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2
LA SPIEGAZIONE 
(1,13-6,10)

Dapprima Paolo si occupa del rimprovero menzionato per secondo, cioè che il suo vangelo l’abbia ricevuto da un uomo (v.12); egli lo confuta in 1,13-2,21. In seguito affronta il rimprovero citato per primo, cioè che il suo vangelo sia di tipo umano (vv.10,11); di questo rimprovero si occupa la seconda parte della lettera: 3,1-6,10 . La confutazione viene fatta ricorrendo a due prove scritturistiche che sono entrambe attinte dalla storia di Abramo e alle quali tutto il resto fa da commento. La tesi della seconda parte della lettera è questa: il vangelo specificamente paolino non è di tipo umano ma secondo la Scrittura.

 

2.1
Paolo non ha ricevuto il vangelo da un uomo 
(1,13-2,21)

Poiché Paolo vuole addurre la prova di una origine direttamente divina del suo vangelo, deve, per forza di cose, procedere biograficamente. E tratta così le questioni: Come fece Paolo, che prima era fariseo e persecutore dei cristiani, a diventare un cristiano? (1,13-24 ). In che posizione stanno le autorità di Gerusalemme rispetto al vangelo da lui proclamato? (2,1-10). A conclusione l’apostolo racconta un incidente capitato ad Antiochia in Siria e dal quale si deduce che Paolo, in fatto di legge e di vangelo, una volta si oppose perfino a Pietro (2,11-21). Tutto ciò per far capire ai Galati che il suo vangelo "non proviene da uomo".

a) L’abbandono di Paolo alla "fede" e la sua prima attività missionaria (1,13-24).

13Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, 14superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. 15Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque 16di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, 17senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
18In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; 19degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. 20In ciò che vi scrivo, io attesto davanti a Dio che non mentisco. 21Quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia. 22Ma ero sconosciuto personalmente alle Chiese della Giudea che sono in Cristo; 23soltanto avevano sentito dire: «Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere». 24E glorificavano Dio a causa mia.

vv. 13-14. Il fatto che il vangelo di Paolo non provenga da un uomo, viene fondato e garantito mediante tutti i successivi dati biografici, il primo dei quali è conosciuto dai Galati ("avete sentito") presumibilmente da rivelazioni personali dell’apostolo circa la sua attività missionaria. Essi sono al corrente della sua condotta d’un tempo nel "giudaismo", cioè del suo modo di vivere secondo le rigide usanze della religione giudaica. L’apostolo descrive il suo modo specifico di vivere l’essenza del giudaismo:

• perseguitava oltre misura la Chiesa di Dio e cercava di mandarla in rovina (i verbi all’imperfetto indicano una certa durata, una continuazione nel tempo). Secondo Ph.H.Menoud, qui Paolo usa il verbo porthèin, rovinare, "in senso morale". Paolo, quando perseguitava la chiesa, si sarebbe comportato da antipredicatore fanatico contro la chiesa, cercando con l’aiuto della Scrittura di confutare il kèrigma dei cristiani, secondo il quale Gesù crocifisso era il Messia promesso e di provocare in tal modo il loro sfacelo morale. La sua persecuzione dei cristiani sarebbe quindi stata anzitutto di carattere "teologico". Forse la rabbiosa antipredicazione di Paolo si rivolgeva particolarmente contro quelle cerchie della giovane chiesa che, come Stefano, assumevano un atteggiamento di dichiarata opposizione e critica nei confronti della legge. Paolo ora ammette che era la chiesa di Dio che egli credeva di dover perseguitare con il suo superzelo farisaico.

• Inoltre egli faceva sempre più progressi nel giudaismo, nella coscienziosa osservanza delle tradizioni dei padri. Così dicendo Paolo si qualificava come seguace dei farisei, i quali, a differenza dei sadducei, attribuivano il massimo valore alla fedele osservanza delle tradizioni dei padri, cioè alla "siepe attorno alla Torà" (Abot 1,1b). Ciò che egli vuole ottenere accennando alla sua condotta di vita rigidamente giudaica è questo: i Galati devono sapere che prima della sua conversione egli era immune da influssi cristiani. L’ideale della sua esistenza era una vita conforme alla legge giudaica, e di vangelo egli non ne voleva sapere. Anzi era un nemico della comunità di Gesù.

vv. 15-17. I Galati potevano credere che Paolo, dopo la sua conversione, avesse subito allacciato relazioni con gli apostoli della prima ora e con la comunità di Gerusalemme per essere meglio informato della dottrina cristiana. Ma ciò non è avvenuto. A Paolo qui non importa principalmente parlare dell’evento di Damasco, ma di dimostrare di non aver "ricevuto da un uomo" il suo vangelo. Tuttavia fa capire come abbia interpretato la cristofania: quella fu l’ora di grazia della sua chiamata. Sullo sfondo di questo racconto stanno le "vocazioni" di Ger 1,5 di Is 6,1-13 e l’autopresentazione del Servo di Jahvè (Is 49,1-5): Paolo intende la sua coscienza della vocazione apostolica alla luce della coscienza di missione dei profeti dell’Antico Testamento. Dio, da sempre, aveva messo gli occhi su Paolo e per la sua grazia l’ha chiamato all’apostolato. Dietro l’apostolo sta Dio: questa precisazione giova anch’essa all’intenzione della lettera (1,1). E dietro l’accenno alla separazione e alla vocazione da parte di Dio si trova l’autocoscienza apostolica di Paolo, che in Rm 1,1 si presenta come "apostolo per vocazione". In concreto questa vocazione ad essere apostolo si manifestò in quella rivelazione divina che gli fece conoscere Gesù Cristo come il "Figlio di Dio". Secondo 1 Cor 9,1 Paolo ha "visto Gesù nostro Signore"; secondo 1 Cor 15,7 Cristo gli è "apparso", e in questo caso l’apostolo equipara questa apparizione di Cristo risorto alle apparizioni avute dagli altri testimoni da lui enumerati. "Perciò l’esperienza fatta da Paolo a Damasco è una vicenda pasquale, anzi nel Nuovo Testamento egli è l’unico a riferire autenticamente sulla propria esperienza pasquale" (O.Betz). Egli stesso in Gal 1,16 interpreta questa apparizione del Risorto e l’aver visto Gesù (1 Cor 9,1) come una rivelazione attraverso la quale Dio gli fece conoscere Gesù come "Figlio suo". Per Paolo la conoscenza teologica fondamentale che gli fu comunicata dall’evento di Damasco è questa: Gesù è il Figlio di Dio. Egli intese questo avvenimento come sua vocazione a diventare apostolo (1,15) e come localizzazione originaria del suo vangelo, che egli ha annunciato anche ai Galati (1,11) e che si identifica con il "vangelo di Gesù Cristo" (1,7). La vocazione di Paolo ha uno scopo preciso, voluto da Dio: annunciare tra i pagani il Figlio suo. Quindi, in definitiva, il contenuto del vangelo che Paolo deve annunciare è Cristo, il Figlio di Dio. Perché aggiunge ancora: "tra i pagani"? La rivelazione era collegata a un incarico ufficiale di svolgere la missione tra i pagani oppure Paolo, così dicendo, pensa al suo accordo con le "colonne" della comunità di Gerusalemme (Gal 2,9)? Accennando alla missione tra i pagani, l’apostolo mira al medesimo scopo che costantemente persegue da 1,11 in poi: dimostrare che il suo vangelo annunciato ai pagani e, di conseguenza anche ai Galati, risale a una diretta rivelazione divina e non a una mediazione umana, come risulta anche dalle sue ulteriori considerazioni a partire dal v.16. "Se la rivelazione del Figlio abbia avuto come conseguenza il suo immediato annuncio da parte dell’apostolo tra i pagani non si può dedurre con certezza dal nostro testo. Ma Paolo non sta neppure a riflettere su questo problema. A lui preme unicamente di mettere in risalto che la rivelazione di Dio avvenutagli include l’incarico dell’annuncio ufficiale di Cristo tra i pagani" (Schlier). La frase "subito, senza consultare nessuno" vuole respingere ogni affermazione contraria a quanto sta scrivendo: io non mi sono consigliato con nessuno in materia di vangelo. L’affermazione di Paolo in Gal 1,16 è stata messa in relazione con Mt 16,17; infatti l’investitura dei due apostoli sembra avvenuta in modo simile: per mezzo di un’immediata rivelazione di Dio su Gesù come Figlio di Dio, alla quale "carne e sangue" sono estranei. Paolo non utilizzò nemmeno l’altra possibilità per farsi istruire in materia di vangelo: "nemmeno salii a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me". Il perché non lo sappiamo; l’apostolo afferma semplicemente che così fu, e per la sua argomentazione questo fatto risulta naturalmente assai opportuno.

vv. 18-20. Solo dopo tre anni Paolo si reca a Gerusalemme e ivi si incontra con Pietro. Il motivo della sua partenza da Damasco, secondo la sua stessa presentazione dei fatti in 2 Cor 11,32-33 fu questo: "In Damasco l’etnarca del re Areta fece sorvegliare la città dei Damasceni per catturarmi, e attraverso una finestra io fui calato giù in un cesto lungo le mura e così sfuggii dalle sue mani". Il verbo istorèin, tradotto con il verbo visitare, significa molto di più: secondo Giovanni Crisostomo (P.G. 61,651) Paolo visita Pietro "per vederlo e onorarlo"; secondo Gerolamo (P.L. 35,21-10) "per manifestare il reciproco amore fraterno incontrandosi di persona". Dunque secondo questi esegeti della Chiesa antica la visita di Paolo a Pietro in Gerusalemme, era destinata al capo supremo, conosciuto e riconosciuto, della Chiesa e a onorarlo come tale. Tuttavia bisogna guardarsi dal voler ricavare troppo da questo verbo istorèin; esso significa solitamente "visitare allo scopo di fare la conoscenza" (Bauer). Ad ogni modo anche i padri della Chiesa sono concordi nell’ammettere che Paolo non andò a Gerusalemme per farsi istruire da Pietro, magari sull’essenza del vangelo. Lo scopo principale di questo breve soggiorno fu soltanto una visita di cortesia a Pietro. Che questa relazione sulla sua visita a Gerusalemme corrisponda a piena verità, Paolo lo assicura espressamente rivolgendosi ai Galati nel v.20 con una formula di giuramento, che chiama a testimone Dio. Ciò deve indurre i Galati a fidarsi della sua versione e non di quella dei suoi avversari. "Una simile assicurazione in luogo di giuramento... si può capire solo se c’era un’altra spiegazione di questa visita di Paolo a Gerusalemme come ad es. At 9,26-30" (Eckert). Riportiamo At 9,26-30: "Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo. Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come a Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore, e parlava e discuteva con gli ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo. Venutolo però a sapere, i fratelli lo condussero a Cesarea e lo fecero partire per Tarso". Se teniamo presente che Paolo era giunto a Gerusalemme perché fuggiva da un complotto dei giudei di Damasco che volevano ucciderlo (At 9,23) non possiamo certamente pensare che fosse venuto per un confronto o un approfondimento dottrinale con Pietro o con gli altri della Chiesa madre.

vv. 21-24. Anche dopo questa visita a Gerusalemme Paolo non cercò nessuna occasione per farsi istruire in materia di vangelo, ma si recò lontano da Gerusalemme, in territori nei quali nessuno aveva ancora svolto attività missionaria, cioè nelle regioni di Siria e di Cilicia. Con Siria intende soprattutto la zona di Antiochia e con Cilicia il territorio di Tarso, sua città natale. Le comunità cristiane della Giudea non conoscono Paolo di persona. Per l’apostolo è importante per la sua argomentazione ribadire questo punto; infatti neppure da loro (giudeocristiani) egli può essere stato istruito nel vangelo. Soltanto essi sentono dire che il loro persecutore di una volta, "ora annuncia la fede che un tempo cercava di distruggere". Il suo cambiamento di idee e la sua attività missionaria sono per loro un incentivo alla lode a Dio. Con la loro lode a Dio, essi riconoscono che è Dio stesso ad agire in Paolo. Conseguentemente essi lo hanno riconosciuto anche come legittimo missionario dei pagani. Da parte loro non fu mossa alcuna obiezione contro la sua persona e il suo vangelo.

b) Il vangelo di Paolo e le autorità di Gerusalemme (2,1-10)

1Dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Bàrnaba, portando con me anche Tito: 2vi andai però in seguito ad una rivelazione. Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli, per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano. 3Ora neppure Tito, che era con me, sebbene fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere. 4E questo proprio a causa dei falsi fratelli che si erano intromessi a spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, allo scopo di renderci schiavi. 5Ad essi però non cedemmo, per riguardo, neppure un istante, perché la verità del vangelo continuasse a rimanere salda tra di voi.
6Da parte dunque delle persone più ragguardevoli - quali fossero allora non m’interessa, perché Dio non bada a persona alcuna - a me, da quelle persone ragguardevoli, non fu imposto nulla di più. 7Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi - 8poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani - 9e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Bàrnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. 10Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare.

Servendosi della sua autobiografia Paolo ha dimostrato che il suo vangelo non deriva "da uomo", ad es. dalla tradizione dei primi apostoli. Ora egli è in grado di riferire che le autorità di Gerusalemme hanno addirittura riconosciuto ufficialmente il suo vangelo "indipendente" e anche la sua altrettanto "indipendente" attività missionaria tra i pagani. In questo modo le autorità di Gerusalemme si schierano dalla sua parte e non da quella dei suoi avversari.

v. 1. Paolo scrive che per quattordici anni poté svolgere attività missionaria senza essere minimamente disturbato, citato o ispezionato dalle autorità di Gerusalemme. Oltre che Barnaba, giudeocristiano e missionario sperimentato, che godeva la particolare fiducia della prima comunità (At 4,36-37; 9,27), Paolo prende con sé un pagano convertito al cristianesimo, non circonciso, di nome Tito, finora del tutto sconosciuto alla comunità di Gerusalemme. Certamente al fatto di prendere con sé Tito era congiunta una precisa intenzione di Paolo; la comparsa di un cristiano convertito dal paganesimo nel centro del giudeocristianesimo doveva costituire una prova per la comunità e le autorità di Gerusalemme: riconoscono solo teoricamente o anche praticamente il vangelo presentato loro da Paolo? (v.2).

Si sarebbe visto dal modo di comportarsi con Tito! Paolo cita esplicitamente Tito, il cristiano convertito dal paganesimo, non circonciso, perché in lui egli ha un argomento a suo favore di fronte ai suoi avversari in Galazia. Il comportamento delle autorità di Gerusalemme che non hanno costretto Tito a farsi circoncidere dà torto ai suoi avversari che sostenevano: "Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non potete essere salvi" (At 15,1).

v. 2. Poiché Paolo parla di una "presentazione" del suo vangelo alle autorità di Gerusalemme se ne potrebbe dedurre che fu invitato dalle autorità della Chiesa di Gerusalemme a rendere conto del suo "particolare" annuncio del vangelo. L’apostolo previene una simile supposizione scrivendo: "Io però salii a Gerusalemme come risposta a una rivelazione" e non per essere stato citato. Qui apokàlupsis significa "una direttiva divina, come quelle che venivano impartite nelle assemblee delle comunità protocristiane per bocca dei profeti" (Bornkamm). "Una direttiva da parte di un profeta, come in At 11,28; 21,4. 10-11, non si potrebbe escludere, specialmente se Paolo, insieme con Barnaba, fosse venuto a Gerusalemme come rappresentante della Chiesa antiochena"( Schlier). "Il profeta Agabo aveva raccomandato alla comunità antiochena non solo la raccolta di una colletta, ma anche l’invio di Paolo e Barnaba a Gerusalemme...; a ciò si riferisce Paolo in Gal 2,2: per ordine di una rivelazione" (Stählin). In questo modo Dio stesso lo spinge a ricevere la conferma della giustezza del suo annuncio da parte degli altri apostoli a Gerusalemme. "E io presentai loro il vangelo che annuncio tra i gentili". Con questa aggiunta Paolo precisa che la sua attività è stata ed è quella di missionario tra i pagani e fa intendere che il suo annuncio tra di loro ha una determinata peculiarità, che egli espose a Gerusalemme. "Perché si accertasse se mai corro o ho corso invano": non esprime un dubbio o una paura dell’apostolo che cerca autenticazioni o approvazioni del suo vangelo. Personalmente non dubitava di essere sul retto sentiero col suo annuncio del vangelo. I motivi del suo agire li espone nel v.4: "a causa di falsi fratelli insinuatisi" i quali evidentemente sostenevano che il vangelo di Paolo non era quello vero e quindi non serviva per la salvezza. "Correre invano" non può avere il senso di lavorare senza successo, ma vuol dire non avere Dio dalla propria parte e avere perduto la comunione d’insegnamento con i primi apostoli. L’apostolo non ha mai dubitato personalmente della verità del suo vangelo, ma i falsi fratelli sì (v.4), e questo è il motivo che lo ha indotto a presentare il suo vangelo a Gerusalemme.

A chi presenta Paolo il suo vangelo a Gerusalemme? L’apostolo deve aver presentato il suo vangelo due volte: prima all’assemblea della comunità ("ad essi") e poi privatamente a quelli più ragguardevoli, alle autorità. Di essi citerà Giacomo, Cefa e Giovanni (v.9). La concordanza fra le autorità della Chiesa di Gerusalemme e Paolo non si attua con un’adesione di Paolo al vangelo della comunità di Gerusalemme, ma piuttosto con un’adesione del loro al suo: essi devono venire a capo della questione che si era aperta con il messaggio di Paolo, cioè con la proclamazione tra i pagani del vangelo libero dalla legge. Paolo comprendeva perfettamente le conseguenze disastrose di un’eventuale scissione della Chiesa in un ramo giudeocristiano ed in uno etnicocristiano. Proprio il desiderio di evitarla lo spinse verso coloro che erano apostoli prima di lui. Si trattava di convincere la Chiesa di Gerusalemme. Personalmente egli era convinto della giustezza del suo parlare e del suo agire. A ciò aveva provveduto Dio stesso (1,15-16).

v. 3. A questo punto ognuno si aspetterebbe che Paolo racconti come hanno reagito le autorità di Gerusalemme all’esposizione del suo vangelo. Ma prima di narrare le risposte teoriche presenta un atteggiamento pratico delle autorità della comunità cristiana. Il trattamento riservato a Tito di fatto già implicava il riconoscimento del vangelo di Paolo da parte delle autorità di Gerusalemme, il che venne poi ancora sanzionato espressamente in un accordo formale. Tito inoltre costituiva il caso appropriato per il fatto che era etnicocristiano incirconciso. "Neppure Tito, benché fosse un etnicocristiano incirconciso, venne costretto alla circoncisione". Questa frase fa supporre che da parte dei giudeocristiani fossero stati fatti dei tentativi per costringerlo alla circoncisione. Ma Paolo non acconsentì a questi tentativi "neppure per un momento" (v. 5). La menzione di questo avvenimento nella lettera era molto importante per i Galati perché costoro, per influsso degli avversari di Paolo, a quanto pare, stavano per farsi circoncidere (5,2). La decisione presa a Gerusalemme nei confronti di Tito aveva valore per tutti i pagani che si convertivano al cristianesimo.

vv. 4-5. "I falsi fratelli insinuatisi" sono dei giudeocristiani che osservano criticamente il comportamento dei cristiani venuti dal paganesimo senza avere un incarico ufficiale per farlo (cfr. At 15,24): per questo Paolo li chiama "intrusi". Paolo certamente ricorda i giudeocristiani provenienti da Gerusalemme che comparvero ad Antiochia (v.12) e sicuramente anche quelli che inaspettatamente avevano fatto la loro comparsa in Galazia. Poiché questi giudeocristiani non sono stati mandati né chiamati da nessuno, l’apostolo li designa giustamente come falsi fratelli "intrusi". Lo scopo degli intrighi dei falsi fratelli è di "rendere schiavi" gli etnicocristiani. Stando a 3,23; 4,5; 5,1 ss. si può intendere soltanto la schiavitù della legge dalla quale Cristo li ha liberati. Ad essi l’apostolo non si piegò neppure per un momento. Lo scopo della condotta inflessibile dell’apostolo è molto chiaro e sostanziale: "affinché la verità del vangelo fosse mantenuta presso di voi". Si tratta di ciò che è sostanziale: l’essenza della verità del vangelo. Quindi per Paolo la verità del vangelo si manifesta nella libertà dalla legge giudaica. I colloqui in Gerusalemme ebbero dunque questo risultato: le autorità non imposero nulla a Paolo.

v. 6. Con la parentesi sui "ragguardevoli" Paolo vuol far notare che a lui importa non la loro persona, ma unicamente il fatto che in quell’occasione non gli imposero nulla. Sul passato, sulle qualità personali o sul prestigio dei "ragguardevoli" in altri campi Paolo non vuole soffermarsi, perché anche Dio non ne tiene conto. In conclusione, le autorità di Gerusalemme non solo non hanno imposto nulla all’apostolo ma hanno concluso con lui un accordo positivo.

vv. 7-9. La struttura di questi versetti è complicata. La frase principale è questa: "Giacomo, Cefa e Giovanni diedero a me e a Barnaba la destra in segno di comunione". Essi "vedono" che Paolo è missionario dei pagani incaricato da Dio, come Pietro è il missionario dei giudei. Con ciò si riconosce che la missione tra i pagani è legittima al pari di quella tra i giudei. I capi della comunità di Gerusalemme riconoscono il fatto che Paolo è stato incaricato da Dio della missione ai pagani. Per mezzo di Paolo ha operato Dio stesso, come per mezzo di Pietro ha operato Dio nella missione tra i giudei. In tal modo essi riconoscono già Paolo come apostolo legittimo dei pagani, il che trova poi la sua espressione "ufficiale" nell’accordo riferito successivamente. Quindi non ci si limitò ad un accomodamento in linea di massima, ma si diede all’accordo addirittura un carattere di validità giuridica.

Per quale motivo il nome di Giacomo (fratello del Signore e vescovo di Gerusalemme) viene preposto a quello di Pietro? Pochi versetti dopo Paolo racconta di giudeocristiani che vennero ad Antiochia "da parte di Giacomo" (v.12). Probabilmente questi giudeocristiani si sono appellati a Giacomo di Gerusalemme nella loro presa di posizione contro la "libertà" degli etnicocristiani, e forse si sono comportati così anche gli avversari di Paolo presso i Galati. Nei loro confronti Paolo può mettere in rilievo che proprio lo stesso apprezzato fratello del Signore (1 Cor 15,7; At 12,17; 15,13; 21,18) a Gerusalemme, per primo, diede a lui e a Barnaba la stretta di mano per significare la comunione, riconoscendo così il loro lavoro missionario fra i pagani, compreso l’annuncio del vangelo libero dalla legge. Per evitare in futuro conflitti tra sostenitori della prassi missionaria giudeocristiana e quella etnicocristiana, la cosa migliore era che nelle terre pagane il vangelo fosse ulteriormente annunciato senza obbligare alla legge giudaica, e nei paesi giudaici, invece, senza esigere la rinuncia al modo di vivere dei giudei.

L’accordo, suggellato con la stretta di mano, fra i missionari dei pagani e quelli di Gerusalemme, servì in definitiva a mantenere la pace all’interno della Chiesa, senza con ciò scendere a compromessi sulla sostanza del vangelo.

v. 10. Ai missionari dei pagani non fu imposta proprio alcuna condizione di legge. Solo una cosa dovevano fare: ricordarsi dei poveri. Il testo non dice chi fossero questi poveri. Ma Paolo aggiunge che egli si è dato premura di fare questa cosa, e tale osservazione lascia intendere che il desiderio delle "colonne"fu poi da lui soddisfatto nella colletta premurosamente organizzata per i poveri di Gerusalemme (Rm 15,26-28; ecc.). Poiché, secondo Gal 2,10, questa colletta fu espressamente auspicata dalle autorità di Gerusalemme e Paolo la promosse con zelo ed energia nelle sue comunità etnicocristiane, essa da ambedue le parti fu intesa più che un semplice segno di fattivo interessamento per i poveri. Con essa si doveva soprattutto esprimere la volontà di attuare la comunione fra la parte giudeocristiana e quella etnicocristiana della Chiesa, e certamente anche riconoscere nella comunità di Gerusalemme la fonte originaria della salvezza (Rm 15,27: "Infatti se i gentili hanno ottenuto di partecipare al loro possesso spirituale, essi devono rendere loro dei servizi nel campo materiale"). Concludendo possiamo dunque dire che ogni appello degli avversari di Paolo alle autorità di Gerusalemme era completamente fuori luogo. Inoltre l’indipendenza e la verità del vangelo di Paolo può trovare conferma in un caso particolarmente "scabroso" del quale Paolo tratta nel brano seguente.

c) L’incidente di Antiochia (2,11-21)

11Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. 12Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Bàrnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei? 15Noi che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, 16sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno».
17Se pertanto noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, forse Cristo è ministro del peccato? Impossibile! 18Infatti se io riedifico quello che ho demolito, mi denuncio come trasgressore. 19In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. 20Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. 21Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano.

Sulla base della precedente esposizione dei fatti e delle decisioni prese a Gerusalemme, si potrebbe pensare che le tensioni suscitate dalla comparsa dei "falsi fratelli" giudaisti fossero definitivamente risolte e le questioni chiarite.

Ma l’incidente avvenuto in Antiochia dimostra che le cose non stavano proprio così.

Come fu possibile che ciò avvenisse dopo la stretta di mano a Gerusalemme? A questa domanda si deve anzitutto rispondere: per la situazione particolare della comunità di Antiochia, che era mista, cioè composta da ex giudei e da ex pagani. I contenuti degli accordi di Gerusalemme nella formula riportata da Paolo era questo: "Noi ai pagani, essi ai giudei". Questa decisione era chiara. Ma come si doveva procedere nella prassi, nei luoghi in cui esisteva una comunità cristiana mista, come ad Antiochia? Sembra che, in un primo momento, nella comunità cristiana di Antiochia siano convissuti senza attrito ex giudei ed ex pagani, uniti nella comunione di mensa. Anche Pietro si comportò così "finché giunsero alcuni da parte di Giacomo", cioè della comunità di Gerusalemme, i quali si scandalizzarono per tale comunione di mensa. Pietro cadde nell’incertezza e si tirò indietro, il che indusse Paolo "a opporsi in faccia a lui" e a mostrargli le conseguenze del suo comportamento, e questo dovette provocare una discussione sul rapporto tra legge e vangelo. Forse i giudeocristiani provenienti da Gerusalemme erano disposti ad ammettere l’esenzione degli etnicocristiani dalla legge, ma ciò che non riuscivano ad accettare era questo: che anche un giudeo (come Pietro) fosse esente da una vita conforme alla legge, quando si fosse fatto cristiano. Secondo loro, un ex giudeo doveva anche da cristiano restare fedele alle tradizioni paterne. Questo problema non era stato risolto a Gerusalemme. E per un giudeo tale problema era veramente grande. Perciò è comprensibile che essi si siano fortemente scandalizzati del comportamento di Pietro che mangiava con gli etnicocristiani e abbiano manifestato vigorosamente il loro risentimento. Ma se avessero avuto ragione, sarebbe stato riconosciuto un ulteriore valore salvifico della legge e la verità del vangelo sarebbe stata di nuovo messa in pericolo. Paolo lo capì subito: di qui il suo appassionato intervento contro Pietro. Paolo può dimostrare di aver difeso la verità del vangelo perfino contro Pietro, quando fu necessario. Anche se i suoi avversari in Galazia si appellassero a Pietro, qui trovano una risposta puntuale, come sopra l’avevano trovata nel caso si fossero appellati a Giacomo. Questo accenno era al tempo stesso la prova più convincente che Paolo non aveva ricevuto il suo vangelo "da un uomo"; altrimenti come avrebbe potuto osare di procedere contro lo stesso uomo-roccia in nome del vangelo?



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)