La Santa Sede cercherà lo stesso una via d’uscita e proporrà probabilmente un ordinariato personale (o qualcosa di simile). A quel punto la Fraternità dovrà scegliere e non ci saranno che due alternative: entrambe tuttavia migliori della terza, l’equivoco continuo.
Nel primo caso accetterà lo statuto canonico che le sarà proposto. In tal caso, senza rinnegare le giuste battaglie condotte nel passato dovrà realmente lasciare certa psicologia sedevacantista o gallicana, con le sue tendenze da “pétite église”. Dovrà anche entrare in un ordine d’idee per cui i vescovi diocesani non sono sistematicamente da trattarsi con disprezzo, quasi fossero automaticamente dei nemici della Chiesa solo perché dicono la Messa di Paolo VI. Purtroppo gli ultimi eventi di Francia, con le sconcertanti dichiarazioni dei più autorevoli superiori della Fraternità
(http://disputationes-theologicae.blogspot.com/2011/01/posizioni-contraddittorie-ed-ambigue.html), lasciano credere che sia già troppo tardi per sperare un cambiamento di toni. In ogni caso una tale scelta sarebbe in fin dei conti un accordo pratico, o “canonico” se si preferisce, ma nel punto a cui si è giunti e a forza di tirare la corda in tutti i sensi, esso è divenuto oggi ben più problematico rispetto a qualche anno fa.
Nell’altro caso la Fraternità rifiuterà le proposte del Pontefice, in questo caso si troverà una spiegazione ideale e si parlerà dell’impossibilità di trovare un accordo dottrinale sui testi del Concilio. Mons. Fellay dovrebbe però, per dovere di giustizia e per amor di verità, assumersi la responsabilità delle sue scelte e riconoscere che quell’accordo dottrinale - che all’epoca Roma non gli aveva chiesto - è fallito: e che proprio a causa di quelle esose richieste la situazione si è fatta oggi più complicata di ieri. Tuttavia anche questa scelta avrebbe un lato positivo, quello di finirla con le ambiguità e la doppiezza di linguaggio. Sarebbe la posizione più coerente con le ultime prese di posizione all’interno della Fraternità, che dopo l’annuncio d’Assisi III, la beatificazione di Giovanni Paolo II e le dichiarazioni del Papa sul profilattico, gridano allo scandalo e affermano che la conversione richiesta a Roma non si è avuta.
Lo stato di cose ne uscirebbe chiarito : chi vorrà restare “romano” saprà finalmente cosa dovrà fare e, pur dolorosamente, non gli resterà altro che lasciare la Fraternità al vortice impazzito degli “zelanti”. Roma dirà che la Fraternità ha abbandonato definitivamente la Chiesa e già in questi giorni a Roma si riparla di grave attitudine scismatica. Ma lamentarsi dello scisma non sarà facile, quando di fatto si è resa non universalmente possibile, sicura e serena quell’esperienza della Tradizione, che non si è voluto tentare sul serio con gli organismi già esistenti. La debolezza di Roma è diventata cronica, tanto che una norma applicativa sul Motu Proprio, che doveva uscire nel gennaio 2008, forse prenderà il volo nella primavera 2011. Al tempo stesso ci si getta in faraonici progetti d’accordo con l’ “ala dura” della Fraternità, quando non si è nemmeno capaci di difendere chi l’accordo canonico l’ha già fatto. Quando si lascia cacciare da una diocesi un istituto tradizionale, riconosciuto canonicamente, solo perché ha osato insegnare un po’ di catechismo a qualche bambino, quando il “piano pastorale diocesano” preferisce affidare incarichi parrocchiali ad un gruppo di laici piuttosto che ad un prete con la tonaca perché “sarebbe assimilato ai lefebvriani”, quando capita ripetutamente che gli organizzatori della Messa gregoriana subiscano continue minacce e pressioni e si sentano costretti a dire cose che in coscienza non pensano, per potere ottenere (o per paura di perdere) l’instabile “concessione” - nel silenzio generale - è quantomeno difficile spiegare a quei genitori, a quei seminaristi e anche a quei preti che è meglio abbandonare la posizione, per certi versi confortevole e facile, rappresentata dalla Fraternità San Pio X.
Adesso sta a Roma prendere l’iniziativa e sta a Roma di non lasciarsi imporre una “pratica” linea d’azione da Mons. Fellay. Non si chiede la luna, si chiede di poter fare seriamente, ovunque e con tranquilla sicurezza, quella che Mons. Lefebvre chiamava “l’esperienza della Tradizione”.
Che Roma dia almeno questa possibilità a chi già vuol farla sotto l’Autorità del Papa! Chi vuol combattere per il bene della Chiesa sia il benvenuto, se la Fraternità vuol esserci sappia che tutti l’attendono. Altrimenti sappia che il Vicario di Cristo ha gli strumenti che il Divino Fondatore gli ha dato per “salvare la Chiesa” nella crisi che essa attraversa. Non ha bisogno, per risollevare le sorti della “barca che prende acqua da tutte le parti”, di chi si crede indispensabile. Pur nel doveroso ossequio al primato della verità, è pur sempre la Chiesa che ci salva e non siamo noi, per quanto inflessibili e puri possiamo essere, a salvare la Chiesa.