riconosce più agli esorcismi l’importanza che avevano nei primi secoli. Questa evoluzione merita senz’altro di essere presa in considerazione.

    Non dobbiamo tuttavia concludere a una recessione o a una revisione della fede nel campo liturgico. Il messale romano del 1970 traduce sempre la convinzione della Chiesa a proposito degli interventi demoniaci. Oggi, come prima, la liturgia della prima domenica di quaresima ricorda ai fedeli come il signore Gesù ha vinto il tentatore: i tre racconti sinottici della sua prova sono riservati ai tre cicli A, B, C delle letture quaresimali. Il protoevangelo, con il suo annuncio della vittoria della discendenza della donna su quella del serpente (Gn 3, 15) si legge nella X domenica dell’anno B e nel sabato della V settimana. La festa della assunzione e il comune della Madonna fanno leggere Apoc 12,1-6, cioè la minaccia del dragone contro la donna che partorisce. Mc 3, 20-35, che riferisce la discussione di Gesù e dei farisei su Beelzebul, fa parte delle letture della X domenica dell’anno B, già segnalata. La parabola del grano e della zizzania (Mt 13,23-43) appare nella domenica XV dell’anno A e la sua spiegazione (Mt 13,36-43) si legge nel martedì della XIII settimana. L’annuncio della sconfitta del principe di questo mondo (Gv 12,20-33) è letto nella domenica V di quaresima dell’anno B e Gv 14, 30 ricorre nella settimana. Tra i testi apostolici, Ef 2,1-10 è assegnato al lunedì della XXIX settimana; Ef 6, 10-20, al comune dei santi e delle sante e al giovedì della XIII settimana. 1 Gv 3, 7-10 si legge il 4 gennaio, e la festa di san Marco propone la prima lettera di san Pietro, che mostra il diavolo circuire la sua preda per divorarla. Queste citazioni che dovrebbero moltiplicarsi, per essere complete, attestano che i più importanti testi biblici sul diavolo fanno sempre parte della lettura ufficiale della Chiesa.

    È vero che il rituale della iniziazione cristiana degli adulti è stato in questo punto modificato e non interpella più il diavolo con apostrofi imperative; ma, allo stesso scopo, si rivolge a Dio sotto forma di preghiera114 con un tono meno spettacolare, ma altrettanto espressivo ed efficace. È dunque falso pretendere che gli esorcismi siano stati eliminati dal nuovo rituale del battesimo. L’errore è così manifesto, che il nuovo rituale del catecumenato ha istituito, prima degli esorcismi abituali detti « maggiori », esorcismi « minori », disposti per tutta la estensione del catecumenato e sconosciuti in passato.115 Gli esorcismi, dunque, restano. Oggi come ieri essi chiedono la vittoria su satana, il diavolo, il principe di questo mondo e il potere delle tenebre; e i tre « scrutini » abituali, nei quali, come prima, gli esorcismi trovano posto, hanno lo stesso scopo negativo e positivo di prima: « liberare dal peccato e dal diavolo » e nello stesso tempo « fortificare in Cristo ».116 Anche la celebrazione del battesimo dei bambini conserva, checché se ne dica, un esorcismo.117 Ciò non significa che la Chiesa consideri questi bambini come altrettanti posseduti da satana; ma essa crede che hanno bisogno anch’essi di tutti gli effetti della redenzione di Cristo. Prima del battesimo, infatti, ogni uomo, bambino e adulto, porta il segno del peccato e dell’azione di satana.

    Quanto alla liturgia della penitenza privata essa parla oggi del diavolo meno di prima; ma le celebrazioni penitenziali comunitarie hanno restaurato un’antica orazione, che ricorda l’influenza di satana sui peccatori.118 Nel rituale dei malati – come abbiamo già notato – la preghiera della raccomandazione dell’anima non sottolinea più la presenza inquietante di satana; ma nel corso del rito dell’unzione il celebrante prega affinché l’infermo « sia liberato dal peccato e da ogni tentazione ».119 L’olio santo è considerato come una « protezione » del corpo, dell’anima e dello spirito120 e la orazione « Commendo te », senza menzionare l’inferno e il demonio, evoca tuttavia indirettamente la loro esistenza e la loro azione quando domanda a Cristo di salvare il morente e di metterlo nel numero delle « sue » pecore e dei « suoi » eletti: questo linguaggio vuole evidentemente evitare un trauma al malato e alla sua famiglia, ma non viene meno alla fede nel mistero del male.

    * * *

    In breve, in ciò che concerne la demonologia, la posizione della Chiesa è chiara e ferma. È vero che nel corso dei secoli l’esistenza di satana e dei demoni non è stata mai fatta oggetto di una affermazione esplicita del suo magistero. La ragione è che la questione non fu mai posta in questi termini: gli eretici e i fedeli, ugualmente fondandosi sulla sacra scrittura, erano d’accordo nel riconoscere la loro esistenza e i loro principali misfatti. Per questo, oggi, quando è messa in dubbio la realtà demoniaca, è necessario riferirsi – come abbiamo poco fa ricordato – alla fede costante e universale della Chiesa e alla sua fonte maggiore: l’insegnamento di Cristo. È nella dottrina del vangelo, infatti, e nel cuore della fede vissuta che l’esistenza del mondo demoniaco si rivela come un dato dogmatico. Il disagio contemporaneo che abbiamo denunziato al principio non mette dunque in questione un elemento secondario del pensiero cristiano, ma ne va di mezzo la fede costante della Chiesa, il suo modo di concepire la redenzione e, al punto di partenza, la coscienza stessa di Gesù. Perciò, parlando recentemente di questa « terribile realtà, misteriosa e paurosa » del male, sua santità Paolo VI poteva affermare con autorità: « Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente; ovvero chi ne fa un principio a sé stante, non avente essa pure, come ogni creatura, origine da Dio, oppure la spiega come una pseudo-realtà, una personificazione concettuale e fantastica delle cause ignote dei nostri malanni».121 Né gli esegeti né i teologi dovrebbero trascurare questo avvertimento.

    Ripetiamo perciò che, sottolineando ancora oggi l’esistenza della realtà demoniaca, la Chiesa non intende né riportarci indietro, alle speculazioni dualistiche e manichee d’altri tempi, né proporre un surrogato accettabile dalla ragione. Essa vuole soltanto restar fedele al vangelo e alle sue esigenze. È chiaro che essa non ha mai permesso all’uomo di scaricarsi della sua responsabilità, attribuendo le proprie colpe ai demoni. La Chiesa non esitava a levarsi contro una tale scappatoia, quando si manifestava, dicendo con san Giovanni Crisostomo: « Non è il diavolo, ma l’incuria propria degli uomini che causa tutte le loro cadute e tutti i malanni di cui essi si lamentano ».122

    A questo titolo, l’insegnamento cristiano, con la sua vigorosa difesa della libertà e della grandezza dell’uomo e nel mettere in piena luce l’onnipotenza e la bontà del Creatore, non manifesta cedimenti. Esso ha condannato nel passato e condannerà sempre l’eccessiva faciloneria nell’addurre a pretesto una sollecitazione demoniaca; ha proscritto la superstizione come la magia; ha rifiutato ogni capitolazione dottrinale di fronte al fatalismo e ogni rinunzia alla libertà di fronte allo sforzo. Ancor più, quando si parla di un possibile intervento diabolico, la Chiesa fa sempre posto, come per il miracolo, alla esigenza critica. In tale materia essa esige riserva e prudenza. È facile infatti cader vittime dell’immaginazione, lasciarsi sviare da racconti inesatti, maldestramente trasmessi o abusivamente interpretati. In questi come in altri casi, è necessario esercitare il discernimento e lasciare spazio alla ricerca e ai suoi risultati.

    Ciò nonostante, fedele all’esempio di Cristo, la Chiesa ritiene che l’ammonizione dell’apostolo san Pietro alla « sobrietà » e alla vigilanza sia sempre attuale.123 Nei nostri giorni, certo, conviene difendersi da una « ebbrezza » nuova. Ma il sapere e la potenza tecnica possono anche inebriare. L’uomo è fiero, oggi, delle sue scoperte, e spesso giustamente. Ma nel nostro caso è sicuro che le sue analisi abbiano chiarito tutti i fenomeni caratteristici e rivelatori della presenza del demonio? Non esiste su questo punto più nulla di problematico? L’analisi ermeneutica e lo studio dei Padri avrebbero appianato le insidie di tutti i testi? Nulla è meno sicuro. Certo, in altri tempi, ci fu qualche ingenuità nel temere di incontrare qualche demonio all’incrocio dei nostri pensieri. Ma non ce ne sarebbe altrettanta oggi nel postulare che i nostri metodi diranno presto l’ultima parola sulla profondità delle coscienze, dove interferiscono i rapporti misteriosi dell’anima e del corpo, del soprannaturale, del preternaturale e dell’umano, della ragione e della rivelazione? Perché queste questioni sono sempre state considerate ampie e complesse. Quanto ai nostri metodi odierni, essi, come quelli degli antichi, hanno limiti che non possono varcare. La modestia, che è anche una qualità dell’intelligenza, deve conservare i suoi diritti e mantenerci nella verità. Perché questa virtù – pur tenendo conto dell’avvenire – permette fin d’ora al cristiano di fare posto all’apporto della rivelazione, in breve: alla fede.

    È alla fede, in realtà, che ci riconduce l’apostolo san Pietro quando ci invita a resistere al demonio « saldi nella fede ». La fede ci insegna, infatti, che la realtà del male « è un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore »124e sa anche darci fiducia, facendoci sapere che la potenza di satana non può varcare le frontiere impostegli da Dio; ci assicura egualmente che se il diavolo è in grado di tentare, non può strappare il nostro consenso. Soprattutto la fede apre il cuore alla preghiera, nella quale trova la sua vittoria e il suo coronamento, ottenendoci di trionfare sul male grazie alla potenza di Dio.

    Resta per certo che la realtà demoniaca, attestata concretamente da quello che chiamiamo il mistero del male, rimane ancora oggi un enigma che avvolge la vita cristiana. Noi non sappiamo molto meglio degli apostoli perché il Signore lo permette, né come lo fa servire ai suoi disegni, ma potrebbe accadere che, nella nostra civiltà invaghita di orizzontalismo secolare, le esplosioni inattese di questo mistero offrano un senso meno refrattario alla comprensione. Esse obbligano l’uomo a guardare più lontano, più in alto, al di là delle immediate evidenze; attraverso la minaccia e la prepotenza del male, che impediscono il nostro cammino, ci permettono di discernere resistenza di un aldilà da decifrare, e di volgerci allora verso Cristo per ascoltare da lui la buona novella della salvezza offerta come grazia.

    * * *

    (*) L’Osservatore Romano, 26 giugno 1975 (cfr Enchiridion Vaticanum, vol. 5, nn. 1347-1393, pp. 830-879). Il testo originale francese: L’Osservatore Romano, edizione in lingua francese, 4 luglio 1975.


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    Caterina63
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    00 17/05/2012 14:35

    [le note sono dell’originale francese]

    (1) La fermeté de l’Église à l’égard de la superstition s’explique déjà par la sévérité de la Loi mosaïque, quand bien même celle-ci n’était pas formellement motivée par les attaches de cette superstition avec les démons. C’est ainsi que Exode 22, 17 condamnait à mort la sorcière sans explication. Lévitique 19, 26 et 31 interdisait la magie, l’astrologie, la nécromancie et la divination ; Lévitique 20, 27 y ajoutait l’évocation des esprits. Deutéronome 18, 10 résumait, en proscrivant devins, astrologues, magiciens, sorciers, enchanteurs, évocateurs de spectres et d’esprits, consulteurs des morts. En Europe, le haut Moyen Age conserva un grand nombre de superstitions païennes, comme en témoignent les sermons de saint Césaire d’Arles et de saint Eloi, le De correctione rusticorum de Martin de Braga, les index contemporains des superstitions (cf. PL 89, 810-818) et les pénitentiels. Le premier Concile de Tolède (Denz.-Sch., n. 205), puis celui de Braga (Denz.-Sch., n. 459) condamnèrent l’astrologie. De même la lettre du Pape saint Léon le Grand à Turibius d’Astorga (Denz.-Sch., n. 283). La Règle IXe du Concile de Trente interdit les ouvrages de chiromancie, de nécromancie, etc. (Denz.-Sch., n. 1859). La magie et la sorcellerie motivèrent à elles seules un grand nombre de bulles pontificales (Innocent VIII, Léon X, Adrien VI, Grégoire XV, Urbain VIII) et bien des décisions de Synodes régionaux. Sur le magnétisme et le spiritisme, on retiendra surtout la lettre du Saint-Office du 4 août 1856 (Denz.-Sch., n. 2823-2825).

    (2) De diabolo tentatore, homil. II, 1, PG 49, 257-258.

    (3) Ac 23, 8. Dans le contexte des croyances juives aux anges et aux esprits du mal, rien n’oblige à restreindre le sens du mot « esprit », employé sans détermination, à signifier seulement les esprits des morts : il s’applique aussi aux esprits du mal, c’est-à-dire aux démons. Telle est du reste l’opinion de deux auteurs juifs (G. F. MOORE, Judaism in the First Centuries of the Christian Era, vol. I, 1927, p. 68 ; M. SIMON, Les Sectes juives au temps de Jésus, Paris 1960, p. 25) et d’un protestant (U. MEYER, T.W.N.T., VII, p. 54).

    (4) En déclarant : « Ne croyez pas que je sois venu renverser la Loi ou les Prophètes : je ne suis pas venu renverser mais compléter » (Mt 5, 17), Jésus exprima sans ambages son respect du passé : les versets suivants (19-20) confirment cette impression. Mais sa réprobation de l’acte de séparation (Mt 5, 31), de la loi du talion (Mt 5, 38), etc., marquent l’indépendance totale plus que le désir d’assumer le passé et de le compléter. Il en est de même à plus forte raison de sa réprobation pour l’attachement scrupuleux des Pharisiens aux traditions des anciens (Mc 7, 1-22).

    (5) Mt 8, 28-34 ; 12, 22-45. Tout en admettant des variations dans le sens que chacun des Synoptiques accorde aux exorcismes, il faut reconnaître que leur accord est largement concordant.

    (6) Mc 1, 12-13.

    (7) Mt 5, 37 ; 6, 13 (cf. Jean CARMIGNAC, Recherches sur le « Notre Père », Paris 1969, p. 305-319). Telle est du reste l’interprétation générale des Pères grecs et de plusieurs occidentaux (Tertullien, saint Ambroise, Cassien) ; mais saint Augustin et le Libera nos de notre messe latine orientèrent vers une interprétation impersonnelle.

    (8) E. RENAUDOT, Liturgiarum orientalium collectio, t. II (ad locum Missae) ; H. DENZINGER, Ritus Orientalium, 19612, t. II, p. 436. Telle est aussi apparemment l’interprétation suivie par S. S. le Pape Paul VI dans son allocution « Padre nostro..., liberaci dal male! » faite au cours de l’audience générale du 15 novembre 1972, car elle y parle du Mal comme principe vivant et personnel (L’Osservatore Romano du 16 novembre 1972).

    (9) Mt 13, 19.

    (10) Mt 13, 39.

    (11) Mt 16, 19, ainsi compris par P. Jouon, M.-J. Lagrange. A. Médebielle, D. Buzy, M. Meinertz, W. Trilling, J. Jéremias, etc. On ne comprend donc pas comment tel contemporain néglige Matthieu 16, 19 pour ne s’arrêter qu’à 16, 23 !

    (12) Lc 22, 31.

    (13) Jn 14, 30.

    (14) Luc 22, 53 ; cf. Luc 22, 3, suggère, comme on le reconnaît du reste, que l’Évangéliste entend d’une manière personnelle cette « puissance des ténèbres ».

    (15) Jn 16, 11.

    (16) Ep 2, 1-2 ; 2 Th 2, 11 ; 2 Co 4, 4.

    (17) Ga 5, 17 ; Rm 7, 23-24.

    (18) Ep 6, 11-16.

    (19) Ep 4, 27 ; 1 Co 7, 5.

    (20) Rm 16, 20.

    (21) 2 Co 4, 4.

    (22) 2 Th 2, 7.

    (23) 2 Co 4, 4, évoqué par S. S. Paul VI dans l’allocution déjà citée.

    (24) 1 Co 10, 19-20 ; Rm 1, 21-22. Telle est effectivement l’interprétation suivie par Lumen gentium, n. 16 : « At saepius homines, a Maligno decepti, evanuerunt in cogitationibus suis et commutaverunt veritatem Dei in mendacium, servientes creaturae magis quam Creatori ».

    (25) 2 Co 11, 3.

    (26) 2 Th 2, 3-4, 9-11.

    (27) Ap 12, 9.

    (28) Jn 12, 31 ; 14, 30 ; 16, 11.

    (29) Jn 8, 34.

    (30) Jn 8, 38. 44.

    (31) Jn 8, 34. 44.

    (32) Jn 8, 41.

    (33) Ibid.

    (34) Jn 8, 38. 44.

    (35) J. QUASTEN, Initiation aux Pères de l’Église, t. I, Paris 1955, p. 279 (= Patrology, vol. I, p. 246).

    (36) Adv. Haer., V, XXIV, 3, PG 7, 1188 A.

    (37) Id., XXI, 2, PL 7, 1179 G - 1180 A.

    (38) De civitate Dei, lib. XI, IX, PL 41, 323-325.

    (39) De Genesi ad litteram, lib. XI, XXIV, 31, PL 34, 441-442.

    (40) PL 76, 694, 705, 722.

    (41) Saint IRÉNÉE, Adv. Haer., VI, XI, 3, PG 7, 113 C.

    (42) De praescriptionibus, cap. XL, PL 2, 54 ; De ieiuniis, cap. XVI, ibid., 977.

    (43) « Firmiter credimus et simpliciter confitemur...unum universorum principium, creator omnium invisibilium et visibilium, spiritualium et corporalium, qui sua omnipotenti virtute simul ab initio temporis, utramque de nihilo condidit creaturam, spiritualem et corporalem, angelicam videlicet et mundanam, ac deinde humanam quasi communem ex spiritu et corpore constitutam. Diabolus enim et daemones alii a Deo quidem natura creati sunt boni, sed ipsi per se facti sunt mali. Homo vero diaboli suggestione peccavit...» (C. Oe. D. = Conciliorum Oecumenicorum Decreta, édit. I, n. 800).

    (44) La première en date est la profession de foi du Synode de Lyon (ann. 1179/1181), prononcée par P. Valdo (édit. A. DONDAINE, Arch. Fr. Pr., 16, 1946, 231-235), puis celle que Durand de Huesca dut professer devant l’évêque de Tarragone (PL 215, 1510-1513) en 1208 ; enfin celle de Bernard Prim en 1210 (PL 216, 289-292). Denz.-Sch., n. 790-797 donne une collation de ces documents.

    (45) Au Concile de Braga (560/563) au Portugal (Denz.-Sch., n. 451-464).

    (46) Ph 2, 10.

    (47) Ep 1, 21.

    (48) Col 1, 16.

    (49) C. Oe. D., p. 5 et 24 ; Denz.-Sch., n. 125-150.

    (50) Denz.-Sch., n. 188.

    (51) À Jérusalem (Denz.-Sch., n. 41), à Chypre (rapporté par Épiphane de Salamine : Denz.-Sch., n. 44), à Alexandrie (Denz.-Sch., n. 46), à Antioche (ib., n. 50), en Arménie (ib., n. 84), etc.

    (52) PE (= Prex Eucharistica, édit. Hänggi-Pahl, Fribourg 1968), p. 244.

    (53) PE, p. 232 et 348.

    (54) PE, p. 327, 332, 382.

    (55) Adv. Haer., II, XXX, 6, PG 7, 818 B.

    (56) PG 25, 199-200.

    (57) De fide orthodoxa contra Arianos : dans les œuvres attribuées à saint Ambroise (PL 17, 549) et à Phébade (PL 20, 49).

    (58) De Genesi ad litteram liber imperfectus, I, 1-2, PL 34, 221.

    (59) De fide liber unus, III, 25, PL 65, 683.

    (60) Cette profession de foi, prononcée par l’empereur Michel Paléologue, est conservée par Hardouin et par Mansi dans les Actes de ce Concile ; on la trouvera commodément dans Denz.-Sch., n. 851. La C. Oe. D. de Bologne l’omet sans en donner les raisons (au premier Concile du Vatican, le rapporteur de la Deputatio fidei s’en réclama pourtant officiellement, MANSI, t. LII, 113 B).

    (61) Sess. IX : Bulla unionis Coptorum, C. Oe. D., p. 571 ; Denz.-Sch., n. 1333.

    (62) Denz.-Sch., n. 1862 (la C. Oe. D. ne la donne pas).

    (63) Sess. III : Constitutio « Dei Filius », cap. I : C. Oe. D., p. 805-806 ; Denz.-Sch., n. 3002.

    (64) Mani, fondateur de la secte, vécut au IIIe siècle de notre ère. Dès le siècle suivant s’affirma la résistance des Pères au manichéisme. Épiphane consacra à cette hérésie un long exposé suivi d’une réfutation (Haer. 66, PG 42, 29-172). Saint Athanase en parle à l’occasion (Oratio contra gentes, 2, PG 25, 6 C). Saint Basile composa un petit traité, Quod Deus non sit auctor malorum (PG 31, 330-354). Didyme d’Alexandrie est l’auteur d’un Contra Manichaeos (PG 39, 1085-1110). En Occident, saint Augustin, après avoir admis dans sa jeunesse le manichéisme, le combattit systématiquement après sa conversion (cf. PL 42).

    (65) Oratio 40. In sanctum Baptisma, par. 45, PG 36, 424 A.

    (66) Les Pères interprétèrent en ce sens Isaïe 14, 14 et Ézéchiel 28, 2, où les prophètes stigmatisaient l’orgueil des rois païens de Babylone et de Tyr.

    (67) « Ne me dites pas que la malice a toujours existé dans le diable ; il en fut exempt dès l’origine et ce n’est là qu’un accident de son être, accident survenu plus tard » (saint Jean CHRYSOSTOME, De diabolo tentatore, homil., Il, 2, PG 49, 260).

    (68) Quod Deus non sit auctor malorum, 8, PG 31, 345 C-D.

    (69) Oratio 38, In Theophania, 10, PG 36, 320 C - 321 A ; Oratio 45. In sanctum Pascha, ib., 629 B.

    (70) Cf. supra, n. 67.

    (71) Contra Manichaeos, 16 interprète en ce sens Jean 8, 44 (in veritate non stetit), PG 39, 1105 G ; cf. Enarratio in epist. B. Iudae, in v. 9, ibid., 1814 G - 1815 B.

    (72) Adversus Marcionem, II, X, PL 2, 296-298.

    (73) Voir au paragraphe suivant le premier des canons du De Trinitate.

    (74) Apologia proph. David, I, 4, PL 14, 1453 C-D ; in Psalmum 118, 10, PL 15, 1363 D.

    (75) De Genesi ad litteram, lib. XI, XX-XXI, 27-28, PL 34, 439-440.

    (76) « Si quis confitetur angelum apostaticum in natura, qua factus est, non a Deo factum fuisse, sed ab se esse, ut de se illi principium habere adsignet, anathema sit.
    Si quis confitetur angelum apostaticum in mala natura a Deo factum fuisse et non dixerit eum per voluntatem suam malum concepisse, anathema illi.
    Si quis confitetur angelum Satanae mundum fecisse, quod absit, et non indicaverit (iudicaverit) omne peccatum per ipsum adinventum fuisse » (De Trinitate, VI, 17, 1-3, édit. V. Bulhart, CC, S.L., 9, p. 80-90 ; PL 62, 280-281).

    (77) CSEL XXV/2, p. 977-982 ; PL 42, 1153-1156.

    (78) De Genesi ad litteram liber imperfectus, I, 1-2, PL 34, 221.

    (79) Denz.-Sch., n. 188.

    (80) C’est-à-dire l’annotation sixième du mémoire adressé au Pape par son correspondant, l’évêque d’Astorga.

    (81) « Sexta annotatio indicat eos dicere quod diabolus numquam fuerit bonus, nec natura eius opificium Dei sit, sed eum ex chao et tenebris emersisse : quia scilicet nullum sui habeat auctorem, sed omnis mali ipse sit principium atque substantia : cum fides vera, quae est catholica, omnium creaturarum sive spiritualium, sive corporalium bonam confiteatur substantiam, et mali nullam esse naturam; quia Deus, qui universitatis est conditor, nihil non bonum fecit. Unde et diabolus bonus esset, si in eo quod factus est permaneret. Sed quia naturali excellentia male usus est, et in veritate non stetit (Jn 8, 44), non in contrariam transiit substantiam, sed a summo bono, oui debuit adhaerere, descivit... » (Epist. 15, cap. VI, PL 24, 683 ; cf. Denz.-Sch., n. 286 ; le texte critique édité par B. Vollmann, O.S.B., n’apporte ici que des variantes de ponctuation).

    (82) « Cap. LX : Fides vera, quae est Catholica, omnium creaturarum sive spiritualium, sive corporalium bonam confitetur substantiam, et mali nullam esse naturam ; quia Deus, qui universitatis est conditor, nihil non bonum fecit. Unde et diabolus bonus esset, si in eo quod factus est permaneret. Sed quia naturali excellentia male usus est, et in veritate non stetit, non in contrariam substantiam transiit, sed a summo bono, cui debuit adhaerere, discessit » (De ecclesiasticis dogmatibus, PL 58, 995 C-D). Mais la recension primitive du même ouvrage, publiée en appendice des œuvres de saint Augustin, n’a pas ce chapitre (PL 42, 1213-1222).

    (83) De fide seu de regula fidei ad Petrum liber unus, PL 65, 671-706. « Principaliter tene » (III, 25, col. 683 A) ; « Firmissime... tene » (IV, 45, col. 694 C). « Pars itaque angelorum quae a suo creatore Deo, quo solo bono beata fuit, voluntaria prorsus aversione discessit... » (III, 31, col. 687 A) ; « [...] nullamque esse mali naturam » (XXI, 62, col. 699 D - 700 A).

    (84) Concilia Gallica (314-506), CC, S.L., 148, édit. Ch. Munier, p. 165, 25-26 ; de nouveau en appendice de l’Ordo XXXIV, dans M. ANDRIEU, Ordines romani, t. III, Lovanii 1951, p. 616.

    (85) PL 215, 1512 D ; A. DONDAINE, Arch. Fr. Pr., 16 (1946) 232 ; Denz.-Sch., n. 797.

    (86) Denz.-Sch., n. 457.

    (87) Cf. plus haut, n. 44.

    (88) PL 204, 1235-1272 : cf. E. DELARUELLE, Dict. H.G.E. XV, 754-757.

    (89) PL 204, 775-792. Le contexte historique de l’Italie du Nord à cette époque est bien décrit par le P. Ilarino da Milano, « Le eresie medioevali » (sec. XI-XV) dans : Grande Antologia filosofica, vol. IV, Milano 1954, p. 1599-1689. Quant à l’ouvrage de Bonacursus, il fut étudié par le même P. Ilarino da Milano : La Manifestatio heresis Catarorum quam fecit Bonacursus, secundo il cod. Ottob. lat. 136 della Biblioteca Vaticana, Aevum 12 (1938) 281-333.

    (90) « Sed primo de fide. Contra quam proponit sententiam falsitatis et iniquitatis, dicens Deum omnipotentem sola invisibilia et incorporalia creasse ; diabolum vero, quem deum tenebrarum appellat, dicit visibilia et corporalia creasse. Quibus predictis addit hereticus duo esse principia rerum : unum boni, scilicet Deum omnipotentem ; alterum mali, scilicet diabolum. Addit etiam duas esse naturas : unam bonam, incorporalium, a Deo omnipotente creatam ; alteram malam, corporalium, a diabolo creatam. Hereticus autem qui hoc dicit antiquitus Manicheus, nunc vero Catharus appellatur » (Summa contra haereticos, cap. I, édit. Joseph N. Garvin et James A. Corbett, University of Notre-Dame, 1958, p. 4).

    (91) Ce traité, découvert et publié une première fois par le P. Antoine Dondaine, O.P., vient d’être l’objet d’une seconde édition : Livre des deux principes. Introduction, texte critique, traduction, notes et index, par Christine Thouzellier, S. Chr. 198, Paris 1973.

    (92) L. c., par. 1, p. 160-161.

    (93) Ib., par. 12, p. 190-191.

    (94) « Dominus papa, summo mane missa celebrata et omnibus episcopis per sedes suas dispositis, in eminentiorem locum cum suis kardinatibus et ministris ascendens, sancte Trinitatis fidem et singulos fidei articulos recitari fecit. Quibus recitatis quesitum est ab universis alta voce : « Creditis haec per omnia ? ». Responderunt omnes : « Credimus ». Postmodum damnati sunt omnes heretici et reprobate quorumdam sententie, Joachim videlicet et Emelrici Parisiensis. Quibus recitatis iterum quesitum est: « An reprobatis sententias Joachim et Emelrici ? ». At illi magis invalescebant clamando: « Reprobamus » (A New Eyewitness Account of the Fourth Lateran Council, publié par St. Kuttner et Antonio Garcia y Garcia, dans Traditio 20, 1964, 115-128, spécialement p. 127-128).

    (95) Sess. VI., Decretum de iustificatione, cap. V, C. Oe. D., p. 672, Denz.-Sch., n. 1525.

    (96) Sess. XIII, cap. I, C. Oe. D., p. 693 ; Denz.-Sch., n. 1636-1637.

    (97) Sess. VI, cap. XIII, C. Oe. D., p. 676 ; Denz.-Sch., n. 1541.

    (98) Denz.-Sch., n. 291 ; la formule sera reprise par la Sess. V, c. 1, du Concile de Trente (C. Oe. D., p. 666 ; Denz.-Sch., n. 1511).

    (99) Sess. XI : Bulla unionis Coptorum, C. Oe. D., p. 575-576 ; Denz.-Sch., n. 1347-1348.

    (100) Sess. VI, cap. I : C. Oe : D., p. 671 ; Denz.-Sch., n. 1521.

    (101) Col. 1, 13-14, cité dans le même décret, cap. III : C. Oe. D., p. 672 ; Denz.-Sch., n. 1523.

    (102) Sess. XIV : De poenitentia, cap. I, C. Oe. D., p. 703 ; Denz.-Sch., n. 1668.

    (103) Ce rite apparaît déjà au IIIe siècle dans la Tradition apostolique (édit. B. Botte, ch. 21, p. 46-51). Et au IVe siècle, dans la liturgie des Constitutions apostoliques, VII, 41 (édit F.-X. FUNK,Didascalia et Constitutiones Apostolorum, t. I, 1905, p. 444-447).

    (104) Ad gentes, n. 3 et 14 (on notera la référence à Col 1, 13, ainsi que l’ensemble des références données à la note 19 du numéro 14).

    (105) Gaudium et spes, n. 37 b.

    (106) Ep 6, 11-12, signalé dans Lumen gentium, n. 48 d.

    (107) Ep 6, 12, signalé également dans Lumen gentium, n. 35 a.

    (108) Lumen gentium, n. 5 a.

    (109) Lc 11, 20 ; cf. Mt 12, 28.

    (110) C. VAGAGGINI, O.S.B., Il senso teologico della liturgia. Saggio di liturgia teologica generale,Rome 1965/4, cap. XIII, Le due città, la liturgia e la lotta contro Satana, p. 346-427 ; EGON VON PETERSDORFF, De daemonibus in liturgia memoratis, Angelicum XIX (1942), 324-339 ; ID., Dämonologie. I. Dämonen im Weltplan, II. Dämonen am Werk, München 1956-1957.

    (111) On lira l’Ordo excommunicandi et absolvendi, notamment la longue admonition « Quia N. diabolo suadente... », Pontificale romanum, édit. 2a, Ratisbonne 1908, p. 392-398.

    (112) Citons quelques mots de l’oraison Commendo te... :« Ignores omne, quod horret in tenebris, quod stridet in flammis, quod cruciat in tormentis. Cedat tibi teterrimus satanas cum satellitibus suis... ».

    (113) Ainsi est-il statué par le paragraphe IV du Motu proprio « Ministeria quaedam » : « ministeria in tota Ecclesia latina servanda, hodiernis necessitatibus accommodata, duo sunt, Lectoris nempe etAcolythi. Partes, quae hucusque Subdiacono commissae erant, Lectori et Acolythae concreduntur, ac proinde in Ecclesia latina ordo maior Subdiaconatus non amplius habetur. Nihil tamen obstat, quominus, ex Conferentiae iudicio, Acolythus alicubi etiam Subdiaconus vocari possit » (AAS 64, 1972, p. 532). Ainsi l’exorcistat est supprimé et il n’est pas prévu que ses pouvoirs puissent être exercés par le lecteur ou l’acolyte. Le Motu proprio déclare seulement à la page 531 que les Conférences épiscopales pourront demander pour leur région les ministères de portier, d’exorciste et de catéchiste.

    (114) Le passage à la forme déprécative n’a été opéré qu’après des « expériments » suivis eux-mêmes de réflexions et de discussions au sein du Consilium.

    (115) Ordo initiationis christianae adultorum, édit. typ. Rome 1972, n. 101, 109-118, p. 36-41.

    (116) Ibid., n. 25, p. 13 ; et n. 154-157, p. 54.

    (117) Ainsi en fut-il dès la première édition : Ordo Baptismi parvulorum, édit. typ. Rome 1969, p. 27, n. 49 ; et p. 85, n. 221. La seule nouveauté est que cet exorcisme est déprécatif, oratio exorcismi ; et qu’il est immédiatement suivi de l’unctio praebaptismalis (ib., n. 50). Mais les deux rites, exorcisme et onction, signalés par des numéros d’ordre distincts, ont chacun leur conclusion propre.

    (118) Dans le nouvel Ordo Paenitentiae, édit. typ. Rome 1974, on relèvera à l’appendice II l’oraison Deus humani generis benignissime conditor (p. 85-86) ; malgré de légères retouches, elle est identique à l’oraison de même incipit de l’Ordo reconciliationis poenitentium du Jeudi saint (Pontificale romanum, Ratisbonne 1908, p. 350).

    (119) Ordo unctionis infirmorum eorumque pastoralis curae, édit. typ., Rome 1972, p. 33, n. 73).

    (120) Ib., p. 34, n. 75.

    (121) « Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente ; ovvero chi ne fa un principio a se stante, non avente essa pure, come ogni creatura, origine da Dio ; oppure la spiega come una pseudo-realtà, una personificazione concettuale e fantastica delle cause ignote dei nostri malanni » (Padre nostro... liberaci dal male, audience générale du 15 novembre 1972, voir L’Osservatore Romano du 16 novembre 1972). Le Saint-Père avait exprimé la même inquiétude dans son homélie du 29 juin précédent (« Essere forti nella fede », L’Osservatore Romano, 30 juin - 1er juillet 1972, p. 1-2).

    (122) De diabolo tentatore, homil. II, PG 49, 259.

    (123) 1 P 5, 8.

    (124) S. S. PAUL VI, ibid.

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 17/05/2012 14:45

    SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

    LETTERA
    SU ALCUNE QUESTIONI CONCERNENTI L'ESCATOLOGIA

     

    I Sinodi più recenti, consacrati rispettivamente ai temi dell'Evangelizzazione e della Catechesi, han fatto prendere più viva coscienza della necessità di una fedeltà perfetta alle verità fondamentali della fede, soprattutto al giorno d'oggi in cui le profonde modificazioni dell'ambiente umano e la preoccupazione di integrare la fede nei diversi contesti culturali impongono uno sforzo più grande che in passato, al fine di rendere questa fede accessibile e comunicabile. Quest'ultima esigenza, al presente tanto urgente, richiede in realtà una sollecitudine più grande che mai nel tutelare l'autenticità e l'integrità della fede.

    I responsabili debbono, pertanto, dimostrarsi assai attenti a tutto ciò che potrebbe causare nella coscienza comune dei fedeli una lenta degradazione e l'estinzione progressiva di un qualche elemento del Simbolo battesimale, indispensabile alla coerenza della fede ed inseparabilmente congiunto ad usi importanti nella vita della Chiesa.

    Precisamente su uno di questi punti è sembrato opportuno ed urgente attirare l'attenzione di coloro ai quali Dio ha affidato la cura di promuovere e di difendere la fede, affinché siano prevenuti i pericoli che potrebbero compromettere questa stessa fede nelle anime dei fedeli.

    Si tratta di quell’articolo del Credo che riguarda la Vita eterna e dunque, in generale, le realtà che si avranno dopo la morte. Nel proporre una tale dottrina non è lecito sottrarre alcunché, né si può adottare un metodo carente o incerto senza mettere in pericolo la fede e la salvezza dei fedeli.

    * * *

    A nessuno sfugge l'importanza di quest'ultimo articolo del Simbolo battesimale: esso esprime, infatti, il termine ed il fine del disegno di Dio, di cui nel Simbolo stesso è tracciato lo svolgimento. Se non si dà risurrezione, tutto l'edificio della fede crolla, come afferma vigorosamente san Paolo (cfr. 1 Cor 15). Se il cristiano non è più in grado di dare un contenuto sicuro all'espressione « Vita eterna », le promesse del Vangelo, il senso della Creazione e della Redenzione svaniscono, e la stessa vita presente resta priva di ogni speranza (cfr. Ebr 11, 1).

    Ora, come ignorare, su questo punto, il disagio e l'inquietudine di tante persone? Chi non s'accorge che il dubbio s'insinua sottilmente e molto in profondo negli spiriti? Anche se fortunatamente, nella maggior parte dei casi, il cristiano non è ancor giunto al dubbio positivo, sovente egli rinuncia a pensare a quel che segue dopo la morte, perché comincia a sentire che in lui sorgono degli interrogativi, ai quali ha paura di dover dare risposta: Esiste qualche cosa al di là della morte? Sussiste qualche cosa di noi stessi dopo questa morte? Non sarà il nulla che ci attende?

    In tutto ciò è da ravvisare, in parte, la ripercussione non voluta, negli spiriti, delle controversie teologiche ampiamente diffuse nell'opinione pubblica, delle quali la maggioranza dei fedeli non è in grado di cogliere né l'oggetto preciso né la portata. Si sente discutere dell'esistenza dell'anima, del significato della sua sopravvivenza, e ci si domanda quale relazione passi tra la morte del cristiano e la risurrezione universale. Il popolo cristiano è disorientato, perché non ritrova più il suo vocabolario e le sue nozioni familiari.

    Certamente, non si tratta di limitare o, addirittura, di impedire una ricerca teologica, della quale la fede della Chiesa ha bisogno e dalla quale deve poter trarre vantaggio. Tuttavia, ciò non può fare rinunciare al dovere di garantire tempestivamente la fede dei cristiani circa i punti che sono messi in dubbio.

    Di questo duplice e difficile dovere intendiamo richiamare brevemente la natura e gli aspetti, nella presente situazione così delicata.

    * * *

    È necessario, innanzitutto, che quanti hanno la missione di insegnare abbiano ben chiaro ciò che la Chiesa considera come appartenente alla essenza della sua fede; la ricerca teologica non può avere altra finalità se non quella di approfondirlo e di spiegarlo.

    Questa Sacra Congregazione, avendo la responsabilità di promuovere e di tutelare la dottrina della fede, intende qui richiamare l'insegnamento che la Chiesa propone a nome di Cristo, specialmente circa quel che avviene tra la morte del cristiano e la risurrezione universale.

    1) La Chiesa crede (cfr. Credo) ad una risurrezione dei morti.

    2) La Chiesa intende tale risurrezione come riferentesi all’uomo tutt’intero; per gli eletti questa non è altro che l'estensione agli uomini della risurrezione stessa di Cristo.

    3) La Chiesa afferma la sopravvivenza e la sussistenza, dopo la morte, di un elemento spirituale, il quale è dotato di coscienza e di volontà, in modo tale che l'« io » umano sussista. Per designare un tale elemento, la Chiesa adopera la parola « anima », consacrata dall'uso della S. Scrittura e della Tradizione. Senza ignorare che questo termine assume nella Bibbia diversi significati, essa ritiene tuttavia che non esista alcuna seria ragione per respingerlo e considera, inoltre, che è assolutamente indispensabile uno strumento verbale per sostenere la fede dei cristiani.

    4) La Chiesa esclude ogni forma di pensiero o di espressione, che renderebbe assurdi o inintellegibili la sua preghiera, i suoi riti funebri, il suo culto dei morti, realtà che costituiscono, nella loro sostanza, altrettanti luoghi teologici.

    5) La Chiesa, conformemente alla S. Scrittura, attende « la manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo » (Cost. dogm. Dei Verbum, I, 4), che essa considera, peraltro, come distinta e differita rispetto alla situazione che è propria degli uomini immediatamente dopo la morte.

    6) La Chiesa, nel suo insegnamento sulla sorte dell'uomo dopo la sua morte, esclude ogni spiegazione che toglierebbe il suo senso all'Assunzione di Maria in ciò ch'essa ha di unico, ossia il fatto che la glorificazione corporea della Vergine è l'anticipazione della glorificazione riservata a tutti gli altri eletti.

    7) La Chiesa, in fedele adesione al Nuovo Testamento ed alla Tradizione, crede alla felicità dei giusti, i quali saranno un giorno con Cristo. Essa crede che una pena attende per sempre il peccatore, il quale sarà privato della visione di Dio, come crede alla ripercussione di tale pena in tutto il suo essere. Essa crede, infine, per quanto concerne gli eletti, ad una loro eventuale purificazione che è preliminare alla visione di Dio ed è, tuttavia, del tutto diversa dalla pena dei dannati. È quanto la Chiesa intende quando parla di Inferno e di Purgatorio.

    In ciò che concerne le condizioni dell'uomo dopo la morte, c'è da temere particolarmente il pericolo di rappresentazioni fantasiose ed arbitrarie, perché i loro eccessi entrano, in gran parte, nelle difficoltà che spesso incontra la fede cristiana. Tuttavia, le immagini usate nella S. Scrittura meritano rispetto. È necessario coglierne il senso profondo, evitando il rischio di attenuarle eccessivamente, il che equivale spesso a svuotare del loro contenuto le realtà che esse designano.

    Né le Scritture né la teologia ci offrono lumi sufficienti per una rappresentazione dell'aldilà. Il cristiano deve tener fermi saldamente due punti essenziali: egli deve credere, da una parte, alla continuità fondamentale che esiste, per virtù dello Spirito Santo, tra la vita presente nel Cristo e la vita futura — in effetti, la carità è la legge del Regno di Dio, ed è precisamente la nostra carità quaggiù che sarà la misura della nostra partecipazione alla gloria del Cielo —; ma, d'altra parte, il cristiano deve discernere la rottura radicale tra il presente ed il futuro in base al fatto che, al regime della fede, si sostituisce quello della piena luce: noi saremo col Cristo e « vedremo Dio » (cfr. 1 Gv 3, 2), promessa e mistero inauditi in cui consiste essenzialmente la nostra speranza. Se la nostra immaginazione non vi può arrivare, il nostro cuore vi giunge d'istinto ed in profondità.

    * * *

    Dopo aver richiamato questi dati, sia ora consentito rilevare gli aspetti principali della responsabilità pastorale, quale essa deve esprimersi nelle presenti circostanze ed alla luce della prudenza cristiana.

    Le difficoltà inerenti a questi problemi impongono gravi doveri ai teologi, la cui missione è indispensabile. Essi hanno, pertanto, diritto al nostro incoraggiamento ed allo spazio di libertà quale è giustamente richiesto dai loro metodi. Da parte nostra, tuttavia, è necessario richiamare ai cristiani, senza mai stancarci, gli insegnamenti della Chiesa, i quali costituiscono la base tanto della vita cristiana, quanto della ricerca degli esperti. Bisogna, parimenti, procurare che i teologi diventino partecipi delle nostre preoccupazioni pastorali, affinché i loro studi e ricerche non siano temerariamente divulgati in mezzo ai fedeli, i quali oggi specialmente corrono pericoli per la loro fede come non mai.

    L'ultimo Sinodo ha messo in chiara luce la vigile attenzione che l'Episcopato riserva ai contenuti essenziali della catechesi, tenendo presente il bene dei fedeli. È necessario che tutti coloro, i quali hanno l'incarico di trasmetterli, ne possiedano un'idea molto chiara. Dobbiamo, pertanto, offrire loro i mezzi per essere, allo stesso tempo, molto fermi in quel che attiene all'essenza della dottrina ed attenti a non permettere che rappresentazioni infantili od arbitrarie siano scambiate per le verità di fede.

    Una vigilanza costante e coraggiosa deve esercitarsi, mediante una Commissione dottrinale diocesana o nazionale, circa la produzione letteraria, non soltanto per mettere in guardia tempestivamente i fedeli contro le opere poco sicure, ma soprattutto per far loro conoscere quelle che sono adatte ad alimentare ed a sostenere la loro fede. È, questo, un compito grave ed importante, reso urgente sia dalla vasta diffusione della stampa sia dal cosiddetto decentramento delle responsabilità, che le circostanze rendono necessario e che i Padri del Concilio Ecumenico hanno voluto.

    Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell’Udienza accordata al sottoscritto Prefetto, ha approvato la presente Lettera, decisa nella riunione ordinaria di questa S. Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

    Roma, dalla Sede della S. Congregazione per la Dottrina della Fede, il 17 maggio 1979.

     

    Francesco Card. Seper
    Prefetto

     

    + Fr. Jerome Hamer, O.P.
    Arcivescovo tit. di Lorium
    Segretario

     

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 17/05/2012 14:58

    Congregazione per la Dottrina della Fede

     

    Lettera agli Ordinari
    riguardante le norme sugli esorcismi

     

    29 settembre 1985

    Eccellenza Rev.ma,

    Già da alcuni anni, presso certi gruppi ecclesiastici si moltiplicano le riunioni per fare suppliche allo scopo preciso di ottenere la liberazione dall'influsso dei demoni, anche se non si tratta di esorcismi veri e propri; tali riunioni si svolgono sotto la guida di laici, anche quando è presente un sacerdote.

    Poiché è stato chiesto alla Congregazione per la Dottrina della Fede che cosa si debba pensare di questi fatti, questo Dicastero ritiene necessario informare i Vescovi della seguente risposta:

    1. Il canone 1172 del Codice di Diritto Canonico dichiara che nessuno può proferire legittimamente esorcismi sugli ossessi se non ha ottenuto dall'Ordinario del luogo una speciale ed espressa licenza (§ 1), e stabilisce che questa licenza debba essere concessa dall'Ordinario del luogo solo al sacerdote distinto per pietà, scienza, prudenza e integrità di vita (§ 2). Pertanto i Vescovi sono vivamente pregati di esigere l'osservanza di queste norme.

    2. Da queste prescrizioni consegue che ai fedeli non è neppure lecito usare la formula dell'esorcismo contro satana e gli angeli ribelli, estratta da quella pubblicata per ordine del Sommo Pontefice Leone XIII, e molto meno è lecito usare il testo integrale di questo esorcismo.* I Vescovi procurino di avvertire i fedeli, in caso di necessità, su questa cosa. [SM=g1740733]

    3. Infine, per gli stessi motivi, i Vescovi sono invitati a vigilare affinché – anche nei casi in cui è da escludere una vera possessione diabolica – coloro che sono privi della debita facoltà non abbiano a guidare riunioni durante le quali vengono usate, per ottenere la liberazione, preghiere nel cui decorso i demoni sono direttamente interrogati e si cerca di conoscerne l'identità.**

    Il richiamo di queste norme, tuttavia, non deve affatto allontanare i fedeli dal pregare affinché, come ci ha insegnato Gesù, siano liberati dal male (cf. Mt 6,13). Infine i Pastori potranno avvalersi di questa occasione per richiamare quanto la tradizione della Chiesa insegna circa la funzione che hanno propriamente i sacramenti e l'intercessione della B.V. Maria, degli angeli e dei santi circa la lotta spirituale dei cristiani contro gli spiriti maligni.

    Colgo l'occasione per attestarle i sensi della più viva stima,

    aff.mo in Cristo

     

    Joseph Card. Ratzinger
    Prefetto

    + Alberto Bovone
    Segretario

     





    *****************

    originale in latino


    CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI 

        

    EPISTULA ORDINARIIS LOCORUM MISSA:
    IN MENTEM NORMAE VIGENTES
    DE EXORCISMIS REVOCANTUR

    (die 29 m. Septembris a. 1985) *

     

    Excellentissime Domine,

    Inde ab aliquot annis, apud quosdam cœtus ecclesiales, conventus ad precationes faciendas multiplicantur hoc quidem proposito, ut liberatio obtineatur ab influxu daemonum, etiamsi non de exorcismis proprie dictis agatur; qui conventus peraguntur sub ductu laicorum, etiam praesente sacerdote.

    Cum a Congregatione pro Doctrina Fidei quaesitum sit quid sentiendum de hisce factis, hoc Dicasterium necessarium putat omnes Ordinarios certiores facere de responsione quae sequitur:

    1. Canon 1172 Codicis Iuris Canonici declarat neminem exorcismos in obsessos proferre legitime posse, nisi ab Ordinario loci peculiarem et expressam licentiam obtinuerit (§ 1), ac determinat hanc licentiam ab Ordinario loci concedendam esse tantummodo presbytero pietate, scientia, prudentia ac vitae integritate praedito (§ 2). Episcopi igitur enixe invitantur, ut observantiam urgeant horum praescriptorum.

    2. Ex hisce praescriptionibus sequitur ut christifidelibus etiam non liceat adhibere formulam exorcismi contra satanam et angelos apostaticos, excerptam ex illa quae publici iuris facta est iussu Summi Pontificis Leonis XIII, ac multo minus adhibere textum integrum huius exorcismi. Episcopi hac de re fideles admonere curent in casu necessitatis.

    3. Denique, ob easdem rationes, Episcopi rogantur ut vigilent ne — etiam in casibus qui, licet veram possessionem diabolicam excludant, diabolicum tamen influxum aliqualiter revelare videntur — ii qui debita potestate carent conventus moderentur, in quibus ad liberationem obtinendam precationes adhibentur, quarum decursu daemones directe interpellantur et eorum identitas cognoscere studetur.

    Harum normarum tamen enuntiatio minime christifideles abducere debet a precando ut, quemadmodum Iesus nos docuit, liberentur a malo (cf. Mt 6,13). Insuper Pastores hac oblata opportunitate uti poterunt, ut in mentem revocent quid Ecclesiae traditio doceat circa munus quod proprie ad sacramenta et ad Beatissimae Virginis Mariae, Angelorum Sanctorumque intercessionem spectat in christianorum etiam contra spiritus malignos spirituali certamine.

    Hanc occasionem nactus impensos aestimationis meae sensus Tibi obtestor permanens

    add.mus in Domino

     

    + Iosephus Card. Ratzinger,
    Praefectus

    + Albertus Bovone,
    a Secretis

     

    * AAS 77 (1985), 1169-1170.

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 17/05/2012 16:48

    CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE
     

    ISTRUZIONE
    CIRCA LE PREGHIERE PER OTTENERE DA DIO LA GUARIGIONE
     

    INTRODUZIONE

    L'anelito di felicità, profondamente radicato nel cuore umano, è da sempre accompagnato dal desiderio di ottenere la liberazione dalla malattia e di capirne il senso quando se ne fa l'esperienza. Si tratta di un fenomeno umano, che interessando in un modo o nell'altro ogni persona, trova nella Chiesa una particolare risonanza. Infatti la malattia viene da essa compresa come mezzo di unione con Cristo e di purificazione spirituale e, da parte di coloro che si trovano di fronte alla persona malata, come occasione di esercizio della carità. Ma non soltanto questo, perché la malattia, come altre sofferenze umane, costituisce un momento privilegiato di preghiera: sia di richiesta di grazia, per accoglierla con senso di fede e di accettazione della volontà divina, sia pure di supplica per ottenere la guarigione.

    La preghiera che implora il riacquisto della salute è pertanto una esperienza presente in ogni epoca della Chiesa, e naturalmente nel momento attuale. Ciò che però costituisce un fenomeno per certi versi nuovo è il moltiplicarsi di riunioni di preghiera, alle volte congiunte a celebrazioni liturgiche, con lo scopo di ottenere da Dio la guarigione. In diversi casi, non del tutto sporadici, vi si proclama l'esistenza di avvenute guarigioni, destando in questo modo delle attese dello stesso fenomeno in altre simili riunioni. In questo contesto si fa appello, alle volte, a un preteso carisma di guarigione.

    Siffatte riunioni di preghiera per ottenere delle guarigioni pongono inoltre la questione del loro giusto discernimento sotto il profilo liturgico, in particolare da parte dell'autorità ecclesiastica, a cui spetta vigilare e dare le opportune norme per il retto svolgimento delle celebrazioni liturgiche.

    E' sembrato pertanto opportuno pubblicare una Istruzione, a norma del can. 34 del Codice di Diritto Canonico, che serva soprattutto di aiuto agli Ordinari del luogo affinché meglio possano guidare i fedeli in questa materia, favorendo ciò che vi sia di buono e correggendo ciò che sia da evitare. Occorreva però che le determinazioni disciplinari trovassero come riferimento una fondata cornice dottrinale che ne garantisse il giusto indirizzo e ne chiarisse la ragione normativa. A questo fine è stata premessa alla parte disciplinare una parte dottrinale sulle grazie di guarigione e le preghiere per ottenerle.

     

    I. ASPETTI DOTTRINALI

    1. Malattia e guarigione: il loro senso e valore nell'economia della salvezza

    «L'uomo è chiamato alla gioia ma fa quotidiana esperienza di tantissime forme di sofferenza e di dolore».(1) Perciò il Signore nelle sue promesse di redenzione annuncia la gioia del cuore legata alla liberazione dalle sofferenze (cfr. Is 30,29; 35,10; Bar 4,29). Infatti Egli è «colui che libera da ogni male» (Sap 16,8). Tra le sofferenze, quelle che accompagnano la malattia sono una realtà continuamente presente nella storia umana e sono anche oggetto del profondo desiderio dell'uomo di liberazione da ogni male.

    Nell'Antico Testamento, «Israele sperimenta che la malattia è legata, in un modo misterioso, al peccato e al male».(2) Tra le punizioni minacciate da Dio all'infedeltà del popolo, le malattie trovano un ampio spazio (cfr. Dt 28,21-22.27-29.35). Il malato che implora da Dio la guarigione, confessa di essere giustamente punito per i suoi peccati (cfr. Sal 37; 40; 106,17-21).

    La malattia però colpisce anche i giusti e l'uomo se ne domanda il perché. Nel libro di Giobbe questo interrogativo percorre molte delle sue pagine. «Se è vero che la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa e abbia carattere di punizione. La figura del giusto Giobbe ne è una prova speciale nell'Antico Testamento. (...) E se il Signore acconsente a provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per dimostrarne la giustizia. La sofferenza ha carattere di prova».(3)

    La malattia, pur potendo avere un risvolto positivo quale dimostrazione della fedeltà del giusto e mezzo di ripagare la giustizia violata dal peccato e anche di far ravvedere il peccatore perché percorra la via della conversione, rimane tuttavia un male. Perciò il profeta annunzia i tempi futuri in cui non ci saranno più malanni e invalidità e il decorso della vita non sarà più troncato dal morbo mortale (cfr. Is 35,5-6; 65,19-20).

    Tuttavia è nel Nuovo Testamento che l'interrogativo sul perché la malattia colpisce anche i giusti trova piena risposta. Nell'attività pubblica di Gesù, i suoi rapporti coi malati non sono sporadici, bensì continui. Egli ne guarisce molti in modo mirabile, sicché le guarigioni miracolose caratterizzano la sua attività: «Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità» (Mt 9,35; cfr. 4,23). Le guarigioni sono segni della sua missione messianica (cfr. Lc 7,20-23). Esse manifestano la vittoria del regno di Dio su ogni sorta di male e diventano simbolo del risanamento dell'uomo tutto intero, corpo e anima. Infatti servono a dimostrare che Gesù ha il potere di rimettere i peccati (cfr. Mc 2,1-12), sono segni dei beni salvifici, come la guarigione del paralitico di Betzata (cfr. Gv 5,2-9.19-21) e del cieco nato (cfr. Gv 9).

    Anche la prima evangelizzazione, secondo le indicazioni del Nuovo Testamento, era accompagnata da numerose guarigioni prodigiose che corroboravano la potenza dell'annuncio evangelico. Questa era stata la promessa di Gesù risorto e le prime comunità cristiane ne vedevano l'avverarsi in mezzo a loro: «E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: (...) imporranno le mani ai malati e questi guariranno» (Mc 16,17-18). La predicazione di Filippo a Samaria fu accompagnata da guarigioni miracolose: «Filippo, sceso in una città della Samaria, cominciò a predicare loro il Cristo. E le folle prestavano ascolto unanimi alle parole di Filippo sentendolo parlare e vedendo i miracoli che egli compiva. Da molti indemoniati uscivano spiriti immondi, emettendo alte grida e molti paralitici e storpi furono risanati» (At 8,5-7). San Paolo presenta il suo annuncio del vangelo come caratterizzato da segni e prodigi realizzati con la potenza dello Spirito: «non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse operato per mezzo mio per condurre i pagani all'obbedienza, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito» (Rm 15,18-19; cfr. 1Ts 1,5; 1Cor 2,4-5). Non è per nulla arbitrario supporre che tali segni e prodigi, manifestativi della potenza divina che assisteva la predicazione, erano costituiti in gran parte da guarigioni portentose. Erano prodigi non legati esclusivamente alla persona dell'Apostolo, ma che si manifestavano anche attraverso i fedeli: «Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge o perché avete creduto alla predicazione?» (Gal 3,5).

    La vittoria messianica sulla malattia, come su altre sofferenze umane, non soltanto avviene attraverso la sua eliminazione con guarigioni portentose, ma anche attraverso la sofferenza volontaria e innocente di Cristo nella sua passione e dando ad ogni uomo la possibilità di associarsi ad essa. Infatti «Cristo stesso, che pure è senza peccato, soffrì nella sua passione pene e tormenti di ogni genere, e fece suoi i dolori di tutti gli uomini: portava così a compimento quanto aveva scritto di lui il profeta Isaia (cfr. Is 53,4-5)».(4) Ma c'è di più: «Nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. (...) Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo».(5)

    La Chiesa accoglie i malati non soltanto come oggetto della sua amorevole sollecitudine, ma anche riconoscendo loro la chiamata «a vivere la loro vocazione umana e cristiana ed a partecipare alla crescita del Regno di Dio in modalità nuove, anche più preziose. Le parole dell'apostolo Paolo devono divenire il loro programma e, prima ancora, sono luce che fa splendere ai loro occhi il significato di grazia della loro stessa situazione: "Completo quello che manca ai patimenti di Cristo nella mia carne, in favore del suo corpo, che è la Chiesa" (Col 1,24). Proprio facendo questa scoperta, l'apostolo è approdato alla gioia: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi" (Col 1,24)».(6) Si tratta della gioia pasquale, frutto dello Spirito Santo. E come san Paolo, anche «molti malati possono diventare portatori della "gioia dello Spirito Santo in molte tribolazioni" (1Ts 1,6) ed essere testimoni della risurrezione di Gesù».(7)
     

    2. Il desiderio di guarigione e la preghiera per ottenerla

    Premessa l'accettazione della volontà di Dio, il desiderio del malato di ottenere la guarigione è buono e profondamente umano, specie quando si traduce in preghiera fiduciosa rivolta a Dio. Ad essa esorta il Siracide: «Figlio, non avvilirti nella malattia, ma prega il Signore ed egli ti guarirà» (Sir 38,9). Diversi salmi costituiscono una supplica di guarigione (cfr. Sal 6; 37; 40; 87).

    Durante l'attività pubblica di Gesù, molti malati si rivolgono a lui, sia direttamente sia tramite i loro amici o congiunti, implorando la restituzione della sanità. Il Signore accoglie queste suppliche e i Vangeli non contengono neppure un accenno di biasimo di tali preghiere. L'unico lamento del Signore riguarda l'eventuale mancanza di fede: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede» (Mc 9,23; cfr. Mc 6,5-6; Gv 4,48).

    Non soltanto è lodevole la preghiera dei singoli fedeli che chiedono la guarigione propria o altrui, ma la Chiesa nella liturgia chiede al Signore la salute degli infermi. Innanzi tutto ha un sacramento «destinato in modo speciale a confortare coloro che sono provati dalla malattia: l'Unzione degli infermi».(8) «In esso, per mezzo di una unzione, accompagnata dalla preghiera dei sacerdoti, la Chiesa raccomanda i malati al Signore sofferente e glorificato, perché dia loro sollievo e salvezza».(9) Immediatamente prima, nella Benedizione dell'olio, la Chiesa prega: «effondi la tua santa benedizione, perché quanti riceveranno l'unzione di quest'olio ottengano conforto, nel corpo, nell'anima e nello spirito, e siano liberi da ogni dolore, da ogni debolezza, da ogni sofferenza(10); e poi, nei due primi formulari di preghiera dopo l'unzione, si chiede pure la guarigione dell'infermo.(11) Questa, poiché il sacramento è pegno e promessa del regno futuro, è anche annuncio della risurrezione, quando «non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4). Inoltre il Missale Romanum contiene una Messa pro infirmis e in essa, oltre a grazie spirituali, si chiede la salute dei malati.(12)

    Nel De benedictionibus del Rituale Romanum, esiste un Ordo benedictionis infirmorum, nel quale ci sono diversi testi eucologici che implorano la guarigione: nel secondo formulario delle Preces(13), nelle quattro Orationes benedictionis pro adultis(14), nelle due Orationes benedictionis pro pueris(15), nella preghiera del Ritus brevior.(16)

    Ovviamente il ricorso alla preghiera non esclude, anzi incoraggia a fare uso dei mezzi naturali utili a conservare e a ricuperare la salute, come pure incita i figli della Chiesa a prendersi cura dei malati e a recare loro sollievo nel corpo e nello spirito, cercando di vincere la malattia. Infatti «rientra nel piano stesso di Dio e della sua provvidenza che l'uomo lotti con tutte le sue forze contro la malattia in tutte le sue forme, e si adoperi in ogni modo per conservarsi in salute».(17)
     

    3. Il carisma di guarigione nel Nuovo Testamento

    Non soltanto le guarigioni prodigiose confermavano la potenza dell'annuncio evangelico nei tempi apostolici, ma lo stesso Nuovo Testamento riferisce circa una vera e propria concessione da parte di Gesù agli Apostoli e ad altri primi evangelizzatori di un potere di guarire dalle infermità. Così nella chiamata dei Dodici alla prima loro missione, secondo i racconti di Matteo e di Luca, il Signore concede loro «il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità» (Mt 10,1; cfr. Lc 9,1), e dà loro l'ordine: «Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni» (Mt 10,8). Anche nella missione dei settantadue discepoli, l'ordine del Signore è: «curate i malati che vi si trovano» (Lc 10,9). Il potere, pertanto, viene donato all'interno di un contesto missionario, non per esaltare le loro persone, ma per confermarne la missione.

    Gli Atti degli Apostoli riferiscono in generale dei prodigi realizzati da loro: «prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli» (At 2,43; cfr. 5,12). Erano prodigi e segni, quindi opere portentose che manifestavano la verità e forza della loro missione. Ma, a parte queste brevi indicazioni generiche, gli Atti riferiscono soprattutto delle guarigioni miracolose compiute per opera di singoli evangelizzatori: Stefano (cfr. At 6,8), Filippo (cfr. At 8,6- 7), e soprattutto Pietro (cfr. At 3,1-10; 5,15; 9,33-34.40-41) e Paolo (cfr. At 14,3.8-10; 15,12; 19,11-12; 20,9-10; 28,8-9).

    Sia la finale del Vangelo di Marco sia la Lettera ai Galati, come si è visto sopra, ampliano la prospettiva e non limitano le guarigioni prodigiose all'attività degli Apostoli e di alcuni evangelizzatori aventi un ruolo di spicco nella prima missione. Sotto questo profilo acquistano uno speciale rilievo i riferimenti ai «carismi di guarigioni» (cfr. 1 Cor 12,9.28.30). Il significato di carisma, di per sé assai ampio, è quello di «dono generoso»; e in questo caso si tratta di «doni di guarigioni ottenute». Queste grazie, al plurale, sono attribuite a un singolo (cfr. 1 Cor 12,9), pertanto non vanno intese in senso distributivo, come guarigioni che ognuno dei guariti ottiene per se stesso, bensì come dono concesso a una persona di ottenere grazie di guarigioni per altri. Esso è dato in un solo Spirito, ma non si specifica nulla sul come quella persona ottiene le guarigioni. Non è arbitrario sottintendere che ciò avvenga per mezzo della preghiera, forse accompagnata da qualche gesto simbolico.

    Nella Lettera di san Giacomo si fa riferimento a un intervento della Chiesa attraverso i presbiteri a favore della salvezza, anche in senso fisico, dei malati. Ma non si fa intendere che si tratti di guarigioni prodigiose: siamo in un ambito diverso da quello dei «carismi di guarigioni» di 1Cor 12,9. «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5,14-15). Si tratta di un'azione sacramentale: unzione del malato con olio e preghiera su di lui, non semplicemente «per lui», quasi non fosse altro che una preghiera di intercessione o di domanda; si tratta piuttosto di un'azione efficace sull'infermo.(18) I verbi «salverà» e «rialzerà» non suggeriscono un'azione mirante esclusivamente, o soprattutto, alla guarigione fisica, ma in un certo modo la includono. Il primo verbo, benché le altre volte che compare nella Lettera si riferisca alla salvezza spirituale (cfr. 1,21; 2,14; 4,12; 5,20), è anche usato nel Nuovo Testamento nel senso di «guarire» (cfr. Mt 9,21; Mc 5,28.34; 6,56; 10,52; Lc 8,48); il secondo verbo, pur assumendo alle volte il senso di «risorgere» (cfr. Mt 10,8; 11,5; 14,2), viene anche usato per indicare il gesto di «sollevare» la persona distesa a causa di una malattia guarendola prodigiosamente (cfr. Mt 9,5; Mc 1,31; 9,27; At 3,7).






    [SM=g1740771] continua..........

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    00 17/05/2012 16:52

    4. Le preghiere per ottenere da Dio la guarigione nella Tradizione

    I Padri della Chiesa consideravano normale che il credente chiedesse a Dio non soltanto la salute dell'anima, ma anche quella del corpo. A proposito dei beni della vita, della salute e dell'integrità fisica, S. Agostino scriveva: «Bisogna pregare che ci siano conservati, quando si hanno, e che ci siano elargiti, quando non si hanno».(19) Lo stesso Padre della Chiesa ci ha lasciato la testimonianza di una guarigione di un amico ottenuta con le preghiere di un Vescovo, di un sacerdote e di alcuni diaconi nella sua casa.(20)

    Uguale orientamento si osserva nei riti liturgici sia Occidentali che Orientali. In una preghiera dopo la Comunione si chiede che «la potenza di questo sacramento... ci pervada corpo e anima».(21) Nella solenne liturgia del Venerdì Santo viene rivolto l'invito a pregare Dio Padre onnipotente affinché «allontani le malattie... conceda la salute agli ammalati».(22) Tra i testi più significativi si segnala quello della benedizione dell'olio degli infermi. Qui si chiede a Dio di effondere la sua santa benedizione «perché quanti riceveranno l'unzione di quest'olio ottengano conforto nel corpo, nell'anima e nello spirito, e siano liberi da ogni dolore, da ogni debolezza, da ogni sofferenza».(23)

    Non diverse sono le espressioni che si leggono nei riti Orientali dell'unzione degli infermi. Ricordiamo solo alcune tra le più significative. Nel rito bizantino durante l'unzione dell'infermo si prega: «Padre santo, medico delle anime e dei corpi, che hai mandato il tuo Figlio unigenito Gesù Cristo a curare ogni malattia e a liberarci dalla morte, guarisci anche questo tuo servo dall'infermità del corpo e dello spirito, che lo affligge, per la grazia del tuo Cristo».(24) Nel rito copto si invoca il Signore di benedire l'olio affinché tutti coloro che ne verranno unti possano ottenere la salute dello spirito e del corpo. Poi, durante l'unzione dell'infermo, i sacerdoti, fatta menzione di Gesù Cristo mandato nel mondo «a sanare tutte le infermità e a liberare dalla morte», chiedono a Dio «di guarire l'infermo dalle infermità del corpo e a dargli la via retta».(25)
     

    5. Il «carisma di guarigione» nel contesto attuale

    Lungo i secoli della storia della Chiesa non sono mancati santi taumaturghi che hanno operato guarigioni miracolose. Il fenomeno, pertanto, non era limitato al tempo apostolico; tuttavia, il cosiddetto «carisma di guarigione» sul quale è opportuno attualmente fornire alcuni chiarimenti dottrinali non rientra fra quei fenomeni taumaturgici. La questione si pone piuttosto in riferimento ad apposite riunioni di preghiera organizzate al fine di ottenere guarigioni prodigiose tra i malati partecipanti, oppure preghiere di guarigione al termine della comunione eucaristica con il medesimo scopo.

    Quanto alle guarigioni legate ai luoghi di preghiera (santuari, presso le reliquie di martiri o di altri santi, ecc.) anch'esse sono abbondantemente testimoniate lungo la storia della Chiesa. Esse contribuirono a popolarizzare, nell'antichità e nel medioevo, i pellegrinaggi ad alcuni santuari che divennero famosi anche per questa ragione, come quelli di san Martino di Tours, o la cattedrale di san Giacomo a Compostela, e tanti altri. Anche attualmente accade lo stesso, come, ad esempio da più di un secolo, a Lourdes. Tali guarigioni non implicano però un «carisma di guarigione», perché non riguardano un eventuale soggetto di tale carisma, ma occorre tenerne conto nel momento di valutare dottrinalmente le suddette riunioni di preghiera.

    Per quanto riguarda le riunioni di preghiera con lo scopo di ottenere guarigioni, scopo, se non prevalente, almeno certamente influente nella loro programmazione, è opportuno distinguere tra quelle che possono far pensare a un «carisma di guarigione», vero o apparente che sia, e le altre senza connessione con tale carisma. Perché possano riguardare un eventuale carisma occorre che vi emerga come determinante per l'efficacia della preghiera l'intervento di una o di alcune persone singole o di una categoria qualificata, ad esempio, i dirigenti del gruppo che promuove la riunione. Se non c'è connessione col «carisma di guarigione», ovviamente le celebrazioni previste nei libri liturgici, se si realizzano nel rispetto delle norme liturgiche, sono lecite, e spesso opportune, come è il caso della Messa pro infirmis. Se non rispettano la normativa liturgica, la legittimità viene a mancare.

    Nei santuari sono anche frequenti altre celebrazioni che di per sé non mirano specificamente ad impetrare da Dio grazie di guarigioni, ma che nelle intenzioni degli organizzatori e dei partecipanti hanno come parte importante della loro finalità l'ottenimento di guarigioni; si fanno per questa ragione celebrazioni liturgiche (ad esempio, l'esposizione del Santissimo Sacramento con la benedizione) o non liturgiche, ma di pietà popolare incoraggiata dalla Chiesa, come la recita solenne del Rosario. Anche queste celebrazioni sono legittime, purché non se ne sovverta l'autentico senso. Ad esempio, non si potrebbe mettere in primo piano il desiderio di ottenere la guarigione dei malati, facendo perdere all'esposizione della Santissima Eucaristia la sua propria finalità; essa infatti «porta i fedeli a riconoscere in essa la mirabile presenza di Cristo e li invita all'unione di spirito con lui, unione che trova il suo culmine nella Comunione sacramentale».(26)

    [SM=g1740733] Il «carisma di guarigione» non è attribuibile a una determinata classe di fedeli.
    Infatti è ben chiaro che san Paolo, allorché si riferisce ai diversi carismi in 1 Cor 12, non attribuisce il dono dei «carismi di guarigione» a un particolare gruppo, sia quello degli apostoli, o dei profeti, o dei maestri, o di coloro che governano, o qualunque altro; anzi è un'altra la logica che ne guida la distribuzione: «tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole»
    (1Cor 12, 11).

    Di conseguenza, nelle riunioni di preghiera organizzate con lo scopo di impetrare delle guarigioni, sarebbe del tutto arbitrario attribuire un «carisma di guarigione» ad una categoria di partecipanti, per esempio, ai dirigenti del gruppo; non resta che affidarsi alla liberissima volontà dello Spirito Santo, il quale dona ad alcuni un carisma speciale di guarigione per manifestare la forza della grazia del Risorto. D'altra parte, neppure le preghiere più intense ottengono la guarigione di tutte le malattie. Così san Paolo deve imparare dal Signore che «ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9), e che le sofferenze da sopportare possono avere come senso quello per cui «io completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).




    [SM=g1740771] continua....

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 17/05/2012 16:57

    II. DISPOSIZIONI DISCIPLINARI

    Art. 1 - Ad ogni fedele è lecito elevare a Dio preghiere per ottenere la guarigione. Quando tuttavia queste si svolgono in chiesa o in altro luogo sacro, è conveniente che esse siano guidate da un ministro ordinato.

    Art. 2 - Le preghiere di guarigione si qualificano come liturgiche, se sono inserite nei libri liturgici approvati dalla competente autorità della Chiesa; altrimenti sono non liturgiche.

    Art. 3 - § 1. Le preghiere di guarigione liturgiche si celebrano secondo il rito prescritto e con le vesti sacre indicate nell'Ordo benedictionis infirmorum del Rituale Romanum.(27)

    § 2. Le Conferenze Episcopali, in conformità a quanto stabilito nei Praenotanda, V., De aptationibus quae Conferentiae Episcoporum competunt,(28) del medesimo Rituale Romanum, possono compiere gli adattamenti al rito delle benedizioni degli infermi, ritenuti pastoralmente opportuni o eventualmente necessari, previa revisione della Sede Apostolica.

    Art. 4 - § 1. Il Vescovo diocesano(29) ha il diritto di emanare norme per la propria Chiesa particolare sulle celebrazioni liturgiche di guarigione, a norma del can. 838 § 4.

    § 2. Coloro che curano la preparazione di siffatte celebrazioni liturgiche, devono attenersi nella loro realizzazione a tali norme.

    § 3. Il permesso per tenere tali celebrazioni deve essere esplicito, anche se le organizzano o vi partecipano Vescovi o Cardinali. Stante una giusta e proporzionata causa, il Vescovo diocesano ha il diritto di porre il divieto ad un altro Vescovo.

    Art. 5 - § 1. Le preghiere di guarigione non liturgiche si realizzano con modalità distinte dalle celebrazioni liturgiche, come incontri di preghiera o lettura della Parola di Dio, ferma restando la vigilanza dell'Ordinario del luogo a norma del can. 839 § 2.

    § 2. Si eviti accuratamente di confondere queste libere preghiere non liturgiche con le celebrazioni liturgiche propriamente dette.

    § 3. E' necessario inoltre che nel loro svolgimento non si pervenga, soprattutto da parte di coloro che le guidano, a forme simili all'isterismo, all'artificiosità, alla teatralità o al sensazionalismo. [SM=g1740733]

    Art. 6 - L'uso degli strumenti di comunicazione sociale, in particolare della televisione, mentre si svolgono le preghiere di guarigione, liturgiche e non liturgiche, è sottoposto alla vigilanza del Vescovo diocesano in conformità al disposto del can. 823, e delle norme stabilite dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nell'Istruzione del 30 marzo 1992.(30)

    Art. 7 - § 1. Fermo restando quanto sopra disposto nell'art. 3 e fatte salve le funzioni per gli infermi previste nei libri liturgici, nella celebrazione della Santissima Eucaristia, dei Sacramenti e della Liturgia delle Ore non si devono introdurre preghiere di guarigione, liturgiche e non liturgiche.

    § 2. Durante le celebrazioni, di cui nel § 1, è data la possibilità di inserire speciali intenzioni di preghiera per la guarigione degli infermi nella preghiera universale o "dei fedeli", quando questa è in esse prevista.

    Art. 8 - § 1. Il ministero dell'esorcismo deve essere esercitato in stretta dipendenza con il Vescovo diocesano, a norma del can. 1172, della Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 29 settembre 1985(31) e del Rituale Romanum.(32)

    § 2. Le preghiere di esorcismo, contenute nel Rituale Romanum, devono restare distinte dalle celebrazioni di guarigione, liturgiche e non liturgiche.

    § 3. E' assolutamente vietato inserire tali preghiere di esorcismo nella celebrazione della Santa Messa, dei Sacramenti e della Liturgia delle Ore.

    Art. 9 - Coloro che guidano le celebrazioni di guarigione, liturgiche e non liturgiche, si sforzino di mantenere un clima di serena devozione nell'assemblea e usino la necessaria prudenza se avvengono guarigioni tra gli astanti; terminata la celebrazione, potranno raccogliere con semplicità e accuratezza eventuali testimonianze e sottoporre il fatto alla competente autorità ecclesiastica.

    Art. 10 - L'intervento d'autorità del Vescovo diocesano si rende doveroso e necessario quando si verifichino abusi nelle celebrazioni di guarigione, liturgiche e non liturgiche, nel caso di evidente scandalo per la comunità dei fedeli, oppure quando vi siano gravi inosservanze delle norme liturgiche e disciplinari.

     

    Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell'Udienza accordata al sottoscritto Prefetto, ha approvato la presente Istruzione, decisa nella riunione ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

    Roma, dalla sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, 14 settembre 2000, festa dell'Esaltazione della Santa Croce.

    + Joseph Card. RATZINGER, 
    Prefetto

    + Tarcisio BERTONE, S.D.B., 
    Arciv. emerito di Vercelli, 
    Segretario

     


    (1) GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Christifideles laici, n. 53, AAS 81(1989), p. 498.

    (2) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1502.

    (3) GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica Salvifici doloris, n. 11, AAS 76(1984), p. 212.

    (4) Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXII, n. 2.

    (5) GIOVANNI PAOLO II, Lettera Apostolica Salvifici doloris, n. 19, AAS 76(1984), p. 225.

    (6) GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Christifideles laici, n. 53, AAS 81(1989), p. 499.

    (7) Ibid., n. 53.

    (8) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1511.

    (9) Cfr. Rituale Romanum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, n. 5.

    (10) Ibid., n. 75.

    (11) Cfr. Ibid., n. 77.

    (12) Missale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Editio typica altera, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXV, pp. 838-839.

    (13) Cfr. Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Ioannis Paulii II promulgatum, De Benedictionibus, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXXIV, n. 305.

    (14) Cfr. Ibid., nn. 306-309.

    (15) Cfr. Ibid., nn. 315-316.

    (16) Cfr. Ibid., n. 319.

    (17) Rituale Romanum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, n. 3.

    (18) Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XIV, Doctrina de sacramento extremae unctionis, cap. 2: DS, 1696.

    (19) AUGUSTINUS IPPONIENSIS, Epistulae 130, VI,13 (= PL, 33,499).

    (20) Cfr. AUGUSTINUS IPPONIENSIS, De Civitate Dei 22, 8,3 (= PL 41,762-763).

    (21) Cfr. Missale Romanum, p. 563.

    (22) Ibid., Oratio universalis, n. X (Pro tribulatis), p. 256.

    (23) Rituale Romanum, Ordo Unctionis Infirmorum eorumque Pastoralis Curae, n. 75.

    (24) GOAR J., Euchologion sive Rituale Graecorum, Venetiis 1730 (Graz 1960), n. 338.

    (25) DENZINGER H., Ritus Orientalium in administrandis Sacramentis, vv. I- II, Würzburg 1863 (Graz 1961), v. II, pp. 497-498.

    (26) Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, De Sacra Communione et de Cultu Mysterii Eucharistici Extra Missam, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXIII, n. 82.

    (27) Cfr. Rituale Romanum, De Benedictionibus, nn. 290-320.

    (28) Ibid., n. 39.

    (29) E i suoi equiparati, in forza del can. 381, § 2.

    (30) Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione circa alcuni aspetti dell'uso degli strumenti di comunicazione sociale nella promozione della dottrina della fede, 30 marzo 1992, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992.

    (31) Cfr. CONGREGATIO PRO DOCTRINA FIDEI, Epistula Inde ab aliquot annis, Ordinariis locorum missa: in mentem normae vigentes de exorcismis revocantur, 29 septembris 1985, AAS 77(1985), pp. 1169-1170.

    (32) Cfr. Rituale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum, Auctoritate Ioannis Pauli II promulgatum, De Exorcismis et Supplicationibus quibusdam, Editio typica, Typis Vaticanis MIM, Praenotanda, nn. 13- 19.

     

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 17/05/2012 17:19

    CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

     

    Nota circa il Ministro del Sacramento
    dell'Unzione degli Infermi

     

    Nota

    Il Codice di Diritto Canonico nel can. 1003 1 (cfr anche can. 739 1 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali) riprende esattamente la dottrina espressa dal Concilio Tridentino (Sessio XIV, can. 4: DS 1719; cfr anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1516), secondo la quale soltanto i sacerdoti (Vescovi e presbiteri)  sono  Ministri  del  Sacramento  dell'Unzione degli Infermi.

    Questa dottrina è definitive tenenda. Né diaconi né laici perciò possono esercitare detto ministero e qualsiasi azione in questo senso costituisce simulazione del sacramento.

    Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, l'11 febbraio 2005, nella memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes.

    JOSEPH Card. RATZINGER
    Prefetto

    ANGELO AMATO, S.D.B.
    Arcivescovo titolare di Sila
    Segretario


    Lettera accompagnatoria

    Agli Em.mi ed Ecc.mi
    Presidenti delle Conferenze Episcopali,

    in questi ultimi anni sono pervenute alla Congregazione per la Dottrina della Fede varie domande circa il Ministro del Sacramento dell'Unzione degli Infermi.

    Al riguardo questo Dicastero ritiene opportuno inviare a tutti i Pastori della Chiesa Cattolica l'acclusa Nota circa il Ministro del Sacramento dell'Unzione degli Infermi (cfr Allegato 1).

    Per Sua utilità si trasmette anche un appunto sintetico sulla storia della dottrina al riguardo, preparato da un Esperto in materia (cfr Allegato 2).

    Nel comunicarLe quanto sopra, profitto della circostanza per porgerLe distinti ossequi e confermarmi

    dev.mo

    JOSEPH Card. RATZINGER
    Prefetto

     


     

    Commento

    In questi ultimi decenni si sono manifestate delle tendenze teologiche che mettono in dubbio la dottrina della Chiesa secondo cui il Ministro del Sacramento dell'Unzione degli Infermi "est omnis et solus sacerdos". Il tema viene affrontato in prevalenza dal punto di vista pastorale, specialmente tenendo conto di quelle regioni in cui la scarsità di sacerdoti rende difficile l'amministrazione tempestiva del Sacramento, mentre tale difficoltà potrebbe essere risolta se i diaconi permanenti e anche laici qualificati potessero essere deputati Ministri del Sacramento.

    La Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede intende richiamare l'attenzione su queste tendenze, per prevenire il pericolo che ci siano dei tentativi di metterle in pratica, in detrimento della fede e con grave danno spirituale degli infermi che si vogliono aiutare.

    La teologia cattolica ha visto nella Lettera di Giacomo (vv. 5, 14-15) il fondamento biblico per il Sacramento dell'Unzione degli Infermi. L'Autore della lettera dopo aver dato vari consigli riguardanti la vita cristiana, offre anche una norma per gli ammalati: "Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato:  il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati". In questo testo, la Chiesa, sotto l'azione dello Spirito Santo, ha individuato nel corso dei secoli gli elementi essenziali del Sacramento dell'Unzione degli Infermi, che il Concilio di Trento (Sess. XIV, capp. 1-3, cann. 1-4:  DS 1695-1700, 1716-1719) propone in forma sistematica: a) soggetto:  il fedele gravemente ammalato; b) ministro: "omnis et solus sacerdos"; c) materia: l'unzione con l'olio benedetto; d) forma:  la preghiera del ministro; e) effetti:  grazia salvifica, perdono dei peccati, sollievo dell'infermo.

    Prescindendo ora dagli altri aspetti, interessa qui sottolineare il dato dottrinale relativo al Ministro del Sacramento, al quale esclusivamente si riferisce la Nota della Congregazione.

    Le parole greche della Lettera di Giacomo (5, 14), che la Vulgata traduce "presbyteros Ecclesiae", in consonanza con la tradizione, non possono riferirsi agli anziani per etàdella comunità, ma a quella categoria particolare di fedeli che, per l'imposizione delle mani, lo Spirito Santo aveva posto a pascere la Chiesa di Dio.

    Il primo documento del Magistero che parla in modo esplicito dell'Unzione degli Infermi è una lettera di Papa Innocenzo I a Decenzio, Vescovo di Gubbio (19 marzo 416). Il Papa, commentando le parole della Lettera di Giacomo, in reazione all'interpretazione, secondo cui solo i presbiteri sarebbero Ministri del Sacramento ad esclusione dei Vescovi, respinge questa limitazione, affermando che Ministri del Sacramento sono i presbiteri, ma anche il Vescovo (cfr DS 216). La lettera di Papa Innocenzo I, come anche le altre testimonianze del primo millennio (Cesario di Arles, Beda il Venerabile), non forniscono comunque alcuna prova della possibilità di introdurre Ministri non sacerdoti per il Sacramento dell'Unzione degli Infermi.

    Nel Magistero e nella legislazione posteriori fino al Concilio di Trento si trovano i seguenti dati:  Graziano nel suo Decretum (circa anno 1140) raccoglie quasi letteralmente la parte dispositiva della summenzionata lettera di Innocenzo I (parte 1, dist. 95, can. 3). Poi nelle Decretali di Gregorio IX viene inserita una Decretale di Alessandro III (1159-1164) nella quale risponde affermativamente alla domanda se il sacerdote può amministrare il Sacramento dell'Unzione degli Infermi stando del tutto solo, senza la presenza di un altro chierico o di un laico (X. 5, 40, 14). Infine il Concilio di Firenze nella Bolla Exsultate Deo (22 novembre 1439) afferma come verità del tutto pacifica che "il Ministro di questo Sacramento è il sacerdote" (DS 1325).

    L'insegnamento del Concilio di Trento prende posizione in relazione alla contestazione dei Riformatori, secondo i quali l'Unzione degli Infermi non sarebbe un sacramento ma una invenzione umana e i "presbiteri" di cui si parla nella Lettera di Giacomo non sarebbero i sacerdoti ordinati ma gli anziani della comunità. Il Concilio espone ampiamente la dottrina cattolica al riguardo (Sess. XIV, cap. 3:  DS 1697-1700) e anatematizza coloro che negano che l'Unzione degli Infermi sia uno dei sette Sacramenti (ibid., can. 1: DS 1716) e che il Ministro di questo Sacramento sia solo il sacerdote (ibid., can. 4:  DS 1719).

    Dal Concilio di Trento alla codificazione del 1917 ci sono soltanto due interventi del Magistero che riguardano in qualche modo il presente argomento. Si tratta della Costituzione Apostolica Etsi pastoralis (26 maggio 1742, cfr 5, n. 3: DS 2524) e della Enciclica Ex quo primum (1 marzo 1756) di Benedetto XIV. Nel primo documento si danno norme in materia liturgica sui rapporti fra i latini e i cattolici orientali giunti nel Sud d'Italia, fuggendo dalle persecuzioni; mentre nel secondo si approva e commenta l'Eucologio (Rituale) degli orientali rientrati nella piena comunione con la Sede Apostolica (1). Quanto al Sacramento dell'Unzione degli Infermi si suppone come verità pacificamente acquisita che il ministro del sacramento sia "omnis et solus sacerdos".

    La dottrina tradizionale, espressa dal Concilio di Trento sul Ministro del Sacramento dell'Unzione degli Infermi, venne codificata nel Codice di Diritto Canonico promulgato nell'anno 1917 (can. 938 1) e ripetuta quasi con le stesse parole nel Codice di Diritto Canonico promulgato nel 1983 (can. 1003 1) e nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali del 1990 (can. 739 1).

    Tutti i Rituali del sacramento dell'Unzione degli Infermi d'altra parte hanno sempre presupposto che il Ministro del Sacramento sia un Vescovo o un sacerdote (cfr Ordo Unctionis Infirmorum eorumque pastoralis curae, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1972, Praenotanda, nn. 5. 16-19). Perciò non hanno mai contemplato la possibilità che il ministro sia un diacono oppure un laico.

    La dottrina secondo cui il ministro del sacramento dell'Unzione degli Infermi "est omnis et solus sacerdos" gode di tale grado di certezza teologica che deve essere qualificata come dottrina "definitive tenenda". Il Sacramento è invalido se un diacono o un laico tenta di amministrarlo. Tale azione costituirebbe un delitto di simulazione nell'amministrazione del Sacramento, punibile a norma del can. 1379 CIC (cfr can. 1443 CCEO).

    In conclusione sarà infatti opportuno ricordare che il sacerdote, per il Sacramento che ha ricevuto, rende presente in un modo tutto particolare il Signore Gesù Cristo, Capo della Chiesa.

    Nell'amministrazione dei sacramenti egli agisce in persona Christi Capitis e in persona Ecclesiae. Colui che opera in questo Sacramento è Gesù Cristo, il sacerdote è lo strumento vivo e visibile. Egli rappresenta e rende presente Cristo in modo speciale, per cui questo Sacramento ha una particolare dignità ed efficacia rispetto ad un sacramentale:  cosicché, come dice la Parola ispirata circa l'Unzione degli Infermi, "il Signore lo rialzerà" (Gc 5, 15). Il sacerdote agisce inoltre in persona Ecclesiae. I "presbiteri della Chiesa" raccolgono nella loro preghiera (Gc 5, 14) la preghiera di tutta quanta la Chiesa; come dice Tommaso d'Aquino a questo proposito: "oratio illa non fit a sacerdote in persona sua [...], sed fit in persona totius Ecclesiae" (Summa Theologiae, Supplementum, q. 31, a. 1, ad 1).  Una  tale preghiera trova esaudimento.
     


    1) Si nota che anche gli Ortodossi ritengono che Ministro dell'Unzione sia solamente il Vescovo o il presbitero.

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)