00 21/12/2009 23:23
Molto interessante questa intervista al cardinale Godfried Danneels

che riporto da 30GIORNI

Una Chiesa senza bambini non è la Chiesa di Gesù

Il Natale e il battesimo dei bambini. Paolo VI e Benedetto XVI. Agostino e Damiano di Molokai. Intervista a tutto campo con il cardinale Godfried Danneels, primate del Belgio. Mentre sta per finire la sua lunga stagione alla guida dell’arcidiocesi di Mechelen-Brussel
 

Intervista con il cardinale Godfried Danneels di Gianni Valente


      Pioviggina un po’ e tira un po’ di vento a Malines, mentre anche nei negozi gli addobbi e le luci annunciano il Natale che già arriva. Oltre il portone dell’arcivescovado regna il solito laborioso, monastico silenzio. Così, facendo le cose di sempre, il cardinale Godfried Danneels attende la festa che – come ripete spesso – lo commuove di più, fin da quando era bambino. Perfino il suo motto episcopale, tratto da un versetto della Lettera di Paolo a Tito, vibra dello stupore davanti alla mangiatoia: Apparuit humanitas Dei nostri. È apparsa l’umanità del nostro Dio. Quest’anno, poi, sarà l’ultima volta che attende il Natale come arcivescovo di Malines-Bruxelles, Mechelen-Brussel nella lingua fiamminga, e primate della Chiesa belga. Niente bilanci, per carità. Ma qualche domanda su come vede le cose, da questo punto particolare del suo cammino, la si potrà pur fare.
 
      Eminenza, siamo in Avvento. La Chiesa lo celebra come un “tempo forte”. Cos’ha di diverso dagli altri?

      GODFRIED DANNEELS: L’Avvento per noi è un tempo un po’ speciale. Siamo sempre occupati a fare tante cose da noi stessi, a fare sforzi per essere all’altezza, per dimostrare la nostra competenza. Arriva l’Avvento, ed è il tempo della grazia. Il tempo in cui ci si può accorgere che le cose vengono da Dio, che la salvezza viene a visitarci, viene da fuori di noi, perché non è già a disposizione dei nostri tentativi e delle opere umane. Siamo disabituati a pensare a questo. Poi c’è un’altra cosa, che per me è la stessa cosa: l’Avvento è il tempo della speranza. Mi ha sempre colpito che durante l’Avvento mettiamo nelle case degli abeti che sono alberi sempreverdi, che passano l’inverno senza spogliarsi delle loro foglie, mentre la natura dorme. Come la speranza di Israele, che attende per secoli e secoli che accada la venuta di Dio. Quel lungo tempo di pazienza che ha custodito la promessa del Signore. Lui viene presto. Non lo vediamo adesso, ma a Natale lo vedremo.

      Per lei soprattutto si tratta di un Avvento particolare. Attende anche di terminare il suo tempo come arcivescovo di Mechelen-Brussel. Come è arrivato fin qui?

      DANNEELS: Non lo so. Tutte le cose importanti nella mia vita sono capitate. Non le ho prodotte io. Anche la mia vocazione non è stata una scelta, l’ho trovata in me, non l’ho creata io. Dopo gli studi secondari sarei dovuto andare al seminario di Bruges, e invece sono andato a Lovanio, perché quell’anno, per la prima volta, il vescovo aveva deciso di mandare subito all’università quelli che avevano finito la scuola superiore. Dopo l’università sarei dovuto tornare a Bruges, al seminario maggiore, e invece sono stato mandato a studiare a Roma. Anche quello era imprevisto. Poi, tornato a Bruges, mi sono trovato a essere il direttore spirituale degli studenti. Avevo ventisei anni. C’erano studenti più grandi di me. Per combinazione, tante cose importanti mi sono capitate proprio nel mese di dicembre. Sono stato consacrato vescovo di Anversa il 18 dicembre 1977. Due anni dopo, sempre a dicembre, sono venuto da Anversa alla sede primaziale di Mechelen-Brussel. E adesso, probabilmente, sarà ancora a dicembre che cambierò posto.

      Lei, come arcivescovo, è rimasto trent’anni nello stesso posto. Di questi tempi sembra un record. Avrebbe accettato di cambiare ancora, magari di venire a Roma, come hanno fatto anche di recente tanti arcivescovi di diocesi importanti?

      DANNEELS: Se il Papa chiede qualcosa, la si fa. Questo non è un problema. Ma penso che la stabilità, in una diocesi, è molto importante. Cambiare sede ogni cinque o dieci anni, lo fanno un po’ in Francia: diventano vescovi in una piccola diocesi, poi in una più grande, poi in una ancora più grande… Per carità, è successo anche a me. Ma penso che stare in un posto per un tempo lungo sia importante. Essere rimasto solo due anni ad Anversa è stato un po’ frustrante. Per me, e anche per i fedeli di quella diocesi.

      Lei proprio quest’anno ha avuto modo di celebrare i 450 anni dalla fondazione della sua diocesi. Così la sua vicenda personale di arcivescovo ha avuto modo di incrociare i tempi lunghi della vita della Chiesa. Nei suoi discorsi, all’inizio delle celebrazioni giubilari, ha anche valorizzato la scelta del Concilio di Trento di istituire diocesi più piccole.

      DANNEELS: Dal Concilio di Trento in poi c’è stata la scelta di diminuire l’estensione delle diocesi e fare diocesi più piccole, per favorire la prossimità. La mia arcidiocesi ancora adesso è abbastanza grande, ma prima lo era ancora di più: anche Anversa faceva parte di Malines-Bruxelles. Mi sembra importante, soprattutto adesso, nelle circostanze attuali, in cui la Tradizione sembra dissiparsi. Il pastore deve conoscere un po’ il suo gregge.

      Lei, di questa prossimità, quale esperienza ha avuto?

      DANNEELS: I momenti più importanti sono sempre stati quelli vissuti andando il sabato sera e la domenica mattina in parrocchia, dove la gente va alla messa, per celebrare la liturgia eucaristica con loro, impartire le cresime, e poi rimanere lì a parlare per un’oretta. L’ho fatto per trent’anni. Per me è stata la cosa più confortante. Così ho sperimentato la comunione del vescovo con la sua Chiesa. Si prega insieme, c’è la liturgia, l’omelia, si celebrano i sacramenti. In questa realtà ordinaria della vita delle parrocchie, dove la Chiesa si raggiunge facilmente, fa parte del vicinato, e non bisogna fare percorsi complicati per raggiungerla e prender parte alla vita di fede. Dove magari vai e non trovi “truppe scelte”, persone dotte e sottili ragionatori, ma solo anziani, donne e bambini, qualche poveretto. Come accadeva già a san Paolo, che scrive ai cristiani di Corinto: tra di voi non ci sono molti sapienti secondo la carne, molti potenti, molti nobili. Ma è stato Dio stesso a scegliere i piccoli e i poveri, perché «nessun uomo possa gloriarsi» davanti a Lui. Per questo è il popolo che col suo sensus fidelium porta la Chiesa, e non il clero.
 
      Questa prossimità ordinaria, questa raggiungibilità della Chiesa, tanti la sperimentano quando vanno a chiedere il battesimo per i propri figli piccoli. Lei, di recente, ha spiegato che in questa pratica non è in gioco solo il rispetto delle consuetudini.
 
      DANNEELS: Quando Tertulliano ha detto a un certo punto della sua vita che non si sarebbero più battezzati i bambini, che chi voleva il battesimo doveva aspettare di diventare adulto, Roma ha risposto: no, perché è stato Gesù stesso a dire agli apostoli: «Lasciate che i piccoli vengano a me». L’argomento fondamentale a favore del battesimo dei bambini è che lo chiede Gesù stesso. Mi pare importantissimo. La presenza dei bambini battezzati nella Chiesa è una ricchezza che non possiamo mai dimenticare. È una grazia e un privilegio immenso, quello di vivere già dalla prima infanzia in un’atmosfera di preghiera, ma anche di culto, partecipando alla messa. Io ho ancora con me la memoria di quando avevo tre, quattro, cinque anni, prima della prima comunione, e andavo in chiesa coi miei genitori e vedevo tutta questa gente che pregava e cantava. C’è una corrente protestante, quella dei rimostranti, dove non c’è il battesimo dei bambini. Ho sentito un bravo pastore di questa comunità lamentarsi del fatto che la chiesa era vuota di bambini, e c’erano solo gli adulti. Lui diceva: è un’altra cosa. Non è la stessa cosa. Una Chiesa senza bambini non è la Chiesa di Gesù.

      Invece alcuni dicono che battezzare i bambini non serve, perché in loro non c’è ancora la consapevolezza. Lei che ne dice?

      DANNEELS: Il battesimo dei piccoli mostra fino a che punto la Chiesa crede che il venire alla fede è l’opera di Cristo in noi. E nello stesso tempo manifesta che la Chiesa è il luogo dove i piccoli e i poveri hanno il primo posto. La Chiesa non è un’assemblea di perfetti, tutti consapevoli e autonomi. Non è una riserva d’élite. Spesso noi crediamo che l’opera di Dio in noi si misuri in base al grado di consapevolezza che ne abbiamo: quanto più noi saremo consapevoli, tanto più la grazia potrà impregnarci. Ma non è così che funziona. Il lavoro della grazia non si manifesta in una presa di coscienza psicologica. La grazia precede la coscienza, e non ne è condizionata. Dio ama la sua creatura così com’è, cosciente o meno. Lui sa come lavorare le anime, anche quelle di chi non ne è consapevole. Quella del bebè come quella del moribondo o del malato terminale che ha perso coscienza. Solo la volontà malvagia prova a fare resistenza alla grazia. Non l’incoscienza innocente. E poi, chi può resistere alla mano di Dio, quando Lui ci vuole attirare a sé? Paolo, con tutta la sua volontà negativa, non è riuscito a resistere, alle porte di Damasco.

      Eppure molti dicono che, vista la crisi di fede del nostro tempo, sarebbe meglio serrare i ranghi. Che le richieste di battesimo e degli altri sacramenti vanno vagliate ed è meglio respingere chi non è idoneo e non s’impegna.

      DANNEELS: Questa posizione mi fa sempre venire in mente l’episodio biblico di Naaman, il capo dell’esercito del re di Siria, malato di lebbra, che va dal profeta Eliseo per chiedergli la guarigione. Il profeta gli manda a dire di immergersi sette volte nelle acque del fiume Giordano, se vuole essere guarito. E allora lui si infuria: gli sembra ridicolo che per lui, così potente, venuto dalla Siria per vedere il profeta, tutto si risolva con un bagno nel fiume. Alla fine viene convinto dai suoi servi, si getta sette volte nel Giordano e ne esce guarito. Allora ritorna da Eliseo per ricompensarlo con del denaro: vuole pagare in qualche modo la sua salvezza. Ma il profeta rifiuta i suoi soldi: la grazia di Dio è offerta gratuitamente a tutti. Per me Naaman è l’immagine di tutti quelli che non riescono ad accettare che la grazia sia così semplice.

 
      Torniamo a lei. Per quel che la conosco, non farà chissà quali bilanci e rendiconti.

      DANNEELS: Se paragono la situazione di adesso a quella di quando ero ragazzo, tante cose sono cambiate. Allora c’era ancora un cattolicesimo sociologico, dove si era cristiani per tradizione, quasi si può dire che si nascesse cristiani. Adesso non è più così. La fede è diventata spesso un fatto personale, a volte personalistico. Io non dico niente di male di quel cristianesimo come tradizione di famiglia, perché come ho già detto sono molto riconoscente verso i miei genitori, dei quali ho conosciuto la fede che ero piccolino. È un vantaggio. Ma questo è quello che capita, e bisogna starci. Attraversando tempi in cui tutto sembra cambiare, il Signore ha continuato a starmi vicino. E quando le cose cambiano come sono cambiate in questo tempo, diventa più evidente che si può sperare solo in Lui. Ho dedicato la mia ultima lettera pastorale proprio alla differenza tra quel tempo e il tempo presente. Il titolo della lettera è La petite fille Espérance. Quella di cui parla Charles Péguy. La speranza come una piccola bambina, che avanza tra le due sorelle grandi, la fede e la carità. Il popolo cristiano crede che siano le grandi a portare per mano la piccola. E invece è lei che tira le altre due.

      Secondo lei qual è adesso il più grande ostacolo all’annuncio del Vangelo? L’ostilità del mondo scristianizzato? L’egoismo dei singoli? Il laicismo?

      DANNEELS: L’ostacolo più grande non è la resistenza della società, o l’ostilità del mondo. Il mondo è sempre stato lì. La resistenza più grande è la mancanza di confidenza di chi vuole evangelizzare e non ha fiducia nella forza propria della Parola di Dio. Ai discepoli che erano disperati per le difficoltà che incontravano, Gesù racconta le tre parabole presenti nel Vangelo di Marco: quelle sul seminatore, sul seme che germoglia da solo, sul granello di senape. Così cerca di far capire loro come vanno le cose. I germogli non fioriscono perché si mette più abbondanza di semi nella terra, o in virtù dell’impegno di chi semina. Il seme è forte e porta frutto da sé stesso.
 
      In una delle parabole che ha citato si parla dell’uomo che dopo aver seminato va a dormire tranquillo, perché «che dorma o vegli, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa». Tante volte anche lei è stato criticato per non essere salito sulle barricate, in nome dei valori cristiani. O per non aver riempito i suoi preti e i suoi fedeli di istruzioni e direttive. È solo questione di carattere?
 
      DANNEELS: Certo, il mio temperamento c’entra qualcosa. Ma anche nella Bibbia c’è scritto che il servo di Dio non levava la voce nelle strade. Di questo non parlano mai, non lo ricordano mai. Io sono convinto della forza silenziosa, misteriosa della Parola di Dio. Non è che non si deve far niente. Io ho lavorato dalla mattina alla sera. Ma non ho gridato. Per gridare ci sono gli urlatori. Io non lo sono. E poi c’è il metodo di Paolo, che comincia a profetizzare nelle piazze. E va bene. Ma c’è anche il metodo di Maria. Che è come quello della stufa, che senza dire niente riscalda tutti quelli che le sono intorno.


continua..............

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)