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  L'Isis distrugge Palmira, pensando all'Apocalisse


di Stefano Magni26-08-2015



L'Isis mina le fondamenta di Baalshamin

 

Foto di propaganda dell’Isis, in circolazione da ieri, provano quel che si sta dicendo da giorni: il tempio di Baalshamin, a Palmira, 2000 anni di storia nelle sue pietre, è stato fatto saltare in aria dai jihadisti.

Irina Bokova, direttrice generale dell’Unesco, protesta contro il tentativo sistematico di “privare il popolo siriano della sua cultura, storia e identità”. Secondo la Bokova, l’Isis sta compiendo in Iraq e in Siria, la “più vasta opera di distruzione di opere d’arte dai tempi della Seconda Guerra Mondiale”. L’Unesco considera l’azione del movimento armato jihadista come un “crimine di guerra”. La dichiarazione della Bokova rende l’idea delle dimensioni del crimine. Dopo la devastazione dei siti archeologici di Mosul e Ninive, in Iraq, anche la presa di Palmira e la decapitazione dello storico direttore del suo museo, Khaled Asaad, facevano presagire che il peggio dovesse ancora iniziare. Ed effettivamente è iniziato. Tuttavia, la sistematica opera di cancellazione delle tracce di civiltà non-islamiche, cristianesimo incluso, compiuta dall’Isis ha una “marcia in più” rispetto alle distruzioni belliche. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, il più sanguinoso e devastante conflitto contemporaneo, il grosso dei danni è stato inflitto come effetto collaterale delle operazioni militari, in territorio nemico.

Le distruzioni dei bombardamenti a tappeto, compresa quella del monastero di Montecassino da parte dell’aviazione statunitense, il bombardamento di Dresda da parte di quella britannica, la precedente distruzione di Coventry da parte di quella tedesca, non miravano specificamente alla cancellazione di una civiltà e delle sue tracce, ma a sconfiggere un nemico in armi o a seminare il terrore fra i civili nelle sue retrovie. L’Isis, al contrario, distrugge ciò che è già nelle sue mani, a popolazione già assoggettata e nemico già sconfitto. Non è semplicemente un “crimine di guerra”, ma un crimine commesso nel dopo-guerra, un metodo di governo.

Gli opinionisti più anticlericali cedono spesso alla tentazione di tracciare paralleli impossibili con il cristianesimo medioevale e moderno, con i libri all’indice, la trasformazione in chiese delle moschee e l'uso dei templi romani come “cave di marmo e pietra” per la costruzione delle cattedrali, attribuito a una presunta volontà cristiana di cancellare il paganesimo. L'intento è quello di veicolare il messaggio che "tutte le religioni distruggono". Ma è un ragionamento smentito da un semplice dato di fatto: l’Italia, patria della Chiesa, ospita tuttora il maggior numero di siti inclusi nella lista dei patrimoni dell'umanità. Se si scorre la lista dei 26 paesi che ospitano il maggior numero dei patrimoni Unesco, tutti, ad eccezione di Cina, India, Giappone, Iran, Turchia e Corea del Sud, hanno una storia e una cultura cristiane. Nemmeno in Messico, dove pure i conquistadores spagnoli non andavano per il sottile, sono state distrutte le vestigia degli imperi pre-coloniali.

Se nel cristianesimo (e nel cattolicesimo, dopo la riforma protestante) vi fosse stato un reale intento di cancellazione dell'arte non cristiana, nel 2015 dopo Cristo non avremmo più un'arte classica da ammirare, non avremmo il Colosseo né il Pantheon, solo per restare a Roma, non avremmo più la letteratura classica, che fu invece riscoperta e diffusa nel Medioevo cristiano e citata a piene mani da Dante nella Divina Commedia. E nelle terre delle Crociate, fra Siria, Libano e l’attuale Israele, non vi sarebbe più traccia di quel mondo pagano su cui ora si accanisce l’Isis con tanto zelo. Si può rivolgere l'accusa all'islam nel suo complesso?
Chi punta il dito sulla religione fondata sul Corano può citare due esempi recentissimi: la distruzione dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, da parte dei Talebani e ora l’annientamento delle vestigia mesopotamiche, greche e romane da parte del Califfato. Entrambe le azioni, condannate da tutto il mondo, sono state giustificate con motivazioni puramente religiose: la necessità di sconfiggere ogni forma di “idolatria”, l’implementazione letterale del divieto di rappresentare uomini con statue e dipinti. Ma se tutto l’islam fosse (o fosse stato, nel corso degli ultimi 1400 anni) come quello voluto da Al Baghdadi, a quest’ora l’Isis non avrebbe più nulla da distruggere. Tutto il Nord Africa, i Balcani, il Medio Oriente e l’Asia meridionale, sarebbero deserti culturali.
Il fatto che siano tutte terre ricchissime di storia e archeologia, che Palmira (prima della guerra) fosse una delle maggiori attrazioni turistiche del mondo, così come lo sono tuttora le piramidi d’Egitto, dimostra che non tutto l’islam vuole cancellare le tracce delle civiltà non islamiche, ma solo una parte di esso. 

Quel che il Califfato sta compiendo in Iraq e in Siria è semmai paragonabile alle azioni di regimi atei del recente passato. Ricorda abbastanza le azioni di annientamento culturale sotto i regimi comunisti, in Europa così come in Asia orientale. Come nei casi precedenti, anche il Califfato saccheggia, perché non disdegna il valore economico dei beni di cui viene in possesso. Ma in generale ostenta la distruzione, la cancellazione dell’arte non conforme alla sua ideologia religiosa, quale strumento di propaganda. “La completa distruzione di un tempio pagano” è la didascalia delle foto che documentano la demolizione di Baalshamin.

Cosa accomuna lo Stato Islamico ai precedenti regimi totalitari?

La sua forma di governo, prima di tutto: i totalitarismi mirano a fare l’uomo nuovo, indottrinandolo e cambiando drasticamente l’ambiente sociale e culturale che lo circonda. Atei o teocratici che siano, i regimi totalitari tracciano una riga sul passato e ricominciano da un ipotetico “anno zero” un’utopia che intendono costruire. Lo Stato Islamico è l’utopia musulmana, che intende saltare tutte le tappe intermedie. Sarebbe culturalmente scorretto definirlo “non-islamico”, come tendono a fare i musulmani più moderati, perché ogni singola azione è costantemente giustificata alla luce del Corano. Il professor Bernard Haykel, docente di studi mediorientali di Princeton, di origine libanese, uno dei maggiori esperti del Califfato, parla di “assidua e ossessiva serietà” dell’Isis nella lettura e nell’applicazione del Corano. Ma è comunque manifestazione rara dell'islam, poiché è applicato qui e ora, non solo nell’anima ma nella realtà, nella società e nella politica, nel modo di vivere e in quello di fare la guerra.

Cosa fa, realmente, la differenza? L'ossessione per l'Apocalisse imminente. Come nel caso dei regimi totalitari più fanatici, anche gli uomini dello Stato Islamico credono che l’Apocalisse sia questione di poco. Non un evento che avverrà nelle prossime generazioni, come anche un jihadista come Bin Laden riteneva che fosse, ma un futuro prossimo che si realizzerà “entro un anno, al massimo”, come ha affermato Al Adnani, portavoce del Califfato.
In vista dello scontro finale con le forze del male, che avverrà a Dabiq, località della Siria settentrionale già nelle mani dell’Isis, gli jihadisti si preparano con una purificazione totale. Non solo interiore, effettuata con una continua ripetizione del giuramento di fedeltà all’islam, ma anche con una preparazione “sociale”, purificando l’ambiente esterno, fatto di musulmani “apostati” e di “infedeli”.

L’analogia con gli altri totalitarismi, soprattutto quelli comunisti, è impressionante. Benché materialisti, Lenin, Mao e Pol Pot avevano una loro visione secolarizzata dell’“apocalisse”, della fine dei tempi, del giudizio finale e del paradiso (in terra, nel loro caso): la rivoluzione mondiale e il conseguente trionfo del proletariato, eventi considerati entrambi inevitabili. Per Lenin la rivoluzione mondiale era imminente e ciò spiega la vasta e rapida opera di distruzione del mondo ortodosso russo, molto più intensa sotto il suo regime che non sotto i suoi successori, Stalin incluso.
Mao diede un’accelerazione ulteriore alla cancellazione delle religioni e del mondo feudale e contadino cinese, con le sue millenarie tradizioni: credeva che la rivoluzione mondiale fosse realizzabile in pochi decenni. Pol Pot accelerò i tempi di Mao: non solo annientò le tracce del mondo borghese, ma tutti quei cambogiani che non erano "adatti" alla nuova società, arrivando a ucciderne due milioni e mezzo (un terzo dell’intera popolazione) in soli tre anni.
Per Pol Pot, la rivoluzione mondiale doveva essere realizzata subito, a partire dal Sud Est asiatico, senza fasi intermedie. L’analogia calza per il regime di Al Baghdadi, che pensa all’Apocalisse subito, senza attese, senza fasi intermedie. Ancor più che Pol Pot, l’autoproclamato Califfo non accetta neppure contatti diplomatici con altri Stati, non intende avere alcun rappresentante all’Onu, non vuole nemmeno parlare di confini, perché si tratterebbe di riconoscere una fase di “normalizzazione” intermedia che frenerebbe la corsa verso la resa dei conti finale.
Quanti morti abbia già provocato la sua ideologia, in un territorio che conta circa 8 milioni di abitanti, non è ancora dato saperlo. Quante distruzioni, invece, lo sappiamo già: l’esplosione del tempio di Baalshamin è lì sotto gli occhi di tutti.







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)