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Tratto dal libro: RITRATTI DI SANTI

di Antonio Sicari ed. Jaca Book

 

Si era a pochi giorni dopo il terremoto (del 1915, nella Marsica, in Abruzzo). La maggior parte dei morti giaceva ancora sotto le macerie. I soccorsi stentavano a mettersi in opera. Gli atterriti superstiti vivevano nelle vicinanze delle case distrutte in rifugi provvisori. Si era in pieno inverno, quell'anno particolarmente freddo. Nuove scosse di terremoto e burrasche di neve ci minacciavano (...).

Durante certe notti gli urli delle belve non ti lasciavano prendere sonno (...). Una di quelle mattine grigie e gelide, dopo una notte insonne, assistei ad una scena assai strana. Un piccolo prete sporco e malandato, con la barba di una decina di giorni', si aggirava tra le macerie attorniato da una schiera di bambini e ragazzi rimasti senza famiglia. Invano il piccolo prete chiedeva se ci fosse un qualsiasi mezzo di trasporto per portare quei ragazzi a Roma. La ferrovia era stata interrotta dal terremoto, altri veicoli non vi erano per un viaggio così lungo.

In quel mentre arrivarono e si fermarono cinque o sei automobili.

Era il re (Vittorio Emanuele III) col suo seguito che visitava i comuni devastati. Appena gli illustri personaggi scesero dalle loro macchine e si allontanarono, il piccolo prete, senza chiedere il permesso, cominciò a caricare sopra una di esse i bambini da lui raccolti. Ma, com'era prevedibile, i carabinieri rimasti a custodirle vi si opposero, e poiché il prete insisteva, ne nacque una vivace colluttazione al punto da richiamare l'attenzione dello stesso Sovrano.

Per nulla intimorito, il prete si fece allora avanti e, col capello in mano, chiese al re di lasciargli per un po' di tempo la libera disposizione di quelle macchine in modo da poter trasportare gli orfani a Roma, o almeno alla stazione più prossima ancora in attività. Date le circostanze, il re non poteva non acconsentire.

Assieme ad altri, anch'io osservai con sorpresa e ammirazione tutta la scena. Appena il prete, col suo carico di ragazzi, si fu allontanato, chiesi attorno a me: "Chi è quell'uomo straordinario?". Un vecchio, che gli aveva affidato il suo nipotino, mi rispose: "Un certo don Orione, un prete piuttosto strano".

Così lo scrittore Ignazio Silone ha raccontato in "Uscita di sicurezza" il suo primo incontro con don Orione, avvenuto quando egli, appena quindicenne, perse casa e famiglia proprio durante quel terribile terremoto di cui parliamo.

Allora, nel 1915, quello strano prete era già il fondatore amato e rispettato di un istituto religioso che si occupava dei poveri d'ogni specie. Tuttavia era accorso subito personalmente, tra le montagne dell'Appennino, a cercare gli orfani sperduti tra i casolari.

A volte doveva contendere ai lupi quei poveri orfanelli seminudi che cercava portando con sé vestitini, biscotti e gianduiotti, restandosene per giorni e giorni tutto inzuppato d'acqua, a percorrere instancabilmente sentieri pieni di neve, per raggiungere paesini diroccati sui loro monti.

"Oh, questi cagnacci non la vogliono proprio smettere.. .", spiegava ai bambini raccolti su un camioncino di fortuna che si era arrampicato sul Monte Bove, fino a 1.300 metri, ma erano proprio lupi che saltavano attorno, cercando di azzannare i piccini terrorizzati

Sembrava una scena da favola, da raccontare attorno al fuoco. Era, invece, la tragica realtà: per salvare decine di bambini don Orione si sfiniva nel digiuno, nel freddo, nella disumana fatica, fino a che cadde esausto.

Quando giunsero altri collaboratoti del suo stesso istituto, lo trovarono febbricitante da far pena. Egli si affidò alle loro cure mormorando: "In questi giorni se ne sono andati due anni della mia vita".

Un altro celebre studioso del tempo, il barone Von Hùgel, ebbe l'occasione di ascoltare il racconto di queste imprese dalla bocca della sua stessa figlia che era stata testimone oculare. A conclusione dei suoi Essays and Addresses on the Philosophy and Religion (Saggi di filosofia religiosa) ricordò l'esperienza della figlia ormai defunta.

Scrisse: "Quando la mia figlia maggiore, circa otto mesi prima della sua morte, poté da Roma giungere al centro della terribile devastazione, proprio allora causata da un terremoto eccezionalmente violento, un contrasto impressionante venne a colpire d'un tratto il suo spirito.

Nel mezzo della morte e del disordine si muoveva, completamente assorto nella sventura di quei poveri, don Orione, un umile prete, un uomo cui molti guardavano già come a un santo, sorto dagli umili e dai poveri, per gli umili e per i poveri.

Egli portava due bimbi, uno su ciascun braccio, e ovunque andasse recava ordine, speranza e fede in mezzo a tutto quello scompiglio e quella disperazione.

Mia figlia mi disse che ciò faceva sentire a tutti che l'Amore era proprio in fondo a tutte le cose, un Amore che appunto là, per quei luoghi, si manifestava attraverso il completo, affettuoso dono di sé, di quell'umile prete...".

In verità don Orione aveva già una lunga esperienza di come portare amore in tali sciagure,

Appena sette anni prima, un altro terribile terremoto aveva raso al suolo in pochi istanti le città di Messina e di Villa San Giovanni. Solo nella cittadina siciliana, su 150.000 abitanti, ne erano morti 80.000.

Già allora egli era stato in prima linea, organizzando i soccorsi, installando il suo primo quartier generale a Reggio Calabria, in un vagone abbandonato sui binari morti della ferrovia.

Ma ben presto dalle sue mani era passata tutta la rete dei soccorsi ed era lui che coordinava gli aiuti che provenivano dal Papa e dalla casa reale.

Lavorò al punto che Pio X decise di nominarlo temporaneamente lui, un piccolo prete piemontese, superiore di una Congregazione religiosa appena formata! Vicario Generale della diocesi di Messina. Abitò di conseguenza, per due anni nella curia arcivescovile di quella città disastrata.

Non era un tipo da compromessi ed era costretto ad operare in una regione dove gli accomodamenti erano continuamente sollecitati e richiesti. Non mancarono perciò croci, vessazioni e tentativi di infamarlo.

Ma don Orione non era il tipo da cedere. Sullo stemma di un vescovo aveva letto un giorno l'antico e ambizioso motto desunto dalle odi del poeta latino Orazio "Frangar nec flectar" ("Anche se spezzato non mi lascerò piegare!"). Aveva commentato: "io non mi lascerò nè spezzare ne piegare!".

Pio X, che gli aveva affidato quell'incarico oneroso, da Roma gli mandava accorati messaggi: "Portate a don Orione la mia benedizione e ditegli che abbia pazienza, pazienza, pazienza, e che con la pazienza si fanno i miracoli".

I miracoli di don Orione erano intanto gli orfanotrofi che riusciva ad aprire sia in Calabria che in Sicilia.

Ma è tempo di riandare alle origini di quella avventura. Colui che fu definito "padre degli orfani e dei poveri" nacque a Pontecurone, vicino ad Alessandria, nel 1872, da una famiglia molto umile che abitava in una casetta rustica, aggrappata alla villa di Urbano Rattazzi, allora celebre statista.

Il papà faceva il selciatore di strade e si vantava di essere "garibaldino" e anche un po' anticlericale; la mamma guadagnava qualche soldo al tempo della mietitura quando, alle tre del mattino, partiva per andare a spigolare sui campi, portando il piccolo Luigi avvolto nello scialle.

Era l'ultimo di quattro figli e i vestitini gli arrivavano quando già gli altri tre fratelli li avevano ben consumati. Era, però, una povertà onesta.

"Quella povera vecchia contadina di mia madre, racconterà poi don Orione, si alzava alle tre di notte e via a lavorare, e pareva sempre un fuso che andasse, sempre s'industriava, faceva da donna e, con i suoi figli, sapeva fare anche da uomo, perché nostro padre era lontano a lavorate nei Monferrato.

Batteva il falcetto per fare l'erba e lo batteva lei, senza portarlo all'arrotino, faceva la tela con canapa filata da lei, e i miei fratelli si divisero tante lenzuola, tanta bella biancheria, povera mia madre... Quando è morta, le abbiamo ancora messo il suo vestito da sposa, dopo cinquantuno anni che era sposata; se l'era fatto tingere in nero e faceva ancora la sua bella figura, ed era il suo vestito più bello. Vedete, cari figli miei, come facevano i nostri santi e amati vecchi?".

Ma la mamma era soprattutto profondamente credente e don Orione ricorderà sempre con commozione non solo che ella andava spesso a ricevere l'Eucaristia, ma che al ritorno diceva sempre ai figlioli:

"Ho pregato prima per voi e poi per me. Ho ricevuto il Signore per voi e per me". Al piccolo Luigi sembrava quasi che la mamma si levasse il pane di bocca per darlo a lui, perfino quando faceva la Comunione!

Ricorderà ancora:

"Mia madre, anche quando io e i miei fratelli eravamo già grandi, ci fissava il posto in chiesa; "Perché vi voglio vedere...". Voleva sapere dove si era in chiesa, e voleva sentire anche la nostra voce pregare...".

"Mia madre ci faceva dire le preghiere seduti, solo quando eravamo malati...".

Sono bozzetti d'altri tempi, e tuttavia ci fanno respirare il clima di umiltà, di forza e di fede, da cui Luigi trasse quella incredibile resistenza alla fatica che doveva poi caratterizzarlo, e quella passione "cristiana" per i poveri che non l'avrebbe mai abbandonato.

Quando, al termine della sua vita, lo costringeranno ad andare in un pensionato per convalescenti a San Remo dopo vari attacchi al cuore, e dopo che aveva già ricevuto gli ultimi sacramenti, si lamenterà: "Non è tra le palme che io voglio vivere e morire, ma tra i poveri che sono Gesù Cristo".

Per molti cristiani, questo amore "ai poveri che sono Gesù Cristo" nasce tardi, come maturazione della fede adulta e non senza fatica. Per lui cominciò naturalmente, come attaccamento mai dimenticato, stima e venerazione, verso quei poveri cristiani che erano papà, mamma e i suoi fratelli. Egli stesso, del resto, dai dieci ai tredici anni aveva aiutato il papà a selciare le strade e trascinare carriole, vagando lontano da casa.

Sognava già allora di entrare tra i francescani, perché li considerava i frati del popolo e degli umili che volevano aiutare e soccorrere.

Ci provò infatti, a tredici anni, ma una brutta polmonite lo costrinse a tornare in famiglia.

Riuscirono poi a trovargli un posto nel collegio di quel prete torinese che tutti ormai consideravano l'apostolo della gioventù abbandonata. Mi riferisco a don Bosco al quale, alla fine del 1886, restava poco più di un anno di vita.

Quando giunse il piccolo Orione chiese un permesso speciale per potersi confessare da don Bosco che di solito si dedicava ai ragazzi più grandi, dalla quarta ginnasiale in su.

Per essere sicuro di fare una buona e completa confessione, aveva consultato alcuni formulari di "esame di coscienza" e li aveva trascritti quasi integralmente. Solo alla domanda: "Hai ammazzato?", aveva risposto negativamente. Gli altri peccati li aveva copiati tutti, riempiendo alcuni quadernetti.

Ma vale la pena ascoltare il racconto dalla sua stessa bocca;

"Con una mano nella tasca dei quaderni e l'altra al petto, aspettavo in ginocchio, tremando, il mio turno. "Che cosa dirà don Bosco pensavo tra me, quando gli leggerò tutta questa roba?". Venne il mio turno. Don Bosco mi guardò un istante e senza che io aprissi bocca, tendendo la mano disse: "Dammi dunque questi tuoi peccati". Gli allungai il quaderno, tirato su accartocciato dal fondo della tasca. Lo prese e senza neppure aprirlo lo lacerò. "Dammi gli altri". Subirono la stessa sorte. Ed ora, concluse, la tua confessione è fatta, non pensare mai più a quanto hai scritto e non voltarti più indietro a contemplare il passato". E mi sorrise, come solo lui sapeva sorridere".

Per delineare la personalità di san Giovanni Bosco e la genialità del suo metodo pedagogico, un episodio simile vale più di tanti volumi.