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DIFENDERE LA VERA FEDE

Iota Unum, Zibaldone...le riflessioni profetiche di Romano Amerio e l'apostasia nella Chiesa

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    Caterina63
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    00 13/07/2010 11:01

    Amerio, Gherardini e la rottura del Concilio

    Sandro Magister, nel suo blog, ha scritto questa recensione dell'edizione ad opera della Lindau di una collezione di scritti di Romano Amerio. La riportiamo di seguito, seguita da un nostro breve commento.



    ROMA, 12 luglio 2010 – Da qualche giorno è nelle librerie italiane un nuovo volume di Romano Amerio, il terzo dell'"opera omnia" di questo autore, che le edizioni Lindau stanno pubblicando.

    Amerio, morto nel 1997 a Lugano all'età di 92 anni, è stato uno dei più grandi intellettuali cristiani del Novecento.

    Filologo e filosofo di prima grandezza, Amerio è divenuto noto in tutto il mondo per il suo saggio uscito per la prima volta nel 1985 e tradotto in più lingue dal titolo: "Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX".

    Ma questo stesso saggio, proprio per le tesi in esso sostenute, procurò ad Amerio l'ostracismo della quasi totalità del mondo cattolico. Un ostracismo che solo da poco tempo è caduto, anche grazie alla riedizione di "Iota unum".

    Amerio dedicò mezzo secolo alla scrittura di "Iota unum". E anche questo terzo volume dell'"opera omnia" è stato scritto in un arco di tempo molto ampio, dal 1935 al 1996. Ha per titolo "Zibaldone" e – come l'omonima opera del poeta Giacomo Leopardi – raccoglie brevi pensieri, aforismi, racconti, citazioni di classici, dialoghi morali, commenti a fatti quotidiani.

    Con i suoi oltre settecento pensieri, "Zibaldone" forma una specie di autobiografia intellettuale dell'autore. Nella quale le questioni sollevate in "Iota unum" sono naturalmente presenti.

    Come, ad esempio, in questa paginetta datata 2 maggio 1995:
    "La autodemolizione della Chiesa deprecata da Paolo VI nel famoso discorso al Seminario Lombardo dell’11 settembre 1974 diviene ogni giorno più palese. Già nel Concilio il cardinale Heenan (Primate d’Inghilterra) lamentava che i vescovi avessero cessato di esercitare l’officio del Magistero, ma si confortava osservando che tale ufficio si era conservato pienamente nel Pontificato Romano. L’osservazione era ed è falsa. Oggi il Magistero episcopale è cessato e quello papale anche. Oggi il Magistero è esercitato dai teologi che hanno ormai improntato tutte le opinioni del popolo cristiano e squalificato il dogma della fede. Ne ho avuto una dimostrazione impressionante ascoltando ieri sera il teologo di Radio Maria. Egli negava impavidamente e tranquillissimamente articoli di fede. Insegnava [...] che i Pagani, cui non è annunciato il Vangelo, se seguono il dettame della giustizia naturale e si studiano di cercare Dio con sincerità, vanno alla visione beatifica. Questa dottrina dei moderni è antichissima nella Chiesa ma fu sempre condannata come errore. Ma i teologi antichi, mentre tenevano fermo il dogma di fede, sentivano però tutta la difficoltà che il dogma incontra e si studiavano di vincerla con escogitazioni profonde. I teologi moderni invece non avvertono le difficoltà intrinseche del dogma, ma corrono diritti alla 'lectio facilior' mettendo in soffitta tutti i decreti dottrinali del Magistero. E non si accorgono di negare così il valore del battesimo e tutto l’ordine soprannaturale, cioè tutta la nostra religione. Anche in altri punti il rifiuto del Magistero è diffuso. L’inferno, l’immortalità dell’anima, la risurrezione dei corpi, l’immutabilità di Dio, la storicità di Cristo, la reità della sodomia, il carattere sacro e indissolubile del matrimonio, la legge naturale, il primato del divino sono altrettanti argomenti in cui il Magistero dei teologi ha eliminato il Magistero della Chiesa. Questa arroganza dei teologi è il fenomeno più manifesto dell’autodemolizione".

    *

    Da questa sua analisi fortemente critica, che egli applicava anche al Concilio Vaticano II, Amerio ricavava quello che Enrico Maria Radaelli, suo fedele discepolo e curatore della pubblicazione delle opere del maestro, chiama il "gran dilemma giacente al fondo della cristianità d'oggi".

    Il dilemma è se tra il magistero della Chiesa prima e dopo il Vaticano II via sia continuità o rottura.

    Nel caso di una rottura, se questa fosse tale da "perdere la verità" anche la Chiesa andrebbe perduta.

    Amerio non arrivò mai a sostenere tale esito. Fu sempre figlio obbediente della Chiesa. Non solo. Sapeva per fede che, nonostante tutto, la Chiesa non può perdere la verità e quindi se stessa, perché assistita indefettibilmente "dai due grandi giuramenti di nostro Signore: 'Le porte dell'inferno non prevarranno contro di lei' (Matteo 16, 18) e 'Sarò con voi tutti i giorni fino alla fine dei secoli' (Matteo 28, 20)".

    Ma era convinzione di Amerio – e Radaelli lo spiega bene nella sua ampia postfazione a "Zibaldone" – che tale riparo assicurato da Cristo alla sua Chiesa vale solo per le definizioni dogmatiche "ex cathedra" del magistero, non per gli insegnamenti incerti, sfuggenti, opinabili, "pastorali" del Concilio Vaticano II e dei decenni successivi.

    Proprio questa, infatti, a giudizio di Amerio e Radaelli, è la causa della crisi della Chiesa conciliare e postconciliare, una crisi che l'ha portata vicinissima alla sua "impossibile ma anche quasi avvenuta" perdizione: l'aver voluto rinunciare a un magistero imperativo, a definizioni dogmatiche "inequivoche nel linguaggio, certe nel contenuto, obbliganti nella forma, come ci si aspetta siano almeno gli insegnamenti di un Concilio".

    La conseguenza, secondo Amerio e Radaelli, è che il Concilio Vaticano II è pieno di asserzioni vaghe, equivoche, interpretabili in modi difformi, alcune delle quali, anzi, in sicuro contrasto col precedente magistero della Chiesa.

    E questo ambiguo linguaggio pastorale avrebbe aperto la strada a una Chiesa oggi "percorsa da mille dottrine e centomila nefandi costumi". Anche nell'arte, nella musica, nella liturgia.

    Che fare per porre rimedio a questo dissesto? La proposta che fa Radaelli va oltre quella fatta di recente – a partire da giudizi critici altrettanto duri – da un altro stimato cultore della tradizione cattolica, il teologo tomista Brunero Gherardini, 85 anni, canonico della basilica di San Pietro, professore emerito della Pontificia Università Lateranense e direttore della rivista "Divinitas".

    *

    Monsignor Gherardini ha avanzato la sua proposta in un libro uscito a Roma lo scorso anno dal titolo: "Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare".

    Il libro si conclude con una "Supplica al Santo Padre". Al quale viene chiesto di sottoporre a riesame i documenti del Concilio, per chiarire una volta per tutte "se, in che senso e fino a che punto" il Vaticano II sia o no in continuità con il precedente magistero della Chiesa.

    Il libro di Gherardini è introdotto da due prefazioni: una di Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo ed ex segretario della congregazione vaticana per il culto divino, e l'altra di Mario Olivieri, vescovo di Savona. Quest'ultimo scrive di unirsi "toto corde" alla supplica al Santo Padre.

    Ebbene, nella sua postfazione a "Zibaldone" di Romano Amerio, il professor Radaelli accoglie la proposta di monsignor Gherardini, ma "solo come un utile primo gradino per ripulire l'aia da molti, da troppi fraintendimenti".

    Chiarire il senso dei documenti conciliari, infatti, a giudizio di Radaelli non basta, se tale chiarimento viene poi anch'esso offerto alla Chiesa con il medesimo, inefficace stile d'insegnamento "pastorale" entrato in uso con il Concilio, propositivo invece che impositivo.

    Se l'abbandono del principio di autorità e il "discussionismo" sono la malattia della Chiesa conciliare e postconciliare, per uscire da lì – scrive Radaelli – è necessario agire all'opposto. La somma gerarchia della Chiesa deve chiudere la discussione con un pronunciamento dogmatico "ex cathedra", infallibile e obbligante. Deve colpire con l'anatema chi non obbedisce e benedire chi obbedisce.

    E Radaelli cosa si aspetta che decreti la suprema cattedra della Chiesa? Alla pari di Amerio, egli è convinto che in almeno tre casi vi sia stata "un'abissale rottura di continuità" tra il Vaticano II e il precedente magistero: là dove il Concilio afferma che la Chiesa di Cristo "sussiste nella" Chiesa cattolica invece di dire che "è" la Chiesa cattolica; là dove asserisce che "i cristiani adorano lo stesso Dio adorato da ebrei ed islamici"; e nella dichiarazione "Dignitatis humanæ" sulla libertà religiosa.

    *

    In Benedetto XVI, sia Gherardini che Amerio-Radaelli riconoscono un papa amico. Ma che egli esaudisca i loro voti è da escludersi.

    Anzi, sia nell'insieme che su alcuni punti controversi papa Joseph Ratzinger ha già fatto capire di non condividere affatto le loro posizioni.

    Ad esempio, sulla continuità di significato tra le formule "è" e "sussiste nella" si è espressa la congregazione per la dottrina della fede nell'estate del 2007 [
    LINK], affermando che "il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente".

    Quanto alla dichiarazione "Dignitatis humanæ" sulla libertà religiosa, Benedetto XVI in persona ha spiegato che se essa si è distaccata da precedenti indicazioni "contingenti" del magistero, lo ha fatto proprio per "riprendere nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa".

    Il
    discorso nel quale Benedetto XVI ha difeso l'ortodossia della "Dignitatis humanæ" è quello da lui rivolto alla curia vaticana alla vigilia del primo Natale del suo pontificato, il 22 dicembre 2005, proprio per sostenere che tra il Concilio Vaticano II e il precedente magistero della Chiesa non c'è rottura ma "riforma nella continuità".

    Papa Ratzinger non ha finora convinto i lefebvriani, che proprio su questo punto cruciale si mantengono in stato di scisma.

    Ma non ha convinto – a quanto scrivono Radaelli e Gherardini – nemmeno alcuni suoi figli "obbedientissimi in Cristo".

    ****


    Non saremmo così categorici circa il futuro rifiuto di Benedetto XVI di accogliere la domanda di chiarimenti avanzata da mons. Gherardini e, ora, da Radaelli. Anzi: i colloqui dottrinali con i lefebvriani potrebbero esserne l'occasione. Certamente, il Papa deve preparare gradualmente gli spiriti (come ha cominciato del resto a fare con la Dominus Iesus, contro cui si scatenò quasi tutta la Chiesa), né può ovviamente sconfessare apertamente i testi conciliari, pena non solo un'opposizione invincibile, ma ancor più una contraddizione magisteriale ancor più grave, forse, di quella tra i documenti del Concilio e il magistero precedente. Di qui la sua esigenza di tenere insieme tutti i pezzi del puzzle. Ma la dichiarazione del Sant'Uffizio sul 'subsistit' è già un passo estremamente importante, anche se certo deve essere rafforzato sotto il profilo della cogenza magisteriale, nonché mediante l'abbandono di certe residue ambiguità di discorso che sono, come nota Radaelli, la cifra espressiva caratteristica degli ultimi 40 anni.

    Circa la libertà religiosa, il Papa, nell'importantissima allocuzione del 22 dicembre 2005, distinse tra i princìpi, rimasti immutati, e la loro applicazione concreta che ha portato nell'Ottocento al Sillabo, e nel Novecento alla
    Dignitatis Humanae (che lo stesso giovane Ratzinger definì l'antisillabo). Benedetto XVI si accorge che il filo del suo discorso, volto a tenere insieme quanto appare inconciliabile, è arduo da seguire - per non dire tenue! - e lo ammette scrivendo: "È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione". Vogliamo però aggiungere che il tentativo di compromesso (compromesso, si ripete, inevitabile, non potendosi purtroppo considerare il Concilio tamquam non esset) ci sembra avere una sua plausibilità, oltre che un'indubbia necessità. Scendendo da un piano astratto ad uno molto concreto, che ci è più congeniale, ci permettiamo inoltre di aggiungere una considerazione, anche per stimolare la discussione e, perché no, la correzione da parte dei lettori. Eccola: se il Sillabo si inseriva in un contesto storico nel quale vi erano ancora Stati almeno formalmente confessionali, che si potevano quindi richiamare al dovere di difendere la Fede, ha senso controvertere oggi sulla questione se lo Stato debba restringere la libertà dei culti acattolici, quando la realtà evolve sempre più verso un laicismo apertamente anticristiano, o peggio ancora verso la conquista islamica, sicché teorizzare divieti e censure statali in favore della vera religione è completamente velleitario, mentre invocare libertà religiosa per tutti appare come una forma di garanzia per i cattolici perseguitati di oggi e di domani?

    Enrico




    **************************


    Caro Enrico (della Redazione), intanto grazie per questa disamina e per la domanda finale alla riflessione.... se pensiamo che solo fino a 5 anni parlare di tutto questo ti rendeva un extraterrestre, possiamo e osiamo dire che gli "spirito" sinceri come quelli "ameriani", stanno producendo i loro benefici effetti....  
    Il problema è, come si evince sia dal Radaelli, quanto da Amerio stesso e quanto da mons. Gherardini, come risolvere i problemi?  
    Che Benedetto XVI abbia il merito di aver frenato un certo "spiritello" del Concilio, è innegabile.... ed è veramente come un puzzle i cui pezzi furono mandati per aria semmai da questo "vento" tanto osannato....  
     
    Venendo alla domanda della Redazione non so perchè mi viene a mente la "Vehementer Nos" di san Pio X scritta alla Chiesa in Francia, ai francesi ma anche allo Stato francese che aveva rotto il Concordato con la Chiesa....e il Papa scrive per consolare quel popolo cattolico e per condannare quella legislazione che si prefiggeva proprio L'ANTIRELIGIOSITA' dello Stato laico..... Wink  
    io credo che se per CONTINUITA' intendiamo questo sviluppo, allora ci si potrà intendere.... diversamente ecco che avviene la rottura...  

    scrisse così in questa enciclica il Papa:  

    Per voi, Venerabili Fratelli, non sarà stato né una novità, né una sorpresa, dal momento che siete stati testimoni delle ferite così terribili e numerose inflitte a volta a volta dall'autorità pubblica alla religione. Avete visto violare la santità e l'inviolabilità del matrimonio cristiano con disposizioni legislative formalmente in contraddizione con esse; laicizzare le scuole e gli ospedali; strappare i chierici ai loro studi e alla disciplina ecclesiastica per costringerli al servizio militare; disperdere e spogliare le congregazioni religiose e ridurre la maggior parte dei loro membri all'estrema miseria. Poi sono sopravvenute altre misure legali che voi tutti conoscete: fu abrogata la legge che ordinava delle preghiere pubbliche
     
    (....)  
     Lo Stato così offende la Chiesa, non soltanto restringendo l'esercizio del culto (al quale la legge di separazione riduce falsamente tutta l'essenziale natura della religione), ma anche ostacolando la sua influenza sempre così benefica sul popolo, e paralizzandone in mille modi l'attività.  
     
    (....)  
     
    è ovvio che san Pio X parlava della religione Cattolica, ma dove sta scritto che in questa BATTAGLIA contro il laicismo non si possa COLLABORARE CON LE ALTRE FEDI? Wink  forse che la "Dignitatis humanae" parli solo ai cattolici, o forse che solo i cattolici hanno il diritto a questa DIGNITA' UMANA?....  
    La situazione odierna è mutata molto dai tempi passati! questo non significava "modificare la dottrina" ma AMPLIFICARLA, ESPORTARLA, ALLARGARLA OLTRE CIO' CHE ERANO ALL'EPOCA I NOSTRI CONFINI ossia, proprio ciò che fa emergere il testo sopra: Stati che si dicevano CATTOLICI!  
    La Francia non era forse Cattolica? e non è forse dalla Francia e dalla cattolicissima Spagna dopo che la Chiesa ha ricevuto le peggiori persecuzioni in questi ultimi secoli? Wink

    Dice infatti san Pio X nella medesima enciclica
     
     riproviamo e condanniamo la legge votata in Francia sulla separazione della Chiesa e dello Stato, come profondamente ingiuriosa rispetto a Dio che essa rinnega ufficialmente ponendo il principio che la Repubblica non riconosce nessun culto. La riproviamo e la condanniamo come votata in violazione del diritto naturale, del diritto delle genti e della fede pubblica dovuta ai trattati; come contraria alla costituzione divina della Chiesa, ai suoi diritti essenziali e alla sua libertà  
     
    ********************  

    è ovvio che san Pio X difende qui il diritto CATTOLICO, ma il diritto delle GENTI ALLA FEDE PUBBLICA, va ben oltre il confine dei cattolici....un esempio lampante è san Paolo nel "cortile dei gentili" nella famosa agorà...il diritto alla fede pubblica è comune a tutte le genti che, con coscienza CERCANO LA VERITA' e se infatti non si pone l'Uomo nella condizione di cercarla (ecco la vera libertà religiosa) anche il cattolico avrà difficoltà nell'esercitare la sua missione evangelizzatrice...  
    In questo tal senso vedo davvero la profezia di san Pio X in questi moniti che non si attivavano esclusivamente ai cattolici ma che di li a poco avrebbero colpito (le pretese dello Stato laico) TUTTO IL SENSO RELIGIOSO, LA RELIGIONE IN SE'...  

    Credo nel mio piccolo che sia questo il senso di CONTINUITA' che dobbiamo ricercare.... Wink


    ***********************************************

    Daniele
    Il Sillabo, così come altri documenti pontifici, stabiliva un punto di dottrina: lo Stato ha il dovere di riconoscere la religione rivelata come tale e di attribuire ad essa soltanto la libertà, mentre gli altri culti possono essere tollerati nella misura in cui il bene comune lo richiede. Che questo principio avesse applicazioni diverse a seconda delle circostanze storiche, era cosa ovvia anche ai tempi del Sillabo: nell'impossibilità di ottenere la situazione ideale, si cerca almeno di accontenarsi del male minore. Detto questo, non si può confondere l'applicazione contingente del principio col principio stesso. In altre parole, va benissimo affermare che nella situazione presente la libertà religiosa costituisce il male minore rispetto ai tentativi di ingerenza laicista, ma non si può dire che il laicismo o agnosticismo di Stato sia di per sé conforme alla dottrina cattolica o addirittura che la libertà religiosa sia un diritto (che come tale spetta solo alla veritàWink e non piuttosto un'eccezione al diritto (tolleranza). Inoltre, non saprei fino a che punto l'agnosticismo di Stato sia migliore dell'atesimo o laicismo di Stato. Nel secondo caso, l'opposizione alla Chiesa è aperta e la resistenza può essere efficace. Nel primo, invece, sotto l'apparenza di libertà, si veicola l'idea che non esistano criteri oggettivi per discernere la vera dalle false religioni (altrimenti, perché lo Stato non lo avrebbe fatto?) e si scivola sempre più verso l'indifferentismo, come già denunciava Gregorio XVI.  
     
    Detto questo, sono rimasto molto sorpreso nel constatare come Amerio si ponga contro la dottrina del battesimo di desiderio che la Chiesa ha sempre tenuto per vera fin dall'epoca patristica. Non posso fare a meno di pensare che la citazione sia incompleta o che il contesto suggerisca diversamente, perché, così posta, la sua è una critica priva di senso.


    *******************************************************

    Concordo con quanto riporta Daniele infatti, per un cattolico, non dovrebbe esistere affatto la scelta del "male minore", ma questa scelta è tollerata (non infatti accettata) dalla Chiesa che vede in ogni condizione e situazione storica, questi eventi, quale SFIDA per portare avanti la missione che gli è stata affidata da Dio...  
     
    Ed è altrettanto rischioso, infatti, il concetto di "libertà religiosa" se alla radice, alla base, non c'è una ferma dottrina.... la sfida è infatti  quella di resistere al rischio del SINCRETISMO RELIGIOSO che in nome di una battaglia contro l'ateismo di uno Stato, finirebbe per imporsi, elevando ogni qualsiasi religione e fede allo stesso livello... ed è quello che accaduto in questi anni proprio perchè alla base la Chiesa stessa aveva perduto la base dottrinale quale supporto... Wink  
     
    Facciamo un esempio concreto: volente o dolente, comunque la si voglia vedere, la Chiesa ha sempre convissuto con l'ebraismo, con alti e bassi, con simpatie o antipatie (san Pio V era amico del Rabbino di Roma che alla fine egli si convertì come avvenne poi con Pio XII e il Rabbino di Roma Zolli), l'inimicizia palese che esiste fra le due parti è descritta minuziosamente in san Paolo ai Romani cap. 11 nel quale l'apostolo dice testualmente: CHE QUANTO AL VANGELO ESSI SONO NOSTRI NEMICI!  
    va da se pertanto che il voler IMPORRE una amicizia obbligatoria fatta di sorrisetti, abbracci e di volemose bene, finisce per inificiare la Parola stessa della Sacra Scrittura... Wink  
     
    Ciò che invece dobbiamo fare attenzione è di non fare di quella frase paolina un arma contundente di inimicizia....poichè tale inimicizia c'è e si risolverà SOLO CON L'ARRIVO DI CRISTO RE E VINCITORE....a noi non resta che CONVIVERE con quanti sono "NEMICI DEL VANGELO" a causa stessa di una VOLONTA' DIVINA, infatti dice l'apostolo che a causa della loro durezza di cuore, Dio HA IMPOSTO UN VELO sul loro cuore.... ma questo non esclude la conversione dei singoli se pervade, appunto, una vera amicizia che NON è solidarietà nella menzogna, ma come ci insegnano san Pio V e Pio XII è una amicizia CHE PORTA ALLA CONVERSIONE...  
     
    Inutile dunque voler forzare la Scrittura stessa... esistono dei NEMICI DEL VANGELO e questo non siamo solo noi quando rinneghiamo le promesse battesimali o i Sacramenti, ma lo sono anche taluni non cattolici che vivono proprio rinnegando e rifiutando l'avvento del Messia... in tal contesto, la libertà religiosa, non può essere difesa da noi se per questa si intende IL RIFIUTO DI CRISTO...  
    L'Inghilterra ha riconosciuto da tempo perfino il satanismo come religione e libertà di essere adempiuta anche pubblicamente sulle navi di sua maestà....ma essi stessi NON volevano questa libertà, a loro piace giocare nell'oscurità... va da se che occorre distinguere in questa libertà ciò che di religioso non c'è e che anzi è un'aggravante per l'Uomo stesso...  
    Wink








      

    [Modificato da Caterina63 13/07/2010 11:37]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 13/07/2010 11:10

    In Oriensforum il forumista Guy Fawkes, scrive:

    Cari fratelli,

    ho iniziato da un paio di settimane a leggere l'opera di Amerio, e vorrei proporre una discussione unica nella quale sviscerare, con l'aiuto dei forumisti più preparati e competenti, alcune questioni che possono apparire ostiche o incomprensibili al lettore comune e mediamente ignorante come il sottoscritto (che per soprammercato può dedicare alla lettura solo una manciata di minuti al termine di una serata estenuante, prima di addormentarsi).

    Il primo tema che vorrei trattare è quello che Amerio definisce del cristianesimo secondario e quello correllato dell'eudaimonia cristiana. Nell'ottica dell'autore, che dona importanza preminente alla verità sull'amore e all'ultramondano sul mondano, risulta erronea la posizione di chi afferma che:

    a) lo scopo (ma anche l'effetto precipuo) della religione è (anche?) la costruzione di una civiltà terrena (c.d. "cristianesimo secondario") in quanto considerare il fine dell'uomo raggiunto già sulla terra fa svilire il (vero) fine ultramondano dello stesso. Sbaglio dunque io a ritenere che tale civiltà sia effettivamente già esistita sulla terra (la Christianitas medievale) e che l'azione politica del Cristiano debba essere volta in qualche modo a restaurarla?

    b) l'uomo possa effettivamente conseguire una maggiore felicità temporale già nella vita presente (eudaimonia) vivendo nella religione cristiana, in quanto vivere secondo i suoi precetti permette uno sviluppo integrale e migliore della persona umana (penso in particolare al "centuplo" evangelico o alla scommessa pascaliana). Nel mio piccolo, posso affermare che da cristiano sono effettivamente più felice che non quando ero pagano, anche perchè riesco a contestualizzare meglio la sofferenza.

    Dai due punti che ho provato ad esporre, traggo l'impressione che Amerio, sicuramente come reazione alla spinta orizzontalizzante estrema del post-concilio, estremizzi a sua volta la cesura tra terreno e ultraterreno, svalutando oltre la corretta misura i fini mondani, che pure esistono e devono esistere (e difatti la fede senza le opere è morta). Qualcuno può aiutarmi a sviscerare la questione?

    Mi scuso in anticipo se non posso citare esattamente il paragrafo (che ho letto ieri sera) che mi ha creato confusione; rimedierò entro stasera.

    *****************************

    gli risponde Daniele:

    La difficoltà maggiore nella comprensione di Amerio sta nell'identificazione di quelle essenze la cui confusione, a suo giudizio, costituisce la principale causa della moderna crisi della Chiesa. Se non si hanno ben chiari i concetti ai quali l'autore di volta in volta si riferisce, non è affatto semplice seguirlo in ragionamenti molto profondi, sì, ma proprio per questo molto astratti e molto complessi. Amerio stesso esprime questo concetto in apertura al libro: "La determinatezza dei vocaboli è sanità del discorso". Ora, la forma mentis e il vocabolario dell'autore sono piuttosto distanti dai quelli contemporanei, inevitabilmente intrisi, anche presso i cattolici fedeli alla tradizione, di mentalità liberale e di relativismo. Difficilmente un moderno, se non ha studiato la filosofia di S. Tommaso, avrà una nozione esatta del termine e del concetto di "fine". Non perché sia difficile, ma perché la mentalità sociale nella quale egli vive ne ha snaturato il significato. Di qui la complessità insita nel leggere Amerio: occorre soffermarsi con estrema attenzione sul valore di ciascun termine, di ciascun concetto, il che è tanto più necessario quanto più l'argomento si fa complesso. Non c'è nulla di straordinario in questo. È la mentalità di oggi, pragmatica e relativista, che ci ha disabituati a farlo.

    Una volta entrati nella prospettiva ameriana, che poi è la prospettiva cattolica della filosofia realista (la cui vetta fu toccata dall'Aquinate), il suo pensiero risulta di una chiarezza cristallina. Ad esempio, scompare la separazione tra verità e amore. Non è possibile assegnare una preminenza a questo o a quella, poiché l'una è il presupposto dell'altro e viceversa. Non c'è amore senza verità, né c'è verità senza amore. Amerio lo sostiene a viva forza, non solo con argomenti etici, ma anche teologici: "L'amore è preceduto dal Verbo, è preceduto dalla conoscenza. Separare l'amore, la carità, dalla verità, non è cattolico". Volendo esprimere questo concetto in termini matematici, potremmo dire che la verità sta alla carità come le tre persone della Trinità stanno tra loro. E se nel libro l'accento viene posto sulla verità piuttosto che sull'amore, è perché il mondo moderno, e la Chiesa dietro di esso, tende ad eliminare questa piuttosto che quello. Ma sopprimendo uno di due correlativi, anche l'altro necessariamente dilegua.

    Quanto al problema del rapporto tra fine mondano e fine ultramondano dell'uomo, bisogna partire dalle fondamenta, ossia dalla nozione di fini. Ora, una cosa può certamente avere più fini, ma non può mai avere più fini ultimi. Il fine ultimo, proprio per il suo essere ultimo, è necessariamente unico. Due o più fini ultimi, infatti, postulerebbero l'esistenza di un ulteriore fine, ancor più ultimo, che li comprende entrambi. Inoltre, poiché il principio creatore e ordinatore della realtà è unico, Dio, è inevitabile che tutto tenda, in ultima analisi, a lui. Quindi la dottrina dell'unicità del fine ultimo può essere dimostrata con argomenti sia filosofici sia teologici.

    Suo corollario è la gerarchia dei fini. Se il fine ultimo è il compimento delle potenzialità di una cosa, ne segue che gli altri fini della medesima cosa debbano essere subordinati e ordinati ad esso. In altre parole, se si manca all'adempimento del fine ultimo, si manca per conseguenza anche all'adempimento dei fini secondari e subordinati.

    Nel caso dell'uomo, fine ultimo è la visione beatifica di Dio, fini secondari sono tutti quelli che non contrastano con tale fine ultimo e che possono essere ad esso ordinati. Tra di essi va annoverato anche il cosiddetto fine terreno, ossia, a livello privato, la felicità naturale, e a livello pubblico l'instaurazione della società cristiana, cioè il cosiddetto cristianesimo secondario.

    Quando si dice che i fini diversi dal fine ultimo sono secondari, non si vuole dire che non abbiano importanza. Ce l'hanno, invece, e grandissima, poiché, essendo ordinati al fine ultimo, sono mezzi per conseguirlo. In effetti, è quasi impossibile attingere al fine ultimo senza servirsi di qualche fine secondario. Per andare in paradiso (fine primario) dobbiamo adempiere tutta una serie di fini secondari: l'adempimento dei nostri doveri, il conseguimento della perfezione, il rispetto della legge naturale e divina, e così via.

    Il problema, dunque, non nasce dall'esistenza dei fini secondari e non nasce neppure dal riconoscimento della loro importanza. Amerio non sostiene che l'uomo debba disinteressarsi della città terrena e rivolgere le sue attenzioni solo alla città celeste. Nessun buon cristiano l'ha mai fatto. Anche i contemplativi che si ritirano dal mondo consacrano la loro preghiera e le loro penitenze alla conversione del mondo stesso. Pensare primariamente a salvarsi l'anima è essenziale, pensare solamente a salvarsi l'anima è egoismo e, in quanto egoismo, è peccato.

    Il problema sorge piuttosto dalla confusione dei fini, cioè, in ultima analisi, dalla confusione delle essenze. Quando si comincia a dire che il fine terreno è a pari col fine ultraterreno, oppure che i due fini sono separati e indipendenti, oppure ancora che il fine terreno è subordinato all'ultraterreno, si commette un errore logico, oltre che storico e teologico, appunto perché due fini non possono essere equivalenti né il maggiore può sottostare al minore. La separazione del cristianesimo secondario, cioè degli effetti sociali del cristianesimo, dal cristianesimo primario, cioè dal cristianesimo come religione, è un prodotto di tale errore, e scopo di Amerio è metterlo in evidenza.

    Senza il fine ultimo, i fini secondi si svuotano. Senza ordinamento a Dio, la vita umana perde completamente di senso, nonostante il tentativo di rendere autonomi i fini secondari.

    Da questi concetti risulta chiaro come si debba interpretare la posizione di Amerio a proposito del cristianesimo secondario.

    1) Fine primario della religione e dell'uomo è la salvezza eterna (cristianesimo primario). La civilizzazione, sia pure la civilizzazione cristiana, non è che un fine secondario subordinato al primo e ordinato ad una sua migliore realizzazione. Certamente una civiltà modellata sui principii del cristianesimo agevola la salvezza eterna degli individui, ma essa è possibile anche in un contesto sociale non cristiano. Si pensi al cristianesimo primitivo nella società romana. La religione e l'uomo, dunque, deve prima occuparsi del fine primario e poi, subordinatamente, del fine secondario. Se si inverte questo ordine, si scade nel cristianesimo sociale in cui si può parlare di salvezza eterna solo dopo aver realizzato in tutto il mondo la felicità terrena. La priorità non solo ontologica ma anche morale del fine ultimo sui fini secondi è insegnata anche da Gesù nel Vangelo: "Che giova all'uomo conquistare il mondo intero, se poi perde l'anima sua?". E ancora: "Chiedete prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta". Tale insegnamento è confermato dall'esperienza. Quando i cattolici, nel postconcilio, hanno spostato l'attenzione dal fine ultraterreno a quello terreno, hanno di conseguire e l'uno e l'altro.

    2) Sul concetto di felicità naturale bisogna intendersi bene. Se si identifica la felicità temporale col senso di serenità e appagamento derivante dalla consapevolezza di una realtà soprannaturale che tutto in sé ricapitola, si commette un errore di prospettiva, perché qui abbiamo una felicità che è naturale nelle sue espressioni, ma soprannaturale nelle sue cause. I beati, nel paradiso, godono di una felicità che è, ad un tempo, soprannaturale e naturale, perché il più include il meno e l'adempimento del fine ultimo comporta in qualche modo un adempimento di tutti i fini secondi ad esso ordinati. Anch'io posso dire che sono più felice da quando ho preso piena coscienza dal mio essere cristiano, ma devo aggiungere che tale felicità, derivando appunto dalla consapevolezza del soprannaturale, è essa stessa soprannaturale; se mancasse questa, mancherebbe anche quella. La felicità naturale propriamente intesa è una felicità che deriva da cause naturali. E, in questo senso è, rispetto alla religione, puramente accidentale. Ci sono innumerevoli esempi di persone le quali, pur essendo vissute nel timore di Dio, non hanno goduto di felicità terrena nel senso proprio del termine. Giobbe, per esempio, ma anche molti Santi, nei quali la consapevolezza dell'Assoluto divino e delle gioie eterne generava serenità, ma non felicità. Ricordo che rimasi molto colpito dal tono estremamente cupo di alcune lettere di Padre Pio, talmente cupo che doveva essere l'interlocutore a ricordargli, nella risposta, che rattristarsi troppo non era da cristiani. E la Madonna, a Fatima, promise ai pastorelli felicità nell'altra vita, ma non in questa. Al contrario, abbiamo moltissimi esempi di atei naturalmente felici. Si può andare oltre. Dopo il peccato originale, la conformazione tra volontà e legge, cioè la moralità, richiede un notevole sforzo, e questo sforzo procede necessariamente attraverso il sacrificio, cioè attraverso la privazione volontaria di una porzione di felicità naturale. I Santi erano felici, sì, ma felici in Dio, non felici nel mondo. L'errore messo in luce da Amerio sta nel considerare la felicità naturale come una conseguenza necessaria della religione cristiana.

    Concludo questa mia breve apologia del pensiero ameriano circa il cristianesimo secondario con alcune citazioni tratte da Iota unum.

    "Il peccato specifico del cristianesimo secondario che vizia la civitas hominis è l'epocazione del trascendente. [...] Quindi: prospettiva finale puramente terrena, riduzione del Cristianesimo a mezzo, apoteosi della civiltà. Nega l'aut aut del Vangelo per sostituirvi una sorta di et et che combina cielo e mondo in un composto in cui la parte predominante che dà al composto il suo carattere è il mondo" (§ 221). Non si critica, come si vede, la concomitanza di fini, ma l'inversione del primario col secondario, del fine col mezzo.

    "L'errore eudemonogico [...] pretende [...] che il godimento degli onesti beni terreni sia più sicuro, più autentico e più copioso nella religione che altrove". Non si tratta, dunque, di fare del cristianesimo il contrapposto della felicità naturale, ma di affermare che questa non consegue necessariamente da quello. La religione, in altre parole, garantisce la felicità soprannaturale, cioè la felicità tout-court (essendo la felicità naturale inferiore e subordinata a quella soprannaturale), ma non quella puramente naturale.


    ***************************************************************

    ...ecco.
    Da un lato speravo in un intervento chiarificatore di Daniele. Dall'altro lo temevo  Ghigno. Ho studiato S. Tommaso (a livello liceale e quasi vent'anni fa ormai) quindi merito doppiamente la bastonatura  Ghigno però non rinuncerò a leggere un testo che mi ha arricchito con molti spunti di riflessione (uno su tutti quello sulla guerra e sul perchè oggi la Chiesa possa trovarsi a condannare qualunque guerra, davvero illuminante). Potrò ancora proporre qualche goffo dubbio scusandomi in anticipo?


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    Studiare San Tommaso al liceo nel contesto di un programma di studi filosofici improntato all'idealismo hegeliano è come non studiarlo. Anzi, peggio che non studiarlo. Ma più che un problema filosofico, è un problema di mentalità. Il realismo è anzitutto l'atteggiamento di chi è persuaso che il reale sia conoscibile e, di conseguenza, il vero sia distinguibile dal falso. Per questo dà moltissima importanza alle essenze, cioè alla natura intima delle cose, e alla distinzione tra un'essenza e l'altra. Il relativismo invece, negando che la realtà sia conoscibile in sé, nega la distinzione reale delle essenze e, con essa, le essenze stesse. Liberarsi dalla mentalità relativista nella quale siamo immersi è estremamente difficile. Un buon procedimento, che a me almeno è servito tantissimo, consiste nell'astrarre e identificare i concetti. Di fronte a una questione, bisogna sempre esaminarne i termini nella loro essenza, prescindendo dalla situazione contingente, e poi chiedersi in che cosa veramente consista la loro essenza. Tutti siamo portati, ad esempio, a dare per scontato il concetto di "fine". Ma quante volte ci siamo seriamente interrogati sul suo significato profondo e sulle sue implicazioni? In molti casi, non occorre neppure ricorrere ai pensatori che ci hanno preceduto. Una persona di media cultura e di buona intelligenza è perfettamente in grado di arrivare da sola al principio per cui due fini ultimi non possono coesistere. Basta un po' di logica e un po' di buon senso, corrobotati dall'abitudine di confrontare sempre i risultati del proprio pensiero con la realtà, per evitare di scadere nell'errore dei soggettivisti.

    Il mio non voleva, naturalmente, essere un invito a lasciare la lettura di Amerio. Anzi, frequentare autori come questi è il presupposto indispensabile per liberarsi dei residui della mentalità contemporanea che confonde le essenze e penetrare nella mentalità realista (e cattolica) che le distingue e le identifica.

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 13/07/2010 11:12
    Dal Blog di Francesco Colafemmina Fides et Forma, un blogghista ha chiesto:

    Attendo una bella recensione di "Stat Veritas"! E' bello come "Iota unum"?

    *************************

    la mia risposta:

    Lo sto leggendo alternandomi con Iota unum ^__^ lo sto trovando interessante per i commenti alla Lettera apostolica del Papa sul Terzo millennio e cercando di restare al di sopra delle parti, evitando di farmi influenzare dalle opinioni personali, lo sto trovando molto interessante...

    Per esempio quando a pag.63 approfondisce il concetto di CONVERSIONE...un termine davvero abusato oggi e privato del suo autentico valore e significato.
    Chiede giustamente Amerio:
    Nel linguaggio comune, quando parliamo di convertiti che cosa pensiamo?
    egli pone l'accento sulla falsa conversione che di fatto snaturalizza il termine stesso quando colui che dovrebbe essere convertito in verità resta ancorato nelle sue convinzioni su immagini di Dio errate, pur sforzandosi di diventare "buono"...questa non è conversione...

     Sorriso

    passo a pag.65

    Chiosa23: commento al §34, p.42
    "L'unità dei cristiani, in definitiva, è dono dello Spirito Santo"

    E' interessate scorgere nel pensiero di Amerio che egli non nega che l'Unità dei cristiani quale opera dello Spirito Santo, ma discute su un certo ecumenismo del Concilio e del suo dopo, che non conduce affatto questi cristiani all'unità, quanto piuttosto alla confermazione dei propri errori.

    Ma Amerio, a ragione, fa osservare che seppur è positivo un ecumenismo che ci porta alla reciproca conoscenza, occorre dire che il vero Ecumenismo NON è nell'ordine della conoscenza, ma in quello della Grazia che deve condurre agli ATTI...ergo, spiega Amerio, la semplice conoscenza non produce la conversione, non ci si arriva a convertire perchè si scopre che l'altro la pensa diversamente da noi...
    Basti vedere che l'ecumenismo del dopo Concilio, E' MONCO, scrive Amerio (notare che non lo nega, ma lo definisce giustamente "monco") perchè, spiega:
    ...gli atti dei fratelli separati non sono stati atti che li facevano avanzare verso il cattolicesimo, ma CONTRADDICEVANO la fede....alcuni di questi atti, spiega ancora Amerio, sono stati clamorosi come quello del sacerdozio allargato alle donne.......non a caso Amerio ritiene alquanto discutile il dono fatto da Paolo VI (in modo PLATEALE) dell'anello pastorale all'allora Arcivescovo di Canterbury, dandogli (seppur in buona fede) l'erroneo RICONOSCIMENTO nella fede comune...contraddicendo, pubblicamente, il decreto di Papa Leone XIII del 1896 che chiariva (dopo attenti studi di Commissioni) che i preti anglicani non erano affatto preti e che la loro ordinazione, una volta ritornati nella Chiesa, andava rifatta...Di conseguenza anche la posizione dell'arcivescovo di Canterbury non è legittima e non è valida, ma l'atto compiuto da Paolo VI ha gettato il tutto nella confusione e nell'ambiguità Occhi al cielo

    Questi fatti contraddicono le scelte fatte da un certo ecumenismo postconciliare....ed oggi noi possiamo dire, dopo l'atto concreto di Benedetto XVI con gli Anglicani, che Amerio aveva ragione... Occhiolino

    Si parla tanto di unità nelle diversità come se nel passato della Chiesa ciò non fosse mai stato.... Occhi al cielo
    e gli Ordini religiosi non sono forse unità nelle diversità? Cosa vogliamo intendere per "diversità"?
    Con l'evento del ritorno di una parte degli Anglicani ora lo vediamo meglio...una diversità fatta di CARISMI diversi NON DI DOTTRINE DIVERSE... Occhiolino

     Sorriso


    (ulteriori approfondimenti, a Dio picendo, da settembre in poi)


    Fraternamente CaterinaLD

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    00 17/03/2011 00:36
    Interessante riflessione di Padre Giovanni Scalesi dal suo blog Senza peli sulla lingua:


    Signori o ospiti?

    Due giorni fa il Corriere della sera ha pubblicato un interessante commento del Prof. Giuseppe Panissidi sul cataclisma giapponese, mettendolo in rapporto col devastante terremoto-maremoto di Lisbona del 1755. Effettivamente esistono inquietanti analogie fra le due catastrofi (anche in quel caso l’intensità raggiunse il 9° grado della scala Richter). Quel tragico evento ebbe ripercussioni non solo sulla società portoghese, ma anche sulla cultura europea del tempo:

    «Una straordinaria temperie spirituale, l’Illuminismo, d’un tratto si fermò, ripiegando su se stessa. A meditare intensamente e ripensare i suoi pur rigorosi paradigmi culturali, la sua stessa visione della storia e dell’uomo … Il terremoto di Lisbona, invero, segna la fine di ogni ottimismo di maniera, le leopardiane “magnifiche sorti e progressive” e, nel contempo, l’alba del nostro disincanto, intriso di quella peculiare forma di realismo che Nietzsche, nella Nascita della tragedia (1872), chiamerà “pessimismo della forza”».

    Potrebbe accadere qualcosa di simile ai nostri giorni. La tragedia giapponese non può lasciarci indifferenti. Personalmente, vedendo le immagini dell’onda anomala dello tsunami che travolgeva tutto, mi veniva di pensare: vedi che fine fa la nostra tecnologia! Quanto il maremoto colpí l’Indonesia nel 2004 non avevo avuto la stessa sensazione: in quel caso a essere colpiti erano stati per lo piú poveri villaggi, al massimo qualche villaggio turistico. Ma questa volta è stato colpito il Giappone, un paese supersviluppato, che sembrava quasi invulnerabile. E invece… bastano pochi minuti alla natura per distruggere tutto. Anche i ritrovati piú sofisticati diventano, da un momento all’altro, un ammasso di ferri vecchi (le avete viste tutte quelle auto galleggiare sulle acque? quei treni, quelle navi e quelle case spazzate via?). Anzi, le nostre creature piú perfette per produrre energia (le centrali nucleari), che sembravano cosí potenti e sicure, in un batter d’occhio si rivoltano contro di noi e ci minacciano con il loro terrore. Probabilmente sarebbe il caso di fare qualche riflessione sulla nostra reale condizione. Afferma giustamente il Prof. Panissidi:

    «Credenti e non, ricchi e poveri, sani e malati, siamo ospiti (non sempre graditi), non signori del cosmo: enti naturali finiti e incompleti, fatti per (cercare di) conoscerlo e viverci nell’armonia possibile, affrancati da distopie di manipolazione e dominio, perseguite con lo scopo di “deviarne” con modalità improbabili e intrusive leggi e dinamiche».

    Nel leggere quella frase: «siamo ospiti, non signori del cosmo», mi veniva in mente quanto avevo letto tempo fa in Iota unum, a proposito della “Teleologia antropocentrica di Gaudium et spes”. Lí per lí la posizione di Romano Amerio mi aveva lasciato piuttosto perplesso. Per chi, come me, viene da una formazione umanistica, che pone l’uomo al centro dell’universo, ed è stato formato alla scuola del Concilio Vaticano II, che ha fatto propria la visione antropocentrica del cosmo, la contestazione di Amerio mi sembrava un po’ esagerata. Sembrava quasi come l’impugnazione di una verità ovvia, praticamente indiscutibile. Amerio, nel capitolo XXX di Iota unum, mette in discussione due passi della Gaudium et spes: 

    «Secondo l’opinione quasi concorde di credenti e non credenti, tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo, come a suo centro e vertice» (n. 12; Amerio erroneamente cita il n. 14)

    «L’uomo … è la sola creatura sulla terra che Dio abbia voluto per se stessa» (n. 24).

    La novità di questo testo sta in quel “propter seipsam”, che avrebbe sostituito il tradizionale “propter seipsum”. Tanto è vero che Amerio, per dimostrare l’illegittimità di tale sostituzione, invoca l’autorità del libro dei Proverbi:

    «Universa propter semetipsum operatus est Dominus» (16:4).

    Amerio non avrebbe piú potuto citare questo testo, se avesse dovuto citare la Neovolgata, che ora afferma: «Universa secundum proprium finem operatus est Dominus» (e infatti la nuova versione della CEI traduce: «Il Signore ha fatto ogni cosa per il suo fine»). 

    Se devo essere sincero, durante i miei studi, ho sempre rilevato una certa incoerenza nel considerare un progresso la visione antropocentrica dell’Umanesimo e del Rinascimento, quando, piú o meno contemporaneamente, in campo scientifico si abbandonava la teoria geocentrica in favore di quella eliocentrica (cosí come non ho mai capito come Kant potesse chiamare “rivoluzione copernicana” il far ruotare l’oggetto intorno al soggetto, quando, secondo me, sarebbe stato piú logico chiamarla “rivoluzione tolemaica”). Ma il fatto di percepire certe incongruenze non mi autorizzava a mettere in discussione quello che costituisce un vero e proprio “dogma” della nostra cultura: la centralità dell’uomo nell’universo. Con il Vaticano II la Chiesa ha fatto propria questa visione antropocentrica. Per noi che siamo stati formati dopo il Concilio, si tratta di una verità pressoché evidente, che non ha bisogno di dimostrazione. Questo spiega perché fossi rimasto perplesso dinanzi alle critiche di Romano Amerio.

    Non sarò ora io a dire che il Concilio aveva torto e Amerio aveva ragione. Certo però avvenimenti come la catastrofe giapponese dovrebbero davvero farci riflettere. Dovrebbero, se non altro, ridimensionare quel senso di superiorità al limite dell’onnipotenza, che caratterizza l’uomo moderno. L’uomo dovrebbe prendere coscienza della sua reale condizione e del suo rapporto con la natura, infinitamente piú forte di lui. Per dirla con il Prof. Panissidi, dovremmo ricordarci di essere ospiti, non signori del cosmo.

    Probabilmente, non c’è bisogno di procedere alla correzione dei testi conciliari, che pure hanno un loro fondamento; ma perlomeno dovremmo rinunciare, una volta per tutte, a quell’ottimismo un tantino ingenuo che pervade la Gaudium et spes, a favore di un maggiore realismo. Lo stesso Paolo VI ammise che il Vaticano II aveva un po’ esagerato in questa visione ottimistica dell’uomo:

    «Bisogna onestamente riconoscere che questo nostro Concilio, nell’elaborare il suo giudizio sull’uomo, si è soffermato a considerare piú la fronte serena che quella triste; e che in esso ha volutamente interpretato tutti gli aspetti con ottimismo … Il Concilio ha parlato agli uomini contemporanei facendo uso non di previsioni catastrofiche, ma di messaggi di speranza e parole di fiducia» (Omelia nella IX Sessione del Concilio, 7 dicembre 1965).

    Ecco, è forse giunto il momento di voltare pagina. Come 250 anni fa il terremoto di Lisbona disincantò gli uomini del secolo dei Lumi, cosí forse oggi lo tsunami giapponese aiuterà l’uomo a ridimensionarsi, e libererà la Chiesa da quell’ottimismo di maniera che l’ha contraddistinta negli ultimi decenni. Non per assumere un atteggiamento pessimista, ma semplicemente per ritrovare quel sano realismo che l’ha caratterizzata in tutta la sua storia.




    Fraternamente CaterinaLD

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    00 18/04/2012 11:56

    AMERIO - IOTA UNUM - LA CATECHESI

     




    Ringrazio l'amico Piero Mainardi per aver riportato, in forma sintetica, importanti passaggi del libro di Romano Amerio, Iota Unum, e di avermi concesso di riportarli nel mio blog.

    CAP. XIII – LA CATECHESI

    1.1 La dissoluzione della catechesi. Il Sinodo dei vescovi 1977 –

    Levata l’autorità del maestro e sciolta la verità in pura euristica (un procedimento che si affida più all’intuito e allo stato delle circostanze che a un metodo chiaro e preciso nella ricerca) la riforma della catechesi non ha potuto trattenersi dal volgere a deviazioni eterodosse che insieme alla variazione del metodo comportano variazione dei contenuti.
    Già il convegno di Assisi del 1969 sull’insegnamento religioso preconizzava l’abbandono di ogni contenuto dogmatico e la surrogazione dell’insegnamento della religione cattolica (considerato un ingiusto privilegio in un paese democratico) con quello della storia delle religioni.
    Nel Sinodo dei Vescovi del 1977 la catechesi trasgredì in sociologia, nella politica, nella teologia della liberazione. Pochi esempi. Peri vescovo di Saragozza la catechesi “deve promuovere la creatività degli allievi, il dialogo, la partecipazione attiva, senza dimenticare che è azione della Chiesa”. La creatività è un assurdo metafisico e morale e comunque non può realizzare il fine della catechesi, giacché l’uomo non può autorealizzarsi, il fine gli è dato e deve solo volerlo.
    Per padre Hardy “la catechesi deve portare all’esperienza del Cristo”, che è proposizione confondente l’ideale col reale, trapassante nel misticismo. La catechesi è per sé cognizione e non esperienza, benché ordinata alla esperienza della vita.
    Peri il card. Pironio “la catechesi si sprigiona dall’esperienza profonda di Dio nell’umanità cristiana ed è una più profonda assimilazione dell’amore e della fede”. Vi sono sentori modernisti in tali asserti. La catechesi è la dottrina e non si sprigiona dall’esperienza esistenziale dei credenti.
    Essa discende dall’insegnamento divino e non è prodotta, ma produce l’esperienza religiosa.
    Un vescovo del Kenia afferma che “la catechesi deve impegnarsi a denunciare le ingiustizie sociali e difendere le iniziative di liberazione sociale dei poveri”. Così si degrada la parola di vita eterna a un intendimento economico e sociale.

    1.2 La dissoluzione della catechesi. Padre Arrupe. Card. Benelli –

    Oltre l’idea della socialità e della creatività dominò il Sinodo l’idea del pluralismo, padre Arrupe: “Lo Spirito appaga l’intima aspirazione dell’uomo di congiungere le esigenze apparentemente antitetiche di una radicale unità con altrettanto radicale diversità”. Se così fosse sembrerebbe essere la contraddizione il fondo del pensiero umano e non l’identità.
    P. Arrupe poi non vuole nella catechesi “definizioni complete, strette, ortodosse, perché potrebbero portare auna forma aristocratica e involutiva”. Come se la verità e l’ortodossia fosse un disvalore e l’autentica catechesi nascesse dalla oclocrazia (predominio della folla, plebe).
    Qui si vuole la pluralità dei catechismi perché tutte le opposizioni che fanno lo specifico delle dottrine si risolvono in un’identità di fondo che oltrepassa lo specifico delle dottrine.
    Il Card. Benelli parlando a insegnanti di religione, ha preconizzato che la scuola di religione “debba favorire il confronto obiettivo con altre visioni di vita che occorre conoscere, valutare ed eventualmente integrare”. Il cardinale non vede nel mondo mentale e religioso alcun errore, ma solo cose da integrare. Inoltre “l’unica maniera di insegnare la religione cattolica è di fare una proposta di vita”.
    I due caratteri della nuova catechesi, essere ricerca anziché dottrina e mirare a produrre risposte esistenziali anziché una persuasione intellettuali si rispecchiano nella soluzione data al problema della pluralità dei catechismi e della memorizzazione. Dove non si dà contenuto dogmatico a cui assentire non occorre avere un unico catechismo universale non essendovi formule di fede cui aderire.
    La forma amebea con domanda e risposta rispecchia l’indole didattica e non euristica della catechesi cattolica la quale, essendo proposizione di verità, non interroga supponendo (metodicamente) dubbia la risposta, ma risponde assertoriamente il vero.
    Ma memorizzazione venne squalificata e vilipesa dai pedagoghi e invece si accompagna naturalmente al concetto di catechesi come comunicazione di conoscenze.
    Un vescovo dell’Equatore affermò che “la catechesi consiste non tanto in quel che si ascolta ma in quel che si vede in chi la fa”. Qui la verità viene fatta minore dell’esperienza vitale e il Vangelo è legato non alla virtù propria di esso ma alla virtù del predicante.
    Lo spostamento antropocentrico per cui si fa dipendere l’effetto della catechesi più dalla virtù del parlante che dalla virtù della verità è un altro errore in cui si cela la CONFUSIONE DELLE ESSENZE.

    1.3 La dissoluzione della catechesi. Le Du. Charlot. Mons. Orchampt.

    Il catechismo olandese, espressione dell’alienazione dall’ortodossia rimbalzò nella Chiesa universale. Stupivano due cose: al temerità delle novazioni che dalla negazione degli angeli, del diavolo, del sacerdozio sacramentale avanzava al rigetto della presenza eucaristica e alla dubitazione dell’unione teandrica; ma anche la fiacca condanna della Santa Sede.
    Questa, dopo aver sottoposto il Catechismo a una congregazione straordinaria di cardinali che vi troverò errori ambiguità omissioni ( e le editorie cattoliche se ne contesero in tutti i paesi il privilegio di stampa). Alla divulgazione la Santa Sede appose la sola condizione che si allegasse il decreto che lo aveva condannato.
    Ma il Catechismo olandese fu accolto dappertutto come “la migliore presentazione che della fede cattolica si potesse afre all’uomo moderno”. Nonostante il giudizio della Santa Sede i vescovi lo introdussero nelle pubbliche scuole e lo difesero di fronte ai genitori che lo consideravano come un insegnamento corruttore impartito dai preti con l’approvazione del vescovo. Il catechismo fu soppresso soltanto nel 1980 dopo il Sinodo Straordinario dei Vescovi olandesi tenuto a Roma sotto al Presidenza di Giovanni Poalo II.
    Gli Uffici della diocesi di Parigi per la catechesi pubblicarono testi che inforsavano il dogma, stravolgevano la Scrittura, corrompevano la morale.
    Qui fait la loi? Di Jean Le Du impugnava la storicità della legislazione sinaitica, che sarebbe una “operazione fraudolenta di Mosè per consolidare la sua autorità”, confermando al tesi irreligiosa di Voltaire e togliendo alla Legge la sua origine divina, naturale e rivelata per farne una produzione della diveniente coscienza dell’uomo che si libera del mito.
    In Dieu est-il dans l’hostie? Leopold Charlot afferma che c’è un modo differente di tempo in tempo di intendere tale presenza e che il modo proprio del nostro tempo è di intendere tale presenza reale come presenza non reale, ma immaginativa e metaforica. Insegna che l’eucaristia fu istituita non da Cristo nell’Ultima Cena ma dalla comunità cristiana primitiva. Pane e vino restano pane e vino, sono solo segni convenzionali della presenza di Cristo nel popolo dei fedeli.
    Lo scandalo consiste nel fatto che un prete portante, per investitura del suo vescovo, la responsabilità della catechesi, neghi in un catechismo ufficiale il dogma eucaristico e lo faccia con animo tranquillo. Ma siccome è legge psicologica e morale che le responsabilità non discendano, ma ascendono, assai maggior disordine è che tale blasfemia sia propagata in un catechismo del vescovo, che è maestro della fede e custode del gregge contro i lupi dell’eresia.
    Ma mons. Orchampt, vescovo d’Angers non ritirò l’opera che impugnava il dogma pur ammettendo che tale opera mutilava il dogma affermava che un vescovo “deve invitare a coloro che la utilizzano alla critica e all’approfondimento per il necessario sforzo per il il rinnovamento pastorale”. Per il vescovo l’importate è che la tesi dell’autore (che non rimuove) non la si tenga esclusivamente e non chiede una CONFUTAZIONE ma un APPROFONDIMENTO, VOCABOLO CHE NELL’ERMENEUTICA NEOTERICA SIGNIFICA BATTERE E RIBATTERE IN INFINITO SU UN PUNTO DOGMATICO FINCHE’ ESSO SI SCIOLGA INTERAMENTE NEL SUO CONTRARIO.

    1.4 Rinnovamento e inanizione della catechesi in Italia –

    La delegazione dell’autorità magisteriale delle Conferenze episcopali a preti della scuola neoterica si palesò anche nella commissione di redigere il catechismo data a intellettuali di opzione marxistica i quali defezionarono poi clamorosamente candidandosi nelle liste del PCI. Nel Catechismo dei giovani (1979) la preoccupazione ecumenica, arbitrariamente interpretata, fa affermare agli autori: ”un combaciamento della ricerca esegetica cattolica con quella protestante” che in realtà non può darsi perché i protestanti non riconoscono sopra il lume privato il lume esegetico del magistero di Pietro.
    Anche uno degli articoli principali della dottrina cattolica gli autori lo indeboliscono accostandosi alla dottrina modernista: non il fatto dei prodigi precede la fede, ma la fede fa essere nella persuasione dei credenti il fatto dei prodigi.
    Anche nel Catechismo dei fanciulli (1976) pubblicato dalla CEI l’ecumenismo viene guardato come riconoscimento, più o meno appariscente, di valori identicamente contenuti in ogni credenza religiosa. Perciò non si mai vero passaggio dall’una all’altra ma soltanto approfondimento della propria verità nell’altrui verità in un mutuo arricchimento.
    I catecumeni nell’età puerile sono distolti dallo specifico della religione cattolica. La catechesi è detto “deve aiutare i fanciulli a collaborare con tutti gli uomini perché vi sia libertà, giustizia e pace, senza tuttavia cessare di riconoscere nella fede e nei sacramenti la sorgente di forze spirituali”. Questo “tuttavia” è significativo perché serve a mantenere la fede e i sacramenti davanti all’epocazione (cioè alla messa tra parentesi) dello specifico del cattolicesimo. Si tace del peccato, dell’errore, del Vae, della redenzione, del giudizio, del fine trascendente. Il cristianesimo è ridotto a qualcosa di appendicolare, di sussidiario e di cooperante.


    1.5 Il convegno dei catechisti romani attorno al Papa (1981) –


    Il Papa Giovanni Paolo II distingue la catechesi, opera diretta della Chiesa, dall’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, che incombe allo Stato come parte organica della formazione dell’alunno. Egli afferma il dovere da parte dello Stato di “rendere tale servizio agli alunni cattolici che costituiscono la quasi totalità degli studenti” e alle loro famiglie che “logicamente si presumono volere un’educazione inspirata ai propri principii religiosi”. Ma nonostante tali dichiarazioni al Convegno vi furono molte proposte e opinioni che si risolvono nella reiezione dell’insegnamento cattolico. Parecchi relatori risolsero la religione cattolica in religiosità cristiana sincretistica, altri in religiosità naturale, altri in espressione di libertà, tutti toccano la crisi di identità del sacerdote. All’insegnamento religioso non fu trovato altro motivo che quello dell’esigenza culturale, per cui la cognizione del mondo ebraico e cristiano non serve ai giovani che per intendere i valori costitutivi della civiltà moderna. Non fu trovato altro fine alla catechesi che quello di render noto ai giovani il ventaglio delle ideologie “per renderli capaci poi di effettuare scelte libere”.
    Non essendo essa la sola portatrice di valori religiosi nella scuola italiana “non dovrebbe essa sola entrare nella scuola per fare lezione di religione”. Conviene quindi abrogare in Concordato che privilegia la religione cattolica.
    Non fu trovata ragione peculiare alla verità cattolica e si affermò che “i catechisti non sono pagati per fare catechesi e per insegnare una fede, ma sono al servizio della persona umana”. Si tratta dicono, di un lavoro di precatechesi, si preevangelizzazione.
    Lo svuotamento della catechesi è manifesto dalle proposte del documento finale: che si celebri Messa per gli studenti in procinto di affrontare gli esami, che si celebri a Roma una giornata per la Scuola, che il Papa riceva in udienza i catechisti romani, che il Papa compia una visita a “una quinta ginnasio di una scuola pubblica”.

    Cose buone ma del tutto estranee alla questioni dibattute. Viene fatto di credere che tale esito sia stato un espediente per non rispecchiare nel documento conclusivo la singolarità delle opinioni espresse poche consentanee con la filosofia e la prassi tradizionale della Chiesa.

    1.6 Antitesi della nuova catechesi alle direttive di Giovanni Paolo II. –

    La mentalità del clero al Convegno è notabile perché appare in aperta contrapposizione al Pontefice. La nuova catechesi è di stampo esistenziale e promuove un’esperienza di fede, e il Papa invece afferma il carattere intellettuale della catechesi e vuole che i catecumeni siano penetrati di certezze semplici ma ferme. La nuova catechesi vuole invece l’adattamento della catechesi alle singole storiche culture, e il Papa invece ribadisce che è necessario possedere durevolmente, cioè nella MEMORIA, le parole di Cristo, i principali testi biblici, i testi liturgici. La nuova catechesi invece procede con un dialogo paritario, euristico, fondato sulla specificità de vero, e il Papa rifiuta come pericoloso quel dialogo.
    La nuova catechesi si propone di guidare il catecumeno a un’esperienza del divino e del Cristo, e il Papa invece definisce la catechesi come “instutio doctrinae christianae”, istruzione che mira sempre meglio a far conoscere e sempre più fermamente assentire alla verità divina e non già a sviluppare e affermare la personalità del catecumeno.
    Nella crisi della catechesi è riflesso il presente smarrimento della Chiesa, del deprezzamento dell’ordine teoretico, l’incertezza non solo dottrinale ma anche dogmatica, l’allargamento dello spirito soggettivo, il dissenso tra i vescovi, e tra i vescovi e la Santa Sede, la repulsa per gli atteggiamenti fondamentali della pedagogia cattolica, la prospettiva temporale e l’antropocentrismo.

    1.7 La catechesi senza la catechesi –

    La catechesi neoterica è segnata da due momenti intrinsecamente legati: quello metodico che è l’abbandono della metodologia cattolica della trascendenza del vero all’intelletto che lo apprende, e un momento dogmatico che è l’abbandono della certezza di fede sostituita dall’esame e dall’opzione soggettivi.
    L’episcopato francese promulgò un proprio catechismo nel 1982, Pierres vivantes, che non ottenne l’approvazione della Santa Sede ed era accompagnato dalla proibizione di utilizzare qualsiasi altro catechismo. Il Card. Ratzinger andò nel 1983 a Lione a tenere una conferenza sulle attuali condizioni della catechesi, parlando di “miseria della nuova catechesi”.
    Il cardinale riprova la nuova catechesi perché invece di avanzare verità, a cui si presta l’assenso di fede, propone i testi biblici lumeggiati secondo il metodo storico-critico e rimette all’esame del catecumeno di dare o ritenere l’assenso. La verità di fede, che la Chiesa annuncia, vengono staccate dalla Chiesa, che ne è l’organismo vivente e poste immediatamente al credente chiamato a divenirne interprete e giudice. La Bibbia così staccata diviene un puro documento soggetto alla critica storica, con la chiesa abbassata alla critica soggettiva.
    La deviazione consiste essenzialmente nel “dire la fede direttamente dalla Bibbia senza farla partire dal Dogma”, che è l’errore luterano che nega il Magistero e la Tradizione alterando la Bibbia stessa, “staccata dall’organismo vivente della Chiesa”. L’adesione alla verità religiosa prende la forma di un atto individuale fuori della comunità voluta da Cristo.
    Ratzinger toccò chiaramente gli errori dogmatici che viziano la catechesi neoterica: la creazione non è professata chiaramente né costituisce il discorso iniziala dell’istruzione, peraltro identificata con la creazione che Dio fa del suo popolo liberandolo dalla Schiavitù. La nascita verginale di Cristo non ha in questo catechismo alcuna connotazione dogmatica: si tace dell’Immacolata, del parto verginale, della Madre di Dio. La Risurrezione di Pasqua è un evento pneumatico avente realtà nella fede della comunità primitiva e anche la resurrezione dai morti è cosa soltanto creduta.
    L’Ascensione è pura metafora dell’indiamento morale del Cristo, “salire al Cielo è una immagine per dire che è nella gioia del suo Padre”. Si insegna che “al quarantesimo giorno dopo Pasqua i CRISTIANI CREDONO è salito sopra tutto”. L’Eucaristia è ridotta alla memoria che la comunità cristiana celebra della cena del Signore.

    1.8 Restaurazione della catechesi –

    Per Ratzinger la catechesi cattolica è una didattica, cioè una comunicazione di verità, e il suo contenuto è il dogma della Chiesa, cioè NON GIA’ LA PAROLA DELLA BIBBIA, storicamente e filologicamente astratta, bensì la parola della Bibbia conservata e comunicata agli uomini dalla Chiesa. Non si può, come pretende il catechismo francese, differire all’età dell’adolescenza l’insegnamento dei dogmi e intanto accostare il fanciullo alla Bibbia con un senso storicistico applicato alla Rivelazione che consuona con la dottrina modernistica del divino come noumeno inconoscibile che lo spirito dell’uomo riveste in mille fogge.
    A tale storicismo Ratzinger contrappone il carattere intellettuale che mira alla trasmissione di conoscenze e non all’esperienza esistenziale. Certo si insegnano le verità di fede affinché diventino pratica evita, ma l’oggetto proprio della catechesi è al conoscenza e non già direttamente l’eresia. Il cardinale vuole che la materia sia ordinata secondo o schema del catechismo dello schema tridentino. Bisogna insegnare ai fanciulli che cosa il cristiano deve credere, con l’esposizione del Credo; che cosa deve desiderare e pregare da Dio, ed è la spiegazione del Padre Nostro; infine che cosa si deve fare, ed è la lezione del Decalogo.
    A questi tre parti del catechismo viene a integrarsi la trattazione dei sacramenti, perché solo con l’ausilio della grazie, che si comunica nei sacramenti, l’uomo divien capace di adempiere la legge morale confermata e sopraelevata dalla legge evangelica. E Ratzinger richiama anche la necessità dell’uso della memoria e del metodo amebeo (domanda – risposta).

    La grave censura mossa dal Cardinale Ratzinger al catechismo francese ha ancora tutto il suo valore teoretico dottrinale anche se il Cardinale, che l’aveva esposta in un discorso stampato in venti pagine, la ritrattò in una dichiarazione di venti righe in comune accordo con l’episcopato francese.
     
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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)