00 29/11/2008 21:34
Il presidente della Conferenza episcopale italiana e il presidente della Corte costituzionale italiana a confronto
Due virtù che zoppicano
se non camminano a braccetto

Il 24 novembre, nella Sala del Quadrivium a Genova si è tenuto un incontro sul tema "Giustizia e misericordia", primo appuntamento cittadino di un ciclo di conferenze intitolato "Gratuità senza frontiere". Sono intervenuti il cardinale arcivescovo metropolita della diocesi e il nuovo presidente della Consulta italiana, al quale il porporato ha rivolto le sue congratulazioni per la recente nomina. Pubblichiamo stralci delle due relazioni.

del card. Angelo Bagnasco

La convinzione a cui è pervenuta la Chiesa, confrontando quanto ha visto accadere lungo i suoi duemila anni di storia con la rivelazione biblica, è che (...) non si ristabiliscono l'ordine e l'armonia infranti, se non coniugando fra loro giustizia e misericordia. Ripeto: coniugandole tra loro. Sarebbe infatti un vero delitto se, nelle circostanze attuali, a fronte delle divisioni che attraversano l'umanità e i singoli paesi, come a fronte delle rivalità che contrappongono le tribù, le famiglie e le persone, si concludesse che parlare di giustizia e misericordia è del tutto inutile. Io credo invece che nonostante le difficoltà che talune situazioni presentano, si possa e si debba parlarne. Soprattutto che si debba farlo quando si ha chiaro che giustizia e misericordia non sono parole tra loro alternative, e non indicano prospettive tra loro opposte. Come se appartenessero a due sfere non comunicanti, proprio come una certa sensibilità odierna vorrebbe oggi il rapporto tra laicità e fede. Diceva Giovanni Paolo ii, nella sua fondamentale enciclica Dives in misericordia, che "sarebbe difficile non avvedersi che molto spesso i programmi che prendono avvio dall'idea di giustizia e che debbono servire alla sua attuazione nella convivenza degli uomini, dei gruppi e delle società umane, in pratica subiscono deformazioni. Benché essi continuino a richiamarsi alla medesima idea di giustizia, tuttavia l'esperienza dimostra che sulla giustizia hanno preso il sopravvento altre forze negative, quali il rancore, l'odio e persino la crudeltà" (n. 12). In effetti, l'esperienza del passato come quella del nostro tempo dimostrano che la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com'è ai limiti e ai condizionamenti personali o di gruppo, e dunque va esercitata e in un certo senso supportata dalla misericordia, che è la forma interiore dell'amore. Anzi, precisa sempre Giovanni Paolo ii, diventa "più palese che l'amore si trasforma in misericordia quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e spesso troppo ristretta" (ibidem, n. 5).



Quella del rapporto tra giustizia e misericordia è una questione antica, che segna fin dalle origini lo svolgersi della civiltà occidentale. E che si è affacciata, puntualmente, tutte le volte che il pensiero ha tentato di mettere ordine tra polarità tendenzialmente avversarie, come tra libertà personale e ordine sociale, tra colpa e pena, tra recupero e riscatto. In questo sforzo speculativo così vivo nel mondo greco - da Socrate ad Aristotele e Platone - e in quello romano - da Cicerone a Seneca a Marco Aurelio - il cristianesimo si inserisce proponendo una sintesi audace, nuova pur accogliendo molti spunti della classicità, e che segnerà la storia successiva. Sintesi in cui l'ordo iustitiae e l'ordo amoris sono distinti e contemporaneamente si compenetrano profondamente tra loro.

Giustizia e misericordia, con l'annuncio cristiano, smettono definitivamente di essere alternative e diventano virtù che non solo si richiamano vicendevolmente, ma non possono più fare a meno l'una dell'altra. "La misericordia senza giustizia è madre della dissoluzione", dirà san Tommaso, aggiungendo che "la giustizia senza misericordia è crudeltà". Un rapporto simbiotico in cui però la dignità della persona è la bussola decisiva, deputata a conferire alla giustizia il suo vero dinamismo, il suo vero valore, spingendo la giustizia stessa verso mete sempre più alte che, trovando completamento nella misericordia, rendono il cammino dell'umanità sempre più confacente all'immagine di Dio impressa nel volto umano.
"Chi ama, rifiuta l'ingiustizia e la verità è la sua gioia" ammonisce san Paolo (1 Corinzi, 13, 6). La vera misericordia infatti domanda prima di tutto giustizia, base necessaria della vita sociale, dove deve regnare l'ordine del Bene. Chi vuole essere misericordioso deve anzitutto essere giusto e deve sentire riecheggiare dentro di sé quella "fame e sete di giustizia" di cui Gesù parla nel discorso della montagna. La misericordia deve produrre anzitutto la giustizia, se vuole compiere il suo vero corso. Per questo la misericordia non si oppone né creerà alibi alla giustizia, ma la contiene come sua espressione prima e come suo momento essenziale. Quindi, la ispira e la comanda, le dà anima e luce perché superi in meglio le proprie distinzioni rigide e formali.

Questa prospettiva trova la sua espressione più alta negli insegnamenti e nella vita stessa di Cristo. Il Signore, in numerosi passi del Vangelo, pur manifestando quello che oggi chiameremmo "rispetto delle istituzioni" e delle leggi dell'epoca, allo stesso tempo indica la via per una giustizia superiore, che oltrepassa quella angusta e psicologica, trasfigurandola. E lo fa fino all'ultimo respiro. Torturato, oltraggiato e messo in croce proprio dai rappresentanti della legge, viene implorato solo dal "ladrone", da un criminale. Ma sarà proprio il "ladrone" - forse un assassino - per quel suo gesto di umiltà e di pentimento, a meritare per primo il Paradiso. Realizzazione effettiva di quello che Gesù stesso aveva predetto a una casta che si riteneva per antonomasia onesta e osservante della legge - e formalmente lo era: "I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio" (Matteo, 21, 31).

Il mirabile equilibrio tra legge e amore, tra giustizia e misericordia, non è mai stato, dicevamo, un dato acquisito pacificamente. Piuttosto, è stato un depositum che la Chiesa ha cercato di conservare e riproporre continuamente alla luce delle acquisizioni del tempo, e di una sempre maggiore consapevolezza di sé che l'uomo va guadagnando attraverso le generazioni.
Pensiamo, per fare un nome, a sant'Agostino e a quella che è stata la monumentale elaborazione del De civitate Dei, dove il vescovo di Ippona mostra - in particolare nel capitolo XIX, sulla "vera giustizia" - con impareggiabile efficacia la profondità del rapporto fra giustizia e misericordia, che nella visione cristiana allude al mistero del rapporto fra Città dell'uomo e Città di Dio.

Ma per venire più direttamente a noi e ai nostri anni, è interessante notare come gli ultimi Pontefici abbiano voluto darci indicazioni preziose proprio su questo tema, incastonandole nel loro insegnamento più rimarchevole. Pensiamo a che cosa ha rappresentato, nel pontificato di Paolo VI, la prospettiva della "Civiltà dell'Amore", quale ideale di vita proprio di chi intende compenetrare verità e carità, giustizia e misericordia. O pensiamo ancora per un istante a quello che è stato il nuovo significato che Giovanni Paolo ii ha inteso dare proprio alla parola misericordia, il cui significato vero e profondo "non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure più penetrante e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o materiale. La misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta e promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e nell'uomo. Così intesa, essa costituisce il contenuto fondamentale del messaggio messianico di Cristo e la forza costitutiva della sua missione" (Dives in misericordia, n. 6). Non credo sia sbagliato dire che il Papa venuto dall'Est, conoscitore dei regimi gelidi e anti-umani che allora esistevano in quella parte del continente, abbia riabilitato la parola misericordia, sottraendola dal vocabolario pietistico, per consegnarla alla modernità come prospettiva convincente e plausibile.

Sulla stessa linea si pone anche Benedetto XVI, che ha intitolato significativamente un capitolo della sua prima enciclica, la Deus caritas est, proprio "Giustizia e carità". "Il giusto ordine della società e dello Stato - egli avverte - è compito centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe a una grande banda di ladri, come disse una volta Agostino", ricorda sempre il Papa (al n. 28). Per il quale, tuttavia, mai va dimenticato che "l'amore - caritas - sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore". Benedetto XVI fa presente come nel mondo, per quanto la politica faccia progredire a livelli sublimi la giustizia, ci sarà sempre sofferenza, ci sarà sempre solitudine, ci sarà sempre inadeguatezza rispetto alle attese del cuore umano. In altre parole, ci sarà sempre bisogno della carità che si traduce in condivisione e misericordia. "Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente, ogni uomo, ha bisogno: l'amorevole dedizione personale" (ibidem, n. 28).

Non è questione dunque solo di interstizi da raggiungere e da coprire, ma di intelligenza e di finalizzazione dell'azione pubblica, nel suo porsi come atto di giustizia. La convinzione comune, secondo la quale strutture finalmente giuste renderebbero superfluo qualunque impeto di misericordia, nasconde, per il Papa, "una concezione materialistica dell'uomo: il pregiudizio secondo cui l'uomo vivrebbe "di solo pane" (Matteo, 4, 4) - convinzione che umilia l'uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano" (ivi).

Un richiamo, quest'ultimo, che suona particolarmente prezioso in un momento storico in cui si rischia di schiacciare l'esercizio della misericordia addosso alla Chiesa, illudendosi che lo Stato da solo, in base a una concezione prometeica della laicità, riesca a raggiungere la perfezione della giustizia. Sarebbe una fatale illusione. Giustizia e misericordia o camminano a braccetto, preparando l'una il passo all'altra, o entrambe zoppicano, annaspando nella nebbia.


(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2008)
[Modificato da Caterina63 05/10/2009 08:13]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)