Nel recente passato
(questo - e chi ne dubita? - fu un "padre", anzi un "Reverendissimo in Cristo padre fra Tale dei Tali")
i frati si firmavano rispettivamente "fra" (frati non presbiteri) e "padre" (frati presbiteri). I Maestri dell'Ordine, in certe edizioni dei libri liturgici, arrivavano a denominarsi "Reverendissimo in Cristo padre fra Tale dei Tali".
Poi di recente c'è stato il ritorno per tutti alla denominazione "fra", giustificata da motivazioni teoriche e storiche insieme: il nostro Ordine è organizzato su di una "fraternità paritaria" e questo fu il primitivo messaggio dell'Ordine e di san Domenico.
Oggi la conclusione è
che chi si ostina a firmarsi "padre" viene considerato renitente all'aggiornamento e la carta intestata "Padri Domenicani" è vista come la carta di un Ordine altro da quello che siamo. A fronte dell'eccesso nel (recente) passato di "Padre, Reverendo, Molto Reverendo, Reverendissimo" ecc., è più che comprensibile la reazione in senso opposto, la quale, oltre che ad essere una reazione, può vantare delle sue buone ragioni.
Ma le cose stanno veramente così?
Frati. Sul fatto che i primi frati si denominassero "frati" non c'è bisogno di insistere. Il fondamento è l'essere tutti fratelli e non "maestri" come il solo Maestro, non "padri" come il Padre, non "guide" come il Cristo (cf Mt 23,8-11). Inoltre Gesù Cristo chiama fratelli quanti sono da lui santificati in riferimento all'unica origine dal Padre (cf Eb 2,11).
Padri. Ma le Scritture non sono tutte qui e per i presbiteri la denominazione "padre" può avere un senso che si basa sul potere "generante" della parola di Dio: «rigenerati ... per mezzo della parola di Dio viva ed eterna ... e questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunciato» (1px 1,22-23; cf Gc 1,18; 1Ts 2,11) e sulla paternità che acquisisce il ministro della parola/sacramento (cf 1Cor 4,14-15; Fm 10; Gal 4,19 parla di partorire). Nella riflessione ecclesiale di oggi il vescovo è il primo ministro di questo ministero della parola e per conseguenza è padre (cf LG 21.24); anzi, «secondo la bella espressione di sant'Ignazio di Antiochia, il vescovo è "typos tou Patros", è come l'immagine vivente di Dio Padre» (CCC 1549).
I presbiteri ne partecipano il ministero e come «padri in Cristo» (LG 28) hanno cura dei fedeli. Anche in ambiente domenicano questo vocabolario fu recepito: Domenico «con il vangelo di Cristo generò molti figli» e molti frati a Bologna erano stati «generati a Cristo» dal priore Reginaldo «mediante la parola del vangelo» (Gregorio IX, Bolla di canonizzazione; Giordano di Sassonia, Libellus 61); «Figlio vi dico e vi chiamo, in quanto io vi partorisco per continue orazioni e desiderio nel cospetto di Dio, così come una madre partorisce il figlio» (Caterina da Siena, Lettera 141) (cf inoltre LCO 1 § V, che va nello stesso senso).
In sintesi, la formula ancora oggi ispiratrice potrebbe essere il modo con cui Stefano e Paolo si rivolgevano ai loro interlocutori (giudaici): «fratelli e padri / viri fratres et patres» (At 7,2; 22,1). Il fondamento ultimo potrebbe essere l'interconnessione dei misteri cristiani, dei titoli di Cristo e delle qualifiche dei fedeli, per cui nessun elemento può essere solo quello che è escludendo il resto. Così nella Chiesa chi è padre sarà anche fratello, ma la fraternità non può oscurare che qualcuno più di altri a livello sacramentale rifletta l'immagine e realizzi la realtà di padre.
Come mai solo molto tardi nell'Ordine si è preso coscienza di ciò?
(questi - e chi ne dubita? - sono "frati", anzi "fratini")
Perché agli inizi il ministero della parola era legato a un mandato del Papa e il ministero sacerdotale era visto in modo riduttivo come comportante solo la celebrazione della messa senza il ministero della parola e dunque non si riusciva a vederne la connessione con il ministero episcopale e la partecipazione della paternità attraverso l'esercizio della parola e dei sacramenti che generano alla vita nuova.
Così San Tommaso in Supp. q. 36, a. 2, ad 1um - e nei luoghi paralleli - arriva ad ammettere la legittimità di un presbitero che abbia solo la scienza utile a celebrare i riti/sacramenti, senza la scienza per l'esercizio della parola.
In questo senso l'uso di "padre" non è stato un solo fatto cerimoniale o l'aver ceduto a una tentazione di clericalismo, ma la conseguenza di una acquisizione teologica circa il ministero presbiterale, che risultava un poco appannata al tempo delle origini.
E allora che fare?
Forse gli unici due comportamenti da non adottare sono: a) imporre una uniformità assoluta; b) lasciare che ognuno si comporti sempre e in ogni caso come vuole.
LA RAGIONE È CHE NON È SBAGLIATA UNA DELLE DUE DENOMINAZIONI, MA È SBAGLIATO SOSTENERE CHE UNA DELLE DUE È SBAGLIATA.
Ci potrebbero essere dei criteri:
- Il criterio estetico: non usare "fra" con il solo cognome perché può portare a risultati grotteschi: fra Allocco, fra Bellagamba, fra Porcu, fra Rivoltella ecc.
- Il criterio tradizionale da mantenere è di denominarsi "fra" negli atti ufficiali: i cataloghi; i Capitoli; i documenti dei superiori emessi nell'esercizio del loro governo ecc.
- Il criterio della scelta personale: oltre agli atti ufficiali c'è lo spazio per la dimensione personale, in cui ogni frate presbitero potrebbe scegliere quale accentuazione far emergere nella propria denominazione e senza sbagliare, dal momento che sia "fra" che "padre" hanno entrambi le loro buone ragioni. Il sottoscritto ad esempio si firma "fra" o "padre" spesso tenendo conto degli interlocutori.
(Piccola parentesi, ovvero in cauda venenum: di recente Urciuoli Pietro, autore di Francesco d'Assisi. Giullare, non trovatore. EMP, Padova 2010, pp. 253, € 22,00, ha notato che i trovatori erano dotti e aristocratici, i giullari erano disprezzati e maltrattati dalle autorità civili ed ecclesiastiche e da qui il tipo di fraternitas giullaresca scelto da san Francesco e di predicazione giullaresca che caratterizzò non tutta ma una parte della predicazione francescana primitiva. Da noi nulla di tutto questo, anzi il vescovo Folco, che per primo approvò la forma di vita di san Domenico nella sua diocesi di Tolosa, era stato ... un trovatore e san Domenico si mosse sempre con disinvoltura tra i labirinti delle formalità curiali. Dunque una certa distinzione nativa ci appartierne ... dunque non siamo dei fraticelli ingenui e spensierati, ma uomini di teologia e di diritto, anche quando esprimiamo in modo comprensibile ed efficace la compassione per i fratelli).
Tutto questo
era stato da me formalizzato in una petizione da inviare al Capitolo generale, in un rigoroso e studiato latino e del seguente tenore:
«Perantiquam servantes consuetudinem se "fratres" nominari in capitulis generalibus provincialibusque, fratres nostri presbyteri aliis in appellationibus subisgnationibusque nomini suo praemittere possunt vel "frater" vel "pater", cum utraque appellatio pertinentem habeat significandi rationem: fraternam scilicet conversationem, presbyterale vero munus».
Poi, considerato che i Capitoli generali sono una cosa seria, ho riposto la petizione nel cassetto. Comunque, che ve ne pare? (Che ve ne pare del latino della petizione, non di "fra" o di "padre").
Riccardo Barile
(firma assolutamente laica)