00 18/05/2009 00:32


da Avvenire

Com'è moderno il "Sillabo"
di Rino Cammilleri

Reazionario? Ma nel 1864 mettere in guardia dai pericoli delle ideologie più funeste del '900 era addirittura profetico.
"Pio IX lanciò un monito contro tutti gli "ismi" e solo noi,
uomini del 2000, possiamo apprezzarne la lucidità".

L'8 dicembre 1864, lo stesso giorno in cui dieci anni prima era stato
proclamato il dogma dell'Immacolata Concezione, veniva pubblicata
l'enciclica Quanta cura.
Recava annesso un catalogo (in latino Syllabus) di dottrine,
idee, teorie e affermazioni che la Chiesa condannava.

Fosse uscita da sola, l'enciclica avrebbe avuto un effetto meno dirompente:
si sa, le encicliche sono generalmente prolisse, avvolte in uno stile
solenne e severo che stempera in qualche modo il rigore delle affermazioni.

Ma quel repertorio di brevi proposizioni, secche, precise, terribili,
ebbe l'effetto di un macigno piombato in un negozio di specchi.
Non potevano esservi dubbi, né vi era spazio per erudite controversie
di teologi: quelle 80 frasi erano lì, nero su bianco, seguite dal richiamo ai pronunciamenti pontifici che le fulminavano.
Un pugno diretto allo stomaco del mondo moderno
(anzi, al suo cuore), così come esso si era venuto
sviluppando negli ultimi due secoli.
La semplice impostazione di condanna (La Chiesa condanna
chiunque affermi questo e quest'altro...) costituiva una sorta
di prontuario per il credente: gli bastava fare il contrario per essere nella verità cattolica. Solo che in quel documento c'era l'universo intero, lo spirito della modernità era folgorato in toto, né rimaneva quasi spazio per altro.

In genere si dice che a chi crede bastano poche parole; è chi non crede o per quelli paucae fidei che, sempre in genere, "questo linguaggio è duro"(Gv 6,60).
Duro, quello del Sillabo, lo era senz'altro; ma, altrettanto
sicuramente, chiaro ed efficace. Infatti, all'epoca tutti capirono
perfettamente. E da allora le cose non sono più state le stesse, con
implicazioni e complicazioni che tuttora perdurano, a 136 anni di distanza.

Molti cattolici, infatti, considerano il Sillabo una sorta di scheletro nell'armadio, un momento della loro storia di cui vergognarsi e scusarsi. [SM=g1740729]
Per mettere in difficoltà un cattolico in una discussione basta
a un certo punto scagliargli in faccia un "E il Sillabo?".
Di solito l'effetto che si ottiene è paragonabile a quello, terroristico e paralizzante, che si aveva quando, in tempi neanche tanto remoti, si dava del "fascista" a qualcuno.

Coloro che, quasi un secolo e mezzo fa, sostennero e difesero
quel documento sono considerati, nella migliore delle ipotesi,
"anime povere di vita che non sapevano nulla dei vasti orizzonti
del mondo moderno". L'affermazione è di uno storico laico,
Gabriele Pepe, ed è contenuta in un libretto dal titolo:
Il Sillabo e la politica dei cattolici. Non vi sarebbe niente
di strano, rispetto ai giudizi ancora correnti sul Sillabo,
se queste parole non fossero datate capodanno 1945, cioè
a pochi mesi dalla fine dell'incubo peggiore che il "mondo
moderno" (anzi, il mondo tout court) avesse mai conosciuto.
Dopo lo spaventoso carnaio della seconda guerra mondiale,
dopo i lager, dopo Hiroshima, dopo le purghe sovietiche,
dopo l'Europa ridotta a un cumulo di rovine fumanti,
forse era davvero il momento di chiedersi se il Sillabo
non avesse avuto per caso ragione.

Se cioè, quel vecchio Papa che un secolo prima era stato "sconfitto
dalla storia" non avesse voluto lanciare un grido profetico alle generazioni presenti e future; un ultimo grido disperato, una messa in guardia tagliente e forte contro le ineluttabili conseguenze di certe premesse, contro gli abominevoli frutti che sarebbero cresciuti sui tronchi delle ideologie;
un monito contro tutti gli "ismi" che si presentavano, allora, radiosi
e gravidi di futuro.

Se c'è qualcuno che può veramente capire e apprezzare la lucidità
del Sillabo, quelli siamo proprio noi, uomini del Duemila. Noi, che
possiamo mettere in fila e valutare tutti i disastri che sono venuti dopo e che hanno avuto come portato finale l'epoca in cui viviamo,
contrassegnata dal nichilismo e dal rifiuto della vita.
Il secolo seguito al Sillabo è stato definito, nella migliore
delle valutazioni, "breve". Ma anche "del male" e "dei martiri",
nonché "della morte di Dio" che ha portato con sé quella "dell'uomo".
Si noti che tutte queste definizioni sono rigorosamente
di mano laica. Man mano che si spegne la luce portata dal Cristo
(riflessione del cardinale Ratzinger), tornano superstizione e schiavismo, suicidi e violenza diffusa, il vizio premiato e la virtù derisa...

Ma è inutile fare l'elenco: basta leggere la cronaca quotidiana.
Il sottofondo comune è la paura, paura del presente e, soprattutto,
del futuro.
Dalla stessa scienza si prendono le distanze: la diffusa preoccupazione ecologica e la sfiducia nella medicina ufficiale valgano per il tutto. Ma è una paura che gli uomini dell'Ottocento, abbagliati dalle promesse degli "ismi", non avevano.
Anzi.

In una parte di certo mondo clericale è invalso oggi l'uso
di qualificare come "profetici" gesti, atteggiamenti, parole che
altri potrebbero trovare, piuttosto, opinabili o magari, in qualche caso, insignificanti. "Profetico" vuol dire "capace, per ispirazione, di vedere e rivelare il futuro".
Quanti, di quelli che criticano il Sillabo, possono dire
di averlo letto e, magari, studiato?


Forse troverebbero che quel vituperato e negletto documento
della Chiesa docente fu realmente "capace, per ispirazione,
di vedere e rivelare il futuro".
Certo, non c'è scritto, per esteso, che il comunismo finisce
invariabilmente nei gulag. Ma non è profetico già il solo
averne inserito la voce nel 1864?
Si faccia caso alla data; il Manifesto dei comunisti cominciò
a circolare clandestinamente solo durante la Comune
di Parigi del 1871.


Certa storiografia, anche di parte cattolica, ha opposto per lungo
tempo il magistero di Leone XIII a quello di Pio IX, tanto "chiuso",
questo, nei confronti del mondo moderno quanto quello sarebbe
stato "aperto".
Eppure fu proprio Leone XIII, quando era l'arcivescovo
di Perugia Gioacchino Pecci, a lanciare l'idea di un Sillabo
fin dal 1849, e a battersi e insistere affinché un "catalogo"
di errori venisse stilato a modo di vademecum riassuntivo
.
Leone XIII lo si cita a proposito e a sproposito come il Papa
della Rerum Novarum, senza mai ricordare che la terza parola
dell'enciclica è cupiditas: "Rerum novarum cupiditas..."
"il desiderio smodato di novità...".
Così comincia, con una condanna perfettamente in linea
con quelle del predecessore, la famosa enciclica leoniana.

Giudicare il Sillabo senza conoscere niente del clima in cui maturò
è come deridere i fucili ad avancarica avendo l'occhio sulle moderne
armi al laser.
Il susseguirsi degli eventi storici e la modifica di alcuni
dati di partenza ha reso possibile alla Chiesa l'accantonamento
di alcune delle condanne contenute nel Sillabo.
Ma quello scarno elenco vide la luce in una cittadella assediata
e prossima alla fine, mentre antichissimi diritti venivano irrisi
e schiacciati in nome di un "Progresso" che oggi non pochi storici
- anche laici - cominciano a vedere nella sua giusta luce anche
di sopraffazione politica e ideologica.

Nessuno più osa negare che, a partire dai philosophes settecenteschi,
la Chiesa da cui uscì il Sillabo aveva dovuto affrontare il giacobinismo, il bonapartismo e infine il liberalismo virulentemente anticattolico risorgimentale.
Ma lo studio sereno e pacato non potrà non rivelare in esso il grido -
ripetiamo, profetico - di un pastore che dice al suo gregge: state attenti, quel che vi sembra "sol dell'avvenire" si rivelerà puro veleno.

La beatificazione in contemporanea di due papi, Pio IX e Giovanni
XXIII, mostra tangibilmente che la Chiesa è sempre la stessa;
cambia solo il modo di predicare un identico messaggio a uomini
di epoche differenti. Ma è quanto meno singolare osservare quante
voci si sono levate a dichiarare il "gradimento": questo Papa sì,
quello no; ultima - ieri su La Repubblica - quella dello storico
"laico" Lucio Villari. Tanto per cambiare, i più critici sono
quelli a cui le beatificazioni dovrebbero importare meno, visto
che sono dichiaratamente i più distanti dal credo cattolico.

Ma chiunque abbia esperienza di dialogo sa che i difensori
della "tolleranza" diventano virulentemente intolleranti quando
sono i loro dogmi a venir messi in discussione.
La "libertà" deve dunque venire difesa anche da se stessa?
Deve essere tutelata a qualunque costo anche dalle critiche
che essa stessa potrebbe generare?
Ecco un bel paradosso su cui il pensiero cosiddetto laico
potrebbe più utilmente esercitarsi anziché cercare
di insegnare alla Chiesa il suo mestiere.

Di Rino Cammilleri suggeriamo:

L'ultima difesa del Papa Re

Elogio del Sillabo di Pio IX , ed. Piemme
[SM=g1740721]

Ecco profetizzato l'avvento del cosiddetto “pensiero debole”, che nega l'esistenza di qualsiasi verità, riducendo la convivenza civile a semplice convenzionalismo. Gli stessi diritti “civili” vengono determinati dagli interessi temporanei dei diversi gruppi, non dipendendo assolutamente da valori perenni e metastorici. Ciò, secondo lo studioso Marco Invernizzi, produce le contraddizioni insolubili da cui è afflitto il cosiddetto progressismo: sostegno ai diritti dell'individuo ma non a quelli del feto umano, campagne contro l'estinzione di alcune specie animali e contemporaneo favore per l'eutanasia, solidarietà ai comportamenti sessuali contro natura ma non alla famiglia, eccetera.

Secondo Augusto Del Noce tutto è cominciato nel Seicento con Cartesio, per proseguire poi con gli illuministi del secolo successivo. Cominciò perché “si diede valore assoluto alla ragione umana, a quella soltanto”, estromettendo tutta la dimensione trascendente, la metafisica; tutto ciò che, appunto, va “al di là della fisica”. Sui temi a quel punto irrisolvibili (Dio, l'Aldilà, il miracolo) calò il “divieto di fare domande”. Fino al culmine dell'ateismo marxista. A Marx non importava discutere sull'esistenza di Dio: Dio non esiste perché non deve esistere, altrimenti l'uomo ne è dipendente e non può più rifare il mondo a sua immagine e somiglianza. Ma Del Noce andava più in là: “Checchè ne dicano marxisti e liberals di ogni risma che non vogliono riconoscere i parenti imbarazzanti, fascismo e nazismo (pur assai diversi tra loro e non assimilabili affatto tout court) non sono negazioni della modernità; ne sono figli legittimi. Si situano anch'essi tra le ideologie che hanno decretato l'inesistenza o almeno l'irrilevanza di Dio, sono un momento come gli altri della secolarizzazione. Non sono, come hanno cercato di farci credere i “progressisti”, degli errori contro la cultura moderna, sono degli errori dentro quella stessa cultura”. [SM=g1740721]

Nel 1978, quando l'eurocomunismo sembrava cultura egemone, il filosofo pubblicava Il suicidio della rivoluzione, in cui avvertiva fin dalla copertina che “l'esito dell'eurocomunismo non può essere che quello di trasformare il comunismo in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata”. Infatti oggi il comunismo ha assunto l'ideologia più borghese di tutte, quella del “liberalismo di sinistra”, che fa del partito comunista “un partito radicale di massa” e che, in quanto tale, trova il sostegno della grande finanza internazionale. Del Noce: “Persa per strada l'utopia rivoluzionaria, l'essenza di surrogato religioso, è restato al marxismo soltanto il suo aspetto fondamentale, di prodotto dell'illuminismo scientista, del razionalismo che esclude Dio per una scelta previa e obbligata”. Esso “si è rovesciato nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti più salde ed essenziali”. L'esito finale è la caduta di tutti gli ideali e di tutti i valori, il nichilismo, che si cerca di nobilitare cambiandogli nome (“pensiero debole”). Nichilismo nella sua forma più volgare, vera e finale ideologia per le masse: il consumismo, che è per Del Noce “l'alienazione massima, la trasformazione di tutto in merce con un prezzo, e il raggiungimento della massima illibertà, crocifiggendo l'uomo indifeso al desiderio, all'invidia, all'affanno di procurarsi sempre più beni”.

Giovanni Cantoni così sintetizza: “La nota dominante del comunismo “classico” era socio-economica, la “lotta di classe”; quella del neocomunismo è socio-culturale, è il relativismo, che postula l'assenza di valori assoluti, è “pensiero debole” da intronizzare non più attraverso l'egemonia culturale del partito (che sarebbe gramscismo), ma con un political drag dell'arcipelago associazionistico che si raccoglie di volta in volta attorno all'abortismo e all'animalismo, alla deep ecology (ecologia profonda), all'omosessualità, al femminismo, all'antiproibizionismo (prodotti non elencabili perchè in continua emersione). L'opera tende soprattutto a infiltrare i mass media di disvalori”.

Diamo la parola conclusiva al premio Nobel per la letteratura Octavio Paz, secondo il quale, di fronte a tutto ciò, si deve cercare di “riscattare un sentiero abbandonato e che bisogna ripercorrere” per “recuperare la capacità di dire no, di riannodare la critica delle nostre società obese e addormentate, risvegliare le coscienze anestetizzate dalla pubblicità”. Per discendere “nel fondo dell'uomo, là dove è custodito il segreto della risurrezione. Bisogna dissotterrarlo”.


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Vittorio Messori
Syllabus
tratto da: Vittorio Messori, Pensare la storia. Una lettura cattolica
dell'avventura umana Ed. Paoline, Milano 1992, p. 532s.


La storia in generale -e quella della Chiesa in particolare- è ricca di opere, di fatti, di frasi, di personaggi che vengono citati da un autore all'altro, senza che qualcuno si prenda la briga di controllare, di andare alle fonti, di leggere finalmente nell'originale quanto è citato di ennesima mano. Talvolta, qui, ci siamo divertiti a metter al vaglio cose date per scontate dai manuali storici, per scoprire che di "storico" avevano poco o nulla.

Facciamo, questa volta, un rapido "carotaggio" riguardante
il Sillabo, cioè (per dirla con la dizione ufficiale) l'«elenco
comprendente i principali errori dell'età nostra», messo da Pio IX
come appendice all'enciclica "Quanta cura".
Quel documento è del 1864 ma, ancor oggi, è citato con imbarazzo
da non pochi cattolici e con sarcasmo se non orrore dai laici
di ogni obbedienza, come esempio massimo della cecità
oscurantista raggiunto dalla Chiesa dell'Ottocento.

Ma quelle ottanta proposizioni condannate dal Sillabo,
quanti le hanno davvero lette?

Ad esempio, mentre il comunismo si arrende, si vergogna della sua storia, recita il mea culpa, è singolare riprendersi in mano quel Syllabus citato senza conoscerlo e vedere come il quarto paragrafo condanni le seguenti cose: Socialismus, Communismus, Societates Secretae, Societates Biblicae, Societates Clerico-Liberales.

Condanne come quella delle "Società Bibliche" vanno viste sullo
sfondo dello sforzo compiuto in quegli anni sia dal governo di Torino
che dalle potenze protestanti -Gran Bretagna e Germania in primis,
ma anche Stati Uniti- per sradicare il cattolicesimo e far passare
l'Italia alla Riforma protestante, creandovi una Chiesa Nazionale
di Stato: e le "Società Bibliche" erano il braccio organizzativo
e propagandistico di questo sforzo.

Ma ciò che interessa è il fatto che -già in quel 1864- Socialismus
et Communismus sono definiti «pestilenze dell'umanità».
Sino alla fine degli Anni Ottanta del nostro secolo, una simile
definizione suscitava lo sdegno dei cattolici "aperti": quelli che,
ancora nel 1985, coprirono di contumelie il cardinale Ratzinger
perché, nel suo documento sulla Teologia della Liberazione,
aveva definito il comunismo come «vergogna del nostro tempo».
In pochissimi anni il vento è cambiato.
Ecco divenuta di colpo profetica una condanna del 1864,
ben 135 anni prima che i popoli prigionieri di quella "pestilenza"
riuscissero a liberarsi dalle catene.

Ma, continuando nella lettura di quel Syllabus rimosso
e demonizzato, quante lacrime e sangue sarebbero stati
risparmiati a intere generazioni successive, se si fosse presa
sul serio la proposizione condannata al numero 39:
«Lo Stato, come origine e fonte di tutti i diritti, gode
di un diritto tale che non ammette confini»?
Qui c'è già la premonizione, davvero profetica, del totalitarismo
statuale. Qui c'è il mettere in guardia contro quello "Stato etico"
moderno che diverrà il terribile Grande Fratello.
Peschiamo ancora qua e là tra le ottanta proposizioni.
Vediamo, ad esempio, quella condannata al numero 64.
Dice: «Tanto la violazione di qualsiasi santissimo giuramento,
quanto qualunque scellerata e criminosa azione ripugnante
alla legge eterna, non solamente non è da condannare, ma sibbene
torna lecita del tutto, e degna di essere celebrata con somme lodi,
quando lo si faccia per l'amore di patria».

Tutto l'Ottocento e poi, ancor più sanguinosamente, il Novecento,
saranno devastati da un patriottismo che, degenerando in nazionalismo,
è all'origine di entrambe le guerre mondiali.
Qui, tra l'altro, ad «amor di patria» basta sostituire «amor di classe» o di «partito», o di bandiera ideologica quale essa sia, per vedere quanto fosse acuta la vista di una Chiesa considerata tagliata
fuori ormai dalla storia. È in nome di quegli "amori" sanguinosi
che si dipana la tragedia contemporanea, dalle guerre europee
sino alle pistole dei terroristi, passando attraverso gli orrori
delle ideologie per cui il trionfo della "causa" giustifica ogni mezzo.




[SM=g1740739] [SM=g1740739] [SM=g1740739]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)