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DIFENDERE LA VERA FEDE

La Santa Messa, la Celebrazione, l'Altare: RIPORTIAMO IL CROCEFISSO SULL'ALTARE

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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 14/12/2008 22:05
    Ma che cosa è per noi l'ALTARE?
    Che significato ha la sua posizione, e perchè il sacerdote si china a baciarlo?

    Perchè siamo invitati a riunirci "attorno all'altare" ?
    potrete leggere un bellissimo testo...e poichè è un pò lungo, inserirò solo alcune parti, ma voi appena potete, leggetelo nel suo contesto......

    Quando, una volta oltrepassata la soglia, si penetra nelle cattedrali o anche nelle chiese più modeste delle grandi epoche, si resta come affascinati e invasi da questa «sobria ebbrezza» di cui ci parlano i mistici cistercensi. Il tempio agisce come un incantesimo, perché vi si sente pulsare un'anima armoniosa il cui ritmo, venendoci incontro, prolunga, oltrepassa e sublima il nostro proprio ritmo di viventi e lo stesso ritmo del mondo ove si immerge. Questa «magia» proviene dall'esistenza di un centro da cui si irradiano delle linee che generano, seguendo la divina proporzione, delle forme, delle superfici, dei volumi in espansione fino a un limite sapientemente calcolato che li arresta, li riflette e li rimanda verso il punto da cui sprigionano; e questa doppia corrente costituisce in qualche modo la «respirazione» sottile di tale organismo di pietra che si dilata verso l' esterno per riempire lo spazio e poi si raccoglie nella sua origine, nel suo cuore, che è interiorità pura.
    Questo centro da cui tutto si sprigiona e verso cui tutto converge è l'Altare. L'altare è l'oggetto più sacro del tempio, la ragione della sua esistenza e la sua stessa essenza, perché in caso di necessità si può celebrare la divina liturgia fuori dalla chiesa, ma è assolutamente impossibile fare questo senza un altare di pietra.


       lntroibo ad altare Dei..., «Verrò all'altare di Dio»
    1: il versetto del salmista che apre la messa ci pone, sin dall'inizio della santa funzione, di fronte a questo prestigioso oggetto del culto. L'altare è la tavola, la pietra del sacrificio, quel sacrificio che costituisce - per l'umanità caduta - il solo mezzo di prendere contatto con Dio. L'altare è il luogo di questo contatto: attraverso l'altare Dio viene verso di noi e noi andiamo a Lui. Esso è l'oggetto più santo del tempio, perché lo si riverisce, lo si bacia e lo si incensa. È un centro di raggruppamento, il centro dell'assemblea cristiana; e a questo raggruppamento esteriore corrisponde un raggruppamento interiore delle anime e dell'anima, il cui strumento è il simbolo stesso della pietra 2, uno dei più profondi - come l'albero, l'acqua e il fuoco - che raggiunge e tocca nell'uomo qualcosa di primordiale.

    " * *

       L'altare cristiano è il successore e la sintesi degli altari ebrei e la sua sublimità deriva dalla sua conformazione al suo archetipo celeste, l' Altare della Gerusalemme celeste in cui giace «fin dalla fondazione del mondo [...] l'Agnello immolato» 3.

      Ad esempio, vi è un rapporto sorprendente fra l'altare di Mosè e il nostro altare. Mosè costruisce un altare ai piedi del Sinai, offre il sacrificio e fa due metà con il sangue: una è data al Signore (più esattamente: è versata sull'altare che Lo rappresenta) e l'altra la asperge sul popolo; così è sigillato il patto fra il Signore e il Suo popolo, la Prima Alleanza (Es 24, 4-8). Nello stesso modo, sull'altare cristiano il sangue della Nuova Alleanza è versato, offerto al Signore e poi distribuito al popolo, sigillando così la riconciliazione del peccatore con Dio.

       Nel Tempio di Gerusalemme vi erano diversi altari. Nello spazio fra il sagrato e il «Santo» si erigeva l'altare propriamente detto, chiamato altare degli olocausti, su cui ogni giorno si offriva il sacrificio dell'agnello. Nel «Santo», con il candelabro a sette braccia, erano installati l'altare dei profumi e la tavola dei «pani della faccia» , cioè dell'offerta ( questi pani, in numero di dodici, erano rinnovati ogni shabbat); infine, nel «Santo dei santi» non c'erano altari nel vero senso della parola, ma una pietra particolarmente sacra - la pietra shethiyah - sulla quale era appoggiata l'arca e di cui riparleremo lungamente 4.


       Nel tempio cristiano, che sostituisce quello di Gerusalemme, l'altare maggiore è la sintesi di questi differenti altari. Esso è l'altare degli 0locausti dove è sacrificato l'«Agnello di Dio» e nello stesso tempo la tavola dei pani dell'offerta, cioè del pane eucaristico; esso è l'altare dei profumi in cui si brucia l'incenso, come emerge chiaramente dal rituale romano. Infatti, quando un vescovo consacra l'altare, egli accende l'incenso sui cinque solchi incisi al centro e agli angoli della pietra, mentre si canta l'antifona: «Dalla mano dell'Angelo, il fumo dei profumi sale verso il Signore » .


       Infine, dal momento che sostiene il tabernacolo, l'altare maggiore ricopre il ruolo della pietra shethiyah che sosteneva l' Arca. Il termine «tabernacolo», che significa «la tenda», designava presso gli Ebrei l'insieme composto dal «Santo» e dal «Santo dei santi». L'attuale tabernacolo può essere considerato, da questo punto di vista, come un adattamento del tempio. Ma soprattutto esso ricorda, sia per le sue dimensioni ristrette che per il suo ruolo, l'Arca (arca = cassa). Questa conteneva le Tavole della Legge, la Verga di Aronne e una porzione di manna; là, fra i Cherubini, si manifestava la Shekinah, la «Gloria» o la «Presenza» divina. E nel tabernacolo cristiano è posta l'autentica Manna, il «Pane vivo disceso dal cielo» 5. In certe chiese si vedono delle «glorie»: un triangolo raggiante che al centro porta il Nome divino ; si tratta di una materializzazione simbolica della Shekinah. Infine, le piccole tende che si trovano davanti al tabernacolo ricordano nello stesso tempo la tenda del deserto e il velo che nascondeva il «Santo dei santi».


      Se abbiamo insistito su questo accostamento fra il santuario cristiano e quello degli Ebrei, è anzitutto per rispondere una volta di più a coloro che negano ogni parallelo di tale genere e pretendono di dimostrare l'originalità assoluta del tempio cristiano. D'altra parte non ci sembra inutile, in un'epoca che ha sin troppo dimenticato queste cose in nome della familiarità, oppure del lasciar andare, ricordare il carattere sacro e terribile del santuario e dell'altare in cui realmente, «dietro il velo», troneggia la Divinità. Nell'oratorio di Germigny-des-Pres (IX secolo) si è incastonato nella volta del santuario un mosaico bizantino raffigurante l'Arca dell'alleanza, gli angeli e la mano di Dio. Al disotto corre un'iscrizione latina così concepita:
    «Guarda il Santo Oracolo e i Cherubini, contempla lo splendore dell'Arca di Dio, e a questa vista sforzati di raggiungere con le tue preghiere il Maestro del tuono».


      Se abbiamo insistito su questo accostamento fra il santuario cristiano e quello degli Ebrei, è anzitutto per rispondere una volta di più a coloro che negano ogni parallelo di tale genere e pretendono di dimostrare l'originalità assoluta del tempio cristiano. D'altra parte non ci sembra inutile, in un'epoca che ha sin troppo dimenticato queste cose in nome della familiarità, oppure del lasciar andare, ricordare il carattere sacro e terribile del santuario e dell'altare in cui realmente, «dietro il velo», troneggia la Divinità. Nell'oratorio di Germigny-des-Pres (IX secolo) si è incastonato nella volta del santuario un mosaico bizantino raffigurante l'Arca dell'alleanza, gli angeli e la mano di Dio. Al disotto corre un'iscrizione latina così concepita: «Guarda il Santo Oracolo e i Cherubini, contempla lo splendore dell'Arca di Dio, e a questa vista sforzati di raggiungere con le tue preghiere il Maestro del tuono».


    Il grande prefazio del Pontificale romano cantato in occasione della consacrazione dell'altare, ricollega ritualmente l'altare cristiano a tutti gli altari ebraici: all'altare di Mosè, a quello di Giacobbe, a quello di Abramo; meglio ancora, lo ricollega a tutti gli altari dell'umanità ab origine mundi, dall'altare di Melchisedek a quello di Abele. Si può così comprendere di quale venerabile tradizione sia erede l'altare cristiano per mezzo di una trasmissione ininterrotta: è tutta la storia religiosa del mondo che, per così dire, si concretizza.




    Ma c'è di più. L'altare terrestre deriva la sua sublimità e il suo carattere sacro dalla sua conformità con il proprio archetipo, l'altare celeste. Perché l'altare dei nostri templi non è altro che il simbolo terrestre di questo archetipo celeste, così come la liturgia terrestre «imita» la liturgia celeste descritta nell' Apocalisse. Il Sursum corda è un invito a contemplare l'archetipo eterno della liturgia visibile.


    Come dice Teodoro di Mopsuestia a proposito del sacrificio eucaristico: «poiché sono i segni delle realtà dei cieli che si compiono in figure, è necessario che questo sacrificio ne sia anche la manifestazione; e il pontefice realizza una sorta di immagine della liturgia che si svolge in cielo». L'officiante riproduce dunque il servizio celebrato dal Cristo Pontefice che penetra - rivestito del Suo proprio Sangue - nel Tabernacolo che non è stato fatto da mano d'uomo. Nel canone romano della messa il sacerdote pronuncia queste parole: «Noi Ti supplichiamo, Dio onnipotente: fa' portare queste offerte dalla mano del Tuo santo Angelo, lassù, sul Tuo altare sublime, alla presenza della Tua divina Maestà». E nell'introito della messa siriaca: «Santissima Trinità, ricevi dalle mie mani peccatrici questo sacrificio che io offro sull'altare celeste del Verbo».


    Buona meditazione



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    PIETRA 
    Il significato e' essenzialmente simbolico. Giacobbe a Betel (Gn 28,16ss), dopo aver avuto il sogno, innalza come stele la pietra che gli era servita come guanciale e versa olio su di essa. Queste sacre pietre, segno della presenza di Dio, sono figura di Cristo. Esse rappresentano una realta' solida che costituisce l'altare del sacrificio (Eb 13,10; 1 Cor 10,18).
    Dette pietre sono soprattutto ricordo concreto dell'alleanza fra Dio e il suo popolo, come testimonianza (Gn 31, 45-52).
    Ci saranno molti altri riferimenti nei libri seguenti, che ci conducono a Cristo, "pietra d'angolo" su cui poggia il progetto di salvezza per l'umanita' (Salmo 118,22; Mt 21,42; Atti 4,11, 1 Pt 2,4-7).

    ALTARE
    In ogni religione l'altare e' il luogo dove viene effettuato il sacrificio.
    Nella Bibbia fin dall'inizio, l'uomo costruisce un altare per rispondere a Dio che lo ha visitato (Gn 12,7ss; 13,18; 26,25). Ma l'altare rappresenta anche un memoriale di un favore divino ricevuto (Gn 33,20).
    Per Gesu' l'altare conservera' tutto il suo significato sacro a causa di quello che significa simbolicamente (Mt 23,18ss),è IL SU CALVARIO, il luogo dove s'innalza la Croce della Redenzione. Ma va oltre tutto questo, quando parla del nuovo tempio del suo corpo (Gv 2,21) in cui Lui stesso costituisce l'altare (Eb 13,10).
     E' l'altare che santifica la vittima (Mt 23,19); pertanto quando Cristo, la vittima perfetta viene offerta, abbiamo il culmine e l'espressione massima di offerta santa a Dio (Gv 17,19).
     E' proprio per questo riferimento a Cristo che, all'inizio e al termine di ogni Celebrazione Eucaristica, il sacerdote bacia con venerazione l'altare.
     
    SACRIFICIO 
    Il sacrificio, l'offerta a Dio Onnipotente, nella Bibbia ha lo scopo di rendere visibili sentimenti personali intimi:
     adorazione (attraverso l'olocausto = vittima interamente consumata dal fuoco), riconoscimento e confessione di peccati e desiderio di perdono (riti espiatori).
     Sacrifici sono presenti nelle cerimonie di stipulazione dell'alleanza tra uomo e Dio (Gn 8,20ss; 15,9-21).
     Sacrifici consacrano il popolo, la famiglia e la vita individuale.
     Il Dio della Bibbia rifiuta vittime umane (consuetudine diffusa fuori di Israele nel mondo di allora), e accetta l'immolazione di animali. 
    Dio accetta sacrifici esclusivamente se sono offerti da un cuore capace di sacrificare in spirito di fede
    .
    Vediamo ora di scorrere, qualche documento dei primi secoli.

       S. Giustino, originario della Terrasanta, verso la metà del II secolo scrive a proposito del Pane e del Vino: "noi non li prendiamo come un pane comune e una comune bevanda […] ma abbiamo imparato che è carne e sangue di quel Gesù che si incarnò. Gli Apostoli infatti tramandarono negli Evangeli […] che Gesù ha detto: 'Fate questo in memoria di me: questo è il mio Corpo… questo è il mio Sangue'".


      
    S. Ilario di Poitiers dichiara: "Sulla realtà della carne e del sangue di Cristo non c'è adito a dubbio alcuno. Poiché tanto secondo la dichiarazione del Signore stesso quanto secondo la nostra fede, la sua carne è veramente cibo e il suo sangue è veramente bevanda".


      
    Per sant'Ambrogio "come il Signore Gesù Cristo è il vero Figlio di Dio, così è la vera carne di Cristo che noi mangiamo, e il suo vero sangue che noi beviamo".

       Nel commentare le parole di Gesù durante l'Ultima Cena, san Cirillo afferma: "Non dubitare che ciò sia vero, ma piuttosto accetta con fede le parole del Salvatore: essendo egli infatti la verità, non mente".


      
    Anche S. Ireneo, vescovo e martire di Lione, afferma che "il pane è il Corpo del Signore […] e il calice è il Sangue di lui".


      
    E Tertulliano, attivo tra il II ed il III secolo, confermava: "La carne [nostra] si nutre del Corpo e del Sangue di Cristo".





    Diceva san Padre Pio:
    che per partecipare ATTIVAMENTE  alla Messa occorre assumere l'atteggiamento di Maria Santissima ai piedi della Croce....

     Benedetto XVI include la testimonianza e l'invocazione della Beata Vergine Maria alla conclusione di ogni Omelia, quasi a sottolineare appunto il ricordo a noi di questa PRESENZA VIVA E VERA ai piedi dell'Altare CON NOI, con il Popolo che partecipa degli eventi avvenuti sul Calvario....Maria sta con noi!

    Quando appunto il Sacerdote BACIA L'ALTARE, non sta baciando la mensa in senso di banchetto, ma bacia il "LUOGO" sul quale avviene in modo incruento ciò che avvenne sul Calvario....ed è su quello stesso Altare del Sacrificio che si concretizza appunto, DOPO,  il Banchezzo degli INVITATI ALLA MENSA DEL SIGNORE....senza il Sacrificio NON ci sarebbe alcun Banchetto....non ci sarebbe nulla da festeggiare, non ci sarebbe la testimonianza della RISURREZIONE....
    Non a caso gli Inni gregoriani, il canto Sacro, conserva alla fine della Messa Inni GIOIOSI DI FESTA, quando appunto tutto l'itinerario DEL SACRIFICIO ha avuto compimento....

    Ci auguriamo che i Sacerdoti (ma anche i Vescovi) riscoprano l'importanza di insegnare a noi, fedeli Laici, PICCOLO GREGGE fin troppo esposto ad ogni scandalo... il senso della MESSA E DEL SACRIFICIO, di ritornare a parlare di ALTARE e non semplicemente di banchetto...di ritornare a parlare di MESSA e non di "Santa Cena", termine caro ai Protestanti perchè negano appunto la Presenza Reale del Cristo-Dio nell'Ostia e nel Vino Consacrati....

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 14/12/2008 22:47

    Amici.... andare in vacanza non significa affatto che Dio, Gesù in Persona, vada in vacanza anche Lui.....

    ...al contrario, Egli è li che ci aspetta OGNI GIORNO, in ogni momento, presso il Tabernacolo, il Santissimo Sacramento dell'Altare....


    Non dimentichiamoci della DOMENICA=GIORNO DEL SIGNORE, se possiamo beneficiare di questo giorno che ci permette di fare una vacanza, lo dobbiamo a Dio che nella Sua infinita benevolenza ci ha dato di poter RIPOSARE dalle fatiche quotidiane....

    Molti pensano alla Domenica quale FINE SETTIMANA, è una errata concezione che disorienta così sul vero significato della Messa.... La Domenica in verità E' IL PRIMO GIORNO DELLA SETTIMANA.....

    Leggiamo cosa dice la Chiesa in proposito della Messa:


    Istituzione del divino sacrificio


    Quanto al Sacrificio, tal quale lo ha istituito nostro Si­gnore nella sua Chiesa, ecco che cosa ci insegna il Concilio di Trento: "Nell'Antico Testamento, secondo la testimonianza di Paolo, il sacerdozio levitico era impotente a condurre alla perfe­zione; bisognava, perché così voleva il Padre delle misericordie, che si istituisse un altro sacerdote, secondo l'ordine di Melchisedech, il quale potesse rendere compiti e perfetti quelli che dovevano essere santificati.

    Questo sacerdote, che è Gesù Cristo nostro Dio e nostro Signore, volendo lasciare alla Chiesa, sua cara sposa, un Sacrificio visibile che rappresentasse il Sacri­ficio cruento che Egli doveva offrire una sola volta sulla Croce, ne perpetuò il ricordo fino alla fine dei secoli e ne applicò la virtù salutare alla remissione delle nostre colpe quotidiane di­chiarandosi, nell'ultima Cena, Sacerdote costituito secondo l'or­dine di Melchisedech. Nella notte stessa in cui fu dato in mano ai suoi nemici offrì a Dio suo Padre, sotto le specie del pane e del vino, il suo Corpo e il suo Sangue; li fece ricevere, sotto i simboli degli stessi alimenti, agli apostoli che Egli costituiva allora sacer­doti del Nuovo Testamento e ordinò loro ed ai loro successori nel sacerdozio di rinnovare questa oblazione dicendo: "Fate questo in memoria di me", secondo quanto la Chiesa cattolica ha inteso ed ha sempre insegnato".


    La Chiesa ci comanda dun­que di credere che nostro Signore, nell'ultima Cena, non sola­mente ha transustanziato il pane e il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue, ma che li ha offerti a Dio Padre istituendo così il Sacrificio del Nuovo Testamento nella sua propria persona, eser­citando in tal modo il suo ministero di sacerdote secondo l'ordi­ne di Melchisedech. La Sacra Scrittura dice: "Melchisedech, re di Salem, offrì il pane e il vino, perché era sacerdote dell'Onni­potente e benedisse Abramo".



    http://www.preghiereagesuemaria.it/libri/la%20messa%20fonte%20di%20vita.htm
     qui potrete scaricare gratuitamente un libro sulla Messa molto ben curato e di facile lettura non perdete questa opportunità....


    VALORE DELLA SANTA MESSA

    I. Se il Figlio di Dio è venuto nel mondo, tale avvenimento costi­tuisce l'avvenimento più importante nella storia dell'universo e l'av­venimento centrale dei tempi e degli spazi.

    NELLA S. MESSA GESÙ CRISTO, UOMO-DIO, È NOSTRO INTERCESSORE, NOSTRO SACERDOTE E NOSTRA VITTIMA: ESSENDO DIO E UOMO INSIEME, LE SUE PREGHIERE, I SUOI MERITI, LE SUE OFFERTE SONO DI UN VALORE INFINITO.
    Se il figlio di Dio fatto uomo ha patito ed è morto, questo avveni­mento è di tale importanza che al mondo non sta altro che ricordar­lo, celebrarlo e ritualizzarlo ogni giorno.
    Tutta la storia del mondo deve gravitare, incentrarsi e giustificarsi in tale avvenimento.
     
    2. La Chiesa per ordine stesso di Gesù, rievoca, celebra, rinnova misteriosamente tale sacrificio di Gesù ad ogni istante in ogni gior­no nelle 465.000 messe che ogni giorno vengono celebrate nei cin­que continenti.
     
    3. Per tal motivo la cosa più gradita a Dio è la compassione con Gesù Crocifisso e la contemplazione della sua passione. Dice giusta­mente Sant'Alfonso: « Vale più una lacrima sparsa sul Crocifisso che lunghe penitenze e lunghi pellegrinaggi ».
    Niente poi c'è al mondo di più prezioso di un'anima crocifissa con Cristo.
     
    4. Nella santa Messa la Chiesa unisce intimamente il suo sacrifi­cio al sacrificio di Gesù, così da risultare un unico sacrificio: il sacri­ficio di tutto il Corpo Mistico, del Capo, Gesù, e delle membra.
    LA S. MESSA, DEVOTAMENTE PARTECIPATA, PERORA IL PERDONO DEI NOSTRI PECCATI, DIMINUISCE IL PURGATORIO, PROCURA ALLE ANIME PURGANTI IL MIGLIOR SUFFRAGIO.
    Nella S. Messa Gesù offre al Padre insieme alle sue virtù, alle sue preghiere, ai suoi dolori, al suo sangue e alla sua morte, le virtù, le preghiere, i dolori e la morte della Madonna, dei martiri, dei santi e di tutti i buoni cristiani con i quali completa la sua passione, ai qua­li partecipa mediante i suoi meriti infiniti la sua dignità divina.
     
    5. L'unica offerta degna di Dio è il sacrificio del suo Figlio. L'unica maniera di rendersi graditi a Dio è di offrirsi in un solo sa­crificio col sacrificio di Gesù.
    L'unica espiazione, riparazione, propiziazione per i peccati nostri e del mondo intero è il sacrificio di Gesù.

    L'unica fonte di grazie per noi e per il mondo, l'unica speranza per il mondo e per noi è il sacrificio di Gesù.

    L'unico supplemento alle nostre omissioni, alle nostre indigenze, ai nostri vuoti, è il sacrificio di Gesù.
    L'unica cosa che può rendere preziose le nostre preghiere, le no­stre opere buone, le nostre fatiche, i nostri sacrifici è il sacrificio del­la Messa.
     
    6. Una Messa dà una gloria infinita al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo, una grande gioia a tutti i santi del cielo, un grande sollievo al­le anime del Purgatorio, una pioggia di grazie a tutti gli uomini del­la terra, dei grandissimi meriti e delle grandissime grazie a te, che l'ascolti e vi partecipi. Tutto ciò che ha valore ha valore, dalla Messa, cioè dal sacrificio di Gesù.
    LA S. MESSA E’ LA RINNOVAZIONE DEL SACRIFICIO DELLA CROCE; TRATTIENE LA GIUSTIZIA DIVINA; REGGE LA CHIESA; SALVA IL MONDO.
     
    7. É la S. Messa che tiene in vita il mondo, che placa la giustizia di Dio per i peccati dell'umanità. Senza la Messa il mondo verrebbe di­strutto ogni giorno per i suoi peccati.
    La Beata Anna Maria Taigi vide in visione che le fiamme distrug­gitrici della giustizia di Dio, le quali stavano per avventarsi sulla ter­ra e distruggerla, se ne allontanavano per il sacrificio di Gesù offer­to dalla Chiesa quotidianamente.
     
    8. Perché la Messa sia per te un sacrificio che ti renda accetto a Dio occorre che divenga il tuo sacrificio; e affinché divenga il tuo sa­crificio occorre che tu lo offra unito a Gesù, cioè in stato di grazia e che tu ti offra insieme a Gesù, prendendo parte attiva alla Messa.
     
    9. Occorre innanzi tutto che ti renda degno di Dio, purificandoti di tutti i tuoi peccati con un atto di contrizione perfetta ogni volta che entri in chiesa per partecipare al Sacrificio della Messa.
    La Chiesa mette il fonte di acqua benedetta all'entrata per rimet­terci con essa i peccati veniali, e per farci ricordare di far l'atto di contrizione che ci lava e ci rimette anche tutti gli altri peccati.
     
    10. La Messa sarà tanto più sorgente di grazie e di meriti per la tua santificazione quanto più ne fai di essa il tuo sacrificio.
    Perché la Messa sia il tuo sacrificio occorre che tu offra per le ma­ni del sacerdote, insieme al pane e al vino, le tue preghiere, le tue fa­tiche, i tuoi sacrifici, tutte le tue opere buone.
     
    11. Alla consacrazione, durante la Messa, si compie un mistero: il Verbo come coll'incarnazione unì alla sua persona la natura uma­na per farne un sacrificio degno di Dio e offrirlo al Padre nella Cro­ce, così nella Messa unisce a sé la tua persona con tutte le tue cose buone e tutti gli uomini membri del suo Corpo Mistico con le loro opere buone e i loro sacrifici, li trasforma in suoi e li offre al Padre in un unico sacrificio.
    Alla consacrazione nella S. Messa si compie il mistero solenne e meraviglioso del rinnovamento mistico dell'immolazione di Gesù in croce e dell'immolazione del Corpo Mistico.
    Questo mistero è simboleggiato dall'unione delle poche gocce di acqua col vino nel calice, che nella consacrazione diventano insieme al vino Corpo e Sangue di Gesù.
     
    12. Alla comunione si compie questo mistero: Gesù si unisce in­timamente con quanti lo ricevono così da diventare con loro una co­sa sola; così comunica loro la sua vita e i suoi meriti e li unisce inti­mamente al Padre e allo Spirito Santo.
     
    13. Gesù nella comunione compie tutto questo in te nel grado in cui ti unisci a lui spiritualmente con l'amore, nel grado, cioè, in cui lo ami, lo scegli come primo amore e primo ideale della tua vita e che vuoi vivere per lui.
     
    14. Non c'è cosa più importante, più preziosa, più utile a te e al mondo intero, che tu possa fare nel giorno, che andare in chiesa e offrire a Dio il sacrificio della Messa.

    Qualunque somma potessi andare a ritirare ogni mattino e met­terla in un libretto, sarebbe un nonnulla rispetto ai meriti e ai tesori che acquisti e ti conservi per l'eternità ogni giorno che vai a Messa. Devi stimare la Messa come l'atto più importante della tua giornata.

     
    15. Quando ti senti vuoto, quando ti senti oppresso, quando hai di bisogno di importanti grazie e ti accorgi che non hai alcun titolo per ottenerle; quando ti senti vuoto, quando ti senti preoccupato per l'avvenire di te, dei tuoi e del mondo intero, offri al Padre Gesù nel sacrificio della Messa. Egli basta a tutto.
     
    16. Tutta la tua vita deve diventare la tua Messa e una prepara­zione alla Messa.
    Come nei giorni avanti viene preparata l'ostia e il vino che deb­bono venire consacrati, così nel tempo che intercorre tra una tua Messa e l'altra devi preparare la materia del tuo sacrificio: mortifica­zioni, elemosine, atti di carità, di pazienza, di ubbidienza, preghiere, lavoro fatto per Dio, sofferenze offerte a Dio, ecc. Questi saranno i tuoi doni che devi portare in Chiesa ogni volta che vieni a parteci­pare alla Messa, e che devi offrire ogni volta a Dio con l'ostia santa. In tal maniera ancora tutta la tua vita diventa la tua Messa.
     
    17. La Messa è il centro e lo scopo della creazione. Come di tanti chicchi di grano macinati e ripuliti dalla crusca si fa un pane che nel­la Messa si trasforma in Cristo; così di tanti cristiani contriti dai lo­ro peccati e purificati dalle loro scorie si fa nella Messa un solo Cor­po, una sola Ostia che viene immolata con Gesù.
     
    18. Completa ogni volta la tua Messa con la comunione. Chi va a Messa e non fa la comunione rassomiglia a uno che va a pranzo, vede la tavola imbandita, non mangia, e se ne torna digiuno.
    D'altro lato chi può fare la comunione una volta l'anno è segno che la può fare ogni giorno, perché deve avere le disposizioni che lo rendono idoneo a fare la comunione ogni giorno: pentimento dei peccati, distacco dal peccato, volontà di non farne più, volontà di amare Dio sopra ogni cosa.
     
    19. Ogni cristiano deve mettere nella Messa il proprio cuore nel­l'ostia, deve unirlo intimamente al Cuore di Gesù e al cuore di tutti i fratelli con un amore ardente cosi che venga consumato con gli altri in uno nella comunione.
     
    20. Il cristiano che non intende purificare il proprio cuore, e non intende unirlo a quello di Cristo, resta al di fuori non solo della Mes­sa, ma anche del Corpo Mistico. Nella Messa il cristiano deve opera­re ogni volta la sua conversione, la sua purificazione, la sua adesio­ne a Cristo, la sua donazione totale a lui.
     
    21. Il cristiano che non unisce il suo cuore a quello di tutti i fra­telli, come un chicco di grano agli altri per fare un solo pane del sa­crificio e un solo cuore, resta estraneo al sacrificio della Messa e al Corpo Mistico.
    Per compiere tale unione deve purificarsi col dolore e deve in atto sentire un amore sincero e fraterno verso tutti gli uomini.
     
    22. Le prime comunità cristiane erano viventi e conquistatrici perché erano unite nella preghiera, nella Messa e nella Comunione eucaristica, nell'amore fraterno e nella comunione dei beni materiali.
     
    23. Uscendo dalla Messa devi sentirti il fratello di tutti, devi esse­re desideroso di salutare tutti, di fare amicizia con tutti, di aiutare tutti con le tue prestazioni e con tutte le economie personali che ti è possibile realizzare; devi sentirti Gesù che continua la sua missione e che esce per cercare gli uomini, per beneficarli, per salvarli. Solo così vivi la tua Messa e il tuo cristianesimo.



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    http://www.preghiereagesuemaria.it/libri/la%20santa%20messa%20di%20padre%20giulio%20scozzaro.htm



    (Benedetto XVI celebra il Divino Sacrificio Coram Deo(=rivolti verso Dio) alla Cappella Sistina, Battesimo del Signore gennaio 2008)



     

    Il Sacrificio della Messa, che la Chiesa offre di continuo a Dio in tutto il mondo, placa la Giustizia, ne arresta i castighi e ottiene all'uomo Grazia e perdono. Si comprende allora perché Dio non ci castiga come faceva anticamente nel Vecchio Testamento, benché nei tempi attuali i peccati sono aumentati di molto in numero e gra­vità. In ogni parte del mondo c'è sempre una Messa che viene celebrata in cui Gesù Cristo, rioffrendosi al Padre, grida: "Padre, mise­ricordia!". E il Padre sente l'amato Figlio e l'ascolta.


    San Timoteo di Gerusalemme afferma che la terra è debitrice della propria conservazione alla Santa Messa, senza di questo Sacrificio i peccati dell'uomo l'avrebbero già distrutta.


    "In ogni Messa - dice San Tommaso d'Aquino - si trova tutto il frutto che Gesù Cristo ha meritato sulla Croce: tutto il frutto della Passione e Morte del Signore è il frutto di ogni Messa".


    S. Alfonso Maria de' Liguori dice: "Tutta la gloria che gli Angeli e i Santi hanno dato e daranno a Dio con le loro virtù, opere buone, penitenze ecc. non potrà mai eguagliare la gloria che glie­ne dà una sola Messa perché tutta la gloria di tutte le creature del Cielo, del Purgatorio e della terra è limitata, mentre la gloria data a Dio da una sola Messa è illimitata, infinita e Dio stesso non può fare che vi sia un'azione più santa e più grande della celebrazione della Messa".
     
    Perciò la Santa Messa è l'azione che maggiormente glorifica Dio e più efficacemente placa la Giustizia divina verso i peccatori, che apporta maggior abbondanza di bene su questa terra, che più abbatte le forze dell'inferno e apporta maggior suffragio alle Anime del Purgatorio, per cui il Concilio di Trento afferma: "Bisogna confessare che l'uomo non può fare opera più santa e divina del tremendo Sacrificio della Messa".


    Prodigio ineffabile, mistero sublime che si compie sull'altare men­tre si celebra la Santa Messa. E' Gesù Cristo che, Vittima di valore infinito, s'immola per noi e si offre all'Eterno Padre per soddisfare ai nostri peccati e per impetrarci i tesori della sua infinita Misericordia. Con la Messa Dio riceve l'adorazione perfetta, il ringraziamento pieno, la soddisfazione completa, la preghiera onnipotente.


    Diceva Gesù alla grande mistica Santa Gertrude: "Sii sicura che a chi ascolta devotamente la Santa Messa, manderò, negli ultimi istanti della sua vita, per confortarlo e proteggerlo tanti dei miei Santi, quante saranno state le Messe da lui bene ascoltate ".


    Una Messa, ascoltata bene durante la vita presente, è per noi molto più proficua e salutare di molte Messe ascoltate o fatte celebrare da altri per noi dopo la nostra morte. Come non compiangere quei fedeli, più pagani che cristiani, i quali non si curano affatto o ben poco di partecipare alla Messa festiva che perdono per ogni più futile motivo. Santa Maria Goretti per andare a Messa la domenica, alle volte percorreva a piedi, tra andata e ritorno, 22 chilometri.


    Nella nostra vita di ogni giorno dovremmo preferire la Santa Messa ad ogni altra opera buona perché, dice San Bernardo, si merita di più ascoltando devotamente una Santa Messa che col dis­tribuire ai poveri tutte le proprie sostanze e col girare pellegrinan­do per tutta la terra. E non può essere diversamente perché nessuna cosa al mondo può avere il valore infinito di una Messa. Il martirio non è nulla, diceva il Santo Curato d'Ars, in confronto della Messa, perché il martirio è il sacrificio dell'uomo a Dio, mentre la Messa è il Sacrificio di Dio per l'uomo! La Santa Messa è quindi la devo­zione delle devozioni alla quale dovremmo partecipare, possibil­mente, tutti i giorni.


    Un giorno fu domandato a P. Pio da Pietralcina: "Padre, spie­gateci la Messa".


    - Figli miei, come posso spiegarvela? La Messa è infinita come Gesù... Chiedete ad un Angelo che cosa sia la Messa ed egli vi risponderà con verità: Capisco che cosa e perché si fa, ma non comprendo quanto valore abbia. Un Angelo, mille Angeli, tutto il Cielo sanno questo e così pensano.

    - Padre, come dobbiamo ascoltare la Messa?

    - Come vi assistettero la Santissima Vergine e le pie donne. Come assistette San Giovanni al Sacrificio Eucaristico e a quello cruento della Croce.

    - Padre, che benefici riceviamo assistendo alla Santa Messa? - Non si possono enumerare. Li vedrete in Paradiso.

    - Altra risposta: nell'assistere alla Messa rinnova la tua Fede e medita quale Vittima s'immola per te alla Divina Giustizia per pla­carla e renderla propizia. Non allontanarti dall'altare senza versare lacrime di dolore e di amore per Gesù Crocifisso, per la tua eterna

    salute. La Vergine Addolorata ti terrà compagnia e ti sarà di dolce ispirazione.


    Se ci fossimo trovati sul monte Calvario, mentre Gesù agoniz­zava sulla Croce per nostro amore, per la nostra salvezza, con quali sentimenti avremmo assistito a quella scena d'immenso dolore e d'infinito amore?


    Ebbene con gli stessi sentimenti dovremmo assistere alla Santa Messa, perché sull'altare è lo stesso Gesù, che compie, in un modo misterioso ma vero, lo stesso Sacrificio della Croce per nostro amore e per la nostra salvezza eterna.


    Assistendo, quindi, devotamente alla Santa Messa ed offrendo a Dio, insieme col Sacerdote, il Santo Sacrificio, noi onoriamo Dio in modo degno di Lui, soddisfacciamo alla Divina Giustizia per i nostri peccati, ringraziamo Dio in modo conveniente, aiutiamo le Anime del Purgatorio, otteniamo la conversione dei peccatori, apriamo il tesoro delle Grazie Divine per noi e per il mondo intero.


    Perciò, quanto è consigliabile e proficuo partecipare alla Santa Messa non solo nei giorni festivi, ma ogni qualvolta lo possiamo anche nei giorni feriali. Diceva il grande missionario San Leonardo da Porto Maurizio: "Oh, se capissimo quale tesoro è la Santa Messa! Le Chiese sarebbero sempre zeppe. Benedetto chi ascolta la Santa Messa ogni giorno!"


    Aveva capito questo il grande scrittore Alessandro Manzoni. Un suo amico si recò a fargli visita nel pomeriggio di un giornata invernale con vento freddo e pioggia. Trovò l'illustre amico di umore cattivo.

    - Che cosa è capitato? - gli chiese l'amico stupito.

    - C'è che stamane i miei familiari non hanno voluto che io andassi in Chiesa col pretesto del tempo cattivo!

    - Ma scusi, mi pare che abbiano fatto benissimo! C'era da pren­dersi un malanno sicuro alla sua età...

    - Ed io vi dico invece - ribattè Alessandro Manzoni con forza ­che hanno fatto malissimo e glielo provo. Supponga che io avessi vinto a una lotteria un premio ricchissimo; supponga che scadesse proprio oggi il tempo per riscuoterlo e che per la riscossione aves­si dovuto presentarmi personalmente, crede lei che per paura del cattivo tempo mi avrebbero fatto perdere il premio obbligandomi a stare in casa? L'amico non seppe rispondere.



    [SM=g6811]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 26/12/2008 21:56

    In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva?
    Che cosa bisogna fare? [SM=g1740717]

    Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile.

    Risponde il card. Joseph Ratzinger[SM=g1740717]

    Il Concilio Vaticano II ci ha proposto come pensiero guida della celebrazione liturgica l'espressione participatio actuosa, partecipazione attiva di tutti all'Opus Dei, al culto divino. Ciò a buon diritto: il Catechismo della Chiesa Cattolica, difatti, sottolinea che l'espressione riguarda il servizio comune, si riferisce, cioè, a lutto il popolo santo di Dio (cfr. CCC 1069).

    In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva?

    Che cosa bisogna fare?

    Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile.


    La parola "partecipazione" rinvia, però, a un'azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa "actio" centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità. Lo studio delle fonti liturgiche permette una risposta che, forse, in un primo tempo può sorprendere, ma che è del tutto ovvia se si prendono le mosse dai fondamenti biblici su cui abbiamo riflettuto nella prima parte.

    Con il termine "actio", riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. Questa definizione era corretta già a partire dalla stessa forma liturgica, poiché nella oratio si svolge ciò che è essenziale alla liturgia cristiana, perché essa è il suo centro e la sua forma fondamentale. La definizione dell'Eucaristia come oratio fu poi una risposta fondamentale tanto per i pagani che per gli intellettuali in ricerca. Con questa espressione si diceva infatti a quelli che erano in ricerca: i sacrifici di animali e tutto ciò che c'era e c'è presso di voi e che non può appagare nessuno, sono ora liquidati. Al loro posto subentra il sacrificio-parola. Noi siamo la religione spirituale, in cui ha luogo il culto divino reso per mezzo della parola; non vengono più sacrificati capri e vitelli, ma la parola viene rivolta a Dio come a Colui che sostiene la nostra esistenza e questa parola si unisce alla Parola per eccellenza, al Logos di Dio che ci innalza alla vera adorazione. Forse è utile osservare anche che la parola oratio all'inizio non significa "preghiera" (per questo esisteva il termine prex), ma il discorso solenne tenuto in pubblico, che ora riceve la sua più alta dignità per il fatto che si rivolge a Dio, nella consapevolezza che esso proviene da Dio stesso e da Lui è reso possibile.


    Ma finora abbiamo solamente accennalo a ciò che è centrale. Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il "canone" - è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che l’actio umana (così come è stata sinora esercitata dai sacerdoti nelle diverse religioni) passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all'agire di Dio. In questa oratio il sacerdote parla con l'io del Signore - "questo è il mio corpo", "questo è il mio sangue" - nella consapevolezza che ora non parla più da se stesso, ma in forza del sacramento che egli ricevuto, che diventa voce dell'altro che ora parla e agisce. Questo agire di Dio, che si compie attraverso un discorso umano, è la vera "azione", di cui tutta la creazione è in attesa: gli elementi della terra vengono trans-sustanziati, strappati, per cosi dire, dal loro ancoraggio creaturale, ricompresi nel fondamento più profondo del loro essere e trasformati nel corpo e nel sangue del Signore. Il nuovo cielo e la nuova terra vengono anticipati.


    La vera "azione" della liturgia, a cui noi tutti dobbiamo avere parte, è azione di Dio stesso. E questa la novità e la particolarità della liturgia cristiana: è Dio stesso ad agire e a compiere l'essenziale. Egli introduce la nuova creazione, si rende accessibile, così che noi possiamo comunicare con Lui in maniera del tutto personale, attraverso le cose della terra, attraverso i nostri doni.

    Ma come possiamo noi avere parte a questa azione?

    Dio e l'uomo non sono del tutto incommensurabili?


    L'uomo, che è finito e peccatore, può cooperare con Dio, che è infinito e santo?
     

    Egli lo può per il fatto che Dio stesso si è fatto uomo, che è divenuto corpo e continua, ancora con il suo corpo, a venire incontro a noi che viviamo nel corpo. L'intero evento, fatto di Incarnazione, croce, resurrezione e ritorno sulla terra è presente come la forma con cui Dio prende l'uomo a cooperare con se stesso. Nella liturgia ciò si esprime, come abbiamo già visto, nel fatto che dell’oratio fa parte la preghiera di accettazione. Certamente, il sacrificio del Logos è sempre già accettato. Ma noi dobbiamo pregare perché diventi il nostro sacrificio, perché noi stessi, come abbiamo detto, veniamo trasformati nel Logos e diveniamo così vero corpo di Cristo: è di questo che si tratta. E questo deve essere chiesto nella preghiera. Questa stessa preghiera è una via, un essere in cammino della nostra esistenza verso l'Incarnazione e la Resurrezione.


    In questa "azione", in questo accostarsi orante alla partecipazione, non c'è alcuna differenza tra sacerdote e laico. Indubbiamente, rivolgere al Signore l'oratio in nome della Chiesa e parlare al suo apice con l'Io di Gesù Cristo, è qualcosa che può accadere solo in forza del sacramento. Ma la partecipazione a ciò che non è fatto da alcun uomo, bensì dal Signore stesso e da Lui solo, questo è uguale per tutti. Per tutti il punto è, secondo quello che si legge in I Cor 6,17, "unirsi al Signore e diventare così una sola esistenza pneumatica con Lui".


    Il punto è che, alla fine, venga superata la differenza tra l'actio di Cristo e la nostra, che ci sia solamente una azione, che è allo stesso tempo la sua e la nostra - la nostra per il fatto che siamo divenuti "un corpo e uno spirito" con Lui.

    La singolarità della liturgia eucaristica consiste appunto nel fatto che è Dio stesso ad agire e che noi veniamo attratti dentro questo agire di Dio. Rispetto a questo fatto, tutto il resto è secondario.


    E' chiaro poi che si possono distribuire in maniera sensata le azioni esteriori: leggere, cantare, accompagnare le offerte. Tuttavia la partecipazione alla liturgia della parola (leggere, cantare) deve essere distinta dalla celebrazione sacramentale vera e propria.

    Qui dovrebbe essere chiaro a tutti che le azioni esteriori sono del tutto secondarie.

    L'agire dovrebbe venire meno quando arriva ciò che conta: l’oratio. E deve essere ben visibile che l’oratio è la cosa che più conta e che essa è importante proprio perché da spazio all'actio di Dio.


    Chi ha capito questo, comprende facilmente che ora non si tratta più di guardare il sacerdote o di stare a guardarlo, ma di guardare insieme il Signore e di andargli incontro. La comparsa quasi teatrale di attori diversi, cui oggi è dato assistere soprattutto nella preparazione delle offerte, passa molto semplicemente a lato dell'essenziale.


    Se le singole azioni esteriori (che di per sé non sono molte e che vengono artificiosamente accresciute di numero) diventano l'essenziale della liturgia e questa stessa viene degradata in un generico agire, allora viene misconosciuto il vero teodramma della liturgia, che viene anzi ridotto a parodia.

    La vera educazione liturgica non può consistere nell'apprendimento e nell'esercizio di attività esteriori, ma nell’introduzione nell'actio essenziale, che fa la liturgia, nell'introduzione, cioè, alla potenza trasformante di Dio, che attraverso l'evento liturgico vuole trasformare noi stessi e il mondo.

    A questo riguardo l'educazione liturgica di sacerdoti e laici è oggi deficitaria in misura assai triste.

    Qui resta molto da fare.

    [Tratto da: Introduzione allo spirito della liturgia, pagg. 167-172]






     



    Fraternamente CaterinaLD

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    00 26/02/2009 22:54
    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
    DEL SOMMO PONTEFICE 

    INTERVISTA DI MONS. GUIDO MARINI


    AL PERIODICO MENSILE “RADICI CRISTIANE”
    N. 42 DEL MESE DI MARZO 2008 



    Senza parole dinanzi alla grandezza e alla bellezza del mistero di Dio
    A cura di Maddalena della Somaglia

     Fonte Vaticana

    Il Santo Padre sembra avere nella liturgia uno dei temi di fondo del suo pontificato. Lei, che lo segue così da vicino, ci può confermare questa impressione?

    Direi di sì. D’altra parte è degno di nota che il primo volume dell’ “opera omnia” del Santo Padre, di ormai prossima pubblicazione anche in Italia, sia proprio quello dedicato agli scritti che hanno come oggetto la liturgia. Nella prefazione al volume, lo stesso Joseph Ratzinger sottolinea questo fatto, rilevando che la precedenza data agli scritti liturgici non è casuale, ma desiderata: sulla falsariga del Concilio Vaticano II, che promulgò come primo documento la Costituzione dedicata alla Sacra Liturgia, seguita dall’altra grande Costituzione dedicata alla Chiesa. E’ nella liturgia, infatti, che si manifesta il mistero della Chiesa. Si comprende, allora, il motivo per cui la liturgia è uno dei temi di fondo del pontificato di Benedetto XVI: è dalla liturgia che prende avvio il rinnovamento e la riforma della Chiesa.

    Esiste un rapporto tra la liturgia e l’arte e l’architettura sacra? Il richiamo del Papa a una continuità della Chiesa in campo liturgico non dovrebbe essere esteso anche all’arte e all’architettura sacra?

    Esiste certamente un rapporto vitale tra la liturgia, l’arte e l’architettura sacra. Anche perché l’arte e l’architettura sacra, proprio in quanto tali, devono risultare idonee alla liturgia e ai suoi grandi contenuti, che trovano espressione nella celebrazione. L’arte sacra, nelle sue molteplici manifestazioni, vive in relazione con l’infinita bellezza di Dio e deve orientare a Dio alla sua lode e alla sua gloria. Tra liturgia, arte e architettura non vi può essere, dunque, contraddizione o dialettica. Di conseguenza, se è necessario che vi sia una continuità teologico-storica nella liturgia, questa stessa continuità deve trovare espressione visibile e coerente anche nell’arte e nell’architettura sacra.

    Papa Benedetto XVI ha recentemente affermato in un suo messaggio che “la società parla con l’abito che indossa”. Pensa si potrebbe applicare questo anche alla liturgia?

    In effetti, tutti parliamo anche attraverso l’abito che indossiamo. L’abito è un linguaggio, così come lo è ogni forma espressiva sensibile. Anche la liturgia parla con l’abito che indossa, ovvero con tutte le sue forme espressive, che sono molteplici e ricchissime, antiche e sempre nuove. In questo senso, “l’abito liturgico”, per rimanere al termine da Lei usato, deve sempre essere vero, vale a dire in piena sintonia con la verità del mistero celebrato. Il segno esterno non può che essere in relazione coerente con il mistero della salvezza in atto nel rito. E, non va mai dimenticato, l’abito proprio della liturgia è un abito di santità: vi trova espressione, infatti, la santità di Dio. A quella santità siamo chiamati a rivolgerci, di quella santità siamo chiamati a rivestirci, realizzando così la pienezza della partecipazione.


    In un’intervista all’Osservatore Romano, Lei ha evidenziato i principali cambiamenti avvenuti da quando ha assunto la carica di Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie. Ce li potrebbe ricordare e spiegarcene il significato?

    Affermando subito che i cambiamenti a cui lei fa riferimento sono da leggere nel segno di uno sviluppo nella continuità con il passato anche più recente, ne ricordo uno in particolare: la collocazione della croce al centro dell’altare. Tale collocazione ha la capacità di tradurre, anche nel segno esterno, il corretto orientamento della celebrazione al momento della Liturgia Eucaristica, quando celebrante e assemblea non si guardano reciprocamente ma insieme guardano verso il Signore. D’altra parte il legame altare - croce permette di mettere meglio in risalto, insieme all’aspetto conviviale, la dimensione sacrificale della Messa, la cui rilevanza è sempre fondamentale, direi sorgiva, e, dunque, bisognosa di trovare sempre un’espressione ben visibile nel rito.

    Abbiamo notato che il Santo Padre, da qualche tempo, dà sempre la Santa Comunione in bocca e in ginocchio. Vuole questo essere un esempio per tutta la Chiesa e un incoraggiamento per i fedeli a ricevere Nostro Signore con maggiore devozione?

    Come si sa la distribuzione della Santa Comunione sulla mano rimane tutt’ora, dal punto di vista giuridico, un indulto alla legge universale, concesso dalla Santa Sede a quelle Conferenze Episcopali che ne abbiano fatto richiesta. E ogni fedele, anche in presenza dell’eventuale indulto, ha diritto di scegliere il modo secondo cui accostarsi alla Comunione. Benedetto XVI, cominciando a distribuire la Comunione in bocca e in ginocchio, in occasione della solennità del “Corpus Domini” dello scorso anno, in piena consonanza con quanto previsto dalla normativa liturgica attuale, ha inteso forse sottolineare una preferenza per questa modalità. D’altra parte si può anche intuire il motivo di tale preferenza: si mette meglio in luce la verità della presenza reale nell’Eucaristia, si aiuta la devozione dei fedeli, si introduce con più facilità al senso del mistero


    Il Motu Proprio “Summorum Pontificum” si presenta come un atto tra i più importanti del pontificato di Benedetto XVI. Qual è il suo parere?

    Non so dire se sia uno dei più importanti, ma certamente è un atto importante. E lo è non solo perché si tratta di un passo molto significativo nella direzione di una riconciliazione all’interno della Chiesa, non solo perché esprime il desiderio che si arrivi a un reciproco arricchimento tra le due forme del rito romano, quello ordinario e quello straordinario, ma anche perché è l’indicazione precisa, sul piano normativo e liturgico, di quella continuità teologica che il Santo Padre aveva presentato come l’unica corretta ermeneutica per la lettura e la comprensione della vita della Chiesa e, in specie, del Concilio Vaticano II.

    Qual è a suo avviso l’importanza del silenzio nella liturgia e nella vita della Chiesa?

    E’ un’importanza fondamentale. Il silenzio è necessario alla vita dell’uomo, perché l’uomo vive di parole e di silenzi. Così il silenzio è tanto più necessario alla vita del credente che vi ritrova un momento insostituibile della propria esperienza del mistero di Dio. Non si sottrae a questa necessità la vita della Chiesa e, nella Chiesa, la liturgia. Qui il silenzio dice ascolto e attenzione al Signore, alla sua presenza e alla Sua parola; e, insieme, dice l’atteggiamento di adorazione. L’adorazione, dimensione necessaria dell’atto liturgico, esprime l’incapacità umana di pronunciare parole, rimanendo “senza parole” davanti alla grandezza del mistero di Dio e alla bellezza del suo amore.

    La celebrazione liturgica è fatta di parole, di canto, di musica, di gesti…E’ fatta anche di silenzio e di silenzi. Se questi venissero a mancare o non fossero sufficientemente sottolineati, la liturgia non sarebbe più compiutamente se stessa perché verrebbe a essere privata di una dimensione insostituibile della sua natura.

    Oggigiorno si sentono, durante le celebrazioni liturgiche, le musiche le più diverse. Quale musica, secondo lei, è più adatta ad accompagnare la liturgia?

    Come ci ricorda il Santo Padre Benedetto XVI, e con lui tutta la tradizione passata e recente della Chiesa, vi è un canto proprio della Liturgia e questo è il canto gregoriano che, come tale,  costituisce un criterio permanente per la musica liturgica. Come anche, un criterio permanente, lo costituisce la grande polifonia dell’epoca del rinnovamento cattolico, che trova la più alta espressione in Palestrina.

    Accanto a queste forme insostituibili del canto liturgico troviamo le molteplici manifestazioni del canto popolare, importantissime e necessarie: purché si attengano a quel criterio permanente per il quale il canto e la musica hanno diritto di cittadinanza nella liturgia nella misura in cui scaturiscono dalla preghiera e conducono alla preghiera, consentendo così un’autentica partecipazione al mistero celebrato.
    [Modificato da Caterina63 26/02/2009 23:04]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Caterina63
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    00 16/05/2009 19:51
    In un blog una persona appartenente ad un gruppo laico di recente riconoscimento ha accusato la FSSPX di essere  una "setta eretca"..(il buono sarebbero loro)... Occhi al cielo

    il mio amico Chisolm ha dato questa risposta che è da incorniciare, non posso non condividerla anche con voi  Occhiolino



    Erano gli anni in cui si svolgeva il Concilio. Ero un bambino e, vivendo all’epoca con mia nonna, la accompagnavo sempre alle funzioni. Anche quando ero più piccolo, la accompagnavo e di questa piccola compagnia ho il barlume di una lingua antica e musicale che mia nonna, seppur contadina friulana, seguiva come se leggesse uno spartito.

    Ricordo la pronuncia marchigiana del parroco che modellava il latino sulla propria capacità linguistica: ecco che il Tantum ergo diventava il Tanetumerego, mentre sul Miserere nobis, il parroco dico, subiva una strana contrazione: si mangiava un “re”, aumentava di una "e" e pronunciava Miserenobise.

    Tuttavia, sono cresciuto con la magia evocativa di quella lingua che riusciva a catturare il sacro e a trattenerlo, contrarlo, modellarlo con tonalità dialettali che non gli toglievano una piuma di peso.
    Mia nonna aveva sempre gli occhi lucidi alla consacrazione: io la guardavo di sghimbescio e non sapevo darmene ragione: «HOC EST ENIM CORPUS MEUM».

    Avevo memorizzato quella formula e l’avevo pure velocizzata per dirla d’un fiato: dicevo occhestenimcorpusmeum e lo ripetevo per tutta la casa, giocando e saltando col ritornello di “Ma che bel castello”. Mia nonna mi guardava e sorrideva.
    Anche adesso, quando voglio ripensare alla nonna, chiudo gli occhi e attacco la melodia dell’ occhestenimcorpusmeum…

    Allora, non ci chiedevamo dove stesse andando la Chiesa, oppure “quale Cristo?”, insomma le domande sorte in questa discussione. Allora, c’era la consapevolezza di appartenere ad un Corpo del quale si poteva essere unghia, dito, occhio o capello. Ne eravamo tutti consapevoli, soprattutto quando si rientrava in casa con ancora i fumi d’incenso che impregnavano i cappotti e si mischiavano all’odore di minestra.

    Cominciavo a pensare alla minestra quando era giunto il momento della comunione: io ero troppo piccolo per farla e guardavo estasiato mia nonna mentre si inginocchiava alla balaustra tenendomi per mano: non mi mollava un attimo.
    Quel momento era ancora più magico: lei che parlava solo friulano, prima di ricevere l’ostia piccola come una luna di neve, diceva perfettamente: « Domine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanabitur anima mea».

    Mi direte, giustamente, che questi ricordi hanno poco a che vedere con la discussione e, probabilmente, avete ragione. Ho sviato. Ma torno sempre a questi ricordi quando il caos dell’epoca attuale mi prende e mi fa sentire fuori posto.
    Macchè tradizionalista, nostalgico, preconciliare… Sono solo uno che, in chiesa, non sente più odor d’incenso, non vede più sguardi meravigliati alla consacrazione ma solo celeri pretonzoli che, quando alzano il calice (e neanche più di tanto), ne approfittano anche per scuotere la casula e buttar l’occhio sull’orologio. Se è tardi, velocizzano la funzione.

    Ho nostalgia del mio vecchio parroco, natio di san Severino Marche, latinista con qualche sbavatura ma con occhi grandi come il cielo e braccia da Carnera, quando con la destra fendeva l’aria tanto che tremolavano le fiammelle delle candele e ci garantiva la compagnia del Cristo, obbediente alla morte di croce, ma anche di essere assieme a noi con la famiglia trinitaria.
    « Benedicat vos omnipotens Deus: Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus»…

    Poi, la Chiesa ha indossato abiti alla moda, ha riempito i silenzi con bonghi e chitarre, ha subaffittato chiese ad equo canone, ha esposto crocifissi pop-art, ha fondato curve nord e curve sud, ha presenziato e presenzia a megaraduni e via dicendo.
    Non sono arrabbiato, solo un po’ triste.
    Allora ripenso a mia nonna, a quando ci avvicinavamo all’altare del Signore Dio, quel “ Deum qui lætificat juventutem meam».
    So che lei è con me e mi chiede di crederci come quando ero bambino.
    Con dolcezza, ma senza cedere una virgola…

    Chisolm

    [SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740717]


    La mia risposta [SM=g1740738]


    chisolm ha detto:

    Allora, non ci chiedevamo dove stesse andando la Chiesa, oppure “quale Cristo?”, insomma le domande sorte in questa discussione. Allora, c’era la consapevolezza di appartenere ad un Corpo del quale si poteva essere unghia, dito, occhio o capello. Ne eravamo tutti consapevoli, soprattutto quando si rientrava in casa con ancora i fumi d’incenso che impregnavano i cappotti e si mischiavano all’odore di minestra.

    *********************************

    da incorniciare...comprese le "filastrocche"  Ghigno

    io sono nata nel '63 ma dall'età di 3 anni ero già coccolata dalle suore domenicane di san Sisto...
    io non sono cresciuta con il rito antico, ma ho respirato la Comunione Ecclesiale...sono cresciuta in un involucro ancora intatto che pur aprendosi al mondo, manteneva rigore per il sacro...

    a 6 anni, prima elmentare, iniziava l'obbligo della Messa ogni mattina  Occhiolino ricordo che andavamo a cercare nella cesta posta avanti alla Cappella il nostro VELO BIANCO da mettere in testa, recante il numero assegnato ad ogni collegiale, io avevo il numero "5"...una suora ci distribuiva la corona del rosario perchè durante la Messa non venissimo distratti da altro o si pregava, o si pregava magari giocarellando con la corona...ricordo che una mia compagna di banco non faceva altro che baciare il crocefisso della corona, ci giocava, contava i grani e baciava... Sorriso

    La mia postazione in Chiesa era davanti al banco che occupava la Direttrice, figuriamoci, era per me un privilegio...
    quando era la Consacrazione ero talmente incuriosita di una cosa: la posizione del viso della Direttrice, nascosta fra le mani in meditazione...io credevo che volesse giocare al bubu-settete Felice
    ed infatti prendevo le sue mani e le lanciavo un enorme sorriso...e lei li mi lanciava uno sguardo severo indirizzandomi verso l'altare e sussurrava: dopo, dopo, ora GUARDA, GESU' E' SULL'ALTARE...
    "ma dove?!" dicevo io un pò delusa...
    "Lì, DENTRO l'Ostia che il sacerdote ha appena sollevato, a Gesù piace nascondersi..."

    la cosa mi convinceva e mi piaceva imparai così a rispettare l'Ostia Consacrata...e a pensare sempre che qui dentro Gesù è vivo e vero...

    Poi quando faceva la comunione e la suora si rimetteva in adorazione con il viso coperto, un giorno le dissi: "MA HAI MANGIATO GESU'Che?!?" e mi misi a piangere  Ghigno
    Ci volle la santa pazienza della Direttrice per farmi passare lo spavento...e la delusione provata...mi spiegò che non era lei che mangiava Gesù, ma Gesù che si donava e che così aveva voluto che fosse perchè era l'unico modo per abitare dentro le persone...

    Da noi la Messa era già in italiano, ma tutte le altre preghiere al di fuori della Messa ci vennero insegnate in latino...
    il rosario si diceva in latino con le suore e in italiano quando lo dicevamo nel gruppo...

    In sostanza sono cresciuta senza discontinuità.... Occhiolino

    i problemi ho cominciati a vederli fuori dal collegio, quando a 22 anni cominciai ad occuparmi del ruolo di catechista...credevo di aver appreso abbastanza, ma finii per rendermi conto che la parrocchia in cui stavo non aveva praticamente più nulla di quanto avevo imparato al collegio...
    Io avevo imparato sul Catechismo san Pio X, avevo imparato le formule, qui in parrocchia scoprii che tale catechismo era stato abolito (e che fu un abuso l'ho scoperto solo 10 anni fa), insomma mi resi conto che sarei dovuta andare in Diocesi a fare degli "aggiornamenti" ed anch'io ho cominciato a vivere di abusi liturgici...ignara che lo fossero...

    in una Parrocchia  ci fu il parroco (buono come il pane ma molto fai da te) che a momenti ci fece CELEBRARE MESSA a me ed altre due catechiste...era tutto "normale e naturale" per noi, non ci si rendeva conto che fossero abusi e il Magistero del Papa era completamente inesistente...si andava avanti con libretti impostati da non so chi...ma di certo diocesani...

    A distanza di anni non mi creo sensi di colpa, ma sarei incosciente se tacessi la vista che il Signore mi ha donato, facendomi vedere, di colpo, i danni che abbiamo compiuto in passato...




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    ...quanto segue proviene smpre dalle medesime riflessioni.... Occhiolino

    si parlava così della comunione alla bocca o della comunione alla mano....

    è stata inserita la testimonianza di una persona che all'interno di un noto Cammino...prende la comunione in questo modo Occhi al cielo :

     
    "Oggi a distanza di quasi 30 anni l'Eucarestia è diventata il centro della mia vita. Partecipo alla Messa quasi tutti i giorni facendo almeno dieci minuti di adorazione presso il tabernacolo.
    Questo amore verso l'Eucarestia è scaturito dalla partecipazione,in tanti anni,alle celebrazioni del Cammino Neocatecumenale. Vivere una liturgia viva ha sviluppato in me una consapevolezza e una devozione eucaristica prima sconosciute.
    Nelle celebrazioni del sabato sera ho imparato il valore
    dell'adorazione eucaristica di cui prima ero del tutto ignaro.
    E' stato
    tenendo il Signore nel palmo della mia mano, nelle celebrazioni del sabato sera,che ho avuto consapevolezza del mistero della presenza reale di Cristo in quel pezzo di pane. Oggi vivo quei pochi minuti in cui tengo il Signore nelle mi mani con grande intensità
    .”
    Occhi al cielo

    la mia risposta:

    ...l'idea errata del tenere Gesù (Eucarestia) nelle mani è anche di molti cattolici NON NC....quando seppi che una signora di 60 anni SI PORTA L'OSTIA AL BANCO SI SIEDE E SE LA GUARDA....e dopo la DEGUSTA...mi fu difficile spiegarle lo sbaglio che stava facendo...mi ci sono voluti i mesi...anche di discussioni accese  Occhiolino la signora era giunta perfino ad avercela con Benedetto XVI perchè aveva rimesso l'inginocchiatoio...
    Senza accorgersene la signora IDOLATRAVA MA NON ADORAVA...

    questa forma di prendere così la comunione è protestante...che pur non credendo nella reale presenza SPIRITUALMENTE RITORNANO ALL'UTIMA CENA IMMAGINANDOSI GESU'...

    ecco cosa comporta queste catechesi errata SI FINISCE PER IMMAGINARE GESU' e la convinzione si fa talmente radicata che appena si dice al fratello o alla sorella: "perdonami, MA DEVO SVEGLIARTI DAI TUOI SOGNI" ecco che scatta L'ODIO, L'ACCUSA DI FONDAMENTALISMO, DI TRADIZIONALISMO...tutto si tira in ballo per GIUSTIFICARE IL PROPRIO SENTIMENTALISMO EUCARISTCO..fondato sulle IMMAGINE che pian piano ci costruiamo. Occhi al cielo

    La Sana Dottrina serve proprio a liberarci dalle immagini "NON TI FARAI IMMAGINE ALCUNA" ADORERAI DIO IN SPIRITO E VERITA':
    Spirito= l'azione dello Spirito Santo che rende l'Eucarestia un prodigio ma INVISIBILE;
    Verità= E' LA SANA DOTTRINA...

    ... piú esplicita si rivela la lettera del 23 giugno 2003 dell’allora Card. Ratzinger al Dott. Heinz-Lothar Barth:
    « Credo che a lungo termine la Chiesa romana deve avere di nuovo un solo rito romano. L’esistenza di due riti ufficiali per i vescovi e per i preti è difficile da “gestire” in pratica. Il rito romano del futuro dovrebbe essere uno solo, celebrato in latino o in vernacolo, ma completamente nella tradizione del rito che è stato tramandato. Esso potrebbe assumere qualche elemento nuovo che si è sperimentato valido, come le nuove feste, alcuni nuovi prefazi della Messa, un lezionario esteso con più scelta di prima, ma non troppa, una “oratio fidelium”, cioè una litania fissa di intercessioni che segue gli Oremus prima dell’offertorio dove aveva prima la sua collocazione ». Piú o meno quanto aveva previsto il Concilio, a questo ci sta portando Benedetto XVI......


    Ed ecco il contributo del mio amico Chisolm....DA GUSTARE... Occhiolino

    Le mani dei laici, per quanto santi, non sono le mani dei consacrati, per quanto indegni (i certi casi, ovviamente). Le mani dei laici servono per edificare il regno di Dio, col lavoro, giungendosi in preghiera, asciugando lacrime e per dar carezze, qualche volta una sculacciata.

    Anche una sculacciata ben data aggiunge un mattone alla Civitas Dei.
    Il mio quasi omonimo, Padre Francesco Chisholm, ne Le chiavi del Regno di Cronin, così apostrofava i suoi parrocchiani cinesi per indurli alla cooperazione, al lavoro per il Regno: « Non crediate che il Paradiso sia soltanto in Cielo…è nella vostra casa, in un fiore che sboccia, nel palmo della vostra mano… non importa dove…»

    Le mani dei laici, a parte il ruolo dei ministri straordinari dell’eucarestia, non sono fatte per cullare il Corpo di Cristo: “Noli me tangere”, non trattenermi.
    Come bambini piccoli, dice Pietro, bramate il latte, quasi a voler indicare nella bocca, il luogo di destinazione del Pane, senza stazioni di sosta, senza pause di riflessione: la bocca, e non le mani, sono il luogo d’accoglienza del Cibo. Poi, seguirà la giusta “orazione”, da os-oris (bocca).


    Le mani dei consacrati hanno la loro importanza, il loro rilievo.
    Sono quelle mani, le sole, a poter “trattenere” il Corpo di Cristo, a elevarlo, a distribuirlo.
    Ricordo con gioia le prime messe dei miei compagni di studio.
    Conseguita la Licenza in Teologia, venivano ordinati quasi subito: alla prima messa, io come tanti, i loro parenti e amici, mi mettevo in fila per baciare le loro mani consacrate.
    Tra tanti, ricordo con piacere don Silvio che, quando gli presi le mani per il bacio, ebbe un moto di delicato imbarazzo. Mi disse, ancora frastornato dall’ordinazione: «Doveri baciarti io le mani per tutti gli appunti che mi hai passato…».

    In quell’occasione, per ricordargli che non erano gli appunti che facevano il prete, ma, in certo senso, le mani, gli regalai una riproduzione del Figliol Prodigo di Rembrandt.
    Gli dissi di osservare le mani del Padre che si posavano sulle spalle del figlio inginocchiato.
    Una mano è maschile, l’altra (così ha voluto Rembrandt) è delicatamente femminile.
    Gli dissi che sarebbero state il modello delle sue mani.
    Una maschile, per consacrare e benedire, l’altra femminile, materna, per distribuire il Cibo ai figli.

    Sono passati sei anni. Ora è missionario, in coerenza con la sua congragazione.
    Tempo fa mi ha spedito una foto: lui in mezzo a un centinaio di bambini, i suoi “appunti” di carne.

    Quando gli baciai le mani, il giorno della sua ordinazione, in un certo senso ho baciato tutti i suoi figli.
    Le mie mani continuano a prendere appunti, le sue a benedire, consacrare e nutrire.

    Chisolm


    ******************************************

    L'approfondimento:

    Le mani dei laici, a parte il ruolo dei ministri straordinari dell’eucarestia, non sono fatte per cullare il Corpo di Cristo: “Noli me tangere”, non trattenermi.
    Come bambini piccoli, dice Pietro, bramate il latte, quasi a voler indicare nella bocca, il luogo di destinazione del Pane, senza stazioni di sosta, senza pause di riflessione: la bocca, e non le mani, sono il luogo d’accoglienza del Cibo. Poi, seguirà la giusta “orazione”, da os-oris (bocca).



    ************************

    questo passo è ben descritto nel famoso libretto DOMINUS EST scritto dal vescovo Scheneider  Occhiolino


    Il problema sta alla radice della catechesi errata di Kiko per la quale, l'avvenimento cristico (e di conseguenza l'Eucarestia e tutta la forma liturgica) è centrale si, ma non la causa principale del nostro essere cristiani...

    cosa vuol dire?
    che per Kiko la causa principale per cui abbiamo il Cristo=Eucarestia sta semplicemente nella COMUNITA', VERO CENTRO nel quale deve convergere il battezzato....cioè E' LA COMUNITA' CHE GENERA IL PRODIGIO.....da qui infatti si comprende l'iniziativa di un certo OBBLIGO al sacerdozio KIKIANO per i giovani che non intendono sposarsi...e la comunità monacale per le donne singol...per evitare che possano PERDERSI nel mondo...

    La comunità per Kiko GENERA TUTTO, GENERA ANCHE LA CHIESA con tutto ciò che vi è dentro.... Occhi al cielo
    è davvero preoccupante che vescovi, teologi, esegeti e ahimè il Papa stesso che ha tanti problemi da affrontare, non comprendano questa grave eresia...

    Per la verità fu il card. Pappalardo di venerata memoria che nel 1996 sollevò per primo questo problema, denunciando IL PERICOLO di affermazioni kikiane e catechetiche sul senso della Comunità e dell'essere comunità nella Chiesa...
    Poi Benedetto XVI che non di rado anche quel 10 gennaio è ritornato spesso a spiegare il senso di essere comunità, ma ahimè chi lo ascolta?


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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 16/05/2009 19:54
    "La liturgia della chiesa nell’epoca della secolarizzazione" di Roberto de Mattei

    77 pp., Solfanelli, 7 euro

    di Daniele Raineri

    L’argomento del pamphlet è di quelli densi: “La liturgia della chiesa nell’epoca della secolarizzazione”.

    Sotto c’è un problema che, raccontato in breve, è questo: la chiesa si è lasciata turbare da un’ansia illusoria di rinnovamento e ha modificato la propria liturgia.
    Ma il gioco non è valso la candela di cera.

    Ha abbandonato l’eterno per incontrare il proprio tempo, ha deviato dalla tradizione per abbracciare la società del progressismo: e dopo, con orrore, che cosa ha scoperto? Che il suo è stato l’abbraccio catastrofico con un’età postmoderna già imputridita all’interno e che all’esterno porta segni sempre più evidenti di fallimento.
    Ora rimediare non sarà facile.

    La chiesa si è allontanata dalle proprie premesse più salde, si è in parte tramutata in una versione light di se stessa per dimostrarsi non-passatista e ha indebolito il suo messaggio più autentico e attraente.

    Lo prova la crisi delle vocazioni religiose con tutta la forza dei fatti: la Riforma del Concilio non l’ha risolta, ma anzi l’ha decisamente aggravata. Per citare Joseph Ratzinger: “Quello che sapevamo solo teoreticamente è diventato per noi esperienza concreta: la chiesa sussiste e cade con la liturgia”.

    Nella storia recentissima della chiesa c’è stato quindi un Prima, quando ancora questa crisi poteva essere evitata. Ma a noi tocca vivere nel Dopo: nel tempo presente, quando ormai la crisi deve essere affrontata. Roberto de Mattei – “sono uno storico, un cattolico laico che vive però con partecipazione i problemi della chiesa” – propone allora il ritorno alla tradizione come antidoto all’idea, filtrata all’interno della chiesa, che la secolarizzazione è comunque un processo storico irreversibile, e quindi, poiché irreversibile, anche “vero”.

    E avanza un progetto di risacralizzazione della società: dove “l’esperienza di sacro” di cui la società ha disperatamente bisogno si raggiunge attraverso il sacrificio e lo spirito di penitenza.

    “Al principio dell’edonismo e dell’autocelebrazione dell’Io che costituisce il nucleo del processo rivoluzionario plurisecolare che aggredisce la nostra società – scrive De Mattei – bisogna contrapporre il principio vissuto del sacrificio”.
    Il capitolo iniziale sull’abbandono del latino durante la liturgia, argomento di una delle tre conferenze da cui è tratto questo pamphlet, è il manifesto convincente del Grande equivoco. Credevamo di essere moderni e anche di farvi un favore, abbiamo invece sperperato il nostro tesoro comune.

    Il latino non è stato abolito dal Concilio – come si crede grossolanamente – ma non è più usato, anche se una costituzione apostolica del 1962, la Veterum Sapientia, raccomanda il contrario con precise disposizioni.
    Eppure il latino era per sua natura la lingua della chiesa, perché possiede tutte le caratteristiche che servono.

    E’ lingua universale, che supera i confini delle nazioni.
    Si può ribattere che non è più in uso – ma per De Mattei si tratterebbe di un’obiezione povera. Una lingua non muore quando non è parlata, ma quando svanisce dalla cultura e dalla memoria di un popolo. Altrimenti, e per assurdo, dovremmo chiamare lingue morte anche l’ebraico, risorto nel Ventesimo secolo con il sionismo, e l’arabo classico, che oggi è parlato soltanto in alcuni contesti formali.

    Il latino è una lingua stabile dal punto di vista lessicale e grammaticale, quindi è anche un vettore solido, capace di sfidare il passare dei secoli e di conservare l’integrità e l’immutabilità della dottrina cattolica. Il latino è infine lingua sacra: la lingua della liturgia tra l’assemblea e Dio.

    E non importa afferrarne tutte le parole: la liturgia non è orizzontale, non lega i fedeli tra loro, ma è verticale, è diretta verso Dio. Come dice al linguista Beccaria la vecchietta alzando il dito verso il cielo, l’importante è che capisca lui.

     Il Foglio, 30 aprile 2009 consultabile online
    ANCHE QUI.


    **************************************

    Qualche giorno fa leggevo un commento sempre sulla Liturgia "Cuore e motore della Chiesa" che sottolineava le stesse linee guida in questo articolo brillantemente tracciate...

    Le riflessioni che leggevo sottolineavano quanto segue che riporto a memoria:

    "...è vero abbiamo avuto, come Chiesa, sempre da combattere i falsi maestri, l'eresia ariana sfiancò la Chiesa, tutti avevano abiurato perfino il Papa, si pensava che tutto il mondo dovesse diventare ormai ariano, questa eresia si trascinò per circa 300-400 anni; così l'eresia Protestante in voga anch'essa da 400-500 anni ma non ha vinto, non ha sostituito la Chiesa come credevano i suoi fondatori, ma la zizzania oramai è entrata nella Chiesa e miete le sue vittime.

    Ogni qualvolta si va a toccare il Fondamento Cristo e la Sacra Liturgia, non abbiamo "nuove eresie" ma sono i due capisaldi dell'eresia ariana e protestante che ritornano a cicli con nuove idee.
    L'unica aggravante di questo periodo che stiamo vivendo è che tali eresie si sono fatte più subdole e sono più mascherate, Satana si è fatto più furbo ed è andato a minare le colonne portanti della Chiesa, convincendo nell'errore non pochi vescovi e sacerdoti proprio come avvenne per l'eresia ariana e per il protestantesimo.

    Le colonne portanti della Chiesa:
    - Divinità di Gesù Cristo e Capo della Chiesa;
    - Liturgia, Eucarestia e i Sacramenti;
    non avevano mai subito una infiltrazione devastante come oggi poichè tali eresie si presentano a noi oggi non tanto come proclami dottrinali, ma ancor peggio come uno stato normale del moderno pensiero cattolico attraverso la semplificazione del linguaggio..."


    C'è da meditare...[SM=g1740733]



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    La prima comunione secondo Alessandro Manzoni
    Con lo sgomento e la gioia di essere cenere


        di mons. Inos Biffi

        Di tutte le strofe che Manzoni, in vario tempo, compose "per una prima comunione", si potrebbe affermare quello che Antonio Rosmini diceva riferendosi ai versi per l'offertorio:  "Una meraviglia di poesia e di teologia e di religiosissimo affetto". L'ispirazione lirica, la precisione dottrinale e la ripetuta emozione mistica che le pervadono, rivelano quanto il poeta fosse attratto dal mistero dell'Eucaristia.

        L'impianto dei versi - ottonari o decasillabi o settenari - è molto semplice:  d'altronde, erano stati richiesti da don Giulio Ratti, canonico della parrocchia milanese di San Fedele, perché fossero musicati e cantati dai comunicandi, come infatti avvenne il 10 maggio 1832. Manzoni, poi, al primo gruppo di strofe ne aggiunse un secondo nel 1834 e un terzo nel 1850.

        E, tuttavia, il disegno d'insieme, la sostanza delle singole parole accuratamente scelte e, infine, il tessuto tematico ed emotivo si rivelano di una ricchezza e suggestione straordinarie.

        L'Eucaristia:  una nuova incarnazione e una reiterata discesa di Cristo dal cielo. Con questa visione si aprono i primi versi delle strofe "Prima della Messa":  "Sì, Tu scendi ancor dal cielo; / Sì, Tu vivi ancor tra noi".
        Il pane e il vino non sono che un'apparenza:  "Solo appar, non è, quel velo", e ne è certa la fede, che accoglie le indubitabili parole del Signore:  "Tu l'hai detto; il credo, il so".

    Avviene, nella Messa, la transustanziazione, di cui il poeta coglie ed esalta perfettamente l'origine e il senso. Essa è un miracolo, che proviene dall'onnipotenza di Dio e dal suo amore inesausto, ossia - e l'espressione è splendida - dall'amore onnipotente:  "So che tutto puoi, / Che ami ognora i tuoi credenti, / Che s'addicono i portenti / A un amor che tutto può".

    È quanto Manzoni afferma riguardo alla grazia dell'immacolata concezione di Maria:  il medesimo "Amor che può tutto" l'ha collocata "più su del perdono".
       
    Basterebbe avvertire questo "amor che tutto può" come genesi della "mirabile e singolare" conversione eucaristica, per intendere decentemente il significato del termine transustanziazione, per accorgersi di quanto siano vane le avversioni di teologi e liturgisti contro questo linguaggio "scolastico" e "tridentino".

        Ogni Eucaristia col portentoso mutamento che in essa avviene è il segno che Dio non cessa di amarci.

        Il momento dell'offertorio è compreso da Manzoni come il momento dell'avvicendamento dei doni. In quel rito si presentano a Dio il pane e il vino; o, meglio, Dio si riprende il suo stesso dono:  la sua grandezza, infatti, e la sua santità e bontà hanno tratto dallo "stelo" "la spiga fiorita" e nascosto nel tralcio il tesoro dell'uva.
        Ma quei doni ci sono, con uno scambio mirabile, comunque, restituiti, dopo che l'onnipotente amore li ha trasformati:  "Tu (...) in cambio, qual cambio! ci rendi / Il tuo Corpo, il tuo Sangue, o Signore".

        L'offertorio non è però un'offerta soltanto del pane e del vino:  "Anche i cor che T'offriamo son tuoi" - lo proclamiamo incominciando il prefazio:  "In alto i nostri cuori".

        Certo, non sono cuori innocenti:  il nostro peccato li ha deturpati:  "Ah! il tuo dono fu guasto da noi". E, pure, li rimettiamo ugualmente, così come sono, e quale pegno di misericordia divina, alla profonda bontà che li ha plasmati.

        È un affidamento accompagnato dalla preghiera perché questa stessa bontà, con l'alito creatore dell'inizio, vi infonda una fede capace di oltrepassare le apparenze visibili, una speranza che matura nel possesso dei beni celesti, e un amore che invece non conosce tramonto, ma rimane come eterna comunione con Dio:  "(...) quell'alta Bontà che li fea, / Li riceva quai sono, a mercè; / E vi spiri, col soffio che crea, / Quella fede che passa ogni velo, / Quella speme che more nel cielo, / Quell'amor che s'eterna con Te".

        Le strofe che cantano la consacrazione risaltano per la viva percezione dell'Eucaristia come mistica comunione con Cristo. Di fronte all'umile Vittima immolata e al Sangue purissimo - "Ostia umìl, Sangue innocente" - il credente avverte insieme la presenza e il nascondimento di Dio - che sono il mistero e il "dramma" stesso dell'Eucaristia - e ritrova Gesù nella condizione umana di "Figlio d'Eva" e in quella divina di "eterno Re".

        Egli si rende conto della propria inconsistenza:  è stato tratto dal fango, è nativamente polvere, e, pure, una polvere che irresistibilmente riesce a sentire Dio e si scioglie e si consuma nella adorazione, e sulla quale implora il chinarsi dello sguardo della divina pietà:  "China il guardo, Iddio pietoso, / A una polve che Ti sente, / che si perde innanzi a Te".

        Il testo che segue - "Prima della comunione" - accentua la forza e la profondità impressionante di questi sentimenti di adorazione e di unione con Dio. Un così stretto contatto giunge a infondere come un sacro spavento e un arcano trasporto, mentre sorge il soffio divino, che avvolge tutt'intorno:  "Questo terror divino - scrive il poeta - Questo segreto ardor, / È che mi sei vicino, / È l'aura tua, Signor!".
        "Respirare il soffio della grazia celeste":  è un'espressione di sant'Ambrogio nel suo De Cain et Abel.

        Nella concezione di Manzoni questa vicinanza eucaristica assume la forma del rapporto più esclusivo e unitivo, ossia il rapporto sponsale. Il Signore è lo Sposo dell'anima, che a lui anela:  "Sospir dell'alma mia, / Sposo, Signor".
        Si tratta di una familiarità e intimità che sono in atto già nel sacramento, ma che raggiungeranno il loro vertice nell'abbraccio eterno e nel colloquio personale, a tu per tu:  "(...) che fia / Nel tuo superno amplesso! / Quando di Te Tu stesso / Mi parlerai nel cor!"

        Gli stessi accenti muovono i versi successivi:  ci si avvia alla comunione in un intreccio di confidenza amorosa e di consapevolezza del proprio nulla di fronte alla maestà divina. Il cuore è colmo di gioia indicibile e insieme è carico di trepido sgomento e dell'acuta e rinnovata coscienza del proprio peccato e del proprio essere cenere:  "Con che fidente affetto / Vengo al tuo santo trono, / M'atterro al tuo cospetto, / Mio Giudice e mio Re! / Con che ineffabil gaudio / Tremo dinanzi a Te! / Cenere e colpa io sono".
    Possiamo sentire l'eco delle parole:  "Signore, non sono degno che tu venga nel mio petto".

        Ciononostante, l'animo non si dispera, ma si appoggia interamente su Cristo:  ora è lui che, facendo tutt'uno con chi lo ha ricevuto, prega e invoca misericordia, offrendo a Dio i propri meriti, la propria adorazione e il proprio ringraziamento:  "Ma vedi chi T'implora / Chi vuole il tuo perdono, / Chi merita, Chi adora, / Chi rende grazie in me".
        Il poeta mostra di conoscere perfettamente la dottrina cattolica della mediazione di Gesù Cristo, che supplisce e rappresenta l'umanità dinanzi al Padre celeste.

        Ed ecco ritornare, negli ultimi motivi delle strofe, la figura dell'Eucaristia come un'esperienza estatica o mistica:  chi la riceve possiede Dio, vive di lui, quasi si amalgama con lui e con lui respira:  esattamente in questo verbo - "respirare con Dio" - crediamo di scorgere il culmine del sentimento eucaristico di Manzoni.

        Chi ha preso parte alla mensa eucaristica si ritrova in sé da offrire, fuso col proprio amore, lo stesso amore di Dio:  "Sei mio, con Te respiro:  / Vivo di Te, gran Dio! / Confuso a Te col mio / Offro il tuo stesso amor".
        Le strofe terminano con una appassionata invocazione:  "Empi ogni mio desiro; / Parla, ché tutto intende; / dona, ché tutto attende, / Quanto T'alberga un cor".

        Dopo il dono del Corpo e del Sangue di Cristo, ogni parola divina può essere intesa, e ogni grazia può essere aspettata.

        Del Manzoni eucaristico possiamo ricordare anche i più semplici versi "per una prima comunione", composti prima del 1823 su richiesta di Luigi Tosi, suo confessore e guida spirituale, allora canonico di Sant'Ambrogio di Milano:  "Vieni, o Signor, riposati:  / Regna ne' nostri petti! / Sgombra da' nostri affetti / Ciò che Immortal non è. // Sei nostro! Ogni tua visita / Prepari un tuo ritorno, / Fino a quell'aureo giorno / Che ci rapisca in Te".

        È ancora la prospettiva dell'Eucaristia come anticipo e avvio della venuta finale e del congiungimento o dell'estasi definitivo.

        Ora ci spieghiamo perché Rosmini parlasse di "meraviglia di poesia e di teologia e di religiosissimo affetto". Egli si riferiva ai versi sull'offertorio ma, in realtà, abbiamo detto che il giudizio vale per tutte queste strofe. Manzoni ci ha lasciato in esse il succo di un trattato sull'Eucaristia. Se la facilità ritmica dei versi le rendeva adatte al canto dei fanciulli, in realtà l'alto contenuto dei termini trascende di molto la loro incipiente capacità di comprensione. Domanda una prolungata riflessione, che non manca di suscitare stupore e ammirazione.



    (©L'Osservatore Romano - 17 Maggio 2009)


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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 21/05/2009 19:15
    Sorriso una profonda riflessione sulla Tradizione vera....del mio amico Chisolm:

    La “nouvelle cousine” della fede assomiglia a quello che capitò alla mia famiglia, fatemi giocare con l’analogia…
    Dunque, mia nonna imparò a cucinare il “frico” (è uno squisito piatto friulano a base di formaggi e patate) da sua madre che, a sua volta, lo apprese dalla madre e via così.
    Nonna, pur sapendo scrivere pochissimo, si appuntò su un vecchio quaderno di scuola gli ingredienti e le modalità per cucinarlo secondo la “tradizione”. Ecco che la sua tremolante, essenziale “scrittura” viaggiava parimenti con la tradizione che lei aveva appreso e che avrebbe dovuto insegnare e custodire.

    Quando insegnò la ricetta a una delle sue figlie, mia zia, beh, lei non si appuntò niente e cominciò a cucinare il frico al quale, ogni volta, mancava un ingrediente. La forma era quella, ma la sostanza… Io e i miei fratelli con le mie cugine siamo cresciuti a frico… Furono infatti le mie cugine che, da brave friulane, appresero dalla madre a cucinare il frico. Però, non avendo mia zia mai messo nero su bianco della ricette, trapassò loro quello che ricordava.

    Le mie cugine, da quei disorganizzati ricordi, appresero a fare il frico: la forma era più o meno quella canonica ma la sostanza ancora era lontana. C’era anche il fatto che, essendo il frico un piatto povero, fatto con gli avanzi del formaggio, beh, queste benedette ragazze, si vergognavano un po’ di quella tradizione così povera, tanto da non prepararlo quando si fermavano a cena i loro benestanti fidanzati. Ma una volta, avvenne che i fidanzati arrivarono a sorpresa e le ragazze dovettero inventarsi qualcosa con le patate e il formaggio (visto che non c’era altro) e si cimentarono con il favoloso frico.

    Dal momento che avevano letto su qualche rivista qualcosa sulla nouvelle cousine, trasformarono quel piatto antico in un dipinto di Pollok, se avete presente… La coreografia faceva assomigliare i formaggi fusi ai resti di un esplosione nucleare, il tutto cromaticamente addobbato con verdurine, carotine e olivine.

    Non fecero una bella figura, anche se si sposarono lo stesso. Compresero però che un piccolo foglio di “scrittura”, gelosamente custodito dalla “tradizione” avrebbe consentito loro di insegnare “magistralmente” alle loro figlie, una delle cose più buone che io abbia mai mangiato.

    Chissà se un giorno finiremo a mangiare l’ostia con la senape, visto che certe parrocchie stanno diventando una specie di McDonald…

    Chisolm

    [SM=g1740734]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 10/06/2009 18:58
    Eucaristia e liturgia

    Testimoni di una presenza reale


    di Robert Imbelli


    La Lettera agli Ebrei è uno degli scritti più ricchi del Nuovo Testamento, ma troppo spesso i credenti lo trascurano, forse perché l'argomento trattato è impegnativo e, come l'autore stesso ci avverte, richiede una particolare attenzione. ll centro dell'annuncio è in questi versetti:  "Egli invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di Lui si avvicinano a Dio:  Egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore" (7, 24-25).

    Durante la liturgia si prega sempre "attraverso nostro Signore Gesù Cristo che vive e regna nei secoli dei secoli". In qualche modo si fa eco alla fede dell'autore della Lettera agli Ebrei:  Gesù vive sempre e intercede per la sua Chiesa, il suo corpo di cui è il capo. La Chiesa dipende da Cristo per la sua stessa vita. Gesù comunica questa vita in particolare nell'Eucaristia e Benedetto XVI, nell'esortazione  apostolica Sacramentum caritatis, spiega che "l'Eucaristia è Cristo che si dona a noi, edificandoci continuamente come suo corpo" (n. 14).

    "La Chiesa fa l'Eucaristia e l'Eucaristia fa la Chiesa", recita un adagio dell'età patristica sottolineando l'esistenza di un rapporto intimo e reciproco fra il corpo eucaristico e il corpo ecclesiale del Signore. Tuttavia è importante comprendere correttamente qual è la priorità. Come rileva Benedetto XVI "la possibilità per la Chiesa di "fare" l'Eucaristia è tutta radicata nella donazione che Cristo le ha fatto di se stesso" perché "Egli è per l'eternità colui che ci ama per primo" (n. 14). Nell'Eucaristia l'amore di Cristo si incarna più pienamente:  proprio il suo corpo e il suo sangue sono dati per noi.

    Dopo il Vaticano ii la riforma, benvenuta e necessaria, della liturgia ha portato con sé molti ricchi frutti. Le Sacre Scritture hanno ritrovato un posto d'onore, per consentire al popolo di Dio di nutrirsi alla mensa della Parola e a quella eucaristica. Inoltre il maggior coinvolgimento dell'intera assemblea nella celebrazione ha portato a un partecipazione più attiva da parte di tutta la comunità, rispondendo all'esortazione del concilio alla participatio actuosa.

    Tuttavia, anche i più accesi sostenitori dei riti liturgici riformati ammettono l'esistenza di un potenziale "lato oscuro" della riforma. La celebrazione dell'Eucaristia versus populum e la tendenza a evidenziare l'Eucaristia come pasto della comunità può, senza volerlo, mettere in ombra la natura unica di questo posto, reso possibile dal sacrificio di Cristo. È il dono di sé di Cristo che è al centro di questo pasto:  "Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo" (Giovanni, 6, 51). "L'Eucaristia è Cristo che si dona", scrive Benedetto XVI e in latino è ancora più efficace:  Christus se nobis tradens ("Cristo si dona per noi").

    La sottolineatura della dimensione collettiva della liturgia, di per sé indiscutibilmente valida, rischia di trasformarsi in un'autocelebrazione della comunità. Questo rischio diviene più elevato in una  cultura terapeutica, nella quale cioè l'emozione  superficiale spesso  viene assunta come criterio di autenticità. Il risultato può essere un corpo "decapitato", una comunità privata del capo.

    Del resto la necessità di evidenziare il primato di Cristo quale capo del corpo e fonte della sua vita, non è emersa solo dopo il Vaticano II. Molto tempo prima, il teologo gesuita, più tardi cardinale, Henri de Lubac, scrisse nella Méditation sur l'Église:  "Di certo non c'è confusione fra il capo e le membra. I cristiani non sono il corpo né fisico né eucaristico di Cristo, e la sposa non è lo sposo". C'è un'unione intima in un'irriducibile distinzione. Cristo, il capo, non è mai privo del suo corpo, che è la Chiesa, e la Chiesa non può prosperare se non nell'unione donatrice di vita con il suo capo.

    È quindi essenziale coltivare nella spiritualità un senso vivo della presenza reale di Cristo, che è resa pienamente dall'Eucaristia, ma va accompagnata da altre esperienze della presenza di Cristo. I cristiani orientali, ad esempio, hanno promosso la pratica della "preghiera di Gesù", spesso sincronizzata con il proprio respiro. La tradizione benedettina cerca invece di riconoscere la presenza di Cristo nell'ospite. In altri casi il recupero dell'adorazione del Santissimo Sacramento ha aiutato molte persone a riscoprire la presenza viva del Signore fra i membri del suo popolo.

    L'Eucaristia diviene quindi una scuola della presenza del Signore, che ci insegna a percepirne la presenza in ogni aspetto della vita. Il sacerdote che celebra l'Eucaristia dovrebbe cercare di essere anche il mistagogo della comunità, per condurre la comunità a una comprensione profonda della presenza salvifica di Cristo. Un aspetto cruciale di questa mistagogia è l'inserimento di momenti di profondo silenzio nella celebrazione eucaristica, utili per meglio assaporare la presenza di Cristo nella Parola e nel sacramento.

    In un mondo in cui sembra prevalere troppo spesso l'assenza di significato e di speranza, i cristiani, formati nell'Eucaristia, possono essere testimoni di una presenza reale, sia nel culto del Cristo risorto sia nel proprio servizio verso quanti soffrono per cause materiali e spirituali. La loro esperienza di Cristo nell'Eucaristia li spingerà a cantare con Bernardo di Chiarvalle: 
    Jesu dulcis memoria, dans ver cordis gaudia/sed super mel et omnia, ejus dulcis praesentia!


    (©L'Osservatore Romano - 11 giugno 2009)


    Fraternamente CaterinaLD

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    00 29/06/2009 17:10

    La liturgia al tempo degli Apostoli? Incenso, sfarzo e merletti!


    Nell'omelia dei primi vespri della Festa dei SS. Pietro e Paolo, il Papa ha comunicato al mondo l'esito dell'ispezione scientifica della tomba attribuita all'Apostolo delle genti, rinvenuta sotto la basilica di S. Paolo fuori le Mura dopo l'incendio di questa nel 1823.

    Ci informa Benedetto XVI: “Nel sarcofago, che non è stato mai aperto in tanti secoli, è stata praticata una piccolissima perforazione per introdurre una speciale sonda, mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato con oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. E’ stata anche rilevata la presenza di grani d’incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree. Inoltre, piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo. Ciò sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo Paolo".

    Lino prezioso di colore porpora (il colore degl'imperatori); lamine addirittura di vello d'oro; grani di incenso rari... chi glielo spiega questo, a tutti quei tristi liturgisti che hanno massacrato i riti della Chiesa, spogliato gli altari, bruciato le pianete e i broccati (imperativamente sostituiti da casule-gellabà in misto terital, con pàmpini, spighe e pagnotte appiccicati sopra), e tutto questo sostenendo che si doveva tornare all'essenzialità liturgica e alla povertà dei tempi apostolici?

    Sentito il Papa? Visto che cosa han trovato in una tomba "mai aperta prima" in 19 secoli e mezzo, di uno dei primi seguaci di Gesù Cristo, apostolo per giunta, morto appena trent'anni dopo di Lui e in epoca di sanguinose persecuzioni?

    E allora, o pseudo-liturgisti malati di archeologismo: ci dite per favore quando mai i cristiani hanno celebrato i loro riti nel modo squallido e povero a cui ci avete voluto far "ritornare"?



    Fraternamente CaterinaLD

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    00 21/09/2009 16:06
    L’Eucaristia “sacrificium laudis”

    1. “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria”. Questa proclamazione di lode trinitaria suggella in ogni celebrazione eucaristica la preghiera del Canone. L’Eucaristia, infatti, è il perfetto “sacrificio di lode”, la glorificazione più alta che dalla terra sale al cielo, “la fonte e l’apice di tutta la vita cristiana in cui (i figli di Dio) offrono (al Padre) la vittima divina e se stessi con essa” (LG n.11). Nel Nuovo Testamento la Lettera agli Ebrei ci insegna che la liturgia cristiana è offerta da un “sommo sacerdote santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli”, che ha compiuto una volta per sempre un unico sacrificio “offrendo se stesso” (cfr Eb 7,26-27). “Per mezzo di Lui, dice la Lettera, offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode” (Eb 13,15). Vogliamo oggi evocare brevemente i due temi del sacrificio e della lode che si incontrano nell’Eucaristia, sacrificium laudis.

    2. Nell’Eucaristia si attualizza innanzitutto il sacrificio di Cristo. Gesù è realmente presente sotto le specie del pane e del vino, come egli stesso ci assicura: “Questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue” (Mt 26,27-28). Ma il Cristo presente nell’Eucaristia è il Cristo ormai glorificato, che nel Venerdì Santo offrì se stesso sulla croce. È ciò che sottolineano le parole da lui pronunziate sul calice del vino: “Questo è il mio sangue dell’alleanza versato per molti” (Mt 26,28; cfr Mc 14,24; Lc 22,20). Se si esaminano queste parole alla luce della loro filigrana biblica, affiorano due rimandi significativi. Il primo è costituito dalla locuzione “sangue versato” che, come attesta il linguaggio biblico (cfr Gen 9,6), è sinonimo di morte violenta. Il secondo consiste nella precisazione “per molti” riguardante i destinatari di questo sangue versato. L’allusione qui ci riporta a un testo fondamentale per la rilettura cristiana delle Scritture, il quarto canto di Isaia: col suo sacrificio, “consegnando se stesso alla morte”, il Servo del Signore “portava il peccato di molti” (Is 53,12; Eb 9,28; 1Pt 2,24).

    3. La stessa dimensione sacrificale e redentrice dell’Eucaristia è espressa dalle parole di Gesù sul pane nell’Ultima Cena, così come sono riferite dalla tradizione di Luca e di Paolo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi” (Lc 22,19; cfr 1 Cor 11,24). Anche in questo caso si ha un rimando alla donazione sacrificale del Servo del Signore secondo il passo già evocato di Isaia (53,12): “Egli ha consegnato se stesso alla morte…; egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. “L’Eucaristia è, dunque, un sacrificio: sacrificio della redenzione e, al tempo stesso, della nuova alleanza, come crediamo e come chiaramente professano anche le Chiese d’Oriente. Il sacrificio odierno - ha affermato, secoli fa, la Chiesa greca (nel Sinodo Costantinopolitano contro Soterico del 1156-57) - è come quello che un giorno offrì l’unigenito incarnato Verbo di Dio, viene da lui offerto oggi come allora, essendo l’identico e unico sacrificio” (Lettera Apostolica Dominicae Cenae n. 9).

    4. L’Eucaristia, come sacrificio della nuova alleanza, si pone quale sviluppo e compimento dell’alleanza celebrata sul Sinai quando Mosè ha versato metà del sangue delle vittime sacrificali sull’altare, simbolo di Dio, e metà sull’assemblea dei figli di Israele (cfr Es 24,5-8). Questo “sangue dell’alleanza” univa intimamente Dio e uomo in un legame di solidarietà. Con l’Eucaristia l’intimità diviene totale, l’abbraccio tra Dio e l’uomo raggiunge il suo apice. È il compiersi di quella “nuova alleanza” che aveva predetto Geremia (31,31-34): un patto nello spirito e nel cuore che la Lettera agli Ebrei esalta proprio partendo dall’oracolo del profeta, raccordandolo al sacrificio unico e definitivo di Cristo (cfr Eb 10,14-17).

    5. A questo punto possiamo illustrare l’altra affermazione: l’Eucaristia è un sacrificio di lode. Essenzialmente orientato alla comunione piena tra Dio e l’uomo, “il sacrificio eucaristico è la fonte e il culmine di tutto il culto della Chiesa e di tutta la vita cristiana. A questo sacrificio di rendimento di grazie, di propiziazione, di impetrazione e di lode i fedeli partecipano con maggiore pienezza, quando non solo offrono al Padre con tutto il cuore, in unione con il sacerdote, la sacra vittima e, in essa, loro stessi, ma ricevono pure la stessa vittima nel sacramento” (Sacra Congregazione dei Riti, Eucharisticum Mysterium, n. 3 e). Come dice il termine stesso nella sua genesi greca, l’Eucaristia è “ringraziamento”; in essa il Figlio di Dio unisce a sé l’umanità redenta in un canto di azione di grazie e di lode. Ricordiamo che la parola ebraica todah, tradotta “lode”, significa anche “ringraziamento”. Il sacrificio di lode era un sacrificio di rendimento di grazie (crf Sal 50[49], 14.23). Nell’Ultima Cena, per istituire l’Eucaristia, Gesù ha reso grazie a suo Padre (cfr Mt 26,26-27 e paralleli); è questa l’origine del nome di questo sacramento.

    6. “Nel Sacrificio eucaristico, tutta la creazione amata da Dio è presentata al Padre attraverso la morte e la risurrezione di Cristo” (CCC 1359). Unendosi al sacrificio di Cristo, la Chiesa nell’Eucaristia dà voce alla lode dell’intera creazione. A ciò deve corrispondere l’impegno di ciascun fedele a offrire la sua esistenza, il suo “corpo” - come dice Paolo - in “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1), in una comunione piena con Cristo. In questo modo un’unica vita unisce Dio e l’uomo, il Cristo crocifisso e risorto per tutti e il discepolo chiamato a donarsi interamente a Lui. Questa intima comunione d’amore è cantata dal poeta francese Paul Claudel che pone in bocca a Cristo queste parole: “Vieni con me, dove Io Sono, in te stesso, / e io ti darò la chiave dell’esistenza. / Là dove Io Sono, là eternamente / è il segreto della tua origine… / (…). Dove sono le tue mani che non siano le mie? / E i tuoi piedi che non siano confitti alla stessa croce? / Io sono morto e sono risorto una volta per tutte! Noi siamo vicinissimi l’uno all’altro / (…). Come fare per separarti da me / senza che tu mi strappi il cuore?” (La Messe là-bas)

    Giovanni Paolo II
    UDIENZA GENERALE - Mercoledì, 11 ottobre 2000





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    00 01/10/2009 11:09

    La liturgia spiegata a un amico.

    by LC

    Liturgia è celebrare. Non è quindi solo un vedere, un assistere, un adempiere. Celebrare ha a che fare con la festa. L’immagine più propria è quella delle nozze, dove le parole, nel mentre le si pronuncia, si fanno carico di quanto dicono, si fanno vincolo, attesa, promessa, riconoscenza, gioia.

    Celebrare è l’unione della parola con ciò che dice. C’è una parola che lo esprime bene, ed è l’Amen: l’adesione piena, il dire che è allo stesso tempo già essere.

    La liturgia celebra la salvezza della storia. Dio dal principio si è legato al destino dell’uomo e della donna. Anche quando questi hanno rinnegato quel legame, il legame non è venuto meno; Dio non si è nascosto, non li ha abbandonati, ma ha continuato ad accompagnarli nella storia. Ha parlato loro sul cuore. Ha consegnato loro il proprio amore viscerale, fino a consegnare se stesso alla storia, all’umanità della carne, all’umanità della morte (Gv 3,16). Sulla croce le parole di cura di Dio hanno compiuto il proprio Amen, si sono fatte carico fino in fondo del loro significato di amore per l’umanità.

    Quando Marshall McLuhan disse che il medium è il messaggio pensava al Verbo che si è fatto carne. Pensava all’Amen del Logos sulla croce.

    Ed ecco lo scandalo e la follia: la pietra scartata è diventata testata d’angolo, ovvero il sacrificio non è distruzione, ma creazione, donazione, è nuova vita. Cristo infatti è il Vivente: io sono l’alfa e l’omega, dice il Signore Dio, colui che è, che era, che viene (Ap 1,8).

    Questo è importante: non dice che verrà, ma che viene. Noi siamo nell’adventus Dei. Nella liturgia, la sposa è la Chiesa che dice il proprio sì, il proprio Amen a questa venuta che sta già avvenendo. E’ un andare incontro allo sposo che implica spostamento, conversione, oblazione.


    L’offertorio è proprio questa processione, questo cammino del popolo di Dio che porta pane e vino, frutti del creato e del lavoro, e la propria stessa vita a essere ricreati.
    La salvezza della storia passa attraverso il farsi corpo e sangue di Cristo.

    La chiesa di pietra riflette le pietre vive. L’aula è il cammino del popolo di Dio lungo la storia. L’abside è l’adventus Dei. L’ambone è la parola che si consegna e l’altare è Cristo che si consegna. La cupola è il cielo che si apre nell’incontro di Dio con il suo popolo.

    Ecco perché le chiese sono dipinte, con la creazione, con le storie dell’Antico Testamento, con i profeti, con gli episodi del Vangelo, con il giudizio finale; ecco perché la massima cura del disegno o dello scalpello è riservata anche alle figure altissime che l’occhio neanche distingue: nella liturgia tutta la storia, anche quella minuta, è chiamata a raccolta, tutta la storia partecipa della salvezza lì celebrata.

    Fonte Del Visibile


    Fraternamente CaterinaLD

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    00 20/12/2009 18:36

    Bishop Athanasius Schneider - VESCOVO ESEMPLARE !!!


    Bishop Athanasius Schneider, ORC
    VESCOVO ESEMPLARE !!!
     

    Il Vescovo Schneider continua il suo pellegrinaggio in tutto il mondo
    in difesa della Comunione tradizionale


    Mons. Athanasius Schneider ha visitato l'Estonia 10 dicembre 2009, per la pubblicazione del suo libro DOMINUS EST in lingua estone. Dopo la presentazione, il vescovo Schneider ha celebrato una Messa Cantata nella Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo.

    Nella presentazione del libro il Vescovo ha spiegato come l'attuale forma di comunione nella mano non ha nulla a che fare con la pratica della comunione nella mano nei primi secoli. Il nuovo modo è stato adattato da alcuni preti liberali in Olanda direttamente dal calvinisti nel 1965.




    Il Vescovo ha finalmente deciso di scrivere un libro per difendere il modo tradizionale di ricevere la Santa Comunione, e quando il lavoro era finito, ha consegnato un manoscritto al Santo Padre. Il Papa ha risposto al Vescovo elogiando il lavoro e la sua conoscenza della patristica.




    Il Vescovo Schneider ha detto che aveva anche chiesto al Papa di non distribuire la Comunione nella mano nelle messe Papali, e anche se la risposta del Papa è stata di sostegno non era certo che ciò sarebbe accaduto. Ma dal momento che solo pochi mesi più tardi, tutti i comunicandi è stato richiesto di ricevere la Santa Comunione da parte del Papa solo in ginocchio e sulla lingua.  Un vero miracolo, dice il vescovo Schneider.  RORATE CAELI


    Libreria Editrice Vaticana pubblica libro di Mons. Athanasius Schneider sulla sacra Comunione, con prefazione di Mons. Malcolm Ranjith




    Dominus Est - Riflessioni di un Vescovo dell'Asia Centrale sulla sacra Comunione”, scritto da Mons. Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare di Karaganda (Kazakhstan), è stato stampato di recente dalla Libreria Editrice Vaticana, con prefazione del Segretario della Congregazione del Culto Divino e della Disciplina dei Sacramenti, Mons. Malcolm Ranjith.

    Ecco la presentazione che si può leggere sulla contra-copertina di questo importante lavoro:


    La sacra Comunione non è soltanto un momento conviviale del nutrimento spirituale, ma anche l'incontro personale più vicino possibile in questa vita del fedele con il Signore e Dio. L'atteggiamento interiore più vero in questo incontro è quello della recettività, dell'umiltà, dell'infanzia spirituale. Un Tale atteggiamento esige da parte nostra gesti tipici di adorazione e di riverenza. Ne abbiamo testimonianze eloquenti nella bimillenaria tradizione della Chiesa, caratterizzata dal detto “con amore e timore” (primo millennio) e “quanto puoi, tanto osa” (secondo millennio). L'autore riporta anche l'esempio di tre “donne eucaristiche” di sua conoscenza del tempo della clandestinità sovietica. Tali testimonianze possono incoraggiare ed istruire i cattolici del terzo millennio su come trattare il Signore nell'augusto momento della sacra Comunione.


    * * *
    PREFAZIONE
    Nel Libro dell'Apocalisse, San Giovanni rac­conta come avendo visto e udito ciò che gli fu rivelato, si prostrava in adorazione ai piedi del­l'angelo di Dio (cf. Ap 22, 8). Prostrarsi o mettersi in ginocchio davanti, alla maestà della presenza di Dio, in umile adorazione, era un'abitudine di riverenza che Israele attuava sempre davanti alla presenza del Signore. Dice il primo libro dei Re: « quando Salomone ebbe finito di rivolgere al Si­gnore questa preghiera e questa supplica, si alzò davanti all'altare del Signore, dove era inginoc­chiato con le palme tese verso il cielo, si mise in piedi e benedisse tutta l'assemblea d'Israele » (1 Re 8, 54-55). La posizione della supplica del Re è chiara: Lui era in ginocchio davanti all'altare.

    La stessa tradizione è visibile anche nel Nuo­vo Testamento dove vediamo Pietro mettersi in ginocchio davanti a Gesù (cf Lc 5, 8); Giairo per chiedergli di guarire sua figlia (Lc 8, 41), il Sama­ritano tornato a ringraziarlo e Maria, sorella di Lazzaro per chiedere il favore della vita per il suo fratello (Gv 11, 32). Lo stesso atteggiamento di prostrazione davanti allo stupore della presenza e rivelazione divina si nota in genere nel Libro dell'Apocalisse (Ap 5, 8, 14 e 19, 4).


    Intimamente legato a questa tradizione, era la convinzione che il Tempio Santo di Gerusalem­me era la dimora di Dio e perciò nel tempio bi­sognava disporsi in atteggiamenti corporali espressivi di un profondo senso di umiltà e rive­renza alla presenza del Signore.


    Anche nella Chiesa, la convinzione profonda che nelle specie Eucaristiche il Signore è vera­mente e realmente presente e la crescente prassi di conservare la santa comunione nei tabernaco­li, contribuì alla prassi di inginocchiarsi in atteg­giamento di umile adorazione del Signore nel­l'Eucaristia.


    Difatti, riguardo alla presenza reale di Cristo nelle specie Eucaristiche il Concilio di Trento pro­clamò: « in almo sanctae Eucharistiae sacramento post panis et vini consecrationem Dominum nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter sub specie illarum rerum sensibilium contineri » (DS 1651).


    Inoltre, San Tommaso d'Aquino aveva già definito l'Eucaristia latens Deitas (S. Tommaso d'Aquino, Inni). E, la fede nella presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche apparteneva già d'allora all'essenza della fede della Chiesa Catto­lica ed era parte intrinseca dell'identità cattolica. Era chiaro che non si poteva edificare la Chiesa se tale fede veniva minimamente intaccata.


    Perciò, l'Eucaristia, Pane transustanziato in Corpo di Cristo e vino in Sangue di Cristo, Dio in mezzo a noi, doveva essere accolta con stupo­re, massima riverenza e in atteggiamento di umi­le adorazione. Papa Benedetto XVI ricordando le parole di Sant'Agostino «nemo autem illam car­nem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando» (Enarrationes in Psalmos 89, 9; CCL XXXIX, 1385) sottolinea che « ricevere l'Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso, colui che riceviamo [...] soltanto nell'ado­razione può maturare un'accoglienza profonda e vera » (Sacramentum Caritatis 66).


    Seguendo questa tradizione è chiaro che as­sumere gesti e atteggiamenti del corpo e dello spirito che facilitano il silenzio, il raccoglimento, l'umile accettazione della nostra povertà davanti all'infinita grandezza e santità di Colui che ci vie­ne incontro nelle specie eucaristiche diventava coerente e indispensabile. Il miglior modo per esprimere il nostro senso di riverenza verso il Signore Eucaristico era quello di seguire l'esem­pio di Pietro che, come racconta il Vangelo, si gettò in ginocchio davanti al Signore e disse «Si­gnore, allontanati da me che sono un peccatore » (Lc 5, 8).


    Ora, si nota come in alcune chiese, tale prassi viene sempre meno e i responsabili non solo im­pongono i fedeli a ricevere la Santissima Eucaristia in piedi, ma hanno persino eliminati tutti gli ingi­nocchiatoi costringendo i loro fedeli a stare seduti, o in piedi, anche durante l'elevazione delle specie Eucaristiche presentate per l'adorazione. E strano che tali provvedimenti siano stati presi nelle dio­cesi, dai responsabili della liturgia, o nelle chiese, dai parroci, senza una pur minima consultazione dei fedeli, anche se oggi più che mai, si parla in molti ambienti, di democrazia nella Chiesa.


    Allo stesso tempo, parlando della comunione sulla mano bisogna riconoscere che fu una prassi introdotta abusivamente e in fretta in alcuni am­bienti della Chiesa subito dopo il Concilio, cam­biando la secolare prassi precedente e divenendo ora la prassi regolare per tutta la Chiesa. Si giu­stificava tale cambiamento dicendo che rifletteva meglio il Vangelo o la prassi antica della Chiesa.


    E’ vero che se si riceve sulla lingua, si può ricevere anche sulla mano, essendo questo orga­no del corpo d'uguale dignità. Alcuni, per giusti­ficare tale prassi, si riferiscono alle parole di Gesù: « prendi e mangia » (Mc 14, 22; Mt 26, 26). Quali siano le ragioni a sostegno di questa prassi, non possiamo non ignorare ciò che succede a livello mondiale dove tale pratica viene attuata. Questo gesto contribuisce ad un graduale e crescente indebolimento dell'atteggiamento di riverenza ver­so le sacre specie Eucaristiche. La prassi prece­dente invece salvaguardava meglio quel senso di riverenza. Sono subentrati invece, una allarmante mancanza di raccoglimento e uno spirito di ge­nerale disattenzione. Si vedono ora dei comuni­candi che spesso tornano ai loro posti come se nulla di straordinario fosse accaduto. Maggior­mente distratti sono i bambini e gli adolescenti. In molti casi non si nota quel senso di serietà e silenzio interiore che devono segnalare la presen­za di Dio nell'anima.


    Ci sono poi abusi di chi porta via le sacre specie per tenerle come souvenir, di chi le vende, o peggio ancora, di chi le porta via per profanare in riti satanici. Tali situazioni sono state rilevate. Persino nelle grandi concelebrazioni, anche a Ro­ma, varie volte sono state trovate delle specie sacre buttate a terra.


    Questa situazione non ci porta solo a riflette­re sulla grave perdita di fede, ma anche sugli ol­traggi e offese al Signore che si degna di venirci incontro volendo renderci simili a lui, affinché rispecchi in noi la santità di Dio.


    Il Papa parla della necessità non solo di ca­pire il vero e profondo significato dell'Eucaristia, ma anche di celebrarla con dignità e riverenza. Dice che bisogna essere consci dell'importanza « dei gesti e della postura, come inginocchiarsi durante i momenti salienti della preghiera Euca­ristica» (Sacramentum Caritatis, 65). Inoltre par­lando della ricezione della Santa Comunione in­vita tutti a: « fare il possibile perché il gesto nella sua semplicità corrisponda al suo valore di incon­tro personale con il Signore Gesù Cristo nel Sacramento » (Sacramentum Caritatis, 50).


    In questa ottica è da apprezzare il Libretto scritto da S.E. Mons. Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare di Karaganda in Kazakhstan dal titolo molto significativo Dominus Est. Esso vuole dare un contributo alla discussione attuale sul­l'Eucaristia, presenza reale e sostanziale di Cristo nelle specie consacrate del Pane e del Vino. È significativo che Mons. Schneider inizi la sua Pre­sentazione con una nota personale ricordando la profonda fede eucaristica della sua mamma e di altre due donne, fede conservata fra tante soffe­renze e sacrifici che la piccola comunità dei cat­tolici di quel Paese ha sofferto negli anni della persecuzione sovietica. Partendo da questa sua esperienza, che suscitò in lui una grande fede, stupore e devozione per il Signore presente nel­l'Eucaristia, egli ci presenta un excursus storico-teologico che chiarisce come la prassi di ricevere la Santa Comunione in bocca e in ginocchio sia stata accolta e praticata nella Chiesa per un lungo periodo di tempo.


    Ora io credo che sia arrivato il momento di valutare bene la suddetta prassi, e di rivedere e se, necessario, abbandonare quella attuale che difatti non fu indicata né nella stessa Sacrosanctum Con­cilium, né dai Padri Conciliari ma fu accettata do­po una introduzione abusiva in alcuni Paesi. Ora, più che mai, è necessario aiutare i fedeli a rinnovare una viva fede nella presenza reale di Cristo nelle specie Eucaristiche allo scopo di rafforzare la vita stessa della Chiesa e di difenderla in mezzo alle pericolose distorsioni della fede che tale si­tuazione continua a causare.


    Le ragioni per tale mossa devono essere non tanto quelle accademiche ma quelle pastorali – spirituali come anche liturgiche – in breve, ciò che edifica meglio la fede. Mons. Schneider in questo senso mostra lodevole coraggio, perché ha saputo cogliere il vero significato delle parole di San Paolo: « ma tutto si faccia per l'edificazio­ne» (1 Cor 14, 26).


    MALCOLM RANJITH
    Segretario della Congregazione del Culto Divino e della Disciplina dei Sacramenti

    Data di pubblicazione: 18 Gennaio 2008
    Formato: 11x17.5cm
    Codice ISBN: 978-88-209-8001-6
    EUR 8.0


    http://www-maranatha-it.blogspot.com/

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 23/01/2010 22:27
    Un grazie a Messainlatino:



    Actuosa participatio

    Don Gianluigi ci manda queste riflessioni di un giovane studente. Da meditare

    Oggi, davanti al Signore nel Tabernacolo, mi son chiesto, e mi chiedo:

    se davvero l’actuosa partecipatio è la verbosità di formule stanche (che neanche mancavano nell’antico rito, se pur in misura minore);

    se davvero l’actuosa partecipatio è quella di chi, quando in alcuni prefazi, si dice “per Cristo Signore nostro”, risponde meccanicamente “amen”;

    se davvero l’actuosa partecipatio è recitare tutti insieme – come all’asilo – la colletta o l’epiclesi, confondendo il sacerdozio ministeriale con quello comune;

    se davvero l’actuosa partecipatio è passare dall’altare alla tastiera per animare la celebrazione (come nei villaggi turistici?!);

    se davvero l’actuosa partecipatio è quella di chi, durante la liturgia della Parola, sghignazza con il compagno… di banco;

    se davvero l’actuosa partecipatio è quella di chi fa a gomitate con l’altro per portare le offerte all’altare;

    se davvero l’actuosa partecipatio di chi imposta la voce con un colpetto di tosse per declamare le letture;

    se davvero l’actuosa partecipatio è dimenticarci che il Signore è realmente sull’altare e collezionare quante più strette di mano possibile (facendo attenzione a non sederci accanto a chi ci sta antipatico);

    se davvero l’actuosa partecipatio è sentire tante parole, le solite parole, con la solita lingua, con i soliti ritmi, le solite chitarre, la solita musica… si cerca Dio, e si trova ancora l’uomo. Il solito uomo.

    O, se, forse – ma è un mio modestissimo parere – partecipa più ‘attivamente’ alla Santa Messa:

    la vecchietta che medita i misteri dolorosi mentre si rinnova il Sacrifico della Croce;

    il bambino che è richiamato dalla campanella all’elevazione, ed è incuriosito da tutte quelle genuflessioni (“forse che sia qualcosa di importante? qualcosa di più un semplice raccontino?”);

    chi, ancora, recita nell’intimo le sue preghiere adorando, riparando, propiziando ed impetrando;

    chi non capisce quello che si dice, ma sa quello che succede (e oggi? si sa quello che succede? Questa è la vera conoscenza; la sintassi e la grammatica non salvano…);

    chi sa che oltre la balaustra non c’è il “caos” del mondo, ma il “cosmo” di Dio;

    chi sta lì a guardare, senza farsi troppe domande, ma senza fare neanche troppe storie quando c’è da inginocchiarsi…

    Insomma, mi son chiesto se ‘actuosa partecipatio’ (che poi… non è che l’aggettivo ‘actuosa’ indichi qualcosa di più di una parte da recitare sul palcoscenico… magari una unione, non necessariamente coi sensi, al Sacrificio della Croce? Non è che forse è la partecipazione del cuore quella che conta? E non è che forse un rito che riempie il popolo di gestualità e verbosità faccia perdere molto dell’intimità di cui la Santa Messa avrebbe bisogno? E tra l’altro mi chiedo: com’è che i nostri fedeli sono felicissimi di compiere qualsiasi gesto li faccia sentire protagonisti – braccia allargate, strette di mano, balletti e così via – e poi… si dimentica di inginocchiarsi durante la consacrazione?) – dicevo: mi son chiesto, insomma, se ‘actuosa partecipatio’ sia quella dei soldati che gridano e giocano a dadi sotto la croce, o quella di Maria e Giovanni che vi stanno in silenzio… Io preferisco Maria e Giovanni. O forse, perché non parlavano, non hanno partecipato attivamente a quanto stava accadendo?





    Fraternamente CaterinaLD

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    00 06/02/2010 21:03
    L'ALTARE NON E' LA TAVOLATA DEL MANGIARE E DELLA CONVIVIALE, MA E' IL CALVARIO, IL CRISTO STESSO......


    Altare

    E' la superfice dove si celebra il sacrificio eucaristico. Rappresenta Cristo e per questo il presidente lo venera con un bacio e lo incensa. E' il centro di tutta la chiesa, può essere Coram Deo, se attaccato al muro (in modo che il sacerdote possa celebrare con le spalle al popolo) o Coram Populo se è staccato dal muro.
    Rito di Consacrazione dell'altare:

    -Aspersione
    Il Vescovo asperge l'altare con acqua benedetta


    -Unzione
    Dopo aver posto delle reliquie nell'altare il vescovo unge lo con il sacro Crisma




    Parole del rito:
    Santifichi il Signore con la sua potenza
    questo altare, che mediante il nostro ministero
    è unto con il crisma;
    sia segno visibile
    del mistero di Cristo,
    che si è offerto al Padre per la vita del mondo

    -Incensazione

    Il vescovo pone un braciere sull'altare e vi fa ardere dell'incenso, poi incensa l'altare


    Salga a te, Signore,
    l’incenso della nostra preghiera;
    come il profumo
    riempie questo tempio,
    così la tua Chiesa spanda nel mondo
    la soave fragranza di Cristo.


    L'altare viene poi preparato con la tovaglia, i candelieri accesi (e la Croce se non già presente a fianco o sopra l'altare, meglio SOPRA come sta insegnando il Pontefice) e la Messa continua nel modo normale.





    Fraternamente CaterinaLD

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    00 06/02/2010 21:31
    Particola (ostia) 

    Per particola si intende l'ostia piccola che, consacrata, viene usata per la comunione dei fedeli. Solitamente (anzi sempre) le particole e l'ostia per la Consacrazione, vengono confezionate dai Monaci o dalle Monache, ogni Diocesi le commissiona ai propri Monasteri più vicini, ma poichè non tutti possono farle avviene che Monasteri diversi distribuiscano le ostie un pò dove servono e vengono richieste...

    Ingredienti:
    Acqua
    Farina di frumento

    La produzione industriale avviene così:
                               


    Su un sito internet
    (per gli interessati
    http://www.geocities.com/benedettine_pisa/ita/ostie.htm) Ho trovato questo:

    Fasi di lavorazione delle ostie:
    Impastatura: un'apposita macchina provvede ad aspirare la farina e a miscelarla con l'acqua.
    Stampaggio: la pasta viene pompata fino alle macchine per lo stampaggio che provvedono a pressarla e cuocerla. Dallo stampo di ottendono ostie circolari del diametro di 30cm con impresso il simbolo del Monastero.
    Umidificazione: le ostie provenienti dallo stampaggio sono molto friabili e non possono essere tagliate direttamente per ottenere l'ostia di dimensioni normali (4cm), per cui si ammorbiscono umidificandole in una apposita stanza satura di vapore.
    Taglio: ultimata la fase di umidificazione le ostie vengono introdotte nelle macchine di taglio che, tramite punzonatura, producono le ostie di dimensione voluta.
    Vagliatura: non tutte le ostie rispettano le tolleranze in merito alla dimensione e al peso per cui è necessaria una operazione di vagliatura in modo da separare le ostie buone da quelle cattive.
    Imballaggio: questa è l'unica fase della lavorazione non ancora perfezionata in modo automatico. Le ostie vengono pesate e confezionate manualmente in apposite buste.
    Trasporto: terminato l'imballaggio, le ostie sono pronte per essere trasportate a destinazione oppure immagazzinate fino al momento della consegna.

    Esistono particole con bassissimo tenore di glutine per la comunione ai celiaci. Esse devono essere approvate dalla CEI (vedi ad es.
    http://www.chiesacattolica.it/pls/cc...511&id_ente=18)

    Oltre a quelle classiche,
    da diversi anni si fanno anche le Particole ed Ostie per celiaci:



    Lavorazione delle particole:





    Ostia

    Si definisce con "Ostia" il particolare tipo di pane che, nei riti latini, insieme col "Vino", è la materia del Sacramento dell'Eucaristia.

    Deve essere costituita da acqua e farina di frumento e la panificazione deve essere ottenuta senza aggiunta di materie estranee. Come tradizione dei riti latini non si deve usare il lievito.

    Normalmente per Ostia si intende la particola più grande utilizzata per la comunione del Sacerdote durante la Messa. Il formato più piccolo usato per la comunione dei fedeli si chiama "Particola" (vedi la voce "particola").

    Ne esistono di varie dimensioni:
    Si passa dalla più comune di circa 7 cm di diametro fino a 30 cm o più.
    In caso che sia grande si parla di "Ostia Magna" o anche di "Supermagna". Spesso le "supermagne" sono utilizzate per le ostensioni per la loro grande visibilità.




    [Modificato da Caterina63 06/02/2010 21:33]
    Fraternamente CaterinaLD

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    Caterina63
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    00 15/08/2010 19:50
    L'importanza del Crocefisso sull'Altare è collegato ad una storia e ad una devozione autenticamente riconosciuta dalla Chiesa....
    leggiamola insieme e riflettiamo:

    LA CROCE PRODIGIOSA DI CARAVACA

    Croce di Caravaca


    "Coincidenza" della Provvidenza volle che fu proprio l'allora cardinale Ratzinger ad inaugurare l'Anno giubilare...
    Per la devozione intorno alla Vera Cruz di Caravaca, nel 1998 la Santa Sede ha concesso un anno santo con carattere perpetuo da celebrare ogni sette anni, il primo dei quali è stato nel 2003 alla presenza dell'allora cardinale Ratzinger...

    Lode alla Santa Croce di Caravaca
                                                      image

    Di questa Croce sovrana
    ascoltate, signori, con molta attenzione
    miracoli e prodigi, perché sono tanti e grandi,
    che non c’è numero che possa contarli.

    Dei cieli scesero con allegria
    gli angeli del coro, a portarla;
    e perché sono tanti, i miracoli che opera,
    che desta meraviglia.

    Uomini, bambini e donne portano con loro
    la Croce che discese dal cielo glorioso per consolazione,
    per liberarci degli artigli del Drago feroce.

    Zoppi, monchi, invalidi, ciechi e sordi,
    nella Santa Croce trovano tutti consolazione:
    che è tanto bella, che la scelse Cristo per sua sposa.

    Dal cielo fu inviata dal Padre Eterno,
    affinché conoscessimo il gran mistero che in essa è racchiuso
    in modo che conoscessimo Dio sulla terra.

    I serafini tutti cantano e si rallegrano
    per questa Croce sovrana che è un gioiello:
    perché nel cielo è il letto di Cristo,
    è la nostra consolazione.

    Beata puoi chiamarti o Croce di Caravaca
    perché sei nei cieli lo Stendardo,
    che è la sacra Croce dove il nostro Gesù
    diede la sua vita e sangue

    Tutti i viandanti e marinai, per il mare e per le strade
    camminano senza paura,
    perchè sanno di portare nel petto la Croce amata.

    Sono grandi i misteri di questa reliquia,
    e per questo diciamo tutti
    che è benedetta;
    affinché tremi l’inferno e la gente che dentro ha.

    Di morte repentine, incendi, furti,
    ed altri molti pericoli
    ci liberi tutti la Croce Sacra
    che dalle braccia di Cristo fu sposata.



    Questa lode è recitata da molti la mattina appena alzati, altri amano recitarla la sera prima di prendere riposo.
    Un altra orazione alla Croce di Caravaca molto potente è quella contro i vizi o quando si è affllitti da una “fissazione” particolare di cui non ci si riesce a liberare.
    Spesso i vizi, le fissazioni per qualcuno o qualcosa di cui non ci si riesce a liberare sono dovute a negatività che ci hanno colpito o quando siamo stati vittime di malefici, legature o malocchio.
    Eccola nella trasuzione dell’originale in lingua spagnola


    Orazione alla Santa Croce di Caravaca contro i vizi.

    Oh Dio e Nostro Padre, Signore Gesù Cristo!
    Invochiamo il vostro santo Nome ed umilmente supplichiamo
    la Vostra misericordia che per l’intercessione dell’Immacolata
    sempre Vergine María, Madre di Dio e per quella di San Michele Arcangelol,
    di San Giuseppe sposo della Beata Vergine, dei
    Sacri Apostoli, San Pietro e San Paolo e di tutti i Santi
    vi degniante prestarci il vostro aiuto
    contro Satana e tutto gli altri spiriti immondi che, per rovina del genere umano
    e perdizione delle anime, sono sparsi per la Terra tentandoci e corrompendoci.
    Te lo chiediamo per lo stesso Gesù Cristo, Nostro Signore.
    Amen

    Un altra orazione alla Santa Croce di Caravaca ritenuta efficacissima è quella per chiedere che un desiderio si realizzi mediante il Magnificat della Beata Vergine.
    Accanto alla Croce va posta un immagine della Beata Vergine: si può fare sotto forma di novenario accendendo ogni giorno una candela bianca benedetta.
    Si reciti il Magnificat alla Vergine e alla fine concludere con :

    Per la tua immensa pietà, ti chiedo vicino alla Vergine Immacolata che………. (chiedere la grazia), amen

    Si rammenti che il chiedere la Grazia non significa pretendere ciò che a noi piace o pensiamo sia giusto, ma affidarsi alla Volontà di Dio e rimettere a Lui il giudizio se tale grazia è a noi davvero necessaria...anche quando preghiamo pèer gli altri, rammentiamo sempre quel: SIA FATTA NON LA MIA, MA LA TUA VOLONTA'...

    Non è difficile immaginare come questo desiderio può essere la pace del cuore, della casa, la protezione della stessa, la protezione di persone care, la protezione personale, insomma tutti quei desideri che implicano tutta la potenza della Croce di Caracava, che se ben accompagnati dalla fede autentica e dalla fiducia in Dio e dunque anche nella condizione di una vita corretta e sana secondo la Legge naturale di Dio... produce davvero grazie inumerevoli!

    E questa del Magnificat sotto forma di novenario, ovvero recitata per nove giorni consecutivi, sembra essere tra quelle non solo più potenti ma anche più universale.







    [Modificato da Caterina63 15/08/2010 19:55]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    Caterina63
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    00 22/08/2010 19:57

    Che cos'è la Santa Messa

    Nozioni, fini, effetti e disposizioni

    I. Nozioni preliminari

    Alcune nozioni dogmatiche:

    La Messa è sostanzialmente lo stesso sacrificio della croce. E' diverso solo il modo dell'offerta (Denz. 940)

    Essendo un vero sacrificio la Messa ne realizza in modo proprio le finalità: adorazione, ringraziamento, riparazione e petizione (Denz. 948 e 950).

    Il valore della Messa è in se stesso rigorosamente infinito. Però i suoi effetti in quanto dipendono da noi non ci vengono applicati se non nella misura delle nostre interne disposizioni.

    II. Finalità ed effetti della Santa Messa

    La Messa ha gli stessi fini e produce gli stessi effetti del sacrificio della croce, che sono quelli del sacrificio in generale come atto supremo di religione, però di grado infinitamente superiore.

    Adorazione.

    Il sacrificio della Messa rende a Dio un'adorazione degna di Lui, rigorosamente infinita. Questo effetto è prodotto infallibilmente ex opere operato, anche se celebra un sacerdote in peccato mortale, perché questo valore latreutico o di adorazione dipende dalla dignità infinita del Sacerdote principale che lo offre e dal valore della Vittima offerta.

    Con la Messa possiamo dare a Dio tutto l'onore che Gli è dovuto in riconoscimento della Sua infinita maestà e del Suo supremo dominio, nella maniera più perfetta possibile e in grado rigorosamente infinito. Una sola Messa glorifica più Iddio di quanto lo glorificheranno in cielo, per tutta l'eternità, tutti gli angeli, i santi e i beati insieme, compresa Maria Santissima.

    Dio risponde a questa incomparabile glorificazione curvandosi amorosamente verso le Sue creature. Di qui l'immenso valore di santificazione che racchiude per noi il santo sacrificio della Messa.

    Ringraziamento.

    Gli immensi benefici di ordine naturale e soprannaturale che abbiamo ricevuto da Dio ci hanno fatto contrarre verso di Lui un debito infinito di gratitudine che possiamo saldare soltanto con la Messa. Infatti per mezzo di essa offriamo al Padre un sacrificio eucaristico, cioè di ringraziamento, che supera infinitamente il nostro debito; perché è Cristo stesso che, immolandosi per noi, ringrazia Iddio per i benefici che ci concede. A sua volta il ringraziamento è fonte di nuove grazie perché al benefattore piace la gratitudine. Questo effetto eucaristico è sempre prodotto infallibilmente ex opere operato indipendentemente dalle nostre disposizioni.

    Riparazione.

    Dopo l'adorazione e il ringraziamento non c'è dovere più urgente verso il Creatore che la riparazione delle offese che da noi ha ricevuto. Anche sotto questo aspetto il valore della Messa è assolutamente incomparabile, giacché con essa offriamo al Padre l'infinita riparazione di Cristo con tutta la sua efficacia redentrice.

    Questo effetto non ci viene applicato in tutta la sua pienezza - basterebbe infatti una sola Messa per riparare tutti i peccati del mondo e liberare dalle loro pene tutte le anime del Purgatorio - ma ci viene applicato in grado limitato secondo le nostre disposizioni.

    Tuttavia:

    a) ci ottiene, per sé ex opere operato, se non incontra ostacoli, la grazia attuale necessaria per il pentimento dei nostri peccati. Lo insegna il Concilio di Trento: «Hujus quippe oblatione placatus Dominus, gratiam et donum paenitentiae concedens, crimina et peccata etiam ingentia dimittit» (Denz. 940).

    b) rimette sempre, infallibilmente se non incontra ostacoli, almeno la parte della pena temporale che si deve pagare per i peccati in questo mondo o nell'altro. La Messa è quindi utile anche alle anime del Purgatorio (Denz. 940 e 950). Il grado e la misura di questa remissione dipende dalle nostre disposizioni.

    Petizione.

    Gesù Cristo si offre al Padre nella Messa per ottenerci con il merito della Sua infinita oblazione tutte le grazie di cui abbiamo bisogno. «Semper vivens ad interpelladum pro nobis» (Ebr. 7, 25), e valorizza le nostre suppliche con i Suoi meriti infiniti. La Messa di per sé, ex opere operato, muove infallibilmente Dio a concedere agli uomini tutte le grazie di cui hanno bisogno, ma il dono effettivo di queste grazie dipende dalle nostre disposizioni, la mancanza delle quali può impedire completamente che queste grazie giungano fino a noi.


    III. Disposizioni per il Santo Sacrificio della Santa Messa.

    Le disposizioni principali per la Santa Messa sono di due specie: esterne ed interne.

    Disposizioni esterne

    Il sacerdote che celebra dovrà osservare le rubriche e le cerimonie stabilite dalla Chiesa come se quella fosse la prima, l'ultima e l'unica Messa della sua vita.

    Il semplice fedele assisterà alla Messa in silenzio, con rispetto e attenzione.

    Disposizioni interne

    La migliore disposizione interna è quella di identificarsi con Gesù Cristo che si immola sull'altare, offrendoLo al Padre ed offrendosi con Lui, in Lui e per Lui. ChiediamoGli che converta anche noi in pane per essere così a completa disposizione dei nostri fratelli mediante la carità. Uniamoci intimamente con Maria ai piedi della croce, con San Giovanni il discepolo prediletto, col sacerdote celebrante, nuovo Cristo in terra.Uniamoci a tutte le Messe che si celebrano nel mondo intero. La santa Messa celebrata o ascoltata con queste disposizioni è indubbiamente tra i principali strumenti di santificazione.


    Tratto da: Antonio Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, ed. Paoline, 1987, pagg. 548-554

    Fonte:
    Una Fides



    Uniamoci intimamente con Maria ai piedi della croce, con San Giovanni il discepolo prediletto, col sacerdote celebrante, nuovo Cristo in terra.Uniamoci a tutte le Messe che si celebrano nel mondo intero. La santa Messa celebrata o ascoltata con queste disposizioni è indubbiamente tra i principali strumenti di santificazione.  
    **************  
     
    quando a san Padre Pio alcuni suoi frati gli chiesero "come si deve intendere la santa Messa" san Padre Pio rispose: "semplice! è il MEMORIALE e noi, durante la Messa, ritorniamo VERACEMENTE ai piedi della Croce, di quell'unica Croce, con il Crocefisso, ma non siamo soli, siamo con Maria sua Madre e san Giovanni, il discepolo che Gesù amava e che gli rimase fedele ai piedi di quella Croce....Questa è la Messa, questo significa "RIVIVERE" quei momenti, il nostro atteggiamento è quello degli ADDOLORATI ma anche quello dei GRATI AL SIGNORE: Maria addolorata e Giovanni, grato al Signore! Non ci si può unire al Banchetto se prima non ci si è afflitti e addolorati, con gratitudine, per l'offerta che il Signore Gesù ha fatto di se stesso al Padre per la nostra salvezza..."

    P.S.  
    si sottolinei che ERRONEAMENTE  e da dopo il Concilio la santa Messa è insegnata come FIGURATIVA DELL'ULTIMA CENA....in questo modo, si scalza il CALVARIO il quale è invece il momento centrale della Messa, è il Memoriale che semmai UNITAMENTE ALL'ULTIMA CENA nella quale il Signore comanda questa ripetizione "fate questo", INTENDE PROPRIO LA SOSTA E IL MOMENTO DELLA SUA MORTE DI CROCE....  
    Si è inoltre erroneamente inoltrati in una catechesi che pone l'Ultima Cena in contrasto con il Calvario:  
    l'Ultima Cena è così vissuta come una interpretazione DELLE DANZE DI DAVIDE PRESSO IL TEMPIO E IL TABERNACOLO, dunque un incontro FESTOSO, facendo perdere alla Messa il senso del SACRIFICIO E DEL CALVARIO....  
    Al contrario, la sana Dottrina Cattolica BIMILLENARIA ha sempre insegnato l'Ultima Cena e il Calvario come un evento inseparabili: "fate questo", ossia IL MEMORIALE IL RIVIVERE (che avviene ora in modo incruento ) ciò che accadde AI PIEDI DELLA CROCE...  
    Wink

    Fraternamente CaterinaLD

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    00 26/01/2011 22:29

    Il Crocifisso al centro dell’altare nella Messa “verso il popolo”


    Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi



    di don Mauro Gagliardi*

    ROMA, mercoledì, 26 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Sin da tempi remoti, la Chiesa ha stabilito segni sensibili, che aiutassero i fedeli ad elevare l’anima a Dio. Il Concilio di Trento, riferendosi in particolare alla S. Messa, ha motivato questa consuetudine ricordando che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti [...] per rendere più evidente la maestà di un Sacrificio così grande e introdurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo Sacrificio» (DS 1746).

    Uno dei segni più antichi consiste nel volgersi verso oriente per pregare. L’oriente è simbolo di Cristo, il Sole di giustizia. «Erik Peterson ha dimostrato la stretta connessione fra la preghiera verso oriente e la croce, connessione evidente al più tardi per il periodo post costantiniano. [...] Presso i cristiani si diffuse l’uso di indicare la direzione della preghiera con una croce sulla parete orientale nell’abside delle basiliche, ma anche nelle camere private, ad esempio, di monaci ed eremiti» (U.M. Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, p. 32).

    «Se ci si domanda verso dove guardassero il sacerdote ed i fedeli durante la preghiera, la risposta deve suonare: in alto, verso il catino absidale! La comunità orante durante la preghiera non guardava affatto davanti a sé all’altare o alla cattedra, bensì elevava in alto le mani e gli occhi. Così il catino absidale assurse all’elemento più importante della decorazione della chiesa, nel momento più intimo e santo dell’agire liturgico, la preghiera» (S. Heid, «Gebetshaltung und Ostung in frühchristlicher Zeit», Rivista di Archeologia Cristiana 82 [2006], p. 369 [mia trad.]). Quando dunque si trova rappresentato nell’abside Cristo tra gli apostoli e i martiri, non si tratta solo di una raffigurazione, bensì di una sua epifania dinanzi alla comunità orante. La comunità allora «elevava in alto le mani e gli occhi “al cielo”, guardava concretamente a Cristo nel mosaico absidale e parlava con lui, lo pregava. Evidentemente, Cristo così era direttamente presente nell’immagine. Giacché il catino absidale era il punto di convergenza dello sguardo orante, l’arte provvedeva a fornire quanto l’orante necessitava: il Cielo, dal quale il Figlio di Dio appariva alla comunità come da una tribuna» (ibid., p. 370).

    Dunque, «pregare e guardare per i cristiani tardoantichi formano un tutt’uno. L’orante voleva non solo parlare, ma sperava anche di vedere. Se nell’abside si mostrava in modo meraviglioso una croce celeste o il Cristo nella sua gloria celeste, allora per ciò stesso l’orante che guardava verso l’alto poteva vedere esattamente questo: che il cielo si apriva per lui e Cristo gli si mostrava» (ibid., p. 374).

    Il Crocifisso al centro dell’altare nella Messa «verso il popolo»

    Dai precedenti cenni storici, si deduce che la liturgia non viene veramente compresa, se la si immagina principalmente come un dialogo tra il sacerdote e l’assemblea. Non possiamo qui entrare nei dettagli: ci limitiamo a dire che la celebrazione della S. Messa «verso il popolo» è un concetto entrato a far parte della mentalità cristiana solo in epoca moderna, come dimostrato da studi seri e ribadito da Benedetto XVI: «L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nell’epoca moderna ed è completamente estranea alla cristianità antica. Infatti, sacerdote e popolo non rivolgono l’uno all’altro la loro preghiera, ma insieme la rivolgono all’unico Signore» (Teologia della Liturgia, Città del Vaticano 2010, pp. 7-8).

    Nonostante il Vaticano II non avesse mai toccato questo aspetto, nel 1964 l’Istruzione Inter Oecumenici, emanata dal Consilium incaricato di attuare la riforma liturgica voluta dal Concilio, al n. 91 prescrisse: «È bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete per potervi facilmente girare intorno e celebrare versus populum». Da quel momento, la posizione del sacerdote «verso il popolo», pur non essendo obbligatoria, è divenuta il modo più comune di celebrare Messa. Stando così le cose, Joseph Ratzinger propose, anche in questi casi, di non perdere il significato antico di preghiera «orientata» e suggerì di ovviare alle difficoltà ponendo al centro dell’altare il segno di Cristo crocifisso (cf. Teologia della Liturgia, p. 88). Sposando questa proposta, aggiunsi a mia volta il suggerimento che le dimensioni del segno devono essere tali da renderlo ben visibile, pena la sua scarsa efficacia (cf. M. Gagliardi, Introduzione al Mistero eucaristico, Roma 2007, p. 371).

    La visibilità della croce d’altare è presupposta dall’Ordinamento Generale del Messale Romano: «Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato» (n. 308). Non si precisa, però, se la croce debba stare necessariamente al centro. Qui intervengono pertanto motivazioni di ordine teologico e pastorale, che nel ristretto spazio a nostra disposizione non possiamo esporre. Ci limitiamo a concludere citando di nuovo Ratzinger: «Nella preghiera non è necessario, anzi, non è neppure conveniente guardarsi a vicenda; tanto meno nel ricevere la comunione. [...] In un’applicazione esagerata e fraintesa della “celebrazione verso il popolo”, infatti, sono state tolte come norma generale – persino nella basilica di San Pietro a Roma – le Croci dal centro degli altari, per non ostacolare la vista tra il celebrante e il popolo. Ma la Croce sull’altare non è impedimento alla visuale, bensì comune punto di riferimento. È un’“iconostasi” che rimane aperta, che non impedisce il reciproco mettersi in comunione, ma ne fa da mediatrice e tuttavia significa per tutti quell’immagine che concentra ed unifica i nostri sguardi. Oserei addirittura proporre la tesi che la Croce sull’altare non è ostacolo, ma condizione preliminare per la celebrazione versus populum. Con ciò diventerebbe anche nuovamente chiara la distinzione tra la liturgia della Parola e la preghiera eucaristica. Mentre nella prima si tratta di annuncio e quindi di un immediato rapporto reciproco, nella seconda si tratta di adorazione comunitaria in cui noi tutti continuiamo a stare sotto l’invito: Conversi ad Dominum – rivolgiamoci verso il Signore; convertiamoci al Signore!» (Teologia della Liturgia, p. 536).

    [Il prossimo articolo della rubrica sarà pubblicato il 9 febbraio]

    ----------

    *Don Mauro Gagliardi è Ordinario della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.


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    00 27/01/2011 17:50


      Alle radici dell’altare cristiano


    ROMA, sabato, 22 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a firma di don Enrico Finotti, parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto (TN), che apparirà sulla rivista Liturgia 'culmen et fons' di dicembre-gennaio 2011.



    * * *

    Per comprendere in profondità la natura e la funzione dell’altare nella liturgia cattolica è indispensabile una adeguata indagine storica sulla sua origine e sul suo coerente sviluppo. Essa tuttavia non basterà. Infatti, si potranno capire le successive scelte storiche in ordine all’altare approfondendo la teologia sottesa, in base alla quale l’altare assunse forme e arredi consoni alla visione teologica che si voleva trasmettere.

    Mensa, Ara e Croce

    E’ normale che venga individuata l’origine dell’altare cristiano nella mensa del cenacolo, sulla quale nostro Signore istituì il Sacrificio eucaristico e il Convivio sacro del suo Corpo e del suo Sangue. Veramente la mensa dell’ultima cena è il referente originario e originante dell’unico e definitivo Sacrificio del Nuovo Testamento. Da qui parte quell’oblazione pura che dall’oriente all’occidente è offerta fra le genti e in ogni luogo (Ml 1, 11). Occorre tuttavia approfondire e non fermarsi ad una facile visione superficiale, che potrebbe svuotare quel Sacrificio della sua profonda sostanza per fissarsi nella debole espressione di un ordinario convito umanitario ed usuale.
     
    In realtà, quando la famiglia ebraica si riuniva per la cena pasquale si relazionava in modo intimo e indissolubile con l’altare del tempio di Gerusalemme, sul quale in antecedenza veniva immolato l’agnello, che portato sulla mensa domestica consentiva la celebrazione della Pasqua. Senza quella vittima sacrificata sull’ara del tempio e trasferita poi sulla mensa delle case, la cena pasquale perdeva la sua identità. La relazione all’immolazione dell’agnello nel tempio era tanto necessaria che, per celebrare la Pasqua, si doveva alloggiare a Gerusalemme o nelle vicinanze. Non era, infatti, possibile stare fuori Gerusalemme, ossia lontani dal tempio, perché dal tempio veniva l’agnello immolato e ad esso rimandava. La cena pasquale ebraica era dunque una cena sacrificale, un banchetto mediante il quale si partecipava della vittima sacrificale. Ed ecco che mensa ed ara si trovano intimamente unite, geneticamente e indissolubilmente interiori l’una all’altra. Tolta l’ara è compromessa totalmente la natura di quella specifica mensa imbandita per la cena pasquale.

    Nel cenacolo però il Signore opera la novità e crea la realtà di quello che fino ad ora era figurato nelle antiche profezie e nel sacrificio dell’agnello.  Egli immola incruentamente se stesso nel contesto ancora visibile del segno profetico dell’agnello, che come ombra sta ormai per scomparire e cedere il posto alla realtà, Cristo Gesù, col suo Corpo e il suo Sangue  immolati nelle specie sacramentali del pane e del vino. E’ evidente che, nel mentre lo sguardo del Signore si ritrae ormai dalla figura dell’agnello che passa e dall’ara del tempio su cui fu immolato, si fissa con divina preveggenza e immedesimazione mistica sull’ara della Croce, che lo attende sul Calvario. Egli, infatti, anticipa sacramentalmente sulla mensa della cena e nella forma del convito il sacrificio cruento che avrebbe offerto di li a poco sull’altare della Croce.
     
    La Croce, quindi entra nel cenacolo si pianta sulla sua mensa e, mentre l’antica ara del tempio si ritira, avendo assolto la sua funzione profetica, si erge ormai sovrana quale sostanza interiore di ciò che si compie nell’ultima cena e che si ripeterà per tutti i secoli fino alla fine del mondo per comando del Signore Fate questo in memoria di me. Mensa, Ara e Croce, ecco i tre simboli interiori e indissolubili del mistero grande che si compie nell’istante consacratorio quando il Signore, pronunziando le parole divine - Questo è il mio Corpo… Questo è il mio Sangue…-, istituisce il Sacrificio perenne, senza più tramonto.

    Le tre figure di riferimento – mensa, ara e croce – prima ancora di trovare espressione fisica nell’altare cristiano sono presenti nella sostanza stessa dell’atto sacrificale di Cristo e costituiscono, ancor prima di trovare la loro traduzione materiale nella liturgia, la forma interiore dell’atto sacrificale del Signore. Nel Cenacolo è visibile solo la Mensa, l’Ara del tempio è richiamata dall’agnello immolato, la Croce ancora non si vede, ma tutto è presente e unitario nella mente divina e nel cuore amante del Salvatore. A questo punto si comprende bene perché la Chiesa, avuta la libertà religiosa (IV sec.) poté procedere alla costruzione dell’altare cristiano nel modo che la storia e l’arte ci attestano. Appena possibile la semplice mensa lignea, usata nelle case nei secoli della persecuzione, divenne l’altare marmoreo in tutto simile all’ara sia ebraica che pagana, ma eloquente per esprimere ciò che l’Eucarestia era in realtà, il Sacrificio di Cristo. Al contempo tale ara monumentale e preziosa non abbandonò la mensa, ma la assunse in sé adattandosi ad accogliere i santi doni conviviali e rivestendosi con una candita tovaglia. Infine, quando la Croce gloriosa del Signore potè essere rappresentata come un vessillo di vittoria e annunziare al contempo la sua Morte, la sua Risurrezione, la sua  Ascensione e la sua mirabile Venuta nella gloria, non tardò a trovare il suo posto più logico e conveniente proprio sulla mensa di quell’ara sulla quale il sacrificio della Croce si attualizzava sacramentalmente.

    Ed ecco che Mensa, Ara e Croce, possono costituire anche in modo visibile, nello splendore delle basiliche monumentali e nella solennità dei riti pontificali, il segno materiale e prezioso del mistero che si compie sotto la coltre del sacramento. Non si trattò certamente di una corruzione della semplicità delle origini, ma di uno sviluppo necessario e legittimo, coerente con la struttura interiore del mistero e che si esprimerà nel pensiero cristiano nella successiva sistemazione teologica relativa al dogma eucaristico. In tal senso, la Mensa, l’Ara e la Croce, sono talmente collegate alle dimensioni costitutive del mistero fin dalla sua istituzione da essere ormai ingredienti liturgici insopprimibili nell’edificazione dell’altare cristiano. Esso, infatti, per esprimere in modo completo ed equilibrato l’intero mistero del Sacrificio conviviale dell’eucaristia, dovrà avere la monumentalità dell’Ara, la dignità della Mensa e la gloria del vessillo della santa Croce.

    L’altare sta in alto

    L’altare sta in alto e se non eleva perde la sua natura più vera.
    Si può in tal modo affermare una semplice regola: all’altare si ascende come al battistero si discende. Se l’etimologia alta-ara potrebbe essere ancora discussa e non da tutti è accettata, la storia dell’ altare cristiano e ancor prima di quello ebraico e pagano, afferma la sua posizione elevata. In particolare, non potendo accedere all’altare mediante i gradini per questioni di purità cultuale, nel tempio di Gerusalemme si saliva mediante una rampa (Es 20, 24-26).
    Ma è soprattutto nell’approfondire l’atto liturgico che si celebra sull’altare, il sacrificio, che emerge in tutta chiarezza la necessità della posizione alquanto elevata dell’altare.
    Nell’offerta del sacrificio si cerca il rapporto con Dio, ci si eleva a lui e tutta la ritualità porta a proiettarsi verso il cielo, lì dove l’intuito religioso universale contempla il trono di Dio: il corpo sale i gradini dell’altare, le mani si elevano verso l’alto, lo sguardo fissa le profondità sideree dei cieli. Ecco le movenze più spontanee che il sacerdote assume nell’azione sacrificale, ed è logico che tale spinta interiore sia tradotta visibilmente nei gesti del corpo e fissata materialmente nella posizione alta e maestosa dell’altare. Possiamo allora individuare nella struttura interiore (metafisica) dell’altare due movimenti profondamente correlati e concordi nell’esprimere la direzione ascendente.

    L’altare sale verso la Maestà divina e segue le volute dell’incenso che ascendono in sacrificio di soave odore. Esso guarda certamente il popolo, ma non per muoversi verso di esso, quanto per attrarlo nella sua ascesa cultuale. Per questo l’altare assumerà una posizione otticamente centrale, ben visibile da tutta l’assemblea liturgica, per poter trainare dolcemente il popolo di Dio nel movimento ascendente dell’oblazione sacrificale, che sulla sua mensa si compie nel mistero sacramentale. E’ quindi consono alla natura più intima dell’altare salire e far salire tutti coloro che all’altare volgono lo sguardo adorante verso la contemplazione della Gloria divina. Il moto esattamente inverso, invece, si produce per la mensa. Essa deve discendere e rivolgersi fisicamente il più possibile verso i fedeli. Essa, infatti, porge la vittima immolata quale cibo e bevanda di salvezza. Questo moto del discendere e del rendersi prossima all’assemblea liturgica le è quindi necessario e connaturale ed è pienamente conforme al suo stesso essere mensa che nutre. Questo duplice ruolo di altare che ascende e attrae e di mensa che discende e si avvicina ai fedeli si esplica nella liturgia eucaristica che distingue la prece consacratoria in cui si compie il sacrificio, dai riti di comunione in cui la vittima immolata è data in cibo ai commensali.

    Possiamo allora rilevare che gli altari storici esprimevano la loro natura ascendente-sacrificale e, senza mai rinunciare alla mensa in essi incorporata, la integravano ulteriormente con la balaustra, che nella sua posizione bassa e prossima ai fedeli consentiva la distribuzione del Corpo del Signore. Gli altari postconciliari, invece sembrano aver abbandonato il loro moto saliente in favore di una totale riduzione al loro ruolo di mensa. In tal modo essi non sono più in alto, ma in piano e fisicamente il più possibile prossimi all’assemblea. Il moto discendente e rivolto al popolo proprio della mensa è diventato esclusivo e totalizzante. Tale realtà si nota anche negli altari resi definitivi e anche dedicati, certamente solidi nella loro struttura marmorea, ma sempre e solo mensa. In altri termini si potrebbe dire che l’intera celebrazione del Sacrificio eucaristico è ridotta prevalentemente al rito di comunione. Certamente il Sacrificio si compie, ma la nuova configurazione dell’altare non lo esprime più come prima avendo rinunciato a modellare in se stesso le caratteristiche classiche che sono proprie dell’ara sacrificale. Per questo fu facile anche la rimozione così vasta della balaustra, avendo l’altare stesso assunta la sua funzione.

    Ebbene, oggi si ode l’allarme del Magistero sulla crisi della dimensione sacrificale dell’Eucaristia. Non potrebbe essere opportuna allora una nuova e più profonda riflessione sulle modalità liturgiche dell’altare? E’ da ritenere ormai acquisita ed insuperabile la conformazione dell’altare alla forma della sola mensa, senza più ricuperare anche quella dell’ara elevata e maestosa? Non potrebbe nel tempo questa riduzione dell’altare condizionare l’equilibrio del dogma eucaristico, che si trasmette nel cuore dei fedeli primariamente nella correttezza del rito e dei luoghi liturgici che ad esso sono connessi? Gli altari storici sono da congedare definitivamente e il loro ruolo è ormai del tutto museale? La storia della Chiesa e della sua liturgia non è forse ancora aperta ad uno sviluppo coerente ed organico, che potrebbe trovare per l’altare nuove sintesi in perfetto accordo con la tradizione dei secoli? Credo che il Santo Padre Benedetto XVI stia richiamando alla Chiesa proprio queste problematiche e in tal senso il suo Magistero ha la forza della profezia.





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    00 07/02/2011 17:53

    L’altare nella storia


    ROMA, lunedì, 7 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di don Enrico Finotti, parroco di S. Maria del Carmine in S. Maria a Rovereto (TN), apparso sulla rivista LITURGIA ‘CULMEN ET FONS’ di dicembre 2010.


    * * *

    La storia dell’altare cristiano è molto varia e manifesta la ricchezza insondabile del mistero della nostra fede. Ogni epoca presenta caratteristiche proprie e si esprime con genialità, secondo le diverse sottolineature e sensibilità teologiche dell’identico dogma della fede. Possiamo catalogare quattro fasi nello sviluppo dell’altare: l’altare antico, medioevale, barocco e attuale.

    L’altare antico col ciborio

    Il ciborio conferisce all’altare antico una dignità speciale senza intaccarne la struttura, ma circondandola di venerazione e di solennità. Mediante il ciborio la piccola massa dell’altare si impone nello spazio vasto e solenne della basilica e ne è assicurata la sua centralità. Le sue colonne rimandano all’immagine biblica della “Sapienza che si è costruita la casa e ha intagliato le sue sette colonne…ha preparato il vino e ha imbandito la tavola” (Pr 9, 1-2) e la loro staticità afferma la solidità del mistero dell’Incarnazione. Tutto questo si realizza veramente nel sacro Convito dell’Eucaristia. La sua copertura ispira anche l’epiclesi visiva dello Spirito Santo, che è invocazione sempre presente nel divin Sacrificio e la sua cupola apre sull’orizzonte celeste e sovrasta quell’altare sul quale veramente, in mysterio, il cielo discende sulla terra.

    L’altare medioevale col dorsale

    L’erezione del dorsale che si sviluppa dall’epoca gotica fino ai nostri giorni dimostra visivamente la necessità di descrivere con il genio dell’arte le dimensioni del mistero che sull’altare si compie. Sia gli eventi della vita del Signore, come quelle della Madonna e dei Santi non sono che aspetti parziali e applicazioni particolari dell’unico sacrificio di Cristo, che viene attuato sacramentalmente nella celebrazione. La varietà dei temi descritti nelle pale degli altari e nelle monumentali strutture dorsali che si sviluppano e salgono dalla mensa dell’altare sono la proclamazione visiva dei mirabili e molteplici frutti dell’unico Sacrificio di Cristo. Il mistero eucaristico si traduce mediante il genio dell’arte nell’infinito prisma dei Santi, che ne sono i frutti eccelsi e il segno glorioso della sua intima ed inesauribile vitalità. Ciò che l’occidente ha espresso col dorsale dell’altare, l’oriente lo esprime con l’iconostasi. Mentre il primo mostra al popolo le meraviglie della grazia sovrastando il sacerdote nell’atto di compiere il divin sacrificio, l’iconostasi orientale comunica al popolo lo splendore dei misteri e dei santi velando il sacerdote che celebra la divina liturgia. Oriente e occidente quindi si trovano d’accordo nella necessità di educare al mistero con la bellezza dell’arte, che a guisa di viticci nasce dall’altare, lo circonda e lo sovrasta offrendo i tanti capolavori secolari dei nostri altari.

    L’altare barocco col tabernacolo

    Col Concilio Tridentino il tabernacolo viene permanentemente intronizzato sull’altare e in tal modo si sana la secolare bipolarità tra altare e tabernacolo dei secoli precedenti. Effettivamente il tabernacolo ha il suo luogo proprio sulla mensa dell’altare dove il Sacramento nasce, il Sacrificio è offerto e il Pane santo è donato. Nessun luogo è più consono al tabernacolo che quello dell’altare stesso, che così rimane sempre vivo e ‘acceso’ anche fuori della celebrazione. Niente può conferire maggior dignità ed identità all’altare come il Santissimo Sacramento. Infatti, mentre l’altare rimane pur sempre un simbolo sacro, il Sacramento è la presenza viva e personale di Colui che è realmente e permanentemente ‘altare, vittima e sacerdote’. A livello di principio quindi il legame altare e tabernacolo è indissolubile e ogni separazione è sempre precaria e fonte di possibile squilibrio.

    L’altare attuale verso il popolo

    L’intento pastorale della recente riforma liturgica ha offerto la possibilità - non l’obbligatorietà - della celebrazione verso il popolo. Essa permette certamente molte opportunità, soprattutto pastorali, e consente di evidenziare aspetti che arricchiscono il modo di celebrare il divin Sacrificio. E’ tuttavia necessario non assolutizzare questa concessione e non indulgere ad un nuovo fissismo su una forma ancora recente in via di valutazione. L’apertura mentale ai secoli della storia liturgica, unita ad una inevitabile indagine teologica, deve rendere disponibile la Chiesa a soluzioni varie e a prospettive di nuove sintesi.

    Fino al Vaticano II le diverse tipologie degli altari, espressioni delle diverse epoche storiche, di differenti visioni teologiche, di diverse prestazioni liturgiche e di gusti e tecniche artistiche successive sono vissute insieme in pace. I sacerdoti e i fedeli non avevano difficoltà a riconoscere in forme diverse di altari e in stili differenti l’unico altare cristiano che, dall’origine, cammina nel tempo assumendo il genio dei secoli. Si celebrava con spontaneità e senza percepire difficoltà alcuna sull’altare antico, su quello rinascimentale, su quello barocco e su quello di recente costruzione. Dopo il Vaticano II sembra che quella continuità pacifica e normale si sia interrotta. Tutti gli altari precedenti improvvisamente sono stati congedati come inadatti. Essi certo sono ancora ammirati, ma dichiarati inutilizzabili. Vi è quindi una frattura tra il prima e il dopo, fatto che non si era verificato in passato, ma le forme nuove degli altari non cancellavano le precedenti e con esse convivevano in pace. Ed ecco che nelle nostre chiese storiche dalle più piccole alle grandi basiliche l’altar maggiore di sempre domina sovrano, ma resta muto e spoglio di ogni sua insegna. Osserva dall’alto della sua maestà una struttura debole, spessissimo mobile, di dimensioni ridotte che riceve ormai da anni gli onori liturgici e offre la sua mensa alla celebrazione del gran Sacrificio. Cosa è avvenuto? Come mai questo congedo illimitato di tutti gli altari storici? Saranno licenziati per sempre? Essi ricevono la visita guidata dei turisti, sono fotografati, ammirati, descritti in appositi opuscoli e suscitano tanto stupore, sia nella loro architettura monumentale, come nella preziosità dei loro materiali e nella genialità delle loro sculture e pitture, ma il loro sguardo sembra triste. Essi non sono più l’altar maggiore e non possono più pretendere gli onori liturgici. La loro splendida arte li assicura almeno in ordine alla loro sussistenza. Ma non tutti ebbero tale sorte: alcuni di loro furono mutilati o anche del tutto rimossi. I loro migliori amici sembrano essere proprio fuori della chiesa. Coloro che stanno in chiesa li guardano piuttosto male e se potessero … Ma quelli che in qualche modo li osservano da lontano e li visitano quasi da ospiti, li valutano e sempre più si sono organizzati per evitare la loro estinzione. Perché è successo questo fenomeno? Certamente hanno influito due cause, che se buone nel principio, hanno degenerato in applicazioni estreme: la possibilità di celebrare rivolti al popolo e l’intento pastorale di essere il più possibile vicini all’assemblea. Ed ecco che estremizzando queste indicazioni ci si risolse in modo univoco a celebrare assolutamente, sempre e in ogni chiesa verso il popolo. Inoltre si intese la vicinanza al popolo come una prossimità fisica a tutti gli effetti, ossia la visibilità ottica, che richiede distanza ed è più efficace in ordine alla partecipazione, era ritenuta anticonciliare e ogni maestà doveva essere del tutto rimossa dalla forma dell’altare. Esso doveva assumere la rigorosa ed esclusiva forma di una comune mensa. Sguardo al popolo e vicinanza fisica ad esso intesa in modo plebiscitario non poté che congedare ogni altro altare precedente e renderlo inutilizzabile.

    Con questi criteri l’altare con dorsale è del tutto giudicato inabile, ma anche l’antico altare con ciborio può essere lasciato in ombra perché troppo lontano dalla gente.

    Ma fissare in modo assoluto e insuperabile i due criteri sopra esposti e dichiararli gratuitamente dettati conciliari è difforme dalla realtà. Né il Concilio ha imposto la celebrazione verso il popolo, né ha dichiarato l’inabilità dgli altari storici, né ha ordinato una vicinanza fisica all’assemblea ottenuta ad ogni prezzo. Si tratta allora di uscire dal pregiudizio così diffuso nel postconcilio e di ripensare ad una opportuna riconciliazione.

    Credo che non sia possibile, relegare nell’inutilità e nell’abbandono i grandi altari storici, ma la liturgia stessa ne avrebbe giovamento se, rispettando dovutamente e intelligentemente il genio e la tipologia della diverse chiese si celebrasse in modo diversificato. Allora non vi sarà frattura, ma continuità e, soprattutto, si potrà uscire da quella situazione provvisoria di altari fragili e inadatti, che da decenni ormai occupano le zone presbiterali.

    Credo che il messaggio del papa Benedetto XVI nel celebrare sull’altare della cappella Sistina sia su questa linea e intenda suscitare una mentalità al riguardo più equilibrata, possibilista e meno fissista.


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