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DIFENDERE LA VERA FEDE

LA SEDE LITURGICA, dove va collocata? in piedi o in ginocchio? queste ed altre domande...

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    Caterina63
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    00 24/01/2011 12:41

    La sede liturgica: come e dove



    L'importanza del "posto a sedere" del Celebrante ha scatenando spesso l'adeguamento impazzito dei presbiteri: troni barocchi posti sulle vecchie predelle d'Altare, cattedre di marmo di fronte ai Tabernacoli, e chi più ne ha, più ne metta. Chiesa che vai, sede che trovi. Ma cosa proponeva in merito la Riforma Liturgica del Concilio Vaticano II? Come dovrebbe essere la sede del Celebrante nella Forma Ordinaria del Rito Romano?

    Iniziamo subito col dire che, com'è intuibile, esistono specifici provvedimenti emanati dalla competente autorità per regolare questa materia.
    Qui ne esamineremo alcuni, partendo dalle norme approvate per la Chiesa universale, passando poi a quelle emanate dalla Conferenza Episcopale Italiana.

    Il riferimento principale per cominciare a capire cosa sia prescritto in tutto l'Orbe cattolico è una rubrica del Messale Romano, la numero 310 (cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, III edizione tipica, anno 2002), che recita: “La sede del sacerdote celebrante deve mostrare il compito che egli ha di presiedere l’assemblea e di guidare la preghiera. Perciò la collocazione più adatta è quella rivolta al popolo, al fondo del presbiterio, a meno che non vi si oppongano la struttura dell’edificio e altri elementi, ad esempio la troppa distanza che rendesse difficile la comunicazione tra il sacerdote e i fedeli riuniti, o se il tabernacolo occupa un posto centrale dietro l’altare. Si eviti ogni forma di trono. […] Nel presbiterio siano collocate inoltre le sedi per i sacerdoti concelebranti e quelle per i presbiteri che, indossando la veste corale, sono presenti alla celebrazione, senza concelebrare. […] La sede del diacono sia posta vicino alla sede del celebrante. Per gli altri ministri le sedi siano disposte in modo che si distinguano dalle sedi del clero e che sia permesso loro di esercitare con facilità il proprio ufficio.”

    La nostra domanda, come notiamo, ha già ricevuto una risposta sostanziosa.
    La Chiesa ci dice che la sede deve esprimere con chiarezza il ruolo di colui che celebra e che pertanto è meglio essa sia rivolta verso il popolo, in modo da facilitare la comunicazione tra il sacerdote ed i fedeli. Questo, pensiamo, avviene già nella maggior parte delle chiese italiane. Ma poi: in quale parte del presbiterio è più opportuno collocarla?

    Ci vien risposto che il fondo del presbiterio è la parte migliore, ma che è necessario tener conto della struttura del luogo. Se, infatti, lo stesso presbiterio fosse molto ampio (come può accadere, per esempio, in una collegiata o in una chiesa di monaci o religiosi, che hanno un coro notevole per accogliere il clero, numeroso in passato), allora la sede non va collocata lì. Allo stesso modo, come accade molto spesso nelle chiese di antica costruzione, se sul fondo del presbiterio è già presente il tabernacolo, la sede non va collocata lì, nemmeno davanti ad esso: è evidente qui la volontà che il sacerdote in alcun modo possa oscurare il sacro tabernacolo, da cui promana la Presenza Reale del Signore. Ad un medesimo sentimento di modestia e semplicità pare ispirarsi la norma che vieta la forma di trono.

    Infine, le norme ricordano che, qualora vi siano concelebranti o altro clero che assiste o ministri che si occupano del servizio all'altare, vanno collocate nel presbiterio sedi per loro. E' evidente che esse devono esprimere adeguatamente il ruolo di chi le occupa (ci pare dunque poco opportuno che concelebranti e ministri seggano in uno stesso luogo, poiché profondamente diverso è il loro ruolo nelle sacre cerimonie) e devono essere collocate in modo funzionale, per consentire ad ognuno di svolgere con tranquillità il ruolo proprio nella celebrazione.

    Un'autorevole parere in merito è quello del cardinal Mauro Piacenza, pronunciato nel 2006 (prima di diventare prefetto della Congregazione per il Clero e cardinale): “La sua [della sede, ndr] collocazione deve essere tale da soddisfare alla sua funzione pratica e simbolica, senza diminuire l’importanza preminente dell’altare e dell’ambone. In questo caso può servire la dimensione più ridotta dell’arredo. Va poi opportunamente differenziata la sede del presbitero dalla cattedra del vescovo, soprattutto – come è ovvio – nella chiesa detta significativamente “cattedrale”. Inoltre occorre valutare lo spazio per le processioni, avendo presente un percorso per breviorem ed uno per longiorem.” (cfr. Relazione alla Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa “Il centro dello spazio liturgico e il cuore della sacralità umana: Presbiterio e Crocifisso”, n.6).

    Passiamo ora alla normativa – più abbondante – emanata dalla Cei.
    Per prima cosa esaminiamo le Precisazioni liturgiche (anno 1983), in cui al punto 15 leggiamo semplicemente: “La sede del sacerdote celebrante e dei ministri sia in diretta comunicazione con l’assemblea.” Una norma piuttosto generale, questa, che ci pare volta a ribadire la necessità che non vi siano ostacoli sostanziali alla comunicazione tra sacerdote e fedeli: elemento che, del resto, è tutelato anche dall'ampio uso delle moderne tecnologie di amplificazione.

    Maggiori precisazioni troviamo nella nota pastorale, sempre della Cei, “La progettazione di nuove chiese” (anno 1993). Ecco cosa si dovrebbe osservare nel progettare la sede nei nuovi edifici sacri (n. 10): “[...] Per collocazione [la sede, ndr] sia ben visibile a tutti, in modo da consentire la guida della preghiera, il dialogo e l'animazione. Essa deve designare il presidente non solo come capo, ma anche come parte integrante dell'assemblea: per questo dovrà essere in diretta comunicazione con l'assemblea dei fedeli, pur restando abitualmente collocata in presbiterio.
    Si ricordi però che non è la cattedra del vescovo, e che comunque non è un trono
    . [...]”.

    Anche nelle parti che qui non abbiamo riportato, ricaviamo l'impressione che non siano qui espresse grandi novità: la sede deve essere in diretta comunicazione coi fedeli e deve poter essere vista dagli stessi. L'ultima frase che abbiamo riportato pare essere un velato richiamo a certi abusi nel frattempo avvenuti: per cui si rammenta al celebrante la modestia della sede.
     
    Tre anni dopo, nel 1996, la Conferenza Episcopale Italiana emanò un nuovo documento, dedicato questa volta non ai nuovi edifici sacri, ma alle modifiche da eseguirsi in quelli costruiti prima della riforma liturgica. Si tratta della nota pastorale “L'adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica”, che al n. 19 riporta: “[...] Per la sua collocazione, essa [la sede, ndr] deve essere ben visibile da tutti e in diretta comunicazione con l'assemblea, in modo da favorire la guida della preghiera, il dialogo e l'animazione. La sede del presidente é unica e non abbia forma di trono; possibilmente, non sia collocata né a ridosso dell'altare preesistente, né davanti a quello in uso, ma in uno spazio proprio e adatto. [...]”
    Oltre a ribadire elementi già noti, viene qui messo in chiaro che la sede non dovrebbe – se la struttura del presbiterio lo consente – essere collocata davanti all'altare antico (che molto spesso è pure la sede del tabernacolo) e nemmeno davanti a quello moderno, ma in un luogo diverso.

    Dopo tutte queste citazioni, è agevole giungere a qualche conclusione: la sede del celebrante, secondo le diverse norme, non deve oscurare il ruolo dell'altare, ara del Sommo Sacrificio e Mensa del banchetto eucaristico; né deve sminuire l'importanza del tabernacolo, ove viene conservato il Santissimo Sacramento. Si tratta quindi di individuare un luogo visibile, in cui non siano presenti ostacoli tra il celebrante e l'assemblea dei fedeli, ma senza usurpare spazi che non gli competono. 

    C'è da dire che a seguito del Motu Proprio Summorum Pontificum di Papa Benedetto XVI, una buona (e moderna) prospettiva liturgica è quella di adeguare i presbiteri permettendo la convivenza ordinata di entrambe le Forme del Rito Romano.

    un grazie a Sacris Solemniis per il testo

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 04/02/2011 12:21

    In piedi, seduti e in ginocchio


    Uno dei punti non sempre chiari durante la celebrazione della Santa Messa è la postura da assumere.

    A riguardo si può citare indubbiamente come norma principale nella Chiesa la rubrica n. 43 dell'IGMR (Institutio Generalis Missalis Romani), III edizione tipica, che afferma:

    "I fedeli stiano in piedi dall’inizio del canto di ingresso, o mentre il sacerdote si reca all’altare, fino alla conclusione dell’orazione di inizio (o colletta), durante il canto dell’Alleluia prima del Vangelo; durante la proclamazione del Vangelo; durante la professione di fede e la preghiera universale (o preghiera dei fedeli); e ancora dall’invito Pregate fratelli prima dell’orazione sulle offerte fino al termine della Messa, fatta eccezione di quanto è detto in seguito.

    Stiano invece seduti durante la proclamazione delle letture prima del Vangelo e durante il salmo responsoriale; all’omelia e durante la preparazione dei doni all’offertorio; se lo si ritiene opportuno, durante il sacro silenzio dopo la Comunione.

    S’inginocchino poi alla consacrazione, a meno che lo impediscano lo stato di salute, la ristrettezza del luogo, o il gran numero dei presenti, o altri ragionevoli motivi. Quelli che non si inginocchiano alla consacrazione, facciano un profondo inchino mentre il sacerdote genuflette dopo la consacrazione.

    Spetta però alle Conferenze Episcopali adattare i gesti e gli atteggiamenti del corpo, descritti nel Rito della Messa, alla cultura e alle ragionevoli tradizioni dei vari popoli secondo le norme del diritto. Nondimeno si faccia in modo che tali adattamenti corrispondano al senso e al carattere di ciascuna parte della celebrazione. Dove vi è la consuetudine che il popolo rimanga in ginocchio dall’acclamazione del Santo fino alla conclusione della Preghiera eucaristica e prima della Comunione, quando il sacerdote dice Ecco l’Agnello di Dio, tale uso può essere lodevolmente conservato.
    Per ottenere l’uniformità nei gesti e negli atteggiamenti del corpo in una stessa celebrazione, i fedeli seguano le indicazioni che il diacono o un altro ministro laico o lo stesso sacerdote danno secondo le norme stabilite nel Messale."

    A loro volta le Precisazioni liturgiche della Cei affermano che:

    "La C.E.I. fa proprio quanto indicato in « Principi e norme per l’uso del Messale Romano » e cioè:
    In piedi dal canto d’ingresso fino alla colletta compresa. Seduti durante la prima e seconda lettura e il salmo responsoriale.
    In piedi dall’acclamazione al Vangelo alla fine del Vangelo. Seduti durante l’omelia e il breve silenzio che segue. In piedi dall’inizio del Credo, recitato o cantato, fino alla conclusione della preghiera universale o dei fedeli. Seduti durante tutto il rito della presentazione dei doni. Ci si alza per l’incensazione dell’assemblea.
    In piedi dall’orazione sulle offerte fino all’epiclesi prima della consacrazione (gesto dell’imposizione delle mani) esclusa. In ginocchio, se possibile, dall’inizio dell’epiclesi preconsacratoria (gesto dell’imposizione delle mani) fino all’elevazione del calice inclusa.
    In piedi da Mistero della lede fino alla comunione inclusa, fatta la quale si potrà stare in ginocchio o seduti fino all’orazione dopo la comunione.
     Durante il canto o la recita del Padre nostro, si possono tenere le braccia allargate; questo gesto, purché opportunamente spiegato, si svolga con dignità in clima fraterno di preghiera.
    In piedi dall’orazione dopo la comunione sino alla fine.
    N.B. Durante l’ascolto della Passione del Signore (Domenica delle palme e Venerdì Santo) si può rimanere seduti per una parte della lettura.
    Anche qualora il canto del Gloria a Dio comportasse uno svi­luppo musicale di una certa ampiezza, in casi particolari, ci si potrà sedere dopo l’intonazione."

    Anzitutto va sottolineato un problema di norme. L'IGMR si riferisce alla III edizione tipica del Messale, di cui non esiste la traduzione ufficiale italiana. Attualmente nel territorio nazionale è utilizzata la II edizione tipica; le precisazioni liturgiche Cei fanno riferimento ad essa. Sembrerebbe quindi che la prima norma citata non abbia valore in Italia: essa è però una traduzione ufficiale, approvata dalla Cei, senza alcuna limitazione (per soli fini di ricerca, di confronto, etc.). E' dunque del tutto ragionevole ritenerla in qualche modo valida.

    Un dubbio importante pare sorgere riguardo al comportamento da tenere durante la Preghiera Eucaristica e all'Ecce Agnus Dei.

    Nel primo caso, secondo il Messale si potrebbe rimanere sempre in ginocchio, mentre la Cei prescrive di farlo solo dall'epiclesi preconsacratoria sino al Mistero della fede. Va detto che le Precisazioni, come si può notare, riprendono in maniera piuttosto fedele la prima parte della rubrica n. 43 (pur se fanno riferimento, come detto, all'edizione tipica precedente), ma tacciono riguardo la seconda parte.

    Allo stesso modo, dopo l'Ecco l'Agnello di Dio, secondo il Messale ci si può inginocchiare, mentre le Precisazioni prescrivono di rimanere in piedi. Anche qui c'è silenzio, che non è di semplicissima interpretazione.

    Pare comunque che, come insegna la secolare sapienza della Chiesa, in dubiis libertas.
    Un Responsum ufficiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti può essere di ulteriore aiuto.

    Riportiamo qui di seguito una traduzione dall'inglese:
    Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti
    5 giugno 2003
    Prot. n. 855/03/L

    Dubium: In molti luoghi, i fedeli sono abituati ad inginocchiarsi o a sedersi in preghiera personale al momento di ritirarsi al proprio posto, dopo aver ricevuto individualmente la Sacra Comunione durante la Messa. E' intenzione del Missale Romanum, editio typica tertia, di proibire questa pratica? [va infatti notato come, per esempio, il Messale non preveda esplicitamente di potersi inginocchiare al proprio posto, dopo aver ricevuto la Comunione]

    Responsum: Negativo, et ad mentem. La mens è che la prescrizione dell'Institutio Generalis Missalis Romani, n. 43, è da intendersi, da un lato, come un modo di assicurare entro limiti generali una certa uniformità di postura dell'assemblea nelle varie parti della celebrazione della Santa Messa e, dall'altro lato, di non regolare la postura così rigidamente che coloro che desiderassero inginocchiarsi o sedersi non siano più liberi di farlo.


    Francis Cardinale Arinze
    Prefetto
    Dunque, per quanto la liturgia richieda (e il Messale stesso lo ricordi) che una certa uniformità dei gesti e delle posture sia da perseguirsi, nondimeno le prescrizioni vanno considerate con una certa flessibilità, evitando di considerarle in maniera eccessivamente rigida, come se si trattasse di irregimentare i fedeli. Certamente coloro che, per esempio, abbiano problemi di salute (ad esempio persone molto anziane e con disturbi motori) possono adottare posture diverse da quelle prescritte. Non sembra neppure eccessivamente peregrino immaginare che, pur essendo da rifuggire l'esibizionismo, pure ragioni di personale devozione possano portare ad inginocchiarsi, per esempio, durante la Comunione del celebrante (cioè all'Ecce Agnus Dei) .
     

    **********************************************************

    Io vorrei aggiungere solo una riflessione:

    Nella Messa noi non ci ritroviamo davanti ad un simbolo, ma soprattutto dopo la Consacrazione, QUEL PANE E QUEL VINO che abbiamo davanti, sull'Altare SONO DIO VIVO E VERO....e allora mi sorge spontaneo chiedermi: come sia possibile che siamo arrivati a delle Norme che NON tengono conto di questa REALTA' E PRESENZA quanto piuttosto il problema della "postura a seconda della gente, della loro cultura..." ma perchè, mi domando, NON PARLIAMO LA STESSA LINGUA ALMENO NELLA CONSACRAZIONE? Non è forse QUELLA PRESENZA CHE ADORIAMO CHE CI UNISCE facendo scomparire ogni differenza?
    E non è forse L'INGINOCCHIARSI il modo migliore per testimoniare al mondo che ci troviamo davanti a Dio VIVO E VERO sull'Altare, in modo che possa essere trattato COME SI CONVIENE AD UN DIO?
    Io temo che a forza di "normare" ( termine inventato ma che si riferisce proprio alle NORME) si è arrivati a dimenticare chi abbiamo sull'Altare in quei momenti.... tanto è che molti sacerdoti NON si inginocchiano neppure dopo la Consacrazione, ma fanno solo un profondo inchino....
    Non c'è per molti fedeli LA REALTA' VIVA DEL SACRAMENTO E DI CHI E' PRESENTE, ma è come se la Messa fosse UN RITUALE DI MEMORIA DI UN EVENTO PASSATO....
    se fossimo realmente coscienti della Reale Presenza... resteremo in ginocchio - per chi può - sacerdote compreso, in ogni occasione DEL RITO.... senza che una Norma debba suggerire cosa fare dal momento che questo non era mai stato messo in dubbio....
    Troppi DUBBI affollano oggi i fedeli e i sacerdoti...troppi....
    i Santi ci insegnano la vera postura per stare alla MESSA: IN GINOCCHIO A CONTEMPLARE IN SILENZIO IL DIVINO PRODIGIO E LA DIVINA PRESENZA.....
    tutto il resto son chiacchiere....


    da Sacris Solemniis

    [Modificato da Caterina63 04/02/2011 12:26]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 09/03/2011 15:59

    L’arredo dell’altare


    ROMA, sabato, 26 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo di don Enrico Finotti – parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto (TN) - apparso sulla rivista Liturgia ‘culmen et fons’ (dicembre 2010).


    * * *

    L’altare è ordinariamente corredato da tre principali segni in rapporto ai tre aspetti dogmatici dell’Eucaristia: - la croce, “sopra l’altare o accanto ad esso” (OGMR, 308), che ricorda il Sacrificio pasquale di Cristo che si celebra sull’altare in modo sacramentale; - la “tovaglia di colore bianco” (OGMR, 304), che richiama la santa Cena, forma rituale per la celebrazione dell’Eucaristia ;- “i candelabriin segno di venerazione e di celebrazione festiva” (OGMR,307), ma anche richiamo alla Presenza reale del Signore risorto e dell’azione del suo Santo Spirito.

    Tovaglia, croce e ceri

    È un luogo comune ritenere che gli arredi dell’altare siano casuali o comunque di poca importanza e, di conseguenza, vengano disposti in modo improprio o eliminati. In realtà anche l’arredo liturgico dell’altare rivela aspetti essenziali del Mistero e rende visibile nel simbolo le dimensioni interiori del Sacrificio e del Convito, che sull’altare si compie. Dobbiamo subito chiarire che per arredo liturgico dell’altare non si intende la materia del divin Sacrificio, ossia le oblate (pane, vino ed acqua), ma quegli oggetti che costituiscono quasi le ‘insegne’ dell’altare stesso e lo configurano come ‘icona’ di Cristo Sommo Sacerdote, che compie l’azione liturgica. Ed ecco che la tovaglia, la croce e almeno i due ceri proclamano le tre parti indissolubili dell’evento eucaristico: la reale Presenza, il Sacrificio e il Convito. Distendere sull’altare una tovaglia di colore bianco significa affermare che su di esso si compie il Convivio sacramentale secondo le parole del Signore “Prendete e mangiateprendete e bevetene tutti”; disporre ai lati dell’altare due ceri o due gruppi di ceri significa richiamare la reale Presenza, che si attua nelle parole di Cristo, uomo-Dio: “Questo è il mio Corpo…Questo è il mio Sangue”; porre sull’altare la croce significa riconoscere che lì si attualizza l’unico Sacrificio del Calvario, secondo le stesse parole del Redentore “Corpo offerto in sacrificio… Sangue versato in remissione dei peccati”. Gli arredi liturgici allora rendono visibile l’intero mistero nei suoi tre aspetti teologici essenziali e indivisibili: Presenza, Sacrificio, Convito. Vi potranno essere altri elementi decorativi, ma questi rimangono secondari rispetto ai tre principali, che, invece, esprimono i contenuti intrinseci alle stesse parole istituzionali dell’Eucaristia. Preparare l’altare con la tovaglia, la croce e i ceri significa descrivere con segni visibili gli aspetti invisibili dell’evento sacrificale e conviviale, che il Signore stesso realizza, rendendosi presente in modo ‘vero, reale e sostanziale’.

    La Croce dell’altare

    L’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) afferma: “Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato”. (OGMR, 308). La regola classica della croce, che sta sopra l’altare, rimane sempre valida come prima modalità che il novus ordo ha sempre previsto. Tuttavia, alla luce delle concrete realizzazioni postconciliari, la concessione che la croce possa essere collocata anche accanto all’altare, ha portato in molti casi a soluzioni dubbie in ordine all’ efficacia simbolica. Infatti la croce si è a tal punto allontanata dall’altare, da non apparire più come legata ad esso, ma, diventata autonoma, ha formato un proprio spazio indipendente.

    Una croce lontana dall’altare, infatti, non interpreta più la sua identità di croce d’altare e in relazione intima con esso. La disposizione classica della croce al centro e dei candelabri ai lati sull’altare è certamente quella che assicura meglio la loro natura di insegne proprie dell’altare, in quanto fanno corpo con esso. Questa forma è certamente la meta migliore che si dovrebbe raggiungere, anche secondo le indicazioni del Sommo Pontefice. Non è tuttavia di immediata riuscita disporre con gusto sull’altare rivolto al popolo, al centro della mensa, la croce, ma, con intelligenza, equilibrio e senso estetico è possibile e auspicabile. Si tratta di evitare da un lato di creare una barriera così corposa da togliere ogni visibilità del sacerdote che compie gli atti del divin Sacrificio e dall’altro di non eccedere in dimensioni tali, quali la verticalità della croce e dei candelabri, da ledere le proporzioni e il senso estetico in rapporto alla massa talvolta esigua dell’altare ad populo. Ciò è adeguatamente richiamato dal Messale che afferma: “…tenuta presente la struttura sia dell’altare che del presbiterio, in modo da formare un tutto armonico; e non impediscano ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare” (OGMR, 307). Certe croci processionali preziose, poste su un apposito ceppo, potrebbero egregiamente stare al centro dell’altare e costituire quella centralità del Kyrios, che attrae sia il sacerdote come l’intera assemblea e costituire veramente il cuore scintillante e l’insegna gloriosa dell’altare.

    È necessario anche osservare che la croce, pur prossima all’altare, ma laterale, non afferma con la dovuta evidenza quella centralità ottica che sarebbe richiesta per il sacerdote e per l’intera assemblea, come ben si esprime il Messale “ben visibile allo sguardo del popolo radunato” (OGMR, 308). Una croce fuori dall’altare bipolarizza l’attenzione, la croce al centro dell’altare crea un unico polo di attrazione: l’altare, il cui titulus è la croce.

    Anche far valere come croce d’altare la croce processionale, che raggiunge l’altare con la processione introitale e lo lascia nuovamente nella processione di congedo - uso peraltro non estraneo nella storia liturgica - non asseconda all’esigenza che l’altare debba rimanere sempre, anche fuori della celebrazione, rivestito con la dignità di tutte le sue insegne: “Conviene che questa croce rimanga vicino all’altare anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche, per ricordare alla mente dei fedeli la salvifica Passione del Signore” (OGMR, 308). Il Messale, quindi, offre legittime libertà di scelta, tuttavia bisogna prender coscienza delle varie problematiche che da questa libertà ne possono insorgere.



    I candelabri dell’altare

    “I candelabri, richiesti per le singole azioni liturgiche, in segno di venerazione e di celebrazione festiva, siano collocati o sopra l’altare, oppure accanto ad esso, tenuta presente la struttura sia dell’altare che del presbiterio, in modo da formare un tutto armonico; e non impediscano ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare” (OGMR, 307).

    Come si può vedere rimane sempre valida la norma di collocare i candelabri sopra l’altare, anzi è proposta come prima forma. E’ quindi erroneo affermare che i candelabri non debbano mai stare sulla mensa dell’altare, ma sempre e solo accanto ad esso. Il recente uso della Cappella papale non fa che riprendere ciò che fu sempre ammesso e tuttora conforme al Messale vigente.

    Da molte parti, però, si è ormai perduto il criterio simbolico nella disposizione dei candelabri dell’altare. Da un lato vi è il caso dei candelabri raggruppati insieme in una zona qualunque del presbiterio, senza alcuna relazione con l’altare; dall’altro si riuniscono i ceri su un angolo della mensa e sull’altro si mettono i fiori.

    Nel primo caso si fa dei candelabri un polo a se stante, senza alcun rapporto con l’altare. Da ciò l’effetto di una zona presbiteriale invasa da una molteplicità di elementi (altare, ambone, sede, croce, candele, tabernacolo, ecc.) dislocati qua e là, senza più la loro reciproca relazione. In realtà anche i candelabri, come la croce, non possono costituire un polo a parte, ma devono essere strutturalmente correlati con l’altare al quale appartengono.

    Nel secondo caso, molto diffuso, si compromette il senso sacro dell’altare, uniformandolo ad una comune mensa domestica. Ora l’altare è sì anche mensa, ma è la Mensa del Signore, sulla quale viene deposto il suo Corpo e il suo Sangue e dalla quale si innalza il suo Sacrificio redentore. Per questo l’arredo liturgico deve rivelare il mistero invisibile e ad esso condurre l’animo dei fedeli. I ceri dell’altare quindi non sono semplicemente come quelli che allietano una cena di gala, ma devono poter pro-clamare la presenza viva di Cristo e del suo Spirito e muovere i cuori dei presenti alla venerazione. Per riuscire in questo intento sacro è necessario adottare una regola ben precisa, diversa dall’uso profano. Disporre i due candelabri (o ceri) o i due gruppi di essi sui due lati della mensa delinea un’identità esclusiva e tipica dell’altare, sottolinea la centralità della croce, se questa si erge nel mezzo, e il popolo cristiano, subito, ne coglie l’originalità nella continuità della tradizione liturgica.

    Sarebbe anche interessante, che nei candelabri, posti simmetricamente alle due estremità della mensa, o comunque divisi dalla croce che sta i mezzo, si ravvisi il simbolo delle due nature del Verbo incarnato, vero Dio e vero Uomo. La croce poi, quale vessillo di passione e di gloria, compirebbe il simbolo col riferimento alla Pasqua di morte e risurrezione. Così l’altare rappresenta ‘iconicamente’ Cristo nei due fondamentali aspetti del suo Mistero: l’Incarnazione e la Redenzione. In tal modo la Presenza reale e l’Atto sacrificale troverebbero una mirabile espressione simbolica. In questa luce potrebbe essere interessante l’ ‘inaugurazione’ dell’altare nella not-te di Natale, quando si accenderebbero i suoi ceri nella eventuale veglia lucernale, che prepara la Missa in nocte.

    I sette candelabri d’oro

    Una parola deve essere detta sull’uso antico dei sette candelabri nella celebrazione stazionale del vescovo. La norma, anche se facoltativa, è ancora prevista sia dal Messale Romano (OGMR, 117), come dal Cerimoniale dei Vescovi (CE,125,128). I sette candelabri sono posti sull’altare e anche portati nella processione introitale e finale. E’ interessante il loro simbolismo attinto dall’Apocalisse 1, 12-13. 16. 20: “… vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a figlio di uomo… nella destra teneva sette stelle… Questo è il senso recondito delle sette stelle che hai visto nella mia destra e dei sette candelabri d’oro, ec-colo: le sette stelle sono gli angeli delle sette Chiese e le sette lampade sono le sette Chiese”.

    La visione dell’Apocalisse viene resa plastica nella Croce posta al centro dell’altare attorniata da sette candelabri. Tale visione riconduce all’esercizio del sacerdozio celeste del Kyrios, che si attua pure nel sacrificio sacramentale che si compie sull’altare terrestre. Si evidenzia in tal modo la dimensione gloriosa del sacerdozio e del sacrificio eucaristico, che si attua sotto il velo del sacramento: è il Kyrios, risorto e glorificato che presiede, nel fluire del tempo, mediante il ministero del Vescovo, l’unico ed eterno sacrificio, che perennemente è offerto sull’altare del cielo. Il riferimento poi alle sette Chiese, afferma la pienezza della liturgia pontificale, nella quale si attua col massimo grado sacramentale, localmente, il mistero della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica (SC, 41). Il simbolo è ulteriormente specificato in Apocalisse 4, 5: “…sette lampade accese ardevano davanti al trono, simbolo dei sette spiriti di Dio” (cfr. Zc 4, 10). L’uso dei sette candelabri afferma anche la pienezza dell’effusione dello Spirito Santo, lì dove il Vescovo presiede solennemente alla celebrazione del divin Sacrificio.

    E’ evidente che l’insieme di questi simboli conviene in modo sommo alla celebrazione papale, termine di comunione universale di tutte le Chiese e massima presenza dello Spirito che aleggia sulla Chiesa.



    L’altare spoglio

    Non soltanto nella prassi di alcune chiese moderne, ma anche nella teoria di talune attuali linee di pensiero si ammette e si propone l’idea e la realizzazione di un altare, che fuori della celebrazione dovrebbe rimanere sempre spoglio. In ambienti artistici ed estetici si contempla in questo una nobile maestà e in una visione raffinata, ma elitaria, si ritiene di potenziarne in tal modo la sua sacralità. Storicamente tale prassi fu presente e non si può misconoscere il fascino anche dell’altare spoglio.

    Tuttavia nella celebrazione della liturgia si deve attenersi a quella forma che la Chiesa riconosce adatta al nostro tempo e, sarebbe un indebito archeologismo ricorrere a forme storiche interessanti, ma non recepite dalla disciplina attuale della Chiesa. La liturgia ha una storia e nel flusso di questa storia dobbiamo inserirci rimanendo però fedeli all’oggi e operando in sintonia con la celebrazione viva della Chiesa odierna.

    Attualmente la Chiesa non considera l’altare sempre spoglio, ma lo ritiene, invece, sempre ‘rivestito’ delle sue fondamentali insegne: to-vaglia, croce e candelabri. Soltanto il Venerdì e il Sabato santo la liturgia romana stabilisce che l’altare sia totalmente spoglio (privo di tovaglia, candelieri, croce, tappeti, ecc.), quale ‘icona’ della passione del Signore e assenza, in questi giorni austeri, della celebrazione del divin Sacrificio. Cristo, infatti presiede sempre alla sua Chiesa e l’altare è il segno di Lui ed è luogo di venerazione anche fuori del rito, a chiesa vuota. Anzi un più ricco addobbo dell’altare (ceri, fiori, paliotto, ecc.) sottolinea la festa della Chiesa nelle solennità liturgiche, mentre l’assenza dei fiori esprime l’austerità tipica del tempo penitenziale e una certa sobrietà accompagna il tempo ordinario. Con un altare permanentemente spoglio non si vede come esprimere la desolazione del Venerdì santo, né come creare il diverso clima di solennità nello scorrere dell’Anno Liturgico, né come assicurare che anche fuori della celebrazione sia un luogo di venerazione e di preghiera per i semplici fedeli, che con difficoltà hanno la percezione elitaria di un artista o di un teologo. E’ intuitivo capire che un altare ben addobbato, con una decorosa tovaglia e la centralità di una croce veramente bella ed espressiva attira la preghiera più che uno splendido altare marmoreo, ma freddo e nudo, che potrebbe non parlare facilmente ai ‘poveri’ del popolo di Dio. Se si vuole ritornare ad educare i fedeli a riconoscere nell’altare, anche fuori del rito, il segno di Cristo, il Kyrios, e a prostrarsi davanti ad esso, come facevano gli antichi, bisogna evitare forme eccessivamente ermetiche e trovare quell’equilibrio di bellezza, tradizione e calore spirituale che è connaturale al migliore genio liturgico e pastorale dei secoli cristiani. La nobiltà dell’altare che risplende per mirabile arte eleva la fede, purifica i contenuti del dogma e suscita il senso del vero e il gusto del bello negli intellettuali e nei ‘semplici’, che presso l’altare di Dio diventano tutti bambini. Per questo il calore della preghiera, che nasce dal cuore, non può abbandonare l’altare e spingere i fedeli in luoghi laterali e forme alternative, legittime, ma che sono sempre rivoli che hanno la loro unica sorgente nella Presenza e nel Sacrificio che sull’altare si compie.

    Domandiamoci: Guardando all’altare maggiore delle nostre chiese, possiamo spontaneamente esclamare: Presso il tuo altare, Signore, il mio cuore trova la pace?

    In questa riflessione è voluto proporre una necessaria verifica sugli arredi dell’altare per non continuare ad essere dominati da pregiudizi gratuiti, assunti in modo acritico da usi ormai diffusi, ma scorretti e abusivi. E’ necessario riprendere con intelligenza e buon gusto aspetti importanti, abbandonati con troppa facilità e che assicurano, nella continuità della tradizione, la profonda ricchezza dei simboli liturgici. Si tratta di far nuova chiarezza, nel tumulto talvolta frettoloso e superficiale, in cui ci può condurre una prassi liturgica senza teologia e senza radici. In tal modo la riforma liturgica viene potenziata, recuperando la densità simbolica della liturgia di sempre in vista di una sintesi superiore e più ricca.


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 17/04/2011 16:33

    L’ambiente liturgico nel tempo di Quaresima

    Aspetto penitenziale della chiesa

    “In Quaresima non sono ammessi i fiori sull’altare e il suono degli strumenti è permesso soltanto per sostenere i canti, nel rispetto dell’indole penitenziale di questo tempo”(Paschalis sollemnitatis, n. 17)

    * Il colore violaceo

    Il colore liturgico proprio della quaresima è il violaceo. Conviene che di questo colore siano non solo gli abiti sacri (stola, casula, piviale, tunicella, velo omerale), ma anche il conopeo del tabernacolo e dell’ambone, e altre eventuali stoffe che adornano il presbiterio e la chiesa.


    * L’assenza dei fiori

    “Nel tempo di Quaresima è proibito ornare l’altare con i fiori. Fanno eccezione tuttavia la domenica Laetare (IV di Quaresima), le solennità e le feste” (Ordinamento Generale del Messale Romano, 2004, n. 305).

    Anche l’assenza dei fiori costituisce un segno tipico della Quaresima. Sono permesse tuttavia piante verdi. Questa norma non è formalismo, ma uno strumento educativo, affinché i fedeli siano richiamati visivamente all’austerità del cuore, della mente e della vita in vista di una purificazione dello spirito, mediante la penitenza e la conversione. L’assenza dei fiori richiama il deserto biblico, che riporta l’uomo all’essenzialità delle cose, richiama l’attenzione a ciò che ha valore e dispone alla verifica dei fondamenti stessi dell’esistenza umana e cristiana.

    “…Il deserto contribuisce a formare la psicologia dell’uomo in due modi: sviluppando in lui, prima l’idea dell’onnipotenza di Dio e poi quella della impotenza e nullità dell’uomo. Nel deserto le stelle sembrano così vicine che si ha l’impressione di poter arrivare fin su nel cielo a distaccarle. Non v’è anima viva, né animali, né ciuffo d’erba o un cespuglio su cui riposare lo sguardo. Non v’è se non il cielo cui l’anima possa aggrapparsi in quella solitudine desolata, e, dal momento che nel deserto gli occhi guardano molto il cielo e poco la sabbia, è molto naturale che si rimanga profondamente colpiti dalla onnipotenza di Dio. Un secondo effetto del deserto è il senso di assoluta insufficienza dell’uomo. E’ assurdo confidare in se stessi, perché nel deserto si è soli, impotenti. Quando l’acqua viene a mancare, solo Dio può guidare verso l’oasi salvatrice, La sovranità di Dio è tutto e davanti a Lui tutto scompare. Così, fatalmente, l’Oriente islamico è caduto nel suo peccato, come l’Occidente è caduto nel proprio. Il peccato del mondo orientale è di ritenere che Dio fa tutto e l’uomo nulla, come il peccato dell’Occidente è credere che l’uomo fa tutto e Dio nulla” (FULTON J. SHEEN, La crisi del mondo e la Chiesa, ed. La Tegnografica, Varese, 1956, p. 34-35)

    Occorre naturalmente condurre i fedeli dal segno al suo significato e continuamente educarli alla lettura spirituale del linguaggio simbolico previsto dalla liturgia, in vista della applicazione nella vita del messaggio che nei segni è offerto. E’ questo il compito della catechesi liturgica, che ripropone oggi l’antica mistagogia dei Padri: attraverso i riti e le preci avviene l’iniziazione al mistero.

    E’ tuttavia necessario che l’austerità quaresimale sia un segno vero, motivato ed incisivo. Affinché sia vero, occorre che sia realizzato con determinazione e buon gusto. Perché sia incisivo, bisogna curare una reale assenza di fiori, che non ammette eccezioni in occasione di funerali, matrimoni o altre evenienze. I fiori che vengono portati in queste circostanze devono essere tolti dopo la celebrazione e trasferiti fuori dell’ambito della chiesa. Anzi sarà opportuno che i parroci spieghino per tempo ai fedeli il senso del segno dell’austerità quaresimale, li invitino alla sobrietà e li orientino a devolvere il denaro in opere di carità.

    E’ tuttavia conveniente che una sobria presenza di fiori metta in evidenza la croce penitenziale nella seconda domenica di Quaresima, per dar espressione alla luce della risurrezione, che già risplende nella gloria della trasfigurazione. Nella quarta domenica di quaresima, detta domenica “Laetare”, i fiori potranno adornare con misura l’altare della celebrazione per annunziare la gioia della Pasqua, ormai vicina. In questa domenica è bene indossare gli abiti color rosaceo e far gustare all’assemblea la letizia della Pasqua imminente, anche col suono dell’organo.

    “…Sembra che a Bisanzio nella III domenica di Quaresima si celebrasse una festa in onore del S. Legno della Croce, a cui si tributava un omaggio di fiori. A Roma se ne volle imitare l’esempio, e in questa domenica il Papa si recava alla basilica stazionale di S. Croce, dev’era conservata una insigne porzione della vera Croce, tenendo in mano una rosa d’oro, profumata di musco, in signum passionis et resurrectionis D. N. J. C.,con la quale intendeva rendere all’insigne reliquia lo stesso ossequio che la Maddalena aveva tributato ai piedi del Salvatore nella cena di Betania. Pp. Leone IX, nel primo documento conosciuto a riguardo della Rosa aurea (1049), dice espressamente che essa è offerta in omaggio alla Croce: Quia eo tempore victoria recensetur D.N.J.C. qui in te passus est, o Crux sacratissima, tunc timenda, nunc appetenda et molenda” (RIGHETTI, vol. II, p.168).

    * L’assenza del suono dell’organo

    “In tempo di Quaresima è permesso il suono dell’organo e di altri strumenti musicali soltanto per sostenere il canto. Fanno eccezione tuttavia la domenica Laetare (IV di Quaresima), le solennità e le feste” (Ordinamento Generale del Messale Romano, 2004, n. 313).

    Nel tempo di Quaresima il suono dell’organo e degli altri strumenti musicali ammessi deve solo accompagnare il canto. Non si suona quindi l’organo prima e dopo la celebrazione, né si fanno preludi entro la celebrazione stessa. Questa disposizione potrà sembrare limitativa, tuttavia, senza questi accorgimenti, osservati con fedeltà, il segno dell’assenza del suono dell’organo sarà inefficace, e non sarà percepito dalla comunità.Conviene far sì che questa sobrietà musicale vi sia anche fuori delle celebrazioni liturgiche, evitando in questo tempo, in chiesa, concerti, manifestazioni e uso dell’organo e degli strumenti musicali non consoni con lo spirito quaresimale. Infatti la chiesa deve aiutare ad entrare nel mistero del tempo anche il fedele che vi si reca da solo per la preghiera e la meditazione personale nel corso della giornata. Si informino debitamente i fedeli che in Quaresima dovessero celebrare particolari eventi di gioia, come il matrimonio o altri anniversari, di rispettare con prudenza e carità il clima liturgico che sta vivendo la Chiesa.



    * La velazione delle immagini

    “L’uso di coprire le croci e le immagini nella chiesa dalla domenica V di Quaresima può essere conservato secondo il giudizio della conferenza episcopale. Le croci rimangono coperte fino al termine della celebrazione della passione del Signore il Venerdì santo; le immagini fino all’inizio della veglia pasquale” (PS, n° 26; cfr. anche CONSILIUM AD EXEQUENDAM COSTITUTIONEM DE SACRA LITURGIA, Commento alla riforma dell’anno liturgico, in Enchiridion Vaticanum, Documenti ufficiali della Santa Sede, Bologna, ed. ED, 1990, vol. Supplemento 1°, n. 273).

    La liturgia della Chiesa educa il popolo santo di Dio con le diverse e complementari espressioni del linguaggio umano: non solo la parola, ma anche il simbolo, il gesto, il movimento, la varietà degli oggetti, dei colori, dei profumi e degli addobbi.  In tal modo la celebrazione crea un evento globale, che avvolge l’assemblea in un concerto armonico di linguaggi e di espressioni eloquenti in ordine all’annunzio del Mistero celebrato in un ambiente pervaso da sacralità e nobiltà di forme. Ecco il senso del segno austero della ‘velazione’ degli altari, che la Chiesa prevede nella parte terminale della Quaresima, quando s’avanza ormai severo e grandioso il Mistero della Croce.   I fedeli, che in questi santi giorni entrano in chiesa ricevono con immediatezza il senso degli eventi incombenti: la cerchia dei nemici che si stringe intorno al Signore, l’incomprensione e il tradimento degli Apostoli, la tristezza del cuore del Divin Maestro e il suo ‘andarsene e nascondersi da loro’ (Gv 12, 36).

     

                                                                       

    Velazione degli altari, V domenica di Quaresima – chiesa arcipretale di S.Marco in Rovereto (Tn)

    Secondo la decisione della conferenza episcopale del triveneto, ad esempio, è lasciato alla discrezione di ogni parroco l’applicazione di questa tradizione (Cal. lit. dioc. 2010-2011, p. 118). Se la chiesa si adatta e lo si vede utile, si potrà riprendere questo costume, nel modo tradizionale o anche con una certa libertà ispirandosi all’uso antico e ad altri riti. Il rito ambrosiano, ad esempio, non prevedeva mai la copertura delle croci, e la velazione delle immagini veniva fatta già con la prima domenica di Quaresima.

    “Essa deriva probabilmente dall’antica usanza, già attestata nel IX secolo, di stendere a principio della Quaresima un gran velo dinanzi all’altare, detto in Germania ‘panno della fame’, che lo nascondeva interamente agli occhi dei fedeli, e che veniva rimosso alle parole velum templi sissumest della Passione del mercoledì santo. Lo scopo di esso, secondo taluni, era pratico; il popolo, che non aveva calendario, doveva con ciò essere avvertito che si era in Quaresima. A giudizio del P. Thurston, il velo quaresimale voleva essere un ricordo dell’antica espulsione dei penitenti dalla chiesa. Quando la disciplina della penitenza decadde, ma nella Quaresima tutti i fedeli, coll’imposizione delle ceneri, vennero considerati messi spiritualmente in penitenza, non fu più possibile naturalmente farne l’espulsione dalla chiesa come una volta, ma si volle nascondere loro la vista del Sancta Sanctorum, per separarli in certo modo dal Santuario, fino a che nella Pasqua non si fossero riconciliati con Dio. Per un principio analogo, nel basso medio evo, molte Chiese usavano ricoprire sin dal principio della Quaresima le immagini e la Croce processionale, come si fa tuttora nel rito ambrosiano. La regola di limitarlo al tempo di Passione è recente; comparisce dapprima nel secolo XVII col Cerimoniale dei Vescovi” (RIGHETTI, vol. II. p. 175-176).

    In tal modo si ritma il graduale entrare della Chiesa nel mistero della Passione del Signore. Le immagini così velate, rimarranno tali fino alla sera del Sabato santo, quando si preparerà la chiesa per la Veglia pasquale.



    * La Croce penitenziale

    Il simbolo principale, che dovrebbe emergere nel tempo di Quaresima, è la Croce penitenziale. Infatti la croce è la meta e la via della Quaresima. Come fu per Cristo, così è per la sua Chiesa. La croce penitenziale è semplice, di legno, senza il crocifisso e senza decorazioni. Deve essere sufficientemente grande per esser vista da tutta l’assemblea, non troppo grande, né troppo pesante, per poter essere comodamente portata dal sacerdote nelle processioni penitenziali e nella “Via crucis”. Essa fa il suo ingresso nella chiesa con la processione penitenziale il Mercoledì delle Ceneri. Da allora, posta su di un ceppo in un luogo ben visibile, “presiede” l’assemblea liturgica per tutto il tempo di Quaresima e ogni giorno riceve la venerazione dei fedeli:

    “Ecco la croce del Signore:

    è stoltezza per quelli che vanno in perdizione,

    è potenza di Dio per quelli che si salvano!

    Gloria a te vessillo di salvezza!”

    (1Cor 1, 18  e LO, dalla liturgia del 14 sett.).

    La croce precede le processioni stazionali e il pio esercizio della “Via crucis”. Infine, dopo aver guidato simbolicamente il cammino quaresimale del popolo pellegrinante, si congeda da esso alle soglie della settimana santa, quando l’attenzione si poserà sulle varie fasi del Mistero pasquale del Signore. Presso la croce possono venir accese, successivamente ogni domenica, cinque lampade, che ricordano le cinque piaghe del Signore e il crescente amore ed adesione della Chiesa al mistero del crocifisso.

    La croce, senza il crocifisso, ricorda ai fedeli che è necessario esser crocifissi con Cristo per poter partecipare alla sua gloria. Infatti “Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui” (2Tim 2, 11).Stretta attorno alla croce nel tempo di Quaresima l’assemblea cristiana appare come il popolo ebreo nel deserto, che insidiato dai serpenti velenosi, ossia dal peccato, guarda con fede a Cristo innalzato sul legno per la nostra salvezza e ne ottiene risurrezione e vita.

    Tratto da “L’Anno liturgico – Mistero, grazia e celebrazione”, ed. Vita Trentina, 2001.

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    Liturgia culmen et fons

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    00 26/04/2011 12:33

    Gesti e movimenti dei fedeli durante la celebrazione










    di Uwe Michael Lang, C.O. (*Padre Uwe Michael Lang è Officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice)



    ROMA, mercoledì, 20 aprile 2011 (ZENIT.org).- I gesti e movimenti dei fedeli durante la celebrazione della Santa Messa appartengono a quegli aspetti materiali del culto divino che non si possono trascurare. San Tommaso d’Aquino è molto chiaro nell’osservare che dobbiamo rendere onore a Dio non solo in spirito. Siccome gli uomini sono creature corporee, i sensi esterni sono sempre coinvolti. Nella sacra liturgia è necessario «servirsi di cose materiali come di segni, mediante i quali l’anima umana venga eccitata alle azioni spirituali che la uniscono a Dio» (S.Th. IIa IIae q. 81 a. 7).

    Abbiamo quindi bisogno di segni sensibili per purificare il nostro cuore e nutrire il nostro desiderio di unione con il Dio invisibile. L’Aquinate riconosce che il fine della liturgia è l’offerta spirituale compiuta da coloro che partecipano ad essa. Ma la costituzione umana è tale, che l’espressione interna dell’anima cerca allo stesso tempo una manifestazione corporea. D’altro canto la vita interna è sostenuta dagli atti esterni. Per provvidenziale volontà di Dio, siamo chiamati ad offrirgli i segni visibili della nostra offerta spirituale, perché, in quanto creature corporee, comunichiamo con segni esterni. Il Doctor communis osserva: «Queste cose esterne non vengono offerte a Dio, come se Egli ne avesse bisogno […], ma come segni degli atti interni spirituali» (S.Th. IIa IIae q. 81 a. 7 ad 2).
    In questa prospettiva, si mette in luce anche l’importanza dei gesti ed atteggiamenti nella liturgia. Tali consuetudini fanno parte della tradizione viva del popolo di Dio e sono trasmesse da una generazione all’altra insieme ai contenuti della fede. Dal canto suo, la Chiesa, come Madre e Maestra, interviene a volte, dando indicazioni più precise per educare i fedeli allo spirito della liturgia.

    La normativa per la forma ordinaria della Santa Messa di Rito Romano si trova nell’attuale Ordinamento Generale del Messale Romano, n. 43, dove viene spiegato che il giusto atteggiamento dei fedeli nelle varie parti della Celebrazione eucaristica è segno di unità e favorisce la partecipazione all’azione liturgica:
    I fedeli stiano in piedi dall’inizio della Messa fino alla conclusione dell’orazione colletta, durante l’Alleluia, la proclamazione del Vangelo, il Credo e la preghiera universale; si alzino all’invito Orate, fratres prima dell’orazione sulle offerte e rimangano in piedi fino al termine della Messa, fatta eccezione di quanto è detto in seguito.
    I fedeli stiano seduti per le letture prima del Vangelo e il salmo responsoriale, all’omelia e durante l’offertorio; possono stare seduti anche durante il sacro silenzio dopo la Sacra Comunione, se viene osservato.

    I fedeli s’inginocchino alla consacrazione, se non sono impediti da un motivo ragionevole, come il cattivo stato di salute o la ristrettezza del luogo. Dove esiste il costume che i fedeli rimangano in ginocchio dal Sanctus fino alla dossologia della Preghiera eucaristica e prima della Sacra Comunione, all’Ecce Agnus, si conservi lodevolmente tale uso.

    Secondo l’Ordinamento Generale, spetta alle Conferenze dei Vescovi, con la recognitio della Sede Apostolica, adattare queste norme secondo le sensibilità delle culture e tradizioni locali. Tuttavia, bisogna stare attenti che i gesti corrispondano sempre al vero senso di ciascuna parte della liturgia.

    Un gesto da rivalutare in non poche celebrazioni liturgiche odierne è l’inginocchiarsi. L’adorazione inizia dal riconoscimento di Dio e della sua sacra presenza, che sollecita l’uomo ad una risposta di riverenza e devozione. Nell’ambito biblico, il gesto più caratteristico dell’adorazione è quello di prostrarsi o di mettersi in ginocchio davanti alla presenza di Dio (cf., ad esempio, 1Re 8,54-55; Lc 5,8; 8,41; 22,41; Gv 11,32; Atti 7,60; Ap 5,8 e 14; 19,4; 22,8). I primi cristiani hanno recepito questa prassi, come attestano Tertulliano e Origene nel terzo secolo.
    La ben nota prescrizione del canone ventesimo del primo Concilio di Nicea (325), di stare in piedi per la preghiera liturgica, ad imitazione del Risorto, si riferisce specificamente alle domeniche e al tempo pasquale, mentre nei giorni di digiuno e nei giorni stazionali si pregava in ginocchio, così come attestato riguardo alla preghiera personale quotidiana. D’altronde, già in una lettera scritta nel 400, sant’Agostino dichiarava di non sapere se la prescrizione di Nicea fosse una consuetudine propria a tutta la Chiesa (cf. Ep. 55 ad Ianuarium, XVII, 32).

    Durante i secoli, la Chiesa ha sempre ricercato espressioni rituali il più adeguate possibile, dando così una testimonianza visibile della sua fede e del suo amore verso il culto divino e in particolare l’Eucaristia. Così si è sviluppata in Occidente la consuetudine che i fedeli si inginocchino per il Canone della Messa, o almeno nelle sue parti centrali: la consacrazione. In tal modo, si è anche diffusa la prassi di ricevere la Sacra Comunione in ginocchio. Per fornire un esempio a tutta la Chiesa, il Santo Padre Benedetto XVI, a partire dalla solennità del Corpus Domini del 2008, ha cominciato a distribuire la Sacra Comunione direttamente sulla lingua ai fedeli che la ricevono inginocchiati.

    In risposta ad alcune difficoltà che sono emerse nella vita liturgica, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ribadisce che «la pratica di inginocchiarsi per la Sacra Comunione ha a suo favore secoli di tradizione ed è un segno di adorazione particolarmente espressivo, del tutto appropriato alla luce della vera, reale e sostanziale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» (Lettera This Congregation, 1 luglio 2002: trad. it. Enchiridion Vaticanum vol. XXI, p. 471 n. 666). Il Dicastero chiarisce che non è lecito rifiutare la Sacra Comunione per la semplice ragione che i comunicandi scelgono di riceverla in ginocchio (cf. Istruzione Redemptionis Sacramentum, n. 91).




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 26/04/2011 19:50
    [SM=g1740733] Da molti anni, oserei dire 10 per l'esperienza diretta....assistiamo ad una MODA nelle Parrocchie con la quale si SCIMMIOTTA E SI IMITA l'Ultima Cena di Gesù in una forma ERRATA che sta gettando confusione: si può fare? non si deve fare? ma che significa? ecc....

    Un esempio lo avete se cliccate qui:
    http://it.gloria.tv/?media=147556 

    l'autore del video ha CHIUSO l'opportunità di replicare.... e allora, fraternamente, gli ho scritto in messaggio privato questa risposta che giro anche a voi:

      E' sbagliato non dare modo di fare una correzione fraterna chiudendo i commenti al video.... dica al suo Parroco che sta sbagliando di grosso a far fare in Parrocchia una messa in scena del genere: la Pasqua del Signore fu altra cosa e il Papa la spiega nella Sacramentum Caritatis che sarebbe più importante per voi leggere e meditare, nonchè APPLICARE, anzichè perdere tempo con le cene degli altri e che non a torto agli Ebrei stessi non piace affatto questo teatrino, li state offendendo...  
    dice Benedetto XVI:  
     
     Quella cena per noi cristiani non è più necessario ripeterla.  
     
    L'istituzione dell'Eucaristia  
    10. In tal modo siamo portati a riflettere sull'istituzione dell'Eucaristia nell'Ultima Cena. Ciò accadde nel contesto di una cena rituale che costituiva il memoriale dell'avvenimento fondante del popolo di Israele: la liberazione dalla schiavitù dell'Egitto. Questa cena rituale, legata all'immolazione degli agnelli (cfr Es 12,1-28.43-51), era memoria del passato ma, nello stesso tempo, anche memoria profetica, ossia annuncio di una liberazione futura. Infatti, il popolo aveva sperimentato che quella liberazione non era stata definitiva, poiché la sua storia era ancora troppo segnata dalla schiavitù e dal peccato.
     
    Il memoriale dell'antica liberazione si apriva così alla domanda e all'attesa di una salvezza più profonda, radicale, universale e definitiva. È in questo contesto che Gesù introduce la novità del suo dono.
    Nella preghiera di lode, la Berakah, Egli ringrazia il Padre non solo per i grandi eventi della storia passata, ma anche per la propria « esaltazione ». Istituendo il sacramento dell'Eucaristia, Gesù anticipa ed implica il Sacrificio della croce e la vittoria della risurrezione. Al tempo stesso, Egli si rivela come il vero agnello immolato, previsto nel disegno del Padre fin dalla fondazione del mondo, come si legge nella Prima Lettera di Pietro (cfr 1,18-20). Collocando in questo contesto il suo dono, Gesù manifesta il senso salvifico della sua morte e risurrezione, mistero che diviene realtà rinnovatrice della storia e del cosmo intero. L'istituzione dell'Eucaristia mostra, infatti, come quella morte, di per sé violenta ed assurda, sia diventata in Gesù supremo atto di amore e definitiva liberazione dell'umanità dal male.  
     
    Figura transit in veritatem  

    11. In questo modo Gesù inserisce il suo novum radicale all'interno dell'antica cena sacrificale ebraica. Quella cena per noi cristiani non è più necessario ripeterla.
    Come giustamente dicono i Padri, figura transit in veritatem: ciò che annunciava le realtà future ha ora lasciato il posto alla verità stessa. L'antico rito si è compiuto ed è stato superato definitivamente attraverso il dono d'amore del Figlio di Dio incarnato. Il cibo della verità, Cristo immolato per noi, dat ... figuris terminum (20). Con il comando « Fate questo in memoria di me » (Lc 22,19; 1 Cor 11,25), Egli ci chiede di corrispondere al suo dono e di rappresentarlo sacramentalmente.  
     
    Buona Pasqua DI NOSTRO SIGNORE....

    ****************************************************

    Ricordandovi che NOI Cattolici riviviamo quell'evento con la Messa detta IN COENA DOMINI: MESSA DELLA CENA DEL SIGNORE....  - durante la quale si fa la Lavanda dei piedi, e che si può fare anche al di fuori della Messa - al termine della quale si fa l'adorazione Eucaristica con la Reposizione, ossia il Santissimo Sacramento viene messo in un Tabernacolo preparato appositamente a ricordare gli eventi di quella Notte Santa in cui venne arrestato e processato....va detto dunque che alcuni sostengono che tale errore di rivivere l'Ultima Cena scimmiottando la cena ebraica, sia di matrice NEOCATECUMENALE.... ed è vero... ma purtroppo non è solo un errore loro, è una MODA che sta prendendo piede in moltissime Parrocchie, ebbene, fate sapere ai vostri Sacerdoti che è sbagliato!!!


    Come si deve svolgere allora quel Giovedì Santo?
    Come ci ha insegnato la Chiesa e come è solito ripetere il Pontefice....

    DIFFIDATE DA CIO' CHE NON E' CATTOLICO specialmente a riguardo dei RITI SACRI....




    P.S.
    il video in questione è stato rimosso...... ma non è sufficiente rimuovere le immagini SE NON SI RIMUOVE L'ERRORE....

    due immagini dell'errore sono qui  MONITO per tutti i Sacerdoti per evitare di divulgare ciò che non ha nulla a che fare con i riti CATTOLICI.....

    Prima immagine del Sacerdote vestito da rabbino ebraico...

    Seconda immagine del Sacerdote che utilizza i calici della Messa per la cena ebraica.

    Video della celebrazione della Pasqua Ebraica con i comunicandi della Parrocchia San Paolo Apostolo in Crotone, secondo la modalita' diabolica della setta Neocatecumenale...

    Verranno gli ingannatori che, secondo i loro desideri, cammineranno nella via dell’empietà” (Gd. 18)

    VOGLIAMO RICORDARE a questi Sacerdoti che la loro Ordinazione non c'entra più con il sacerdozio LEVITICO....il "nuovo" Sacerdozio di cui Cristo è L'UNICO, è "al modo di Melchisedek"....

    Ecco invece un'esempio concreto di come dobbiamo vivere questi Tempi Liturgici:

    Radicati nella Fede

    ecco il link ad un blog, che ricordato da un lettore, vale la pena di visitare!
    Da segnalare: i video delle celebrazioni del Triduo Sacro, e le parole del sacerdote. (e la presenza di fedeli giovani!)







    [Modificato da Caterina63 28/04/2011 16:33]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 12/05/2011 16:20

    Il modo di scambiare il segno di pace nella S. Messa

    di Juan José Silvestre*

    ROMA, mercoledì, 4 maggio 2011 (ZENIT.org).- «Quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi. Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere sia per noi stessi… sia per gli altri… Finite le preghiere, ci salutiamo l’un l’altro con un bacio» (Giustino di Nablus, Apologia I, 65; 67, cit. in CCC, n. 1345). Queste parole di san Giustino, scritte attorno al 155, presentano per la prima volta il segno di pace durante la Santa Messa.

    Un primo aspetto che richiama l’attenzione, nel leggere quest’antichissima testimonianza, è il momento in cui tale gesto ha luogo all’interno della celebrazione: a conclusione della Liturgia della Parola e prima della presentazione dei doni. Un secondo punto che possiamo evidenziare è il modo in cui esso è realizzato: «Ci salutiamo l’un l’altro con un bacio». Questa espressione ci collega subito con diversi brani del Nuovo Testamento, in cui si parla del salutarsi a vicenda con il bacio santo, il bacio d’amore (cf. tra gli altri: Rm 16,16; 1Cor 16,20; 2Ts 5,26; 1Pt 5,14). In effetti, per vari secoli il modo di scambiare la pace è stato l’oscolo, il bacio. Esso veniva scambiato tra fedeli dello stesso sesso, esclusi – secondo l’avvertenza della Tradizione Apostolica – i catecumeni. In questo modo veniva dunque svolto lo scambio della pace tra i fedeli nella Chiesa antica. Più tardi, la pace partirà dal celebrante e si trasmetterà secondo l’ordine gerarchico (così pare attestato già nell’Ordo Romanus I). Nel secolo IX; il celebrante bacia l’altare, come segno della pace comunicata da Cristo, e la trasmette al diacono; da questi passa al suddiacono e di seguito se la scambiano anche alcuni membri del clero. In certe occasioni, alcuni fedeli baciavano il «portapace», di cui parleremo più avanti.

    Non è chiaro neppure per gli studiosi in che momento il bacio fu sostituito dall’abbraccio, ma sembra certo che in tutte le liturgie, occidentali e orientali, si nota un processo di stilizzazione del gesto in sé. Per quanto riguarda la liturgia latina, il bacio sulla bocca – attestato in innumerevoli documenti fino al Pontificale di Patrizio Piccolomini († 1496) e Giovanni Burcardo († 1506) – si alterna con il bacio sulla spalla, che si incontra a volte nel secolo X e nel Pontificale di Durando, di fine secolo XIII. Nell’ultimo decennio del secolo XV, si introduce anche il bacio sulla guancia. Un ultimo anello di questo processo di stilizzazione del gesto di pace si incontra nel secolo XIV, nel quale alcuni messali, per esempio quello di Bayeux, menzionano la prescrizione di dare la pace mediante uno strumento apposito, l’«osculatorio». Questo strumento di trasmissione della pace era a volte una patena, altre un evangeliario, ma più di frequente una «tabula pacis».

    È nel Messale di san Pio V, e in particolare nel Ritus servandus in celebratione Missae (X, 3 [1962]), che si trova l’istituzionalizzazione dell’«osculatorio»: «... se sta per dare la pace, [il sacerdote] bacia l’altare nel mezzo e lo strumento della pace che gli ha dato il ministro che sta inginocchiato alla sua destra, ossia al lato dell’Epistola, e dice: “La pace sia con te”. Il ministro risponde: “E con il tuo spirito”. Se non ci fosse chi riceve con lo strumento in questo modo la pace dal celebrante, la pace non si dà …». Per quanto attiene alla Messa solenne, i ministri – dice il Messale del 1570 – accostano mutuamente la guancia sinistra, senza toccarsi, abbracciandosi a una certa distanza. Come precisava concretamente la Sacra Congregazione dei Riti, questo abbraccio consiste nel fatto che «il diacono pone le sue braccia sotto le braccia del celebrante» (SRC 2915, 7, Tuden., 23 Maggio 1846, t. 2, p. 337).

    Nella editio typica tertia del Messale Romano (2008), viene lasciato libero il modo di scambiarsi la pace e si delega alle Conferenze Episcopali la facoltà di stabilire «il modo di compiere questo gesto di pace secondo l’indole e le usanze dei popoli» (IGMR n. 82, cf. n. 390). Però si ricorda che conviene «che ciascuno dia la pace soltanto a chi gli sta più vicino, in modo sobrio » (IGMR, n. 82). Il celebrante può dare la pace ai ministri, rimanendo in presbiterio. Lo stesso farà nel caso in cui voglia dare la pace ad alcuni dei fedeli (cf. Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Redemptionis Sacramentum, n. 72).
    Benedetto XVI ricorda come «non tolga nulla all’alto valore del gesto la sobrietà necessaria a mantenere un clima adatto alla celebrazione, per esempio facendo in modo di limitare lo scambio della pace a chi sta più vicino» (Sacramentum Caritatis, n. 49). Questa precisazione risulta molto opportuna, perché bisogna ricordare che la pace cristiana ha la sua fonte in Dio per mezzo di Gesù Cristo (cf. Gv 14,27; 16,33; Rm 1,7; Ef 2,14; Fil 4,7; Col 3,15, ecc.). Il termine pace va inteso come compendio di ogni bene, dono messianico per eccellenza e frutto dello Spirito Santo.
    È certo che il gesto di pace possiede anche una chiara dimensione orizzontale, che notavamo già in san Giustino; però sin da tempi molto antichi si trova in esso una forte dimensione verticale. Non è una semplice pace umana già conquistata, o che può essere raggiunta mediante l’amicizia o la solidarietà. Si tratta invece della pace di Cristo risorto – di Lui che è la nostra pace – comunicata attraverso il suo Spirito, artefice della pace dei cuori di ognuno dei fedeli nella Chiesa. In realtà, non ci può essere pace che non abbia la sua origine nella Trinità. «L’assemblea liturgica riceve la propria unità dalla “comunione dello Spirito Santo” che riunisce i figli di Dio nell’unico Corpo di Cristo. Essa supera le affinità umane, razziali, culturali e sociali» (CCC, n. 1097).

    Sarebbe auspicabile che si tornasse di nuovo alle intuizioni di alcuni protagonisti del movimento liturgico: recuperare il gesto di pace tra i fedeli, il quale non procede però se non da Dio stesso, come simboleggiano il bacio dell’altare e l’ordine gerarchico nella sua trasmissione. Così Pius Parsch ricordava: «Il bacio di pace è soprattutto un sublime simbolo della comunione dei fedeli tra di loro e con Cristo. Giacché il bacio di pace proviene dall’altare, che rappresenta Cristo, è Cristo pertanto che bacia coloro che partecipano al Santo Sacrificio; e questo bacio si trasmette da uno all’altro facendo di tutti i fedeli un’unità intima che incorpora Cristo» (Sigamos la Santa Misa, L. Gili, Barcelona 1954, p. 128). E Romano Guardini insisteva sulla necessità della trasmissione «per ordinem» del rito della pace, come si prescriveva nel Messale del 1570, poiché ciò permette di sottolineare che nella liturgia la verticalità si sovrappone all’orizzontalità: ciò che ci mantiene uniti agli altri è la presenza di Dio» (Cf. R. Guardini, El espíritu de la liturgia, Cuadernos Phase 100, Barcelona 1999, p. 34).

    [Traduzione dallo spagnolo di don Mauro Gagliardi; ]

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    * Don Juan José Silvestre è Professore di Liturgia presso la Pontificia Università della Santa Croce e Consultore della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, nonché dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.


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    00 18/05/2011 13:08

    I doni all'Altare: "vengono portati pane, vino e acqua"


    La consuetudine di portare all'altare dei doni è molto antica e risale ai primordi della Chiesa. Nei Vangeli (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20) e in san Paolo (1 Cor 11,23-25) si legge che Nostro Signore Gesù Cristo, nell'Ultima Cena, utilizzò pane (ἄρτος in greco) e vino (γένημα ἄμπελος in greco: lett. “frutto della vite”). Per eseguire dunque il divino comandamento (τοῦτο ποιεῖτε εἰς τὴν ἐμὴν ἀνάμνησιν, “fate questo in memoria di me”: 1 Cor 11,24) la Chiesa, fedele al suo Signore, necessitava (e tuttora necessita) di pane e vino. Una delle prime testimonianze è della metà del II secolo: si tratta del noto e schematico resoconto della struttura della Santa Messa dell'epoca che fornisce san Giustino martire (Apologia I, 67, in PG 6,430), ove si legge che, prima dell'Eucarestia, “vengono portati pane, vino e acqua”. E' ragionevole pensare che quest'offerta venga portata dai fedeli: questo è chiaro nella testimonianza di san Cipriano di Cartagine (210-258). Tra la fine del I millennio e l'inizio del II, la processione offertoriale da parte dei fedeli nella liturgia romana va' progressivamente perdendo d'importanza, anche perché dal IX secolo è sempre più diffuso l'utilizzo del pane azzimo, il quale viene preparato con grande cura, specialmente dai monaci, rendendone più difficile l'offerta da parte dei fedeli, che in precedenza utilizzavano, in genere, pane piuttosto comune. Nel Basso Medioevo questa pratica finirà con lo scomparire e la presentazione del pane e del vino diventerà compito affidato ai chierici, anche se questa loro azione viene fatta sempre e comunque anche a nome dell'assemblea (cfr. ad es., nell'offertorio della forma straordinaria, le parole “Súscipe, sancta Trínitas hanc oblatiónem, quam Tibi offérimus...” cioè “Accetta, santa Trinità, quest'oblazione, che Ti offriamo...” o, ancora più chiaramente, “Oráte, fratres: ut meum ac vestrum sacrifícium...” cioè “Pregate, fratelli: affinché il mio e vostro sacrificio...”).

    Con la riforma liturgica si è giudicato opportuno ripristinare il segno tangibile della processione dei doni. Doni che, per l'appunto, sono il pane e il vino, umili prodotti terreni che, per la potenza e la benevolenza dell'Altissimo, diventeranno, alla Consacrazione, il Corpo e il Sangue di Cristo.
    Possiamo quindi chiederci: qual è il senso di questa presentazione di doni? Afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1350): “La presentazione dei doni (l'offertorio): vengono recati poi all'altare, talvolta in processione, il pane e il vino che saranno offerti dal sacerdote in nome di Cristo nel sacrificio eucaristico, nel quale diventeranno il suo Corpo e il suo Sangue. È il gesto stesso di Cristo nell'ultima Cena, « quando prese il pane e il calice ». « Soltanto la Chiesa può offrire al Creatore questa oblazione pura, offrendogli con rendimento di grazie ciò che proviene dalla sua creazione ». La presentazione dei doni all'altare assume il gesto di Melchisedek e pone i doni del Creatore nelle mani di Cristo. È Lui che, nel proprio sacrificio, porta alla perfezione tutti i tentativi umani di offrire sacrifici.”

    Il Santo Padre, poi, nell'Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis (n. 47) ha ribadito che “In questo gesto umile e semplice si manifesta, in realtà, un significato molto grande: nel pane e nel vino che portiamo all'altare tutta la creazione è assunta da Cristo Redentore per essere trasformata e presentata al Padre. In questa prospettiva portiamo all'altare anche tutta la sofferenza e il dolore del mondo, nella certezza che tutto è prezioso agli occhi di Dio. Questo gesto, per essere vissuto nel suo autentico significato, non ha bisogno di essere enfatizzato con complicazioni inopportune. Esso permette di valorizzare l'originaria partecipazione che Dio chiede all'uomo per portare a compimento l'opera divina in lui e dare in tal modo senso pieno al lavoro umano, che attraverso la Celebrazione eucaristica viene unito al sacrificio redentore di Cristo.”

    Stabilito questo, si può aggiungere che, anticamente, alla processione dei doni vennero aggiungendosi anche altre offerte. Generalmente si trattava di prodotti della terra (primizie, fiori, olio), animali (uccelli), arredi liturgici (ceri) anche preziosi, denaro (specie nel II millennio). Bisogna subito liberare il campo da un possibile equivoco: questi doni non erano in alcun modo necessari alla celebrazione, nel senso che la loro assenza non inficiava la validità della stessa. Infatti, il Santissimo Sacrificio dell'Altare è l'immolazione incruenta di Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote, che offre sé stesso al Padre come offerta pura, santa, immacolata, perfetta. Il sacrificio che ci dà salvezza è solamente quello di Cristo: gli altri doni non sono dunque da interpretarsi come necessari per l'efficacia del Sacramento, né come assurde offerte distinte, quasi una moderna offerta pagana.
    Al contrario, il senso di questi doni è quello di mostrare la partecipazione esteriore dei fedeli all'oblazione, è di mostrare come, nell'imminenza della Consacrazione, essi siano capaci di donare, di attuare il comandamento della carità, che è strettamente legato all'Eucarestia.

    Si può qui chiaramente comprendere come al gesto della partecipazione all'oblazione debba corrispondere la partecipazione interiore - la quale è ben più grave e necessaria. Ha affermato Pio XII (Mediator Dei): “Tutto il complesso del culto che la Chiesa rende a Dio deve essere interno ed esterno. […] Ma l'elemento essenziale del culto deve essere quello interno: è necessario, difatti, vivere sempre in Cristo, tutto a Lui dedicarsi, affinché in Lui, con Lui e per Lui si dia gloria al Padre. La sacra Liturgia richiede che questi due elementi siano intimamente congiunti; ciò che essa non si stanca mai di ripetere ogni qualvolta prescrive un atto esterno di culto.” Sarebbe dunque sbagliato accontentarsi di preparare dei doni per la processione offertoriale, se poi ad essi non corrisponde una dovuta disposizione interiore. Se, anzi, l'elemento esterno finisse coll'essere a detrimento della partecipazione interna, sarebbe forse necessario evitarlo e puntare piuttosto ad elevare l'animo dei fedeli verso il Mistero che viene celebrato (con catechesi, sussidi, etc.).

    Passiamo ora alla normativa: l'ordinamento generale del Messale Romano (n. 73) stabilisce che, oltre al pane e al vino, “Si possono anche fare offerte in denaro, o presentare altri doni per i poveri o per la Chiesa, portati dai fedeli o raccolti in chiesa. Essi vengono deposti in luogo adatto, fuori della mensa eucaristica.”

    L'Istruzione Redemptionis Sacramentum ha ribadito che (n 70) “Le offerte che i fedeli sono soliti presentare durante la santa Messa per la Liturgia eucaristica non si riducono necessariamente al pane e al vino per la celebrazione dell’Eucaristia, ma possono comprendere anche altri doni che vengono portati dai fedeli sotto forma di denaro o altri beni utili per la carità verso i poveri. I doni esteriori devono, tuttavia, essere sempre espressione visibile di quel vero dono che il Signore aspetta da noi: un cuore contrito e l’amore di Dio e del prossimo, per mezzo del quale siamo conformati al sacrificio di Cristo che offrì se stesso per noi. Nell’Eucaristia, infatti, risplende in sommo grado il mistero di quella carità che Gesù Cristo ha rivelato nell’Ultima Cena lavando i piedi dei discepoli. Tuttavia, a salvaguardia della dignità della sacra Liturgia occorre che le offerte esteriori siano presentate in modo adeguato. Pertanto, il denaro, come pure le altre offerte per i poveri, siano collocati in un luogo adatto, ma fuori della mensa eucaristica. Ad eccezione del denaro e, nel caso, in ragione del segno, di una minima parte degli altri doni, è preferibile che tali offerte vengano presentate al di fuori della celebrazione della Messa.”

    Particolarmente importante è notare che le offerte dei fedeli sono per la carità verso i poveri o verso la Chiesa. Da questo punto di vista, penso sia facilmente comprendere se certe offerte un po' particolari rispondano alla legge e alla mens della Madre Chiesa. Aggiungiamo che la presentazione dei doni non è affatto un momento di cui taluni fedeli possano appropriarsi o in cui – Dio non voglia! - essi facciano mostra del proprio protagonismo. Esigenza inderogabile del cristiano è infatti l'umiltà ed essa va' esercitata ancora di più nella sacra liturgia, dove il fedele ha la possibilità di avere una partecipazione straordinaria al Santo Sacrificio senza per questo mettere in mostra la propria persona. Anzi, umiliando se stesso, egli si nasconde e lascia che rifulga tanto più splendidamente la luce di Cristo, Vittima perfetta e nostro Redentore. Come può, infatti, la liturgia vivere di protagonismi? Al centro di essa è il Dio Altissimo, non la modesta creatura.

    Oltre a ciò, bisogna pure considerare che la sobrietà della liturgia romana mal si concilia con certe inutili complicazioni; e ricordiamoci pure che queste espressioni di protagonismo liturgico possono facilmente sminuire e inficiare il clima di preghiera e di raccoglimento che, in vista della Consacrazione, dovrebbe anzi essere mantenuto e favorito. Come, del resto, non si può escludere che taluni fedeli possano essere sfavorevolmente colpiti da questi protagonismi, né che chi li compie possa finire col cadere in una forma di errato orgoglio.

    Da quanto detto sinora, è semplice concludere come dovrebbe essere una corretta presentazione dei doni da parte dei fedeli: all'insegna della sobrietà e della nobile semplicità, come si addice alla liturgia romana. Quindi, oltre al pane ed al vino, si possono portare alcune offerte per i poveri e per la Chiesa. E' decisamente opportuno evitare, per le ragioni spiegate sopra, di dar vita a protagonismi, così come di portare doni strani o che ben poco possono avere a che vedere con le esigenze della fraterna carità. Penso sia opportuno anche presentare i doni in maniera anonima: la carità cristiana è infatti fatta nel nascondimento e i doni presentati dovrebbero essere intesi come offerte dell'assemblea in generale, più che di parti o gruppi della stessa.

    Bibliografia:
    J. A. Jungmann S.J., Missarum Sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della Messa romana, Torino, Marietti, 1953 (II ed.). In particolare vol. II, pp. 7-24.


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    00 18/05/2011 13:10

    Veli e benedette incensazioni


    di Nicola Bux

    Si odono di frequente richiami a volgere l’attenzione all’Oriente cristiano, intanto sono omessi nel rito romano elementi che lo richiamano, come velare il calice e benedire l’incenso. La presenza di tende e veli nella liturgia è riconducibile al culto giudaico; per esempio il doppio velo all’ingresso del santuario nel tempio di Gerusalemme, segno di riverenza verso il mistero della Shekina, la presenza divina. Così per l’incenso e gli altri aromi che bruciavano sull’altare apposito antistante, al fine di elevare visibilmente l’anima alla preghiera, secondo le parole del salmo 140: Dirigatur, Domine, oratio mea, sicut incensum, in conspectu tuo – La mia preghiera stia davanti a te come incenso, o Signore. Nello stesso tempo il profumo copriva l’effetto sgradevole degli odori degli animali immolati e del sangue dei sacrifici.

    Il velo rappresenta visibilmente l’esigenza di non toccare con mani, impure, le cose sacre: un simbolo dell’esigenza di purezza spirituale per avvicinarsi a Dio. Se la liturgia è fatta di simboli, questo è uno dei più importanti. I veli coprono le mani dei ministri, come gli angeli offerenti rappresentati nell’arte bizantina e romanica. In linea di principio, i vasi sacri, quando non in uso, sono sempre velati per alludere alla ricchezza che vi si nasconde.
    Il velo del calice è un piccolo drappo del medesimo colore e stoffa della pianeta o casula, oppure sempre bianco, che serve a coprire tutto il calice, sull’altare o sulla credenza, dall’inizio della Messa all’offertorio; e poi dopo la purificazione che segue la comunione. Nel rito bizantino i veli sono due, per il calice e per il disco, ovvero la patena dei pani da consacrare. Nel rito romano, sebbene sia prescritto «lodevolmente» dall’Ordinamento generale del Messale di Paolo VI (n. 118), il velo che copre il calice è, nell’odierna prassi celebrativa, ordinariamente omesso.
    Veniamo all’incensazione. Il sacerdote, all’inizio della Liturgia Eucaristica, messo l’incenso nel turibolo, lo benedice e poi incensa tutto l’altare, in onore del Signore.
    L’incenso viene benedetto, nella Messa in forma extraordinaria, con la preghiera: Per intercessionem beati Michaelis Archangeli, stantis a dextris altaris incensi, et omnium electorum suorum, incensum istud dignetur Dominus benedicere, et in odorem suavitatis accipere – Per intercessione di san Michele arcangelo, che sta alla destra dell’altare dell’incenso, e di tutti i suoi santi, il Signore voglia benedire questo incenso e accoglierlo come profumo a Lui gradito. Questa benedizione è più solenne della prima, nella quale si dice: Ab illo benedicaris, in cuius honore cremaberis – Ti benedica Colui in onore del quale sarai bruciato. Qui sono invocati gli angeli perché il mistero dell’incenso non rappresenta altro che la preghiera dei santi presentata a Dio dagli angeli, come dice san Giovanni nell’Apocalisse (8,4): Et ascendit fumus incensorum de orationibus sanctorum de manu angeli coram Deo – E dalla mano dell’Angelo il fumo degli aromi ascende con la preghiera dei santi davanti a Dio.

    Ancor prima però, come spiega Prosper Guéranger, «siccome il pane e il vino che ha offerti hanno cessato d’appartenere all’ordine delle cose comuni e usuali, [il sacerdote] li profuma con l’incenso, come fa per Cristo stesso, rappresentato dall’altare». Belle le parole che accompagnano l’incensazione prima in forma di triplice croce e poi di triplice cerchio sul pane e del calice: Incensum istud a Te benedictum ascendat ad Te Domine et descendat super nos misericordia tua – Ascenda a te, Signore, questo incenso da Te benedetto e discenda su di noi la tua misericordia. È tutto il senso della liturgia, che ascende a gloria della presenza divina e discende per la nostra salvezza – in latino, salvare vuol dire conservare – affinché siamo completamente noi stessi e possiamo vivere in eterno con Dio. Il sacerdote si inchina «in spirito di umiltà e con animo contrito» affinché il sacrificio si compia alla presenza di Dio in modo da essere gradito; poi invoca lo Spirito sulle offerte. Il sacerdote, rendendo il turibolo al diacono, gli rivolge un augurio che fa ugualmente a sé medesimo, dicendo: Accendat in nobis Dominus ignem sui amoris, et flammam aeternae caritatis – Il Signore accenda in noi il fuoco del suo amore e la fiamma dell’eterna carità. Il diacono, ricevendo il turibolo, bacia la mano del sacerdote e poi la parte superiore delle catene, invertendo l’ordine delle azioni che aveva compiuto presentandoglielo. Tutti questi usi sono orientali e la liturgia li conserva perché sono dimostrazioni di rispetto e riverenza.

    Dunque, la Chiesa non ha escluso gli aromi dai suoi riti, anzi usa il balsamo per preparare il Crisma. L’incensazione simboleggia il sacrificio perfetto dei santi doni del pane e del vino, cioè Gesù Cristo, a cui sono unite le nostre persone in sacrificio spirituale, emananti profumo soave che sale al cielo (cf. Gen 8,21; Ef 5,2); così sono le preghiere dei santi (Ap 5,8) e le virtù dei cristiani (2Cor 2,15).

    Qualcuno osserverà che, da quanto il velo del tempio si è squarciato, non abbiamo più bisogno di alcun velo, e da quando si è offerto il sacrificio di Cristo non abbiamo più bisogno di incenso. In verità non dovremmo nemmeno più aver bisogno di alcun edificio sacro, perché Cristo è il nuovo tempio. Il punto è che, con la venuta di Gesù, il profano non è scomparso del tutto: però è continuamente incalzato dal sacro che è dinamico, in via di compimento: «Perciò dobbiamo ritrovare il coraggio del sacro,il coraggio della distinzione di ciò che è cristiano; non per creare steccati, ma per trasformare, per essere realmente dinamici»
    (J. Ratzinger,
    Servitori della vostra gioia, Milano 2002, p 127).


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    Verità, Liturgia e Carità: trinomio inscindibile nella vita della Chiesa


     

    ROMA, martedì, 31 maggio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito una riflessione di don Enrico Finotti, parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto (TN). 

    * * *

    La vita della Chiesa è fondata sul mandato missionario, che il Signore Gesù ha dato ai suoi discepoli:

    «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 18-20).

    Questo ‘mandato’ contiene in perfetta sintesi e in ordine logico le tre attività fondamentali che costituiscono l’azione ministeriale della Chiesa per l’edificazione di se stessa e la sua missione nel mondo: l’annunzio del vangelo di Verità (munus docendi); la celebrazione liturgico-sacramentale dei Misteri (munus santificandi) e l’educazione morale alla Vita evangelica (munus gubernandi). Ogni cristiano, in realtà, ha ricevuto, fin dal battesimo, il triplice munus - profetico, sacerdotale e regale -, che lo abilita ad assolvere il ‘mandato’ di Cristo. “Egli stesso ti consacra con il crisma di salvezza, perché inserito in Cristo, sacerdote, re e profeta, sia sempre membro del suo corpo per la vita eterna” (Rito romano del battesimo). La Chiesa è allora chiamata all’annunzio della Verità, alla celebrazione della Liturgia, all’esercizio della Carità. Verità, Liturgia e Carità sono così i pilastri portanti della vita della Chiesa di tutti i tempi e in tutti i luoghi. Queste tre colonne sono così importanti per la Chiesa in quanto, come si è visto, reggono la stessa vita divina ad intra: Dio, infatti, è somma Verità, Culto perfetto e beatificante, Carità infinita e vivificante. Esse poi, nella pienezza del tempo, risplendono sul volto di Cristo, immagine del Padre. Esse sono pure impresse dal Creatore nella natura angelica e umana. Sono quindi la struttura ultima dell’Essere assoluto e degli esseri creati a sua immagine. La Chiesa quindi, assolvendo a questi tre compiti, nella sua vita ad intra e nella sua missione ad extra, non fa che assecondare in se stessa e manifestare al mondo quella che è la sua identità profonda, impressa dal Creatore ed elevata dal Redentore. La coscienza di questa impostazione teologica viene eloquentemente consacrata ed espressa nella Costituzione dogmatica Lumen gentium del Concilio Vaticano II, a cui fa eco l’impostazione del Codice di Diritto Canonico e quella del Catechismo della Chiesa Cattolica. Ciò che ancora importa rilevare è la connessine indissolubile dei tre elementi, in maniera tale che nessuno può reggere senza gli altri o comunque la corruzione di uno porta alla inevitabile debilitazione degli altri. Valgono qui le parola del Signore “L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto” (Mc 10, 9). L’indagine condotta in questo studio, lungo le tappe della storia della salvezza, lo dimostra in modo convincete alla luce dell’esperienza millenaria delle vicende dell’umanità secondo la testimonianza del testo biblico.

    In particolare si può osservare che la crisi della Verità genera ineluttabilmente quella della Liturgia e della Carità. Infatti quando il nostro sguardo contempla la Verità in tutto il suo splendore o comunque in immagini vere, subito nel nostro cuore nasce la gioia, la gratitudine, l’approvazione, la lode, l’acclamazione e infine l’adorazione a Dio che si rivela a noi nella verità di ogni cosa che ci circonda e che i nostri sensi corporei colgono la nostra mente elabora. Questo moto interiore di riconoscimento grato e adorante della Verità è in fin dei conti un atto liturgico, che insorge in ogni persona retta e buona, che si incontra con ciò che é vero, bello e buono, comunque e dovunque si manifestino. La Verità, dunque, suscita la Liturgia. Al contempo ne nasce un ulteriore moto, quello dell’amore, che immediatamente spinge il cuore umano ad accogliere, ad abbracciare, a gioire, a desiderare e a donare quella verità che sta davanti e che suscita tanta contemplazione e gratitudine. Ecco allora che Verità, Liturgia e Carità sono moti simultanei e concatenati di un profondo e spontaneo impulso vitale dell’uomo, che è fatto geneticamente ed è proiettato irresistibilmente per accogliere la Verità, contemplandola liturgicamente e abbracciandola caritatevolmente. Quando tuttavia alla nostra mente e ai nostri sensi si presenta la caricatura della verità e ci si trova davanti alla falsità, ossia quando davanti al nostro sguardo la Verità, la Bontà e la Bellezza sono offesi e degenerati, subito insorge un moto interiore di disgusto, lo sguardo si ritrae, il volto si fa’ triste, la lode si spegne, la gratitudine si arresta, l’adorazione si paralizza. In altri termini, crolla la Liturgia. Essa infatti non contempla più il suo oggetto o lo vede avvilito in riduzioni indegne e in caricature abbiette. La Liturgia, infatti, ha il fiuto della Verità, e s’allontana dalla sua falsificazione. Al contempo il cuore che cerca e ama ciò che è vero, buono e bello, s’arresta dall’oggetto del suo desiderio vedendolo debilitato, abbruttito, mostrificato e l’amore si cambia in odio, ossia in avversione, in allontanamento e in fuga da ciò che invece avrebbe dovuto attrarre. E’ la crisi della Carità, che crolla davanti al crollo della Verità, che sola ha diritto di raccogliere e soddisfare la facoltà amante dell’uomo. Ecco che crollata la Verità crollano inevitabilmente la Liturgia e la Carità, perché incapaci geneticamente di aderire ad oggetti che non possono reggere nel confronto della Verità. E’ ciò che succede nell’idolatria come forma corrotta di adesione agli idoli, falsificazione dell’unico e sommo Dio.

    Allora la Liturgia trova la sua più vera identità e la più solida stabilità nella saldezza del dogma della fede. La crisi del dogma, l’incrinatura della dottrina, la nebulosità dell’annunzio evangelico provocano il crollo della Liturgia, in quanto minano il contenuto interiore del Mistero che la Liturgia celebra. La radice sintattica del termine ortodossia, che si usa normalmente per affermare la retta fede, significa letteralmente ortodoxia (Doxa = gloria), ossia il retto modo di glorificare, di adorare e quindi il modo giusto di celebrare. La regola della fede coincide allora con la regola della liturgia.[1] Ma la crisi della Liturgia oggi si inscrive nel contesto della ben più profonda crisi della Verità, non solo nell’ambito teologico della riflessione e in quello omiletico e catechistico della pastorale, ma ancor più nella crisi filosofica della metafisica. Infatti, oggi è la ragione come facoltà in grado di poter cogliere le verità spirituali, al di là dell’esperienza scientifica, che è compromessa. Non si crede più, anzi si nega, o comunque si dubita, che la ragione umana sia capace di individuare con sicurezza, anche se in modo analogico, le verità soprannaturali, al di sopra di quelle quantificabili dalle scienze empiriche, ossia si dichiara l’impossibilità della metafisica. La crisi della fede allora è anzitutto oggi la crisi della ragione, senza la quale la fede stessa sarebbe privata di un costitutivo essenziale quale è la retta razionalità e si ridurrebbe ad un fragile e soggettivo fideismo. Nella crisi generale, propria della cultura europea, della filosofia fondamentale, non fa meraviglia che ne segua una generale crisi dei principi stessi su cui si fonda la Liturgia, venendo meno la possibilità di approccio al suo contenuto, il mistero rivelato, nell’oggettività di fatti storici e di precisi contenuti logici.

    Al contempo anche la crisi della Liturgia, che intendesse esprimersi in forme inadeguate, difformi dalla divina bellezza e in una creatività soggettiva, intacca il dogma della fede, o comunque lo oscura, lo riduce e lo traduce in espressioni insufficienti, mancanti e mediocri. La crisi del linguaggio liturgico è una conseguenza della più vasta crisi del linguaggio in generale. Infatti, in analogia alla crisi del concetto, non si ritiene possibile l’impiego di termini e simboli universali e permanenti, ma solo di espressioni contingenti, continuamente mutevoli e create volta a volta dal soggetto, senza alcuna base oggettiva. E’ questa una delle cause di una certa creatività sempre in movimento e di una continua ricerca mai conclusa. Da ciò si capisce come Verità e Liturgia interagiscano a vicenda e senza possibilità di indipendenza e l’una e l’altra subiscano i contraccolpi positivi o negativi del loro stato di salute.

    Infine la pastorale, in tutte le sue manifestazioni più varie, che sono l’espressione molteplice della Carità che irrompe benefica in ogni aspetto della vita sociale e individuale, determinerà la sua qualità, sia dalla Verità del dogma, che è oggetto dell’annunzio, quale Parola di Dio, sia dalla Liturgia, che è l’incontro salvifico e la contemplazione orante col Mistero che qui ed ora ci salva. Infatti la Liturgia, che porta in se stessa anche il momento più eccelso ed efficace dell’annunzio della Verità, è il culmine verso cui tende l’azione pastorale della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù (SC 10). È allora evidente come Verità, Liturgia e Carità esprimano quel trinomio così inscindibile e interagente da essere quasi l’immagine dell’unione mirabile e della comunione indivisibile della Trinità divina, in seno alla quale Verità, Liturgia e Carità hanno la loro fonte e il loro modello.

    (Testo tratto da “La centralità della liturgia nella storia della salvezza”, Edizioni Fede & Cultura, pp. 84-88).

    1) J. RATZINGER, Introduzione allo spirito della liturgia, pp. 155-156.

     

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    00 02/06/2011 23:11

    Il Soggetto della liturgia


     

    ROMA, martedì, 10 maggio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo di don Enrico Finotti - parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto (TN) - apparso sulla rivista LITURGIA ‘CULMEN ET FONS’ (marzo 2011).




    * * *

    Vi è una questione fondamentale che deve essere necessariamente chiarita per impostare nel modo dovuto il discorso sulla Liturgia:

    è la questione del Soggetto.

    Chi agisce nell’atto liturgico?

    Chi opera nei riti e nelle preci?

    Con quale autorità si esercitano le azioni liturgiche?

    Queste domande sono di importanza così essenziale, quale lo è la ‘chiave di volta’ di un grandioso portale: rimossa la ‘chiave di volta’ tutto l’arcata crolla e con essa l’intero edificio. Oggi non si insiste abbastanza su questo problema e per questo è facile inoltrarsi in una grande confusione nel trattare del valore, dell’identità e dell’efficacia della liturgia, compromettendo gli stessi criteri di base nella sua concreta attuazione.

    Il Soggetto della Liturgia è Cristo Gesù, indissolubilmente unito alla Chiesa, sua Sposa. Due Soggetti distinti, ma indissolubili, in modo da formare quasi un Soggetto unico, che agisce sempre in totale sintonia, senza la minima confusione della diversa loro natura e azione. Infatti potremo dire che: - nella liturgia di istituzione divina (il Sacrificio e i Sacramenti) è l’azione di Cristo-Capo che domina sovrana sia nel movimento ascendente del sacrificio che sale al Padre, portando con sé la Chiesa, sia nel movimento discendente che santifica la Chiesa sua Sposa, che ne riceve la vita della grazia; - nella liturgia di istituzione ecclesiastica è l’azione della Chiesa-Sposa che opera in primo luogo, ma sempre in indissolubile unione col suo Sposo divino, che sempre assume e fa propria l’azione della sua Chiesa, sia nel movimento ascendente dell’adorazione, come in quello discendente della santificazione. In tal modo ben si comprende che mai Cristo opera senza la sua Chiesa e mai la Chiesa opera senza il suo Capo. In verità se il Capo operasse senza il suo Corpo sarebbe negata l’Incarnazione e se il Corpo agisse senza il suo Capo cesserebbe nel momento stesso di essere Chiesa. Ecco allora che ogni volta che si attuano nel tempo e nello spazio i riti liturgici in modo valido e legittimo ci si incontra con l’intervento soprannaturale del Signore Risorto e della Chiesa, che operano affinché tutto il popolo cristiano e ciascuno dei suoi membri possano essere assunti nell’azione sacra, sacrificale e santificante, e diventare con Loro un sacrificio puro gradito al Padre.

    La confusione dottrinale e i conseguenti abusi nella celebrazione liturgica sono dovuti anche ad un concetto errato del termine ‘Assemblea celebrante’. L’espressione in quanto tale è corretta: infatti è vero che nella liturgia l’intera Assemblea della Chiesa - Capo e Corpo - è il Soggetto agente di ogni azione liturgica. In tal senso ogni membro della Chiesa, per diritto battesimale e crismale, è chiamato ad un’operazione consapevole, attiva e fruttuosa ogni volta che interviene nella santa Assemblea. Tuttavia occorre precisare come si configuri l’ ‘Assemblea celebrante’ e quale siano le sue dimensioni costitutive e i lineamenti della sua vera e piena realizzazione. Per questo è necessario distinguere bene le sue componenti interne e con i loro diversi ruoli.

    a. Non vi è ‘Assemblea celebrante’ senza Cristo-Capo. E’ necessario non passare sotto silenzio questa presenza assolutamente necessaria, primaria e sovrana. Anzi tutta la Chiesa è in Lui e da Lui fluisce. Al contempo vi sono atti propriamente suoi, in quanto Capo, e che la Chiesa riceve per diventare sempre più il suo Corpo. E’ Lui infatti che genera continuamente la Chiesa e che la mantiene permanentemente nella sua più profonda identità di assemblea santa, sposa incontaminata, popolo sacerdotale, sacrificio vivente.

    b. Questa ‘Assemblea’ è certamente convocata qui ed ora in un preciso spazio e tempo: è l’Assemblea liturgica locale, che si delinea nelle caratteristiche proprie dei vari luoghi dove il popolo di Dio vive e cammina nel tempo, con tutta la più vasta gamma dei connotati culturali e ambientali, storici e sociali nel flusso del tempo presente che scorre verso l’eternità. E’ questa la Chiesa che il Concilio chiama ‘locale’ o ‘particolare’.

    c. Questa medesima ‘Assemblea’ tuttavia non è chiusa, isolata nella sua località e oppressa dall’orizzonte ristretto della sua visione sociologica, ma è intimamente aperta e in comunione reale con tutte le ‘Assemblee’ liturgiche del mondo: quelle diffuse nello spazio su tutta la terra e quelle successive nel tempo, che ebbero luogo nello scorrere secolare dei millenni cristiani.

    E’ insomma una Assemblea cattolica, ossia universale nel senso che abbraccia le due coordinate essenziali della vita umana, il tempo e lo spazio. In questo sta il senso vivo della Tradizione liturgica della Chiesa che mai viene interrotta, ma che ci tiene in salda continuità con tutti quelli che ci precedettero nella fede.

    E così pure il senso della comunione e dello scambio reciproco tra tutte le Chiese a noi contemporanee, verso le quali abbiamo un debito e un impegno di comunicazione che deve poter essere sempre verificato, espresso e garantito. Nessuna assembla locale è totalmente libera di agire con una creatività svincolata dalla tradizione dei secoli e dalla comunione oggettiva con i fratelli di fede sparsi in tutto il mondo.

    d. Infine - ed è cosa di primissimo ordine - l’ ‘Assemblea celebrante’ porta nella sua più profonda realtà l’immensa Assemblea celeste, la ‘maggioranza dei Santi’, lo stuolo delle miriadi di Angeli, la presenza materna della SS. Vergine. Non basta l’occhio del corpo per vedere il mistero che è sotteso all’ ‘Assemblea’ liturgica, per quanto piccola e povera che si raduna qui sulla terra. Occorre lo sguardo soprannaturale della fede, col quale si percepisce quella sterminata Assemblea che può essere ospitata soltanto nei cieli, ma che è geneticamente connessa ed intima con quel piccolo ‘noi’ qui radunati e col nostro flebile gemito di viatori nell’oscurità di quaggiù e nella debole luce della lucerna della fede che ci conduce nella notte. I Santi ci precedono in questo sguardo penetrante e il loro modo di celebrare ce ne svela il mirabile panorama di luce superna.

    Ecco le componenti essenziali e mai dissociabili dell’ ‘Assemblea celebrante’. Se esse vengono adeguatamente tenute insieme, spiegate e vissute nella celebrazione, la nozione di ‘Assemblea celebrante’ non può che dichiarare senza timore la sua adeguatezza come Soggetto della liturgia.

    Ma è a causa della riduzione o del silenzio di una o l’altra di queste coordinate fondamentali che si è diffusa l’incrinatura dottrinale e la pratica abusiva nel concreto modo sia di celebrare, come anche di impostare la formazione liturgica. Si assiste oggi, infatti, ad una riduzione solo sociologica dell’Assemblea liturgica, ossia, si considera soltanto il piccolo o grande gruppo che si vede e che si raduna in un certo luogo, ma si dimentica tutto il resto: la sua invisibile dimensione universale e soprannaturale. Soprattutto non ci si rende conto a sufficienza della presenza e dell’azione del Capo del Corpo, senza il quale tutto svanisce ed è travolto dal flusso inesorabile del tempo senza lasciare l’impronta di una salvezza eterna e definitiva.

    Una ‘pastorale dimezzata’, attenta esclusivamente ai dati sociologici, ha ridotto la liturgia all’azione creativa del gruppo che gestisce di volta in volta il rito, senza più garantire a sufficienza l’azione del Signore, la comunione con i Santi, la Tradizione dei secoli e la sintonia con l’universalità della Chiesa. In tal modo la liturgia diventa l’espressione del ‘noi qui convocati’ e della nostra cronaca quotidiana. Svanisce il respiro dei secoli, si chiude l’orizzonte della Chiesa diffusa su tutta la terra, si oscura la comunione dei Santi nel cielo e Cristo stesso rischia di essere un ospite di riguardo invitato ad assistere ad una nostra sempre mutevole creatività e a condividere quello che piace fare a noi. Il nostro protagonismo rischia così di sostituirsi all’adorazione e il politicamente corretto soppianta l’obbedienza alla Sua Parola di verità.

    Come allora superare la crisi e aver garanzia di celebrare la liturgia vera, quella che ha per Soggetto Cristo e la Chiesa? Ubbidendo al Magistero della Chiesa.

    Solo, infatti, la liturgia come è stabilita dall’autorità della Chiesa garantisce la composizione equilibrata di tutti gli ‘ingredienti’ necessari alla natura di un vero atto liturgico. Chi segue con fedeltà l’Edizione typica dei libri liturgici, osservandone con precisione le rubriche e pronunziando con fede le preci stabilite, assicura in ogni sua parte il complesso rituale: - gli atti di Cristo-Capo sono rispettati nella loro validità; - quelli della Chiesa sono celebrati con tutte le loro dimensioni costitutive: la comunione nel tempo (Tradizione) e nello spazio (universalità) si compone con l’attenzione all’ambiente concreto in cui la liturgia si attua (località). In tal modo sarà possibile celebrare una liturgia valida e lecita e quindi riconosciuta da Dio ed efficace in ordine alla nostra santificazione. Una liturgia, invece, che esulasse dal Magistero della Chiesa perderebbe immediatamente il suo vero Soggetto soprannaturale e decadrebbe irrimediabilmente in un atto di culto privato.

    Si comprende allora le cause degli abusi liturgici attuali: - la non percezione della presenza e dell’azione diretta del Signore, che provoca la caduta del senso del sacro; - un concetto errato o insufficiente di ecclesiologia, ridotta a sociologia localista; - il conseguente concetto errato o ridotto di pastorale, rivolta eccessivamente all’uomo e al suo ambiente, senza vigilare adeguatamente sull’integrità del Mistero che deve trasmettere per la sua redenzione.

    Con la caduta del Soggetto vero della liturgia oggi non si distingue più la liturgia dai pii esercizi, osservando che l’unico soggetto che opera sempre in ogni azione cultuale è l’ Assemblea celebrante’ nella sua visibilità più immediata. Oggi, infatti, non è raro ritenere che ogni espressione di preghiera fatta da chiunque e in qualsiasi forma sia liturgia e così pure la si denomina.

    In realtà la differenza essenziale la fa il diverso soggetto: la liturgia ha un soggetto soprannaturale Cristo e la Chiesa in quanto tale, mentre ogni altro atto di culto pubblico o individuale ha come soggetto la persona o il gruppo che lo crea e lo celebra. E’ allora necessario distinguere anche ritualmente la liturgia dai pii esercizi: - evitando l’intreccio interno con le azioni liturgiche: - ovviando all’unione organica di un pio esercizio che, senza soluzioni di continuità, precede o segue un rito liturgico; - resistendo decisamente dalla tentazione facile di sostituire atti liturgici preferendo superficialmente al loro posto pii esercizi e rallentando in tal modo di elevare il popolo alla liturgia. Forse potrebbe essere presa in considerazione anche l’opportunità di riservare gli abiti liturgici alle sole azioni liturgiche e indossare, invece, l’abito corale per presiedere ai pii esercizi del popolo cristiano.

    Come si vede la normativa della Chiesa precede la prassi e davanti a noi vi è ancora molta strada da percorrere sia nella formazione liturgica, come nella conseguente celebrazione.

     

     

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    00 07/07/2011 20:51
    RITORNANO LE BALAUSTRE

    Secondo architetti, parroci e parrocchiani, le balaustre favoriscono la devozione in chiesa


    di Joseph Proneken
     

    A Tiverton, nel Rhode Island, quando alcuni parrocchiani proposero di rimettere la balaustra all’altare del santuario dello Spirito Santo, Padre Jay Finelli accettò volentieri, senza sapere che di lì a poco, nel 2007,  il Papa avrebbe pubblicato il motu proprio “Summorum Pontificum”, che gli avrebbe permesso di apprendere come celebrare la forma straordinaria della Messa.

    A Norwalk, nel Connecticut, quando numerosi parrocchiani incoraggiarono il parroco, Padre Greg Markey, a restaurare la chiesa di Santa Maria, la seconda più antica della diocesi, e riportarla al suo splendore originale di neo-gotico del XIX secolo, il parroco dispose che tornasse a far parte integrante del presbiterio anche la balaustra.

    Le balaustre d’altare sono presenti in diverse chiese nuove progettate dall’architetto Duncan Stroik. Tra queste, la cappella del College S. Tommaso d’Aquino a Santa Paola in California, il santuario della Beata Vergine di Guadalupe a La Crosse nel Wisconsin, mentre altre tre sono alle ultime fasi di progettazione.

    Le balaustre d’altare (per la Comunione) stanno ritornando per tutte buone ragioni.

    Dice Padre Markey: “Per prima cosa, il Santo Padre esige che, chi vuole ricevere la Comunione da lui, si debba mettere in ginocchio. Seconda cosa, sono secoli che fa parte della nostra tradizione di cattolici ricevere la Santa Comunione inginocchiati. Terzo, è una bella forma di devozione a Nostro Signore”.

    Il prof. James Hitchcock, autore di “Recovery of the Sacred” (Ignatius Press, 1995), ritiene che il riemergere delle balaustre sia un’idea buona. La ragione principale, dice, è la venerazione, e spiega: “Lo scopo della genuflessione è di facilitare l’adorazione”.

    Quando l’architetto Stroik propose la balaustra all’altare del santuario della Beata Vergine di Guadalupe, “al Cardinal Raymond Burke piacque l’idea, convinto che la devozione verso l’Eucaristia e il santuario ci avrebbe guadagnato”.

    Nelle chiese ortodosse orientali, al posto della balaustra che separa l’altare dal santuario, c’è l’iconostasi – una parete costellata di icone e dipinti religiosi, che separa la navata dal presbiterio. Mentre la balaustra è alta circa 60 centimetri, l’iconostasi copre gran parte del presbiterio.

    “Al confronto, la balaustra d’altare è un niente”, dice l’architetto, “e quelli sono i nostri fratelli orientali. Possiamo approfittare per imparare qualcosa”.


    STORIA DELLA BALAUSTRA D’ALTARE

    Può darsi che le balaustre ritornino, ma è vero che dovevano essere tolte dai presbitèri?

    “Non c’è nulla nel Vaticano II o nei documenti post-conciliari che dispongano la loro rimozione”, dice Denis McNamara, autore di “Catholic Church Architecture and the Spirit of the Liturgy” (Hillenbrand Books, 2009) e vice-direttore e professore all’Istituto Liturgico dell’Università di Santa Maria del Lago a Mundelein, nell’Illinois.

    Lo affermò con forza il Cardinal Francis Arinze durante una video-conferenza nel 2008, quando era ancora prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: “la Chiesa da Roma non ha mai detto di abolire le balaustre d’altare”.

    Che era successo allora?

    “Purtroppo, risponde Hitchcock, dopo il Vaticano II si sono infiltrate idee democratiche”.

    Stoik nomina queste idee: una generale iconoclastia che rifiutava il passato, il desiderio di trasformare le chiese in spazi assembleari sullo stile dei luoghi d’incontro protestanti, e la tesi secondo cui genuflettere è segno di sottomissione, il che è considerato non rispettoso della persona moderna – non ci mettevamo in ginocchio davanti a re e regine, per cui era più “democratico” non inginocchiarci.

    Aggiunge McNamara: “Qualcuno definiva le balaustre dei ‘recinti’ che procuravano divisione tra sacerdote e fedeli”.

    “Certo, continua, teologicamente c’è un significato preciso nella distinzione tra navata e presbiterio. Come un tempo vi era confusione sui ruoli dei chierici e dei laici, così vi era pure confusione sulla manifestazione architetturale di quei ruoli”. 

    Le balaustre danno “una chiara designazione di ciò che è il presbiterio”, dice Padre Markey (Nota del traduttore: presbiterio in inglese si dice “sanctuary”). Il termine “santuario” (nel senso di presbiterio) viene da ‘santo’ che vuol dire ‘ messo da parte’. Il santuario-presbiterio è segregato dal resto della chiesa per rafforzare in noi la comprensione di che cosa è la santità. Il presbiterio simbolicamente è la testa della Chiesa e rappresenta Cristo capo”.

    Secondo McNamara, le radici dell’architettura ecclesiale risalgono al Tempio di Salomone: l’ampia aula corrispondeva alla navata della chiesa; il Santo dei Santi, immagine del Cielo, corrispondeva all’odierno presbiterio. Essi erano separati da un grande velo, che si squarciò al momento della morte di Cristo.

    “La balaustra costituisce sempre un indicatore del luogo in cui Cielo e terra si incontrano, segnalando che non sono ancora completamente uniti”, spiega McNamara.

    “Ma, allo stesso tempo, la balaustra è bassa, facilmente valicabile, ed ha un cancello che non ci impedisce di partecipare al Cielo. Perciò possiamo dire che esiste una teologia della balaustra che la vede non tanto come recinto, ma come indicatore del punto in cui si incontrano Cielo e terra, dove il sacerdote, che agisce in persona Christi, si muove dal Cielo alla terra per dare l’Eucaristia come dono della vita divina”.


    DEVOZIONE A MESSA

    Nota Padre Finelli che le balaustre d’altare svolgono un ruolo importante per la forma straordinaria della Messa, poiché in essa la Comunione si riceve sulla lingua. Egli celebra la forma straordinaria una volta alla settimana nel tempo di Avvento e di Quaresima, e una volta al mese per il resto dell’anno.

    I comunicandi si inginocchiano alla balaustra di quercia costruita da un parrocchiano, bravo artigiano del legno. Altri parrocchiani l’anno indorata e hanno costruito un’altra balaustra simile per la cappella dell’adorazione.

    La presenza delle balaustre ha colpito favorevolmente le 2.000 famiglie della parrocchia. “Tante persone continuavano a voler usare la balaustra, per cui ho deciso che dall’inizio di Quaresima i fedeli ricevano la Comunione alla balaustra” (La disposizione è per i giorni feriali e anche per speciali Messe festive nella forma ordinaria).

    Con la facoltà di inginocchiarsi o di stare in piedi, molti, per ricevere la Comunione, scelgono di mettersi in ginocchio. E avendo ancora la facoltà di riceverla o sulla lingua o sulla mano, un numero sempre maggiore di persone sceglie di riceverla sulla lingua.

    Ciò fa dire a Padre Finelli che “è un segno molto forte di amore e rispetto verso la Presenza reale, perché è veramente Gesù che riceviamo”.

    Padre Finelli chiarisce che, per i cattolici di rito latino, ricevere l’Eucaristia in piedi e sulla mano è un indulto, cioè una speciale concessione della Santa Sede, dato che il modo ordinario delle legge ecclesiastica rimane quello di riceverla in ginocchio e sulla lingua (l’indulto fu concesso su richiesta dei vescovi americani).

    La forma straordinaria è celebrata tre volte alla settimana nella chiesa di Santa Maria in Connecticut, ma Padre Markey dice che le balaustre per la Comunione servono anche durante le Messe di forma ordinaria. Nella sua parrocchia di 1.000 famiglie, i fedeli hanno la facoltà, nella forma ordinaria, di genuflettere o stare in piedi.

    In tutto questo c’è l’approvazione di Roma. Ricorda una direttiva vaticana: “Nel 2003, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti affermava che nella forma ordinaria, ‘ai comunicandi che scelgono di inginocchiarsi, non deve essere negata la Santa Comunione… né devono essere accusati di disobbedienza…”.

    Stroik ha progettato il rinnovato presbiterio di Santa Maria, incorporando le balaustre neo-gotiche di marmo scolpito a mano con cancelli di ottone comprati da una chiesa in Pennsylvania che stava chiudendo. Esse si armonizzano perfettamente con l’originale marmo bianco dell’altare fisso e il nuovo marmo dell’altare mobile, portando un’ulteriore dimensione al simbolismo liturgico.

    Dice Stroik: “Quando ci raccogliamo alla balaustra, simbolicamente ci raccogliamo all’altare”. E quando altare e balaustre sono dello stesso materiale – in questo caso marmo – il collegamento è ancora più evidente.

    McNamara, l’esperto di architettura liturgica, è d’accordo. Ha trovato in qualche vecchio libro di architettura di chiese, che la balaustra era considerata ‘l’altare del popolo’, e per questo veniva costruita con marmo identico a quello dell’altare.

    Collegamento simbolico confermato dal fatto che diverse chiese coprono la balaustra durante la Comunione con tovaglie simili a quelle dell’altare.


    CONDOTTI ALLA PREGHIERA

    Ci sono comunque altre ragioni per reintrodurre le balaustre. Stroik sottolinea che dove esse sono state rimosse, o da una cattedrale o da una basilica o da una chiesa storica, che hanno abitualmente numerosi visitatori, molti di questi non sanno quanto sacro sia l’altare e girano con indifferenza nel presbiterio. La chiesa deve installare corde e cartelli, come in un museo, per far sì che le balaustre siano quello che devono essere: “creare una vera e propria soglia in modo che la gente possa capire che si tratta di un luogo speciale, un luogo santo ben distinto”.

    Continua Stroik: “la balaustra è un invito ad accostarsi al presbiterio, mettersi in ginocchio e pregare dinanzi al tabernacolo, a una statua della Madonna o a immagini di santi”.

    Padre Markey dice che il ritorno delle balaustre è stato un grande successo.

    Vecchi parrocchiani che frequentavano la chiesa di Santa Maria da 50 anni o più, rimpiangevano la splendida balaustra d’altare che era stata tolta negli anni 1960. Ora gli dicono: “Grazie a Dio ce l’hai riportata, Padre”.

    Si è accorto inoltre che il culto e la preghiera si sono consolidate non solo negli adulti ma anche nei bambini: “ai bambini piace inginocchiarsi e pregare lì, quando papà e mamma ricevono la Santa Comunione”, dice Padre Markey. “C’è quasi un abbraccio universale. E’ una delle decisioni più popolari che abbia mai preso come pastore”.


    National Catholic Register, 02/07/2011

     

     

    (fonte: http://www.ncregister.com/daily-news/altar-rails-returning-to-use - trad. G. Rizzieri)

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 18/09/2011 11:21

    Una soluzione alla crisi economica : le chiese ( ancor più ) spoglie ...l'altare con la Croce al centro allontana di fedeli ...




    Riceviamo e pubblichiamo la triste riflessione di un affezionato lettore di MIL che ha voluto gentilmente inviarci questo scritto dopo aver avuto un colloquio con un religioso.
    Ovviamente avevano parlato di liturgia e in particolare del decoro dell'altare.
    L'importante religioso, nel tentativo di giustificare il proprio atteggiamento poco "papalino" ha candidamente affermato : " debbo essere obbediente ai vescovi che non vogliono tutte queste innovazioni ( del Papa N.D.R.)" .


    "Si parla tanto di crisi economica, di famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese già dall'avvento dell'euro, dove inopinatamente da parte dei nostri economisti si fissò una parità Euro-Lira che era giusto il doppio delle mille lire per la felicità di chi ne ha approfittato.
    Stiamo ora vivendo una crisi economico finanziaria che si dice più grave di quella del '29. Sicuramente è più grave perchè oggi si è aggiunta una crisi spirituale che investe tutta la società e che è segno della decadenza dell'Occidente.

    Fare a meno di Dio come si è fatto con l'avvento della Modernità non è stata liberazione e autonomia, ma pazzia e autodistruzione. Nel 20° secolo ne abbiamo avuto una conferma: destino tragico del nazismo, implosione del marxismo, fallimento dei valori laici, il vuoto spirituale del mondo occidentale, suicidio del mondo per inquinamento, crollo della famiglia, epidemia della droga, aumento esponenziale della criminalità, crisi economica.
    Infatti il Papa in una delle sue ultime omelie, in seguito alla crisi dell'economia, ci ha esortato a riflettere su quanto la storia dimostra drammaticamente, come l'obiettivo di dare a tutti lo sviluppo, benessere materiale e pace prescindendo da Dio e dalla sua rivelazione si sia risolto di dare agli uomini "pietre" al posto del pane.
    Bene, nonostante il disastro dell'umanità che abbiamo oramai davanti agli occhi, quella parte modernista della chiesa continua imperterrita a ragionare per ideologie. Questa gente all'interno della chiesa ha creduto dopo il Concilio Vaticano II di fare una rivoluzione tipo 1789 per modernizzare l'istituzione, abbracciare il mondo e cancellare il grande patrimonio religioso, culturale, artistico della Chiesa.

    Si sono innamorati del comunismo ateo quando questo era già decotto, sottacendo la guerra che fece a tutte le chiese con milioni di vittime ignorandone volutamente i tanti terribili disastri.
    Una delle eredità che ha lasciato presso il clero è il pauperismo. Mi è toccato discutere con un monaco che criticava l'altare benedettiano, perchè troppo ricco. Il mettere sei candelabri e la croce in mezzo all'altare per questa gente è uno spreco che farebbe allontanare i fedeli che si trovano nel mezzo della crisi economica.
    Non parliamo poi dei paramenti sacri (le pianete, i piviali ecc.) che sono stati distrutti a migliaia e che quelli fortunatamente rimasti in qualche credenza polverosa sono massimamente invisi a questi "presidenti" di una messa nella quale celebrano solo se stessi.
    Hanno fatto più danni loro con la distruzione di altari, balaustre, cori lignei secolari che Napoleone e i risorgimentali messi insieme ed ancora imperterriti continuano a farli: basta vedere la costruzione di nuove chiese.
    Hanno letteralmente cacciato maestri che dirigevano musiche sacre famose per dare in mano i vari cori a gente inesperta ed impreparata, il cui risultato è stato molto spesso musiche e contenuti profani. Per rifarci le orecchie e constatare l'insipienza della nostra musica sacra è bastato quando il Papa è andato in Inghilterra cattolici e anglicani ci hanno dato una sonora lezione che ci dovrebbe spronare a cacciare tutti i "somari" che si sono imboscati all'interno della chiesa e che hanno fatto cadere il livello di qualità musicale a livello infimo. Ma nulla di tutto ciò è successo.
    Questi modernisti tonsurati forse non si sono accorti che da qualche anno a questa parte non c’e’ giorno in cui i principali giornali non vivisezionino le parole che dice la Chiesa Cattolica ?

    Non ascoltano che quasi tutte le trasmissioni televisive attaccano in un modo o nell’altro la religione cristiana e la chiesa cattolica ? sembra quasi che il nemico numero uno dell'occidente sia diventato il Vaticano e che l’esercito piu’ temibile (come disse qualcuno) sia quello delle guardie svizzere.
    Qui si possono elencare tutti quelli che considerano la Chiesa l'unico nemico da abbattere: atei e agnostici, buddhisti e ambientalisti, abortisti e terroristi del clima, sostenitori dell’eutanasia e amici dello spinello libero, malthusiani ed edonisti.ecc. ecc.
    Non si accorgono i modernisti che l’anticristianesimo è diventata la nuova fede dell’Occidente ? Può darsi pure che tra non tanto tempo questa nuova fede avrà anche il suo messia: l'anticristo...

    Le cose sono ormai talmente chiare che solo chi non vuol vederle non le vede. Mai come oggi i fronti sono stati così ben delineati e netti: Sodoma & Gomorra da un lato, la Chiesa dall’altro.
    Per cui alla fine mi sento di dare un consiglio ai modernisti della Chiesa: leggete la Emmerich, leggete Cornacchiola, leggete don Ottavio Michelini e tanti altri che qui non elenco: voi siete quella "strana chiesa" di cui parlano quelli di cui sopra.

    State bene attenti che forse il tempo è maturo... finchè siete in tempo rientrate nell'ovile e siate ubbidienti al Papa, nostra stella polare. F.V.".


    *******



    Miserere
    Sì, c'è posto per tutti? Io direi piuttosto: "C'è posto solo per loro!" Se si dice:"Il mettere sei candelabri e la croce in mezzo all'altare per questa gente è uno spreco che farebbe allontanare i fedeli che si trovano nel mezzo della crisi economica", sono loro che fanno allontanare la gente (parlo del mio caso)  da chiese come quelle dove la bellezza viene calpestata e sostituita con delle schifezze come quelle della foto dove si pretende di... "attirare i fedeli"?.. Attirarli a cosa? Che volete: io non mi posso più riconoscere in questi culti, chiamiamoli così!  Yell Yell Yell Yell Yell Yell Yell  
     
    Adesso mi faccio la mia ventina di chilometri domenicali per recarmi alla Santa Messa a Venezia, tra salti mortali, sciopero dei treni, viaggio in autobus come bestiame e poi al lavoro. L'importante è non mollare anche se vien voglia di ripensarci tenendo conto che la chiesa più vicina a casa mia si trova a 250 metri!





    *******

    LDCaterina63
    a quanto detto da Miserere vi condivido la foto del Papa durante la Messa ad Ancona.... guardategli lo sguardo mentre incensa l'Altare, occhi PUNTATI SUL CROCEFISSO.... e non è la prima volta che il fotografo sa cogliere questo sguardo del Papa mentre celebra la Divina Eucaristia....  
    nelle nuove e moderne Chiese, DOVE PUNTIAMO il nostro sguardo? cari Vescovi, pensateci!! assai duro sarà il vostro Purgatorio se continuerete a privarci DELL'AUTENTICA BELLEZZA CHE E' CRISTO CROCEFISSO!


    Benedetto XVI Crocefisso




    Gentile F.V. che ringrazio per l'articolo malinconico per molti aspetti, ma di una concretezza spaventosa...  
    le rispondo con una condivisione personale anche per i nostri lettori del Blog.  
    Mia nonna negli anni '30 venne da Acerenza -Basilicata - a Roma con marito e i loro due figli - i miei zii - perchè non c'era da mangiare e la città offriva molti orizzonti.... nacque così anche mia madre, a Roma e poi mio nonno partì in Brasile.... mia nonna rimase sola con tre figli da crescere e ciò che la consolava di più era "ANDARE ALLA MESSA ALLE 7,00 DEL MATTINO"...  
    era sempre, raccontava mia nonna, una Messa "cantata" "ed io staccavo così il contatto con la realtà, deponevo ai piedi di quell'altare così RICCAMENTE VESTITO, tutti i nostri problemi! Oh, come mi piacevano quei suoni, quei canti celestiali, quell'altare DECORATO E SUGGESTIVO, CIRCONDATO DI SANTI E DI ANGELI, avrei rinunciato alla colazione pur di nutrirmi in quella Mensa, l'unica capace di risollevare ogni scoraggiamento..."  
    Mia nonna raccontava sempre che non mancando mai ad una Messa mattutina, l'aiutava a risolvere il problema del pranzo perchè, provvidenzialmente, riusciva a trovare la soluzione quando i soldi scarseggiavano...  
    Infine raccontava come lo stare in Chiesa l'aiutasse a valorizzare il vero concetto della BELLEZZA e di come il suore e i suoi occhi ricevessero fiumi di grazia nello stare semplicementi lì a contemplare l'arredo della Chiesa dove tutto le parlava DEL PARADISO...  
     
    Mia nonna non c'è più, neppure mia madre, e neppure i miei zii, anzi li raccomando alle vostre Preghiere!  
    (nonna Isabella, Vanda mia madre, e gli zii Antonio e Rosaelisabetta )  
     
    Ciò che intendevo condividervi è questa consapevolezza di certi NONNI che oggi non hanno più, che non possono più avere perchè, semmai andassero alla Messa ogni giorno, in quale chiese tristi, malinconiche e spoglie si ritrovano a dover pregare?  
    Non voglio giudicare i cuori dei singoli, ma guardiamoci attorno! Quali e quante nonne OGGI possono dare una testimonianza del genere, possono insegnarci come i nonni "del passato"?  
    Mia nonna faticava per mettere su un pranzo e spesso alla cena non si arrivava con un menù condito.... ma QUELLA MESSA DEL MATTINO in una Chiesa arricchita nei suoi addobbi, non le faceva desiderare di vedere la Chiesa SPOGLIA COME LE SUE TASCHE al contrario, ci andava perchè questo le tirava su il morale, una chiesa arricchita PER IL SIGNORE, ARRICCHIVA ANCHE LEI...  
     
    una Chiesa che NON ti trasmette NULLA, che non può trasmetterti nulla perchè SVUOTATA O AMMODERNIZZATA... il nulla ti lascerà.... Embarassed


    [SM=g1740738]



    Fraternamente CaterinaLD

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    00 19/09/2011 14:32

    L'abside, la speranza nella parusia

    Feltre, l'abside della Cattedrale

    di Luigi Codemo (per La Bussola Quotidina)

    L’abside di una chiesa è la parete che non chiude. È il monte abbassato. Il burrone riempito. Il sentiero raddrizzato. È lo spazio aperto da Cristo, dall’avvento di «colui che è, che era e che viene» (Ap 1,8). Quelle pietre che a semicerchio fuoriescono dalle mura squadrate ricordano che ogni celebrazione della liturgia è cammino verso il ritorno di Cristo. Attestano la speranza nella parusia.
    Cristo, infatti, è il veniente per eccellenza, o erchòmenos, colui che è in atto di venire (Mc 11,9). Anche ora, in questo momento. Ci sarà il momento in cui tutto sarà palese, quando il cosmo intero sarà giunto al traguardo e si aprirà il tempo della nuova terra e del nuovo cielo, il tempo della nuova Gerusalemme, della città che non ha più bisogno né del sole né della luna, perché la gloria di Dio stesso la illumina (Ap 21,23). Ma tutto questo non è ancora. Anche se è già visibile agli occhi della fede. Perché in Cristo «tutto è compiuto» (Gv 19,30). E nei sacramenti l’eschaton, ciò che sarà, è già presente e in atto. «Se uno è in Cristo – scrive San Paolo – è una creazione nuova: il mondo vecchio è passato, ecco tutto si è fatto nuovo» (2Cor 5,17).

    Viviamo nel tempo del "già e non ancora". Per spiegarlo, Gregorio Magno utilizza l’immagine dell’aurora: il sole ha cominciato a sorgere, ma le tenebre cercano di stringersi ancora alle cose del mondo, spalancano le fauci e sbattono la coda, perché sanno che resta loro poco tempo (Ap 12,12). Per questo l’abside è costruito volto ad oriente, per accogliere i primi raggi del sole che sorge e vince le tenebre. L’abside è il segno esteriore della fede che, vivendo del mistero pasquale, ovvero di Cristo risorto, si rivolge piena di speranza all’incontro definitivo, non più velato, con Cristo.

    La fine non è, quindi, attesa di uno spegnimento, di un fiaccarsi dei tempi, di uno sprofondare nell’inerzia della notte. Cristo ha distrutto le potenze della morte in vista dell’incorruttibilità. Per dirla con Clemente Alessandrino «Cristo ha mutato il tramonto in Oriente».
    Quando si vede la croce del presbiterio inscritta nell’abside o rappresentata, come per esempio nel mosaico di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, torna alla mante che Cristo nel giorno della Parusia porterà sul corpo i segni della croce. È questo un mistero che lascia ammirati. Il corpo umano, con tutte le sue ferite, è dentro il mistero della Trinità! Certo, un corpo trasfigurato, ma che comunque non ha abolito le ferite.

    Anche i dipinti che ritraggono Cristo “Giudice dei vivi e dei morti” ne mostrano le stimmate. Egli, nella sua onnipotenza, non scuote via da sé, come se fosse pulviscolo, la propria umanità. Non lo ha fatto sul Golgota e non lo ha fatto ascendendo al cielo. Egli è uomo e Dio. Per questo è giudice: perché è la misura assoluta del rapporto tra l’umano e il divino. Egli lo ha testimoniato nella sua verità. Alla verità a cui ciascun uomo è chiamato. La distanza dal suo esempio sarà oggetto del giudizio dell’ultimo giorno.

    E su questo tema del giudizio è ancora l’abside che ci può aiutare, ricordandoci la misericordia di Dio. L’abside infatti, con la sua forma che esorbita, segna come un sovrappiù. Indica il tempo della pazienza di Dio. «Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Il Signore è misericordioso e quindi attende: lascia tempo affinché gli uomini si convertano e coloro che si convertono si perfezionino.
    testo da La Bussola Quotidiana



    La cera per l'altare: la Sacra Scrittura


    Entriamo in una delle ancor numerose chiese cattoliche che ricoprono, come un candido manto (per riprendere una celebre espressione di Rodolfo il Glabro), la superficie dell'orbe cattolico. C'avviciniamo all'acquasantiera, intingiamo le dita e, inginocchiati verso il tabernacolo del Santissimo Sacramento, ci facciamo devotamente un segno di croce, chiedendo perdono delle nostre colpe. Se non conosciamo l'edificio, cominciamo allora a guardarci attorno, un po' curiosi. Tra le strutture che per prime attirano la nostra attenzione c'è il tabernacolo, c'è l'altare. Nei pressi di entrambi notiamo in genere qualcosa di particolare: le candele. Vicino alla custodia che contiene il Sacratissimo Corpo del Nostro Redentore, infatti, arde continuamente una lampada, per ricordare ai fedeli che là è realmente presente il Re dei Re. Sull'altare, poi, troviamo in genere un paio di candele, che al di fuori delle celebrazioni liturgiche sono spente. Non di rado può accadere di scorgere, sul vecchio altar maggiore, alti e preziosi candelabri raramente utilizzati, mentre quelli presenti sull'altare sono piccolini e, diciamolo pure, anche un pochino miseri.

    La mentalità moderna, chiusa nel suo immanentismo e talvolta incapace di guardare al di là di un misero pragmatismo, potrebbe obiettare che le chiese sono piene di luci: a che servono dunque le candele? Rimasugli di Medioevo? Attaccamento romantico sentimentalistico ad usi passati? Può anche essere – ma speriamo non sia così – che simili pensieri si accavallino pure nelle menti dei fedeli e persino dei sacerdoti stessi. Certo, le norme liturgiche sono chiare: le candele sono necessarie, non facoltative. Prima di toccare quest'aspetto, propriamente giuridico, può essere però utile indagare un po' la storia e le funzioni delle candele nella Sacra Liturgia.

    Nella Sacra Scrittura troviamo numerosi riferimenti ai candelabri: quello dorato con sette lampade che Dio ordina a Mosè di fabbricare (Es 25, 31-40) e di collocare nella Tenda (Es 26, 35; 40, 4; 40, 24); esso veniva alimentato con puro olio d'oliva e doveva perennemente ardere durante la notte (Es 27, 20; Lv 24, 2-4); doveva poi essere unto con l'olio per l'unzione sacra (Es 30, 27) per consacrarlo. Fu modellato da Bezaleel, (Es 31, 2. 8) assieme ad Ooliab (Es 31, 6. 8) ed altri artisti (Es 35, 10. 14), cui il Signore aveva infuso saggezza (Es 31, 6) affinché eseguissero bene i lavori loro richiesti. Il modello stesso era stato mostrato dal Signore a Mosé (Nm 8, 4); né Mosè mostrò alcuna tirchieria, nonostante il popolo errante nel deserto non dovesse certo traboccare di ricchezze: impiegò infatti per realizzarlo un talento d'oro puro (Es 37, 24), cioè circa 30-35 chili. Durante gli spostamenti, in segno d'onore e di rispetto, esso veniva coperto con un drappo di porpora viola e avvolto in pelli di tasso (Nm 4, 10-11) prima di trasportarlo in portantina.

    Nel tempio di Gerusalemme, invece, Salomone fece realizzare dieci candelabri d'oro da porsi nell'aula di fronte al Sancta Sanctorum: cinque sul lato settentrionale e cinque sul lato meridionale (1 Re 7, 49; 2 Cr 4, 7)). L'oro necessario era già stato messo da parte da Davide (1 Cr 28, 15).

    Si potrà obiettare che la predicazione di Cristo abbia cancellato tutto questo. Ora, è senz'altro vero che la Chiesa “crede fermamente, conferma e insegna che le prescrizioni legali dell'antico Testamento, cioè della legge mosaica, che si dividono in cerimonie, santi sacrifici e sacramenti proprio perché istituite per significare qualche cosa di futuro, benché fossero adeguate al culto divino in quella età, venuto, però, Nostro Signore Gesù Cristo, da esse significato, sono cessate e sono cominciata i sacramenti della nuova alleanza.” (Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze, Sessione XI del febbraio 1442, trad. da qui: http://www.totustuustools.net/concili/basilea.htm) Tuttavia, il significato profondo di quelle cerimonie non viene meno: esse volevano rendere visibile l'amore e l'attenzione che il popolo d'Israele riponeva verso il culto divino. Il fatto che Nostro Signore abbia richiamato, con la Sua predicazione, la necessità e la priorità del culto interno, che proviene dall'anima, non significa che Egli abbia tolto qualsiasi validità agli atti esterni di culto. Scorrendo i Vangeli, niente lascia presagire questo.






    [Modificato da Caterina63 23/09/2011 23:31]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    Caterina63
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    00 04/10/2011 22:44
    [SM=g1740722]ringraziando Sacris Solemniis

    La cera per l'altare: dall'utilità, al simbolo


    Sembra che i primi esempi di uso liturgico delle candele possano essere ricondotti al V secolo dell'era cristiana. Da quel momento in poi l'utilizzo delle medesime è ininterrotto.
    Possiamo probabilmente individuare in questa pratica anche un aspetto pratico, cioè quello di illuminare la zona dell'altare, che non sempre è ben illuminato dalla luce solare (nel romanico, per esempio, l'architettura stessa porta a ridurre alquanto gli spazi finestrati, da cui la penombra che avvolgeva – prima dell'utilizzo della luce elettrica – le chiese edificate in detto stile). Questa prospettiva è oggi venuta meno; tuttavia, rimane decisiva l'importanza simbolica dell'uso delle candele. Queste, in genere, sono – o dovrebbero – essere fatte di cera (questa prescrizione è particolarmente sottolineata nella forma extra-ordinaria del rito romano, nota 1). Essa è prodotta dalle api, che sin dall'età protocristiana, sono ritenute simbolo della verginità, dato che si riteneva esse si riproducessero senza bisogno di fecondazione (nota 2). Un vago rimando è rimasto in uno dei testi più antichi della liturgia, l'Exultet della Veglia Pasquale (nota 3).

    Ma approfondiamo questi aspetti simbolici affidandoci all'autorevole voce di dom Prosper Guéranger: “Secondo sant'Ivo di Chartres la cera delle candele, formata a partire dal nettare dei fiori dalle api, che l'antichità ha sempre considerato come un simbolo della verginità, significa la verginal carne del divin Bambino, il quale non ha alterato, né col concepimento né con la nascita, l'integrità di Maria. Nella fiamma del cero, il santo Vescovo ci insegna a vedere il simbolo di Cristo che è venuto a illuminare le nostre tenebre. Sant'Anselmo, nelle sue Narrazioni su san Luca ci ha detto che ci sono tre cose da tenere in considerazione nel cero: la cera, lo stoppino e la fiamma. La cera, afferma, opera dell'ape vergine, è la carne di Cristo; lo stoppino, che è posto all'interno, è la [Sua] anima, la fiamma, che brilla nella parte superiore, è la [Sua] divinità.” (nota 4)


    (nota 1) Per esempio, nel De Defectibus del Missale Romanum, al cap. X tra i difetti possibili in cui può incorrere il ministro stesso, è indicato “non adsint luminaria cerea”, (non ci siano candele in cera). Il decreto 4147 del 14 dicembre 1904 della Sacra Rituum Congregatio chiarì che per “cera” si doveva intendere cera naturale di api, anche se non è richiesto che tutta la candela sia totalmente (100%) di questo materiale. Cfr. Ludovico Trimeloni, Compendio di liturgia pratica, Milano, Marietti 1820, ristampa 2007, p. 296.
    (nota 2) Quest'idea è diffusa già in età romana e richiamata spesso in epoca patristica. Sant'Ambrogio afferma a proposito delle api che “Communis omnibus generatio, integritas quoque corporis virginalis omnibus communis et patrus; quoniam neque inter se sullo concubitu miscentur, nec libidine resolvuntur, nec partus quatiuntur doloribus, et subito maximum filiorum examen emittunt” (Exameron, cap. XXI, 67 in PL 14, 248). In merito, cfr. Brian Stock, The Implications of Literacy: Written Language and Models of Interpretation in the Eleventh and Twelfth Centuries, Princeton, Princeton University Press, 1987, pp. 102-103.
    (nota 3) In esso si parla di “[...] ceris, quas in substantiam pretiosæ huius lampadis apis mater eduxit” (cera che l'ape feconda ha prodotto come sostanza per questo cero prezioso).
    (nota 4) “Selon saint Ives de Chartres [...] la cire des cierges, formée du suc des fleurs par les abeilles, que l'antiquité a toujours considérées comme un type de la virginité, signifie la chair virginale du divin Enfant, lequel n'a point altéré, dans sa conception ni dans sa naissance, l'intégrité de Marie. Dans la flamme du cierge, le saint Evêque nous apprend à voir le symbole du Christ qui est venu illuminer nos ténèbres. Saint Anselme, dans ses Enarrations sur saint Luc [...] nous dit qu'il y a trois choses à considérer dans le Cierge : la cire, la mèche et la flamme. La cire, dit-il, ouvrage de l'abeille virginale, est la chair du Christ ; la mèche, qui est intérieure, est l'âme ; la flamme, qui brille en la partie supérieure, est la divinité.” (Dom Prosper Guéranger, L'Année liturgique, La purification de la Très Sainte Vierge)


    *********

    La cera per l'altare: candele e liturgia


    L'Institutio Generalis Missalis Romani afferma: “Super ipsum [altare, ndr] vero aut iuxta ipsum duo saltem in omni celebratione, vel etiam quattuor aut sex, praesertim si agitur de Missa dominicali vel festiva de praecepto, vel, si Episcopus dioecesanus celebrat, septem candelabra cum cereis accensis ponantur.” (IGMR, 117)(nota 5).
    La prima cosa che notiamo è che l'utilizzo delle candele non è affatto facoltativo, bensì obbligatorio. La seconda, che questi candelabri vanno postio sopra (super) o nei pressi (iuxta) dell'altare. Crediamo di poter deplorare, qui, l'abitudine diffusasi in alcuni luoghi, di interpretare in senso che riteniamo troppo estensivo il termine iuxta. Quest'avverbio indica vicinanza e, del resto, è del tutto evidente l'intimo legame che le rubriche presuppongono intercorrere tra altare e candele: porle ad eccessiva distanza, quindi, rende molto difficoltosa – quando non impossibile – la comprensione di questa relazione. La terza cosa che si nota la specificazione del numero dei candelabri. Devono essere, sempre, almeno due; in occasioni particolari (Santa Messa domenicale o di precetto: in senso estensivo, si può pensare ad ogni celebrazione che presenti qualche elemento di solennità) quattro oppure sei; quando celebra il Vescovo diocesano, sette. Questa disciplina si scosta ben poco, in fondo, dalle rubriche della forma straordinaria (nota 6). Anche una successiva rubrica (IGMR, 307) parla dei candelabri: in essa, tra le altre cose, si stabilisce con chiarezza che altare e candelabri siano disposti “ut totum concinne componatur” (in modo da formare un tutto armonico) – confermando quindi quando sostenuto da noi poco sopra – e che “neque fideles impediantur ab iis [candelabris, ndr] facile conspiciendis, quae super altare aguntur vel deponuntur.” (e [i candelabri] non impediscano ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare). Quest'ultima affermazione è stata forse da alcuni strumentalizzata, al fine di escludere antichi candelabri, piuttosto grandi e di notevole valore artistico, col pretesto che avrebbero impedito ai fedeli di vedere quanto si compie sull'altare. Ora, l'esempio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice dimostra che è possibile coniugare l'uso di venerabili candelabra con questa prescrizione, semplicemente avendo cura di disporli in maniera tale che essi non ostruiscano la vista dell'assemblea. Se l'altare fosse piccolo, è pur sempre possibile porli immediatamente nei pressi dell'altare (per esempio sul pavimento del presbiterio davanti all'ara/mensa medesima). Accade infatti, talvolta, di vedere candele dozzinali o di forme particolari o comunque ben poco armonizzate coll'arredo liturgico della chiesa nel suo insieme. Per esempio, candele poste in vasi di terracotta scarsamente ornati paiono scarsamente accordarsi con le linee rinascimental-barocche di gran parte dei nostri edifici sacri. Senza contare che, come dicevamo prima, il pauperismo liturgico non è affatto sinonimo – purtroppo taluni paiono averlo considerato tale, invece – di “nobile semplicità” e mal si accorda con l'espressione dell'intima solennità della Sacra Liturgia. Del resto, nella rubrica in esame, motivando l'utilizzo dei candelabri nella celebrazione, si adduce “venerationis et festivae celebrationis causa” (in segno di venerazione e di celebrazione festiva). É evidente che la venerazione verso il Santissimo Sacrificio della Messa viene espressa con molta maggior chiarezza da candele degne e preziose, che certo non sostituiscono la devozione e l'intima partecipazione interiore, ma dovrebbero in qualche modo rappresentare lo zelo per la Casa del Signore (cfr. Sal 68, 10).
    Riguardo alla materia delle candele, nelle rubriche non se ne parla. Nel 1974 (cfr. Notitiæ 10 [1974]), la Congregazione per il Culto Divino affermò che l'argomento era di competenza delle Conferenze Episcopali; era comunque da scegliersi un materiale nobile e degno, che permettesse di ottenere una fiamma viva, che non producesse fumo o odori e che non macchiasse. Per significare pienamente il simbolismo della luce e la verità delle cose, poi, si sosteneva che dovessero essere evitate le lampade di luce elettrica (nota 7). Queste caratteristiche, considerando anche la tradizione delle popolazioni europee, sembrano facilmente riscontrabili proprio nella cera d'ape.



    (nota 5) “sull’altare, o accanto ad esso, si pongano almeno due candelabri con i ceri accesi, o anche quattro o sei, specialmente se si tratta della Messa domenicale o festiva di precetto; se celebra il Vescovo della diocesi, si usino sette candelabri.” (trad. italiana ufficiale CEI)
    (nota 6) In essa si utilizzano due candele per la Messa letta, quattro o sei per quella cantata, sei per quella solenne e sette per quella pontificale.
    (nota 7) “[...] valet pro cereis durante Missa accendendis facultas qua gaudent Conferentiæ Episcopales seligendi materias aptas pro sacra supellectile, dummodo sint nobiles ac dignæ iuxta mentem cuiusvis populi et usui sacro apte respondeant. In cereis usui liturgico destinatis conficiendis materias adhigeantur quibus obtineri possit flamma viva, non fumosa nec fætida neque tobaleæ aut stratus maculentur. Insuper ut rei veritas et plenior significatio lucis habeatur, vitandæ sunt lampades vi electrica accensæ.”



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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 08/11/2011 21:37

    L'arte di celebrare: cosa significa?

    di don Enrico Finotti

    I segni del “sacro” ricevono completezza e unità sinfonica nella celebrazione, dove, in mutua connessione, tutti concorrono, con diverse modalità e intensità, ad esprimere e comunicare la realtà del mistero invisibile.

    Affinché, tuttavia, questi segni realizzino pienamente il ruolo di “mediazione” del sacro che significano, è necessario siano posti in modo corretto, consono alla natura di ciascuno, e celebrati con autenticità. E’ questo l’intento “dell’arte del celebrare”, che potremo definire come: la capacità di porre i gesti e pronunziare le parole della liturgia in modo corretto, aderendo devotamente con la mente e il cuore ai contenuti delle preci e ai significati dei riti, in un fedele e umile servizio ministeriale. L’educazione all’arte del celebrare è rivolta a tutti nell’assemblea liturgica - sacerdote, diacono, ministri, assemblea nella sua totalità - anche se con gradi e modalità diversi, relativi ai vari ministeri.

    L’arte del celebrare prevede, quindi, la compresenza di tre condizioni:

    - porre i gesti e le parole, stabilite dalla Chiesa, in modo corretto: occorre conoscere la struttura e la tipologia dei riti, il genere delle preci e delle formule rituali, il significato dei simboli, la tecnica del porgere e del pronunziare, la nobiltà dei movimenti, la qualità dei materiali e delle forme, il senso dei silenzi e le espressioni del contemplare, gli sguardi, l’incedere, il benedire, il genuflettere, l’elevare, ecc. Il riferimento oggettivo ai riti come oggi la Chiesa li ha fissati deve distogliere la prassi da creazioni soggettive, anche riuscite, ma che non interpretano il “sentire” della Chiesa e non rispettano la natura della liturgia come preghiera ufficiale, pubblica e comune della Chiesa stessa. Si deve perciò evitare di imporre gusti personali di alcuni all’assemblea del popolo di Dio.

    - aderire ai riti con la mente e il cuore: la corrispondenza interiore al rito esteriore libera dal pericolo di una fredda esecuzione, conferendo ai riti stessi il calore di un’anima orante penetrata dal balsamo della fede viva e della preghiera, animata dallo Spirito del Signore. Tale interiore cor-rispondenza, necessaria nei ministri e nei fedeli, è l’elemento indispensabile che, soprattutto, qualifica la celebrazione come “viva” e partecipata. La “mistagogia”, - come pedagogia che partendo dai riti porta al mistero da essi significato e comunicato - e la spiritualità liturgica, - come educazione spirituale alimentata dalle azioni liturgiche che prepara e sviluppa nel fedele la celebrazione “in spirito e verità” e la sua attuazione nelle opere - sono le vie classiche e indispensabili per portare il popolo di Dio sulle strade della salvezza, così come storicamente si è realizzata e sacramentalmente viene oggi attualizzata dalla liturgia della Chiesa.

    - in umile e fedele servizio: vi è una differenza fondamentale fra il modo dell’attore nella drammatizzazione teatrale e il ministero del celebrante nel culto, soprattutto liturgico. L’attore imita gestualmente, nel vestito, nel linguaggio e in ogni altra espressione il personaggio rappresentato; egli è il protagonista che attira l’attenzione totale dei presenti, tutto dipende dalla sua capacità oratoria e professionalità artistica. Il celebrante, invece, opera una sorta di adorante distacco da Colui che rappresenta, pur rendendo presente il mistero in una maniera unica infinitamente superiore ad ogni espressione teatrale di natura psicologica; egli rimane in umile venerazione delle parole e dei gesti di Colui che è veramente il “presente”, e in tal modo e a questo prezzo rimanda al celebrante sopran-naturale e ne rende percepibile la misteriosa presenza che pervade l’assemblea liturgica.

    Il celebrante, intimamente unito a Cristo e sacramento vivo del Signore, è tuttavia il primo adoratore del mistero, che per suo mezzo si compie. Egli nel medesimo tempo, agisce “in persona Christi” e offre ai fedeli l’esempio di umile sottomissione colma di venerazione.

    Niente è più alieno al celebrare del recitare teatralmente. Il sacerdote, infatti, non è un protagonista, né la sua capacità celebrativa è, fondamentalmente, legata alle sue qualità oratorie ed espressive. La santità, in realtà, diviene la qualifica più consona del celebrante e quella che garantisce in modo più pieno l’arte stessa del celebrare e il suo impatto sui fedeli. Ciò viene dimostrato dalla vita di sacerdoti santi, penetrati dal mistero che realizzano sacramentalmente sull’altare.

    “Pertanto il sacerdote, quando celebra l’Eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine deve far sentire ai fedeli la presenza viva di Cristo” (PNMR, n. 60).

     

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    [SM=g1740733]  QUANTE MENSE?

    di Don Riccardo Pane, cerimoniere arcivescovile di Bologna


    L’elemento architettonico destinato alla proclamazione della Parola di Dio ha conosciuto nel corso della storia e delle aree rituali evoluzioni e differenziazioni altalenanti: dagli amboni monumentali di alcune basiliche medievali (si pensi ad esempio all’ambone di Nicola Pisano nel duomo di Siena) ai leggii volanti; dai “corni” dell’altare deputati alla lettura distinta dell’epistola e del vangelo, fino all’ipertrofia degli amboni nelle chiese riformate; senza contare la storia parallela, ma non sempre ben distinguibile del pulpito. Questo per rimanere in ambito occidentale; in oriente le diversificazioni sono ancora più accentuate (si pensi, ad esempio, al bema delle liturgie siro-orientali, che occupa un posto centrale e rilevante all’interno del tempio).
    In molte chiese latine contemporanee si assiste a un’ulteriore evoluzione: gli amboni tendono a ingrandirsi e gli altari a rimpicciolirsi.

    Da cosa nasce questa rinnovata fortuna dell’elemento architettonico “ambone”?

    Nasce da un principio molto diffuso nel postconcilio, che è quello delle due mense: la mensa della Parola e quella dell’Eucaristia. In realtà, a livello dei documenti conciliari e della prima applicazione della riforma liturgica, l’espressione “due mense” non è molto ricorrente. Il passo più esplicito è PO 18, dove si legge: «i fedeli si nutrono della Parola di Dio alla duplice mensa della sacra Scrittura e dell’Eucaristia». Il contesto non riguarda direttamente la struttura della liturgia, quanto piuttosto la vita spirituale dei fedeli (e a maggior ragione dei presbiteri) che deve essere nutrita dalla Parola e dall’Eucaristia (cf. PC 6). In DV 21, invece, si afferma che la Chiesa non ha mai tralasciato «di nutrirsi del Pane di vita, prendendolo dalla mensa sia della Parola di Dio, sia del Corpo di Cristo», dove il singolare “mensa” sembra intendere l’unità della mensa stessa.

    Il pericolo dell’espressione “due mense” è infatti quello di perdere di vista la profonda unitarietà del mistero della Parola che si fa carne, della profezia che si compie nel sacramento.

    Non a caso la costituzione sulla liturgia si esprime in questi termini: «Le due parti che costituiscono in certo modo la messa, cioè la liturgia della Parola e la liturgia eucaristica, sono congiunte tra loro così strettamente da formare un solo atto di culto» (SC 56). L’articolazione in due parti è attenuata (“in certo modo”, lat. quodammodo) e l’unità della messa è affermata con forza.
    Le norme liturgiche (cf. Ordinamento generale del messale romano n. 309) raccomandano che vi sia un luogo fisso e specifico per la proclamazione della Parola di Dio. Questo è essenziale per aiutare il fedele a distinguere la differenza radicale che sussiste tra la Parola di Dio e la ridda di parole umane, alcune delle quali entrano anche nel contesto liturgico (ad esempio gli avvisi e le didascalie). Per questo la tradizione vuole che l’ambone sia un luogo elevato, come elevata ed elevante è la Parola da esso proclamata. Tuttavia sono necessarie alcune precisazioni:

    1) La costruzione dell’elemento architettonico atto alla proclamazione della Parola di Dio diventa pressoché inutile se si abusa di questo luogo, cioè se lo si utilizza per usi impropri, ancorché inerenti la liturgia (ad esempio didascalie, avvisi). L’ambone non è, in altri termini, il luogo del microfono, ma il luogo della Parola di Dio; viceversa, non ogni microfono della chiesa è adatto alla proclamazione della Parola di Dio.

    2) L’elemento architettonico è funzionale alla Parola stessa e in particolare alla Parola proclamata, alla quale va la nostra venerazione (cf. DV 21) e nella quale è Cristo stesso a parlare (cf. SC 7). Ciò significa che vanno tenuti in considerazione altri importanti fattori, quali l’idoneità del ministro (l’ideale sarebbe che fosse un lettore istituito), la dignità del suo abbigliamento (che deve essere adeguato all’importanza del servizio che compie), il decoro del supporto cartaceo del lezionario e dell’evangeliario. Se costruiamo un ambone in marmo, decorato di fregi artistici, e proclamiamo la Parola da una fotocopia, vi è qualcosa da ripensare... Mette conto, a tal proposito, rammentare che è il libro della Scrittura a essere
    incensato, non l’ambone; è il libro dei vangeli a essere spesso oggetto di venerazione e di culto, mentre non risultano devozioni indirizzate all’ambone.

    3) L’ambone, nonostante la sua indubbia importanza, non dovrebbe entrare in concorrenza con la centralità dell’altare.

    (e non si capisce perchè nelle chiese e comunità neocatecumenali questo viene lasciato fare  [SM=g1740730] )

    Quest’ultimo, infatti, non è presente nella chiesa in chiave meramente funzionale, ma ha un surplus simbolico imprescindibile: mentre può darsi una chiesa senza ambone, non è pensabile una chiesa senza altare, che è il luogo del sacrificio, il principale simbolo di Cristo-roccia e agnello immolato. L’altare viene incensato, al contrario dell’ambone. L’altare viene consacrato; l’ambone solo benedetto. Per questo mi pare che la riduzione delle dimensioni dell’altare tenda non di rado a costituire una sorta di dualismo e di parallelismo tra le cosiddette “due mense”.

    Il maggiore spazio e la migliore fruibilità della Parola di Dio è uno dei punti caratterizzanti della riforma liturgica. Purtroppo il sentire comune e diffuso dei fedeli è ancora molto lontano da questa prospettiva. Alcuni comportamenti sono un segnale significativo. Molti fedeli tendono ad arrivare sistematicamente in ritardo, verso la fine della proclamazione delle letture. Altri arrivano puntuali, ma usano del tempo delle letture come periodo di “ambientamento”, collegandosi, quando va bene, solo al momento della proclamazione del Vangelo. La parola “proclamazione”, poi, non sempre è adeguata alla realtà dei fatti: spesso si tratta piuttosto di una lettura piatta, stentata e trasandata della Sacra Pagina. Insomma: l’elemento architettonico dell’ambone è importante, ma ancor più importante è il servizio complessivo che compiamo nei confronti della Parola, e che passa attraverso molteplici attenzioni. In gioco è la
    comprensione, particolarmente cara allo spirito della riforma liturgica, che il mistero di Cristo è una realtà profondamente unitaria. La comprensione sintetica ci sarà data solo quando saremo nella dimensione dell’Eterno. Finché siamo pellegrini sulla terra, la nostra comprensione non può che essere analitica. Da questo discende la pedagogia dell’anno liturgico e la struttura stessa della messa, con le sue parti e le sue articolazioni che rendono presente in diverso modo l’unico mistero di Cristo (cf. SC 7).

     

    [SM=g1740733]


    Fraternamente CaterinaLD

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    00 09/01/2012 14:41

    Esclusiva di MiL: il nuovo fonte battesimale nella Cappella Sistina dedicato a Papa Benedetto XVI

    Cari amici, ammiriamo il nuovo fonte battesimale realizzato e donato al Papa per i Battesimi che è solito amministrare una volta l'anno nella Cappella Sistina.
    Facciamo precedere la descrizione “ufficiale” del pregevole manufatto da una bella nota introduttiva che è stata scritta per MiL da un qualificato Docente di Liturgia che ringrazio di cuore per questa collaborazione augurandomi che possa continuare anche per il futuro.
    Andrea Carradori

    PS Le parti in rosso sostituiscono, nella grafica del nostro sito, quelle in grassetto , della nota ufficiale.
    Le foto sono state postate più tardi perché quelle della nota ufficiale sono in versione Word.


    L'arte moderna può essere utile alla Chiesa?

    Questa è la domanda di partenza, venendo a conoscenza del fatto che, proprio oggi, il Santo Padre inaugurerà il nuovo Fonte battesimale realizzato per le cerimonie che avranno luogo in Vaticano, ed in particolare nella Cappella Sistina.
    Non sembra azzardato dire che tale opera - esito di un articolato cammino progettuale in cui la mano dell'artista, l'Architetto Alberto Cicerone, è stata docile alle indicazioni del teologo, il Rev.do don Salvatore Vitiello - sia fi fatto una risposta concreta, e positiva, a tale domanda.
    Si tratta certamente di un progetto innovativo, ma nel solco della vera tradizione, alla scuola della "Bellezza" della quale il primo docente è proprio il Santo Padre Benedetto XVI. Ed è anche un segno concreto nato all'interno di una scuola, questa sì accademicamente strutturata, che è il Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia, attivo presso l'Università Europea di Roma e l'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e del quale i due autori sono parte del Consiglio Direttivo.
    Si tratta, in sintesi, di un inchino alla bellezza della Cappella Sistina: il Fonte, infatti, nella sua parte superiore, è costituito da una sfera finita in oro 24K, con una superficie perfettamente riflettente che permetterà di far risplendere, proprio dinnanzi agli occhi del Papa, tutta la bellezza di quanto l'arte michelangiolesca, che non ha certamente paragoni in tutta la produzione artistica della storia dell'umanità, è riuscita a creare.
    Il Santo Padre, pertanto, mentre battezzerà nuovi cristiani, vedrà l'immagine della creazione e quella del giudizio universale proprio nel punto in cui raccoglierà l'acqua santificatrice, espressione della nuova creazione e della chiamata alla santità di quei nuovi fratelli nella fede.
    Si tratta, ancora, di un'opera che nella sua semplicità è però profondamente simbolica, senza restare perciò incomprensibile, ma altamente evocativa: proprio ciò che l'arte dovrebbe fare.

    DM


    NOTA UFFICIALE SUL NUOVO FONTE BATTESIMALE


    Sintesi del commento biblico-teologico
    al nuovo Fonte battesimale per Sua Santità Benedetto XVI
    realizzato dall’Arch. Alberto Cicerone e dal Rev. Salvatore Vitiello

    Il nuovo Fonte battesimale, realizzato per il Santo Padre Benedetto XVI, si compone di tre elementi simbolici: l’albero di ulivo, sui cui rami sono distribuiti ventiquattro frutti; la pietra, dall’alveo del fiume Giordano, nella quale l’albero è radicato; il sole, sostenuto dalle fronde dell’albero, come il sovrano che siede in trono, sfera che aprendosi contiene l’acqua per il sacramento del Battesimo.
    La chiave di lettura che si è voluta dare al Fonte battesimale è costituita dalla visione di Giovanni, riportata nel Libro dell’Apocalisse: «In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trovava l’albero della vita» (Ap 22,1-2).

    L’albero – La simbologia dell’albero proviene dall’immaginario religioso-culturale mesopotamico, ereditato dallo stesso popolo di Israele. Vi sono sottintesi due significati: c’è una vita “trattenuta” e non “data pienamente”, e c’è chi cerca di “avere pienamente” la vita. Quella ricercata è “qualitativamente altra” rispetto alla mera vita biologica. L’immagine dell’albero è strettamente connessa alla persona del sovrano: segno della sovranità è il bastone – piccolo albero sradicato e “addomesticato” – e con il frutto di un albero – l’ulivo – si unge il capo del sovrano.
    Nella visione di Giovanni confluiscono nell’albero più realtà: il sovrano, «il trono di Dio e dell’Agnello» (Ap 22,3), e la nuova vita. L’albero della vita – prosegue la visione – «fa dodici frutti e […] porta il suo frutto ogni mese; e le foglie dell’albero sono per la guarigione delle nazioni» (Ap 22,2). Nel Fonte, i frutti sono ventiquattro, a indicare i dodici mesi dell’anno, ripetuti due volte – quindi la sovrabbondanza che non viene mai meno –, ed il compimento della storia della Salvezza, dalla chiamata di Israele, diviso in dodici tribù, segnate sulle porte della Nuova Gerusalemme, fino ai dodici Apostoli, il cui nome è segnato sui basamenti, su cui poggiano le mura della Città.
    I Padri della Chiesa identificarono presto l’albero con la Croce e questa con il Crocifisso: Cristo Signore è lo stesso albero; il Corpo di Lui ne è il tronco, la Sua carne il legno, la Sua Vita la linfa che dà il frutto, e chi ne mangia vivrà in eterno. Alla descrizione dell’albero, inoltre, l’Autore sacro aveva premesso la visione del «fiume puro dell’acqua della vita, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello» (Ap 22,1). Le acque di questo fiume sono le stesse che, nel Libro di Ezechiele, scaturivano dal lato Tempio e confluivano nel mare sanandone le acque. Giovanni le identifica, ora, con il torrente che sgorga dal costato trafitto di Cristo e sana l’umanità dai propri peccati.

    Il sole – Nella visione di Giovanni il sole è anch’esso simbolo della sovranità; infatti, scrive: «La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (Ap 21,23). Si afferma, così, come il vero sovrano sia Dio soltanto. Sull’albero della vita, cioè sul trono, siede l’Agnello immolato, Colui che è «Luce per illuminare le genti e Gloria del suo popolo» (Lc 2,32).
    Il Fonte, plasmato dalla visione giovannea, appare perciò come il Sole assiso fra le fronde. L’immersione nell’acqua si configura come l’immersione nel Sole, cioè in Dio. Dentro l’Eterno, il battezzato vede immergere la propria mortalità, per risorgere immortale, partecipe della divinità di Cristo (Cfr. 1Pt 1,4).

    La pietra posta a fondamento del Fonte rappresenta Colui che è il fondamento della Chiesa, «la pietra scartata dai costruttori [che] è divenuta pietra angolare» (Sal 118,22), perché «scelta e preziosa davanti a Dio» (1Pt 2,4).
    Nel fonte vengono divinamente forgiate le pietre vive per la costruzione dell’“Edificio spirituale”, del quale Dio stesso ha posto la prima pietra, il Suo Figlio Unigenito, Gesù di Nazaret, Signore e Cristo. Il Fonte si innalza, dunque, come Cristo e sta in piedi, ricco di tutta la simbologia della vita, della regalità e dell’eternità, che appartengono al Figlio di Dio fatto uomo, e che vengono promesse e partecipate, sacramentalmente, ai battezzati.

    Breve relazione tecnico - descrittiva
    del nuovo Fonte battesimale per Sua Santità Benedetto XVI
    realizzato dall’Arch. Alberto Cicerone e dal Rev. Salvatore Vitiello

    Il Fonte battesimale, così come si presenta, è l’esito di un articolato cammino progettuale, nel quale si è cercato di tener conto, sintetizzandoli, dei fondamentali canoni dell’arte, come la storia ce li ha consegnati e come la stessa Cappella Sistina, così mirabilmente realizza.
    I tre elementi presentati nella descrizione biblico-teologica (roccia, albero e sole) sono stati “composti” in un’armonia che ha voluto obbedire a precise proporzioni e relazioni numeriche. Influenzati dal genius locii e facendo riferimento ai parametri veterotestamentari indicanti le norme costruttive per il Tempio di Salomone, e non senza riferimento all’Arca dell’alleanza in esso custodita, si è assunto, come unità di misura generale del Fonte, il cubito sacro ebraico.
    Infatti, l’Opera ha un “catino” di 55cm di diametro (pari ad 1 cubito salomonico riconosciuto come un grado di meridiano), ed è alta, a catino chiuso, 2 cubiti e ½ (pari a 137,5cm), mentre a catino aperto è pari a 2 cubiti (110cm). La profondità e larghezza sono pure di 1cubito e ½.
    Quindi la larghezza, la profondità e l’altezza (1cubito e ½ - 1cubito e ½ - 2cubiti ½) richiamano, in verticale, quelle che furono le esatte dimensione dell’Arca dell’alleanza del Tempio di Salomone . Il Fonte battesimale è stato così interamente progettato in obbedienza alle proporzioni determinate dalla sezione aurea (Φ = 1,618); in particolare nel rapporto di 55cm e 89cm che corrispondono al menzionato catino ed all’altezza del solo albero (89:55=1,618).

    L’Albero, le radici e le foglie sono stati realizzati secondo la tradizionale tecnica della fusione a cera persa, reinterpretata e utilizzata in modo innovativo; interamente in bronzo, brunito e lucidato, essi insistono su una pietra (roccia appenninica) sulla quale si è incastonata una pietra proveniente dal Sito del Fiume Giordano della Custodia di Terra Santa.

    La pietra a sua volta poggia su un basamento di bronzo fuso a terra, delle dimensioni auree di 70cm x 43,26cm (70:43,26=1,618).

    Tra i rami dell’albero vi è il “sole che sorge”, rappresentato da una sfera finita in oro 24k, con una superficie perfettamente riflettente, divisibile in 2 semisfere, delle quali la superiore viene a costituire il copri-Fonte asportabile (da depositare nella Liturgia su apposito cuscino da 80cm di lato), mentre l’inferiore semisfera, fissata all’albero, rappresenta il vero e proprio catino battesimale la cui forma interna a conchiglia è immediatamente riconoscibile.
    Anche la valva della conchiglia del catino è stata realizzata artigianalmente in rame martellato e successivamente finito in oro 24k ed è suddivisa il 24 coste, 12 per lato rispetto alla costa centrale. In cima alla valva è stato apposto un bassorilievo argenteo dello stemma del Pontefice Regnante.
    L’intera Opera è custodita in uno “scrigno” appositamente realizzato, in legno e polimetilmetacrilato, che ne consente il sollevamento, l’agevole trasporto, la costante visione.


    Profilo essenziale degli Autori:

    Alberto Cicerone (1966) è Laureato in Architettura presso l’Università “G. D’Annunzio” di Pescara ed ha conseguito il Master di II Livello in Architettura, Arti Sacre e Liturgia presso il Pontificio Ateneo Regina Apostolorum - Università europea di Roma nell’a.a. 2008-2009 con votazione di 70/70lode.
    Coniugato, con un figlio, il suo ambito di maggiore impegno è quello della progettazione architettonica, nella quale è particolarmente attento alla composizione degli spazi. Affrescatore, pittore e designer ha progettato l’adeguamento liturgico della sua Parrocchia di residenza di San Pio X ad Avezzano (AQ), ha realizzato il restauro del tabernacolo settecentesco della Parrocchia Beata Vergine della Grazie in Civitella Casanova (PE) ed affrescato interamente il Battistero (100mq) della nuova Parrocchia di San Giuseppe Artigiano in Avezzano (AQ). Dall’a.a. 2011/2012 è assistente sulla cattedra di Composizione architettonica del citato Master.

    Salvatore Vitiello (1972) è sacerdote dell’Arcidiocesi di Torino dal 1997. Laureato in Teologia presso la Pontificia Università Lateranense ed in Scienze storiche presso l’Università “La Sapienza” di Roma, è Docente di Teologia sacramentaria all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Torino ed insegna Introduzione alla teologia ed all’ecclesiologia nella facoltà di Diritto Canonico della P.U.L. Docente presso l’Università cattolica del Sacro Cuore in Roma, dal novembre 2011 è pure Coordinatore del Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia del Pontificio Ateneo Regina Apostolorum - Università Europea di Roma, nel quale ha insegnato sin dalla prima edizione del 2007.


    _______
    Nota : « Farai il coperchio, o propiziatorio, d'oro puro; avrà due cubiti e mezzo di lunghezza e un cubito e mezzo di larghezza. Farai due cherubini d'oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del coperchio. Fa un cherubino ad una estremità e un cherubino all'altra estremità. Farete i cherubini tutti di un pezzo con il coperchio alle sue due estremità. I cherubini avranno le due ali stese di sopra, proteggendo con le ali il coperchio; saranno rivolti l'uno verso l'altro e le facce dei cherubini saranno rivolte verso il coperchio. Porrai il coperchio sulla parte superiore dell'arca e collocherai nell'arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno appunto in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull'arca della Testimonianza, ti darò i miei ordini riguardo agli Israeliti» (Es 25,17-22).




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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 15/02/2012 11:05

    fonte: La Chiesa Cattolica - la sua dottrina - Vol.II - con Imprimatur Vescovile - Trieste 1886, cliccando QUI troverete il resto delle catechesi....

    Mescolato anch'io con gli Apostoli, nel Cenacolo, sentirò quelle dolci parole di Gesù, Dio nostro: < amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi > (Gv.15,12).




    - Santa Messa o Santa Cena?

     

    Dalla Riforma Protestante è invalso l'uso, ma con motivi diversi non propriamente cattolici, di rinominare il Divino Sacrificio con un termine di per sé antico: santa Cena.

    Imperciocchè è da annotare, a quanto abbiamo detto fino a qui, che per insegnare tutto sulla Santa Messa è più indicato parlare di Oblazione, Sacrificio di Adorazione e Ringraziamento, senza aver timore di usare il termine amato dai Padri: Santa Messa.

    La voce "Messa" la troviamo usata già da St.Ambrogio nel IV secolo (Epistola 20, n.4) e deriva dal latino Missa che significa "mandata, licenziata", ed è stata sempre intesa sia per il Sacrificio Eucaristico "il mandato di celebrare questi Misteri", sia ch'abbia a sott'intendere l'Oblatio, l'offerta, il Sacrificio espiatorio che, mandato da Dio, include anche al "licenziarsi" del popolo dopo l'adorazione del Sacrificio stesso e dopo aver consumato la Vittima nella Comunione fraterna. Inoltre, Messa, indica la "missius", l'atto del mandare, del congedare dopo aver affidato qualcosa, una missione. L'Ite Missa est significa, appunto: andate, l'adunanza è sciolta, licenziata.

    Santa Cena: seppur con tal termine si è sempre inteso, nella Chiesa, indicare il momento specifico della Comunione dei fedeli al comando di Gesù di "essere accolto-ricevuto, prefigurazione della Mensa Celeste ed eterna", si è ritenuto sempre valido e più corretto parlare di Santa Messa dal momento che tale Funzione Sacra non racchiude solamente il momento della Comunione dei fedeli, ma anzi, sott'intende principalmente il Sacrificio della Croce, l'offerta della Vittima, i Divini Misteri e che si conclude con il rendimento di grazie colla distribuzione della Santa Comunione.

    La Riforma Protestante avendo rigettato la sacralità della Messa, per essi è solo spirituale, la Presenza reale di N.S. Gesù Cristo nella Transustanziazione, e avendo essa rinnegato il Sacerdozio come Sacramento specifico dei Ministri di Dio e conservato esclusivamente il sacerdozio comune a tutti i battezzati, ha ritenuto "normale" modificare anche il termine, non più "Santa Messa" ma una santa Cena, con un pane e vino distribuiti senza la Transustanziazione, di conseguenza essi celebrano solo la comunione, una Cena santa nelle intenzioni, ma in una forma non sacramentale bensì solo spirituale, imperciocchè imperfetta, poiché anche se lo chiamano "sacramento", avendo tolti i segni sacramentali, essa è solo un ricordo spirituale.

     

     

    - La Santa Messa che celebriamo è quella del primo secolo?

     

    Si risponde a questa domanda a causa dell'avvento del Protestantesimo che ha snaturato la Santa Messa, ha eliminato il Sacerdozio come Sacramento, ed ha rinnegato il prodigio della Transustanziazione.

    La celebrazione della Santa Messa ha sempre compreso più parti al suo interno.

    Fin dal primo secolo si comprendevano due parti ben distinte:

    1. la Prima parte quale preparazione al Sacrificio Divino e si chiama "Messa dei Catecumeni" in quanto vi potevano partecipare anche coloro che, fanciulli in età della ragione e adulti, si preparavano a ricevere il Battesimo, e perché anche a loro, come ai pubblici penitenti è dato di assistere alla Messa, ma senza partecipare all'Oblazione in quanto ancora non battezzati. Questa prima parte comprende:

    a - l'Introito, ingresso: nell'antica Chiesa il Celebrante preceduto dal Clero e dal popolo entrava nel Tempio cantando Salmi e, presi i paramenti recitava le Orazioni alternate dal canto del Kyrie eleison e Christe eleison (Signore pietà, Cristo pietà). Queste finivano con l'inno Gloria in excelsis, inno che già si sapeva essere tralasciato quando si dicevano le Messe per i Defunti o nei tempi di penitenza, dopo di che si concludeva con il celebrante che salutava il popolo dicendo: " Dominus vobiscum" (il Signore sia con voi), o, s'era il Vescovo, col "Pax vobis" (la pace sia con voi).

    Oggi l'Introito è ristretto ad un Salmo cantato, o ad una Antifona indicante spesso anche il Tempo liturgico, e a seguire il Confiteor che recita il Sacerdote a pié dell'Altare. Seguono poi, ma non è più parte dell'Introito e siamo già dentro la Messa, il Kyrie e Christe eleison ed il Gloria nei tempi festosi, concludendo la parte con il saluto al popolo. Come possiamo vedere non è cambiato nulla di sostanziale.

    b - le Orazioni: il Celebrante dice le Orazioni del proprio Tempo e vi aggiunge, meno che nella Messa di morto, delle altre Orazioni pei bisogni del popolo, o anche di qualche persona in particolare. Oggi, queste Orazioni hanno il nome di Collette che significa "raccolte", perché in esse si raccolgono i desideri e le preghiere del popolo e di tutta la Chiesa, qui i fedeli possono esprimere singolarmente, nel silenzio del proprio cuore, le proprie preghiere o unirsi, mediante un messale o breviario, a quelle del Sacerdote.

    c - l'Epistola (Lettera): fin dal primo secolo si usava questa occasione per far conoscere alle comunità gli sviluppi della Chiesa; si comunicavano all'assemblea le relazioni che una Chiesa mandava ad un'altra, specialmente le Lettere degli Apostoli o di qualche Vescovo apostolico, specialmente se questi era rinchiuso in qualche carcere o stava per subire il martirio, e se così lo richiedeva una festa particolare, vi si leggeva un brano storico dell'Antico Testamento o dagli Atti degli Apostoli. Dopo l'Epistola, mentre il diacono saliva i gradini dell'Altare per ricevere la benedizione del Celebrante, si cantava un Salmo chiamato "Graduale". Nel Tempo di Penitenza (solitamente la Quaresima) il canto si tirava più in lungo e perciò si chiamava Tractus.

    Oggi le cose non sono cambiate, solamente che per l'Epistola non si leggono più gli scritti dei Vescovi o dalle altre Chiese, ma solo brani tratti dalla Sacra Scrittura.


    All'Epistola fu sempre associata la lettura d'un brano della vita di Gesù Cristo tratta dagli Evangelisti, e perciò detto subito "Dal Vangelo di..." la Buona Novella portata dal Redentore agli uomini. Il Celebrante offre l'incenso al Sacro Testo e con riverenza lo bacia, annuncia la Lettura e il Ministro dice in nome del popolo: Lode a Te o Cristo.

    Dopo la lettura del Vangelo, nelle Feste principali e nelle Domeniche, aveva luogo l'Omelia, che significa proprio: discorso, istruzione sul Vangelo.

    Nell'antica Chiesa solo i Vescovi potevano tenere l'Omelia, e nelle opere dei SS. Padri abbiamo delle omelie che sono dei capolavori della vera eloquenza, letteratura, e persino di poesia. Finita l'Omelia il Vescovo pregava pei Catecumeni e pei pubblici penitenti, e a questo punto il Diacono li licenziava dalla Messa, ossia , i Catecumeni lasciavano l'assemblea in attesa di ricevere il Battesimo, dal momento che non potevano ricevere l'Eucaristia. Si chiudevano poi le porte del Tempio ed i ministri giravano silenziosi, acciocché nessuno disturbasse il silenzio, il raccoglimento e la divozione dei fedeli presenti.

     

    2. La Seconda parte della Messa cominciava con i preparativi per il Sacrificio "vivo e santo" il quale comprende l'Offertorio, la Consacrazione e la Comunione, da qui si parlava già di "Messa dei fedeli" derivante dal fatto che i presenti si uniscono all'offerta del Celebrante, in una partecipazione oblativa e in quanto destinatari della Comunione Eucaristica.

    a - l'Offertorio: dopo il Concilio di Nicea (a.325) che condannò l'eresia di Ario, all'Offertorio si fé precedere il Credo, poiché la fede è la base dell'ecclesiastica unità. Il Simbolo che diciamo oggi è quello del Concilio Ecumenico di Costantinopoli (a.381), un pò più lungo e più articolato, coll'aggiunta del Filioque fatta in quello di Firenze. Tale Simbolo viene pronunciato solennemente nelle Feste di maggior solennità, o a motivo del grande concorso di popolo.

    Terminato il momento delle pubbliche offerte, il Celebrante prepara prima l'Hostia, Vittima del Sacrificio, perché sotto gli accidenti del pane, Gesù s'offre vittima di amore per il popolo e per la Sua Sposa, ch'è la Chiesa, poi prepara le Particole da consacrarsi insieme all'Hostia. Anticamente durante l'Offerta si cantavano dei Salmi, poi il Celebrante prosegue in silenzio e a bassa voce pregando, scoperto il Calice offre a Dio il pane sulla patena (piattino col quale si sposta con riverenza l'Hostia evitando di toccarla troppe volte con le mani) e poi il Calice col vino, nel quale versa alcune gocciole d'acqua in memoria dell'acqua che assieme col Sangue sgorgò dal costato  trafitto del Redentore.

    A questo punto il Sacerdote si lava le mani, un gesto simbolico e reale che richiama all'acqua che con il Battesimo ci donò lo stato primordiale della purificazione, ripetendo a bassa voce brani dal Salmo 25 per esprimere l'interna mondezza, ed anche per riverenza verso il Divin Sacramento che dovrà toccare con le mani, poi sollecita gli astanti a sollevar i loro cuori in un inno, un cantico di lode "uniti agli Angeli", con il trisagio: Santo, Santo, Santo il Signore Dio..... Ad oggi nulla è cambiato nella sostanza di ciò che esprimeva la Chiesa fin dai primi secoli.

    b - La Consacrazione (Transustanziazione): i fedeli si inginocchiano e il Celebrante supplica Dio di accogliere i Doni che sono stati offerti per la santa Chiesa, pel Sommo Pontefice, pel Vescovo, anche per l'Imperatore, e raccomanda quindi in particolare le persone  per le quali si intende di applicare il Sacrificio (Memento per i vivi). Egli esprime la relazione dei viventi coi Santi venerandone la memoria e con tutta la Chiesa Mistica, trionfante, stende poi le mani sul pane e sul vino supplicando il Signore di accogliere e gradire questa Offerta e passa a compiere l'augusta azione, che compì il Signore Gesù nell'Ultima Cena, pronunciando sulle offerte le stesse parole. Appena avvenuta la Consacrazione, il Celebrante inchinato continua le orazioni adorando l'Hostia pura e Santa e il Vino transustanziati, l'adora più volte, poi la solleva all'adorazione dei fedeli, poi torna alla adorazione con le orazioni a bassa voce, e così fa con il Pane e il Vino Consacrati.

    Vi è da ricordare che l'elevazione dell'Hostia e del Calice col Vino Consacrati fu introdotta dopo l'eresia di Berengario (leggasi il paragrafo:- E' obbligatorio credere nella "Presenza Reale"  Gesù nell'Eucaristia?).

    Ora il Sacerdote offre a Dio Padre la Vittima del Sacrificio perfetto, il Pane Santo della vita eterna e il Calice della salute perpetua, e Lo supplica di farlo portare dalle mani del Suo Angelo alla Sua stessa Presenza, acciocché "ogni qualvolta partecipando di questo Altare, avremo preso il Corpo e il Sangue del Suo Figliuolo, siamo ricolmati d'ogni celeste benedizione".

    Segue il Memento pei Defunti in generale, e in particolare, ed il Celebrante battendosi il petto, continua: " Anche a noi peccatori concedi parte e società coi Tuoi Santi per Cristo nostro Signore, per mezzo di cui Tu crei tutti questi beni, santifichi, vivifichi e doni a noi..." Le croci che il Sacerdote compie nel dire queste parole, si riferiscono alle specie sacramentali, come rappresentanti i beni della terra, e a questo punto anticamente, si benedicevano le offerte dei fedeli che non erano destinate all'Eucaristia, per esempio il pane benedetto, e si chiamava "Eulogia" (benedizione) il quale veniva distribuito anche a quelli che non avevano preso parte all'Eucaristia. I Cristiani se lo portavano a casa o se lo mandavano come dono, come segno di comunione e di pace. Da qui l'uso delle focacce che per le feste pasquali i cristiani si mandavano come dono, ancora in uso in molte Chiese Ortodosse, purtroppo in disuso nella Chiesa Cattolica.

    c - La Comunione (il Banchetto) questa parte inizia con la Preghiera comune a tutti i Cristiani, il Padre Nostro, da qui il Celebrante invoca il Signore di "liberarci da tutti i mali" e donarci la Sua Pace, Nostro Signore Gesù Cristo, e questa Pace egli augura a tutti i presenti colle parole: Pax + Domini sit + semper vobis+cum, e la intercede loro quando dopo il terzo Agnus Dei qui tollis peccata mundi, il popolo fedele già inginocchiato risponde: dona nobis pacem.

    Nell'antica Chiesa i Cristiani prima di ricevere la Santa Comunione, si davano un abbraccio l'un l'altro, col segno della pace e di fraternità. Il Celebrante si prepara ora alla Comunione e prendendo nella mano sinistra l'Hostia Santa, colla destra si batte il petto dicendo per tre volte: Domine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum; sed tantum dic verbo et sanabitur anima mea / Signore, non son degno che Tu entri nella mia casa, ma di una parola e l'anima mia sarà risanata.

    Poi viene risanato il popolo che si reca presso il Celebrante per ricevere la Comunione. Nella sostanza, anche oggi, nulla è stato modificato della Santa Messa che si celebrava fin dai primi secoli.

    - Licenziamento dell'Assemblea, dopo aver fatto ulteriori Preghiere con voce bassa, il Sacerdote avvia il rito di conclusione, si congeda dal popolo con le parole: Ite Missa est / Andate, la Messa è finita, e il popolo risponde: Deo gratias, ossia, rendiamo grazie a Dio, colla Benedizione il Celebrante scioglie l'assemblea affidando ad essa la missione di annunciare alle genti quanto hanno ricevuto.

    Si conclude il Rito con la Lettura dell'ultimo Vangelo ch'è d'ordinario il principio del Vangelo di San Giovanni, che tratta dell'Incarnazione del Verbo con cui incominciò il Sacrificio di Gesù Cristo Nostro Signore.


    fonte: La Chiesa Cattolica - la sua dottrina - Vol.II - con Imprimatur Vescovile - Trieste 1886, cliccando QUI troverete il resto delle catechesi....

     



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.989
    Sesso: Femminile
    00 26/02/2012 17:09
    [SM=g1740733]  Un vescovo ha chiesto alla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti se un vescovo diocesano possa obbligare i suoi sacerdoti ad ammettere donne o fanciulle nel servizio dell'altare. Questo dicastero ha ritenuto opportuno inviare al vescovo in questione la presente lettera e, considerata la sua importanza, ha deciso di pubblicarla qui di seguito in una traduzione italiana.

    Della congregazione PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, lett. Further to recent ad un vescovo circa i ministranti da ammettersi al servizio dell'altare, Prot. N. 2451/00/L, 27 luglio 2001: Notitiae, 37 (2001)  397 - 399 (inglese). 38 (2002) 46 - 48 (italiano).

    Eccellenza,
      Con riferimento alla nostra recente corrispondenza, questa Congregazione ha deciso di procedere ad un rinnovato studio delle questioni concernenti l'eventuale ammissione di fanciulle, donne adulte e religiose, accanto ai fanciulli, come ministranti nella liturgia.

      Nell'ambito del presente esame, questo dicastero, ha consultato il Pontificio Consiglio per i testi legislativi che ha risposto con una lettera in data 23 luglio 2001. La risposta del pontificio consiglio è stata di aiuto, perché ha riaffermato che le domande sollevate da questa congregazione - inclusa quella se una legislazione particolare possa obbligare i singoli sacerdoti, quando celebrano la santa messa, a ricorrere al servizio delle donne all'altare - non riguardano l'interpretazione della legge, ma, piuttosto, concernono la corretta applicazione della medesima normativa. La risposta del succitato pontificio consiglio, pertanto, conferma l'interpretazione di questo dicastero, secondo la quale la questione rientra nell'ambito delle proprie competenze, delineate dalla Costituzione apostolica Pastor bonus, § 62. Alla luce di tale autorevole risposta, questo dicastero, avendo risolto alcune questioni rimaste ancora insolute, ha potuto concludere il proprio studio e, ora, desidera fare le seguenti osservazioni.

       Come risulta chiaramente dalla Responsio ad propositum  dubium circa il can. 230 § 2 del Codice di diritto canonico, data dal Pontifìcio Consiglio per l'interpretazione dei testi legislativi e dalle direttive di questa congregazione, volute dal santo padre per provvedere all'ordinata attuazione del disposto del can. 230 § 2 e della sua interpretazione autentica (cf. Lettera circolare ai presidenti delle Conferenze episcopali, Prot. n. 2482/93, del 15 marzo 1994, in Notitiae 30[1994] 333-335), il vescovo diocesano, in quanto moderatore della vita liturgica della diocesi affidata alla sua cura pastorale, ha l'autorità di consentire il servizio delle donne all'altare, nell'ambito del territorio affidato alla sua guida. Tale libertà, inoltre, non può essere condizionata da richieste favorevoli ad una certa uniformità fra la sua diocesi e le altre, in quanto ciò determinerebbe, logicamente, l'eliminazione della necessaria libertà di azione del singolo vescovo diocesano. Piuttosto, dopo aver ascoltato il parere della conferenza episcopale, il vescovo deve basare il suo prudente giudizio su ciò che ritiene accordarsi maggiormente con le necessità pastorali locali, al fine di conseguire un ordinato sviluppo della vita liturgica nella diocesi affidata al suo governo pastorale. Nel fare ciò, il Vescovo terrà in considerazione, fra l'altro, la sensibilità dei fedeli, le ragioni che motiverebbero un tale permesso, i differenti contesti liturgici e le assemblee che si riuniscono per la santa messa (cf. Lettera circolare ai presidenti delle conferenze episcopali, 15 marzo 1994, n. 1).      
                                  
       In ossequio alle citate istruzioni della Santa Sede, [SM=g1740733]  in nessun caso tale autorizzazione può escludere gli uomini, o, in particolare, i fanciulli, dal servizio all'altare, e nemmeno può obbligare che i sacerdoti della diocesi ricorrano a ministranti di sesso femminile, in quanto «sarà sempre molto appropriato seguire la nobile tradizione di avere dei fanciulli che servono all'altare» (Lettera circolare ai presidenti delle conferenze episcopali, 15 marzo 1994, n. 2). Naturalmente, rimane sempre l'obbligo [SM=g1740722] di promuovere gruppi di fanciulli ministranti, non da ultimo, per il ben noto aiuto che, da tempo immemorabile, tali iniziative hanno assicurato nell'incoraggiamento di future vocazioni sacerdotali (cf. ibid.).

            Per quanto concerne l'eventuale vantaggio pastorale offerto alla situazione locale dalla presenza di donne ministranti all'altare, sembra utile ricordare che i fedeli non ordinati non hanno alcun diritto di svolgere tale servizio. [SM=g1740733] Piuttosto, è dai sacri pastori che essi possono esservi ammessi (cf. Lettera circolare ai presidenti delle conferenze episcopali, 15 marzo 1994, n. 4; cf. anche can. 228 § 1; Istruzione interdicasteriale 14, Ecclesiae de mysterio, 15 agosto 1997, n. 4. in Notitiae 34[1998] 9-42). Pertanto, qualora vostra eccellenza ritenesse opportuno autorizzare il servizio di donne all'altare, rimarrebbe importante spiegare chiaramente ai fedeli la natura di tale innovazione, affinchè non si abbia alcuna confusione e con ciò si danneggi lo sviluppo di vocazioni al sacerdozio.

            Avendo cosi confermato e ulteriormente chiarito i contenuti della sua precedente risposta a vostra eccellenza, questo dicastero - che considera normativa la presente lettera - desidera assicurarla della sua gratitudine per avere avuto l'occasione di approfondire ulteriormente la presente questione.

    Con ogni migliore augurio e distinto ossequio, mi confermo, sinceramente suo in Cristo,
    Jorge A. card. Medina Estévez, prefetto
    mons. Mario Marini, sotto-segretario


    *************

    [SM=g1740771]

    Quell'altare, quel rompicapo



    di don Alfredo M. Morselli (da messainlatino.it)

    Recentemente il Card. Kurt Koch, nel corso di una conferenza svolta presso la facoltà teologica dell’università di Friburgo, ha ribadito che «l’attuale odierna pratica liturgica non sempre trova il suo reale fondamento nel Concilio: per esempio, la celebrazione verso il popolo non è mai stata prescritta dal Concilio».

    Il Card. Joseph Ratzinger aveva scritto, in proposito, nel 2003:
    Per coloro che abitualmente frequentano la chiesa i due effetti più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo sembrano essere la scomparsa del latino e l'altare orientato verso il popolo. Chi ha letto i testi al riguardo si renderà conto con stupore che, in realtà, i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo.
    Non vi è nulla nel testo conciliare sull'orientamento dell'altare verso il popolo; quel punto è stato sollevato solo nelle istruzioni postconciliari. La direttiva più importante si ritrova al paragrafo 262 della Institutio Generalis Missalis Romani, l'Introduzione Generale al nuovo Messale Romano pubblicata nel 1969, e afferma: «L'altare maggiore sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo (versus populum)».

    Le Istruzioni Generali per il Messale, pubblicate nel 2002, mantenevano senza modifiche questa formulazione, tranne per l'aggiunta della clausola subordinata «la qual cosa è desiderabile ovunque sia possibile». In molti ambienti questo venne interpretato come un irrigidimento del testo del 1969, a indicare come fosse un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”. Tale interpretazione venne tuttavia respinta il 25 settembre 2000 dalla Congregazione per il Culto Divino, che dichiarò come la parola "expedit” (“è desiderabile”) non comportasse un obbligo, ma fosse un semplice suggerimento. La Congregazione afferma che si deve distinguere l'orientamento fisico dall'orientamento spirituale. Anche se un sacerdote celebra versus populum, deve sempre essere orientato versus Deum per Iesum Christum (verso Dio attraverso Gesù Cristo). Riti, simboli e parole non possono mai esaurire l'intima realtà del mistero della salvezza, ed è per questo motivo che la ammonisce contro le posizioni unilaterali e rigide in questo dibattito.

    Si tratta di un chiarimento importante. Mette in luce quanto vi è di relativo nelle forme simboliche esterne della liturgia, e resiste al fanatismo che, purtroppo, non è stato estraneo alle controversie degli ultimi quarant'anni.

    L’idea generalizzata secondo la quale c’è «un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”» ha fatto si che in quasi tutte le antiche chiese e cattedrali venisse costruito un nuovo altare maggiore senza rimuovere l’antico.

    Ci chiediamo se ciò in realtà è coerente con la nuova normativa post-conciliare, o non sia piuttosto una forzatura, dovuta alle errate convinzioni che un nuovo altare rivolto al popolo sia obbligatorio e che questo non sia altro che l’indicazione del Concilio.
    I – La prassi in contrasto con la normativa.
    Vediamo cosa prescrive esattamente la normativa vigente:

    Nelle chiese già costruite, quando il vecchio altare è collocato in modo da rendere difficile la partecipazione del popolo e non può essere rimosso senza danneggiare il valore artistico, si costruisca un altro altare fisso, realizzato con arte e debitamente dedicato. Soltanto sopra questo altare si compiano le sacre celebrazioni. Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l'attenzione dei fedeli dal nuovo altare.

    La prassi abituale è in contrasto con la normativa perché questa prevede la possibilità di un secondo altare fisso soltanto in un caso particolare, ben definito (quando la partecipazione del popolo è resa difficile), mentre in pratica un nuovo altare è stato collocato in quasi tutte le chiese antiche.

    La gravità di questa generalizzazione sta tutta nel suo presupposto implicito: con la celebrazione verso l’abside la partecipazione attiva sarebbe sempre resa difficile.

    E qui notiamo un duplice errore: in primo luogo si dimentica che partecipazione attiva nella liturgia è la partecipazione al Sacrificio di Cristo.

    Scriveva il Card. Joseph Ratzinger nel 1999:
    Il concilio Vaticano II ci ha proposto come pensiero guida della celebrazione liturgica l'espressione participatio actuosa, partecipazione attiva di tutti all’Opus Dei, al culto divino. […] In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a un'azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa «actio» centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità.

    E qual è l’azione della liturgia?

    La vera azione della liturgia, a cui noi tutti dobbiamo avere parte, è azione di Dio stesso.

    Il Card. Joseph Ratzinger non ha certo detto, nelle sue pur profonde considerazioni, delle novità assolute. Questi stessi concetti erano già stati espressi da Pio XII, nel discorso Vous Nous avez demandé:
    La liturgia della Messa ha come scopo di esprimere sensibilmente la grandezza del mistero che vi si compie, e gli sforzi attuali tendono a farvi partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente possibile. Benché questo intento sia giustificato, v'è pericolo di provocare una diminuzione della riverenza, se vien distolta l'attenzione dall'azione principale, per rivolgerla alla magnificenza di altre cerimonie.

    Qual è quest'azione principale del sacrificio eucaristico? Noi ne abbiamo parlato espressamente nell'Allocuzione del 2 novembre 1954. Noi riferivamo in primo luogo l'insegnamento del Concilio di Trento:

    In divino hoc sacrificio, quod in Missa peragitur, idem ille Christus continetur et incruente immolatur, qui in ara crucis semel se ipsum cruente obtulit... Una enim eademque est hostia, idem nunc offerens sacerdotum ministerio, qui se ipsum tunc in cruce obtulit, sola offerendi ratione diversa (Conc. Trid., Sess. XXII, cap. 2)».

    Commentiamo ora questo brano:

    Giusti tutti gli sforzi che tendono a fare partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente... Ma… attenzione! – dice il Papa – , non si perda ciò che è principale, cioè la partecipazione all’Azione di Cristo!

    Da un lato rimpiangiamo un po’ i pericoli di 50 anni fa: essere distolti dal cuore dell’azione liturgica dalla magnificenza delle cerimonie; oggi i pericoli sono i tanti ben peggiori abusi, accomunati da un comune denominatore: l’azione dell’assemblea viene a prevalere sull'azione di Cristo, sulla sua Immolazione Sacramentale, sul suo offrirsi: è a questa offerta che dobbiamo più che attivamente partecipare.

    L’azione esterna, il fare, l’agire, non sono un valore assoluto, ma lo sono in tanto quanto ci permettono di unirci al Santo Sacrificio, tanto quanto ci permettono di essere quella gocciolina di acqua che il Sacerdote mette nel vino: questo gesto esprime come tutta la nostra vita viene sussunta nello stesso Sacrifico di Cristo, quel Sacrificio che realmente si riatualizza sull’Altare.
    Se dunque la partecipazione liturgica è soprattutto l’unione al Sacrifico di Cristo, come è possibile che l’altare rivolto all’abside la renda difficoltosa? E come è possibile che per tanti secoli la Chiesa abbia creato difficoltà ai suoi figli in ciò che ha di più sacro? Eppure questo è il presupposto oggettivo della prassi generalizzata.
    Vediamo ora il II errore: concediamo all'espressione partecipazione un significato meno tecnico, volendo indicare con essa semplicemente l’attenzione esteriore al rito, la partecipazione ai canti, il coinvolgimento nella gestualità: anche in questo caso, presupporre che, con l’altare rivolto verso l’abside, venga universalmente resa difficile la partecipazione del popolo (condizione necessaria – ricordiamo – per poter collocare un secondo altare fisso) è sempre una forzatura.
    Scriveva a questo riguardo il Card. Giacomo Lercaro, in un documento ufficiale del Consilium ad exequendam Consitutionem de Sacra Liturgia:
    In primo luogo, per una liturgia viva e partecipata non è necessario che l’altare sia rivolto al popolo. Tutta la liturgia della parola, nella messa, si celebra alle sedi o all’ambone, e dunque di fronte al popolo; per la liturgia eucaristica, le installazioni di microfoni, ormai comuni, aiutano sufficientemente alla partecipazione. Inoltre bisogna tener conto della situazione architettonica e artistica la quale, in molti casi, è del resto protetta da severe leggi civili.

    II – Altre forzature e incongruenze
    Un secondo altare a tutti i costi rivolto al popolo, assunto nella prassi come principio della liturgia conciliare, mal si concilia con altri aspetti del rinnovamento liturgico e con altre norme. Almeno in due casi troviamo di fronte a delle vere e proprie acrobazie giuridiche.
    1° principio disatteso: l’altare deve essere unico
    Le norme in questo senso parlano chiaro; ecco un paio di esempi:

    L'unico altare, presso il quale si riunisce come in un sol corpo l'assemblea dei fedeli, è segno dell'unico nostro Salvatore Gesù Cristo e dell'unica Eucarestia della Chiesa.

    Nelle nuove chiese si costruisca un solo altare che significhi alla comunità dei fedeli l'unico Cristo e l'unica Eucaristia della Chiesa.

    Il noto liturgista, P. Matias Augé, per ribadire quanto – secondo lui – siano inopportuni gli altari laterali in una chiesa, evoca tutto il pathos di Sant’Ignazio d’Antiochia:

    Accorrete tutti come all’unico tempio di Dio, intorno all’unico altare che è l’unico Gesù Cristo che procedendo dall’unico Padre è ritornato a lui unito (Ai Magnesii VII,1).

    Ma se l’unicità dell’altare impedisce che si possa celebrare rivolti al popolo, allora ecco che un secondo altare diventa lecito. Che fare in questi casi: toglier le tovaglie e non adornare l’altare maggiore precedente. Una sorta di sbattezzo dell’altare.

    Nel caso in cui l'altare preesistente venisse conservato, si eviti di coprire la sua mensa con la tovaglia e lo si adorni molto sobriamente, in modo da lasciare nella dovuta evidenza la mensa dell'unico altare per la celebrazione

    Ma, chiediamoci, è forse la tovaglia che rende un altare tale? Capolavori d’arte, adornati per secoli con tanta cura, con ricami, con fiori, con ceri, con tovaglie, ora lasciati nudi come non sono mai stati pensati da chi li ha fatti… e tutto perché l’altare deve essere unico, anche quando sono due.
    2° principio disatteso: l’altare deve essere fisso
    Conviene che in ogni chiesa ci sia l'altare fisso, che significa più chiaramente e permanentemente Gesù Cristo, pietra viva (Cf. 1Pt 2,4; Ef 2,20); negli altri luoghi, destinati alle celebrazioni sacre, l'altare può essere mobile.

    L'altare si dice fisso se è costruito in modo da aderire al pavimento e non poter quindi venir rimosso; si dice invece mobile se lo si può trasportare.

    E quando non si può celebrare rivolti al popolo, allora anche questo principio è derogato: si faccia l’altare mobile, che però deve essere definitivo.

    L’altare fisso della celebrazione sia unico e rivolto al popolo. Nel caso di difficili soluzioni artistiche per l’adattamento di particolari chiese e presbitèri, si studi, sempre d’intesa con le competenti Commissioni diocesane, l’opportunità di un altare «mobile» appositamente progettato e definitivo.

    Qualora non sia possibile erigere un nuovo altare fisso, si studi comunque la realizzazione di un altare definitivo, anche se non fisso (cioè amovibile).

    Cosa vuol dire altare definitivo e mobile: che sia trasportabile ma che si sempre quello? Oppure che non sia murato definitivamente? Oppure che sia trasportabile, ma lasciato sempre al suo posto?

    Questa indicazione sa tanto di acrobazia, per collocare in ogni caso un altare rivolto al popolo, anche quando c’è già un altare maggiore e quando la Sovrintendenza ai beni artistici non permette la costruzione di un nuovo altare fisso.
    Conclusioni.
    In base a quanto detto, l’idea dell’altare a tutti i costi rivolto al popolo, ritenuta generalmente – a torto – un principio conciliare per eccellenza, ha fatto sì che molte antiche chiese venissero adeguate indebitamente con un secondo altare fisso. Stando alla lettera della normativa, si tratta di un abuso: abuso pericoloso perché fa intendere che il modo di celebrare per tanti secoli abbia reso difficile la partecipazione del popolo alla liturgia.

    Se il Concilio non ha mai parlato di celebrazione verso il popolo, l’idea che l’altare a tutti i costi debba essere ad esso rivolto, e il conseguente riadattamento forzoso degli antichi edifici di culto, non sarà forse uno dei tristi effetti di ciò che Mons. Guido Pozzo, segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha chiamato ideologia para-conciliare?

    Se il Santo Padre parla di due interpretazioni o chiavi di lettura divergenti, una della discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica, e una del rinnovamento nella continuità, ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante all'origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento. […]

    Sta ciò che possiamo chiamare l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare.

    Alla chiesa docente la risposta; a chi scrive, membro della chiesa discente, la possibilità di porre rispettosamente la domanda.
    [Modificato da Caterina63 29/02/2012 19:22]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 26/05/2012 11:55

    Le balaustre, argine del sacro


    Da Il Timone n. 113 maggio 2012

    Alcuni manufatti, chiamati comunemente balaustre per molti secoli hanno costituito una presenza regolare all'interno delle chiese. Nonostante l'appa¬rente banalità di questi oggetti, sarebbero necessari fiumi d'inchiostro per descrivere tutte le funzioni e tutti i significati che essi hanno rivestito.
    di Andrea Di Meo

    Varcare un confine a piedi, scavalcare il crinale di un monte, addentrarsi in una caverna, sono piccole esperienze accomunate, come molte altre, da una sensazione particolarissima. A chi le ha vissute non sarà sfuggita l'impressione di oltrepassare una linea oltre la quale vigono altre regole, oltre la quale il comportamento deve mutare perché al di là di quel punto lo spazio è diverso, non è più lo stesso di prima. Gli esempi che ho citato, a solo scopo narrativo, hanno tutti la caratteristica di essere accompagnati da segnali visibili, che quasi suggeriscono con la loro stessa presenza l'incipiente mutamento di stato. In alcuni casi, come l'ingresso in una grotta, tale segnale è offerto dalla natura, in altri, come il passaggio del confine, il segnale è posto dagli uomini.

    Esiste un parallelo a queste sensazioni anche nell'esperienza dello spazio sacro? Questo è sacro per effetto di un rituale che vi si celebra e di una formula di dedicazione che lo dedica solennemente alla divinità, ma è vero tuttavia che tale dedicazione, pur comportando un mutamento di stato e quasi di natura del luogo stesso, non ne condiziona però le leggi fisiche né le apparenze, e potrebbe quindi passare inosservato. Ecco dunque che si rende necessario apporre degli avvertimenti, dei nuovi segnali volti a rendere visibile ciò che altrimenti potrebbe non essere percepito. Fu così che nacquero già in tempi ancestrali e presso i culti più antichi i primi recinti per separare i luoghi più sacri dallo spazio circostante, e molto tempo dopo, ma in modo simile, furono create anche le prime recinzioni nei luoghi cristiani per separare il santuario o presbiterio dal resto della chiesa, come si può verificare dalle tracce archeologiche delle più antiche domus ecclesiae.

    Nel percorso di attraversamento dello spazio sacro cristiano che in questa rubrica si sta compiendo, sarà infatti inevitabile inciampare, per così dire, in alcuni manufatti, chiamati comu¬nemente balaustre, che per molti secoli hanno costituito una presenza regolare all'interno delle chiese. Nonostante l'appa¬rente banalità di questi oggetti, sarebbero necessari fiumi d'inchiostro per descrivere tutte le funzioni e tutti i significati che essi hanno rivestito, e tutta la storia che li ha modellati fino ad arrivare alla semplicità delle ultime balaustre, mandate in soffitta, se non proprio distrutte, da tanti parroci nei passati cinquant'anni. Le balaustre, infatti, non furono che l'ultima mutazione di quegli elementi separatori che assunsero di volta in volta la forma della transenna lapidea, della tenda, del cancello e dell'iconostasi, e che replicavano quanto già la facciata della chiesa, o il suo portale, esprimevano fin dal primo approccio all'edificio sacro.

    Il loro messaggio era un avvertimento, un caveat, posto a segnalare che oltre la linea sulla quale essi si ergevano si entrava in un'area dove l'azione e il pensiero individuale avrebbero dovuto abbandonare le consuetudini mondane e, lasciando alle spalle i diritti del mondo, piegarsi al diritto di Dio e conformarsi ad attitudini più sante. Al contrario infatti di come molti hanno erroneamente pensato, il compito primario delle balaustre e degli elementi ad esse affini non era di tipo funzionale, ma simbolico. Non era dunque di chiudere l'ingresso al presbiterio, ma di manifestare all'esterno di esso cosa il presbiterio dovrebbe realmente significare. Le balaustre dunque, più che elementi di divisione, vanno piuttosto percepite come tramiti di comunicazione. Se esse infatti non fossero esistite, quale spazio avremmo garantito al sacro?

    Le balaustre, non diversamente dall'abito talare, custodivano uno spazio esigente, una riserva di santità e ne manifestavano l'esistenza al di fuori rendendola visibile. Quegli umili elementi, che diventavano l'appoggio dei comunicandi e che reggevano gli sguardi inginocchiati dei fedeli verso l'altare, sostenevano inoltre il peso immane di rendere il sacro percepibile e quasi tangibile. Quando, dopo gli anni Sessanta, tanti chierici e religiosi vollero disfarsi del concetto del sacro rivoluzionandolo, si accanirono proprio contro quei recinti che, delimitandolo, lo rendevano riconoscibile. Ma quest'opera di distruzione fu solo apparente: si possono cancellare le tracce del sacro ma esso sussisterà non visto, e presto o tardi tornerà a manifestarsi. Il ristabilimento delle balaustre nel restauro della Cappella Paolina al Vaticano voluto da Papa Benedetto XVI ben manifesta che questi elementi non hanno esaurito la loro funzione e che anzi mai più di oggi si sente nuovamente l'urgenza di restituirli al loro gravoso compito.

    [SM=g1740733]

    **********************

    Il candelabro pasquale

    di don Enrico Finotti

    1. Nell’antica tradizione

    Nella tradizione liturgica antica ha importanza il candelabro pasquale, che ancor oggi è possibile ammirare in alcune basiliche romane e in altre importanti chiese. Il candelabro è un vero monumento in pietra, che si erge stabilmente presso l’ambone. Esso è, infatti, l’arredo liturgico specifico dell’ambone, al quale è strutturalmente congiunto, sia per la sua origine storica, come per il suo significato teologico. Infatti, la proclamazione verbale della risurrezione, che risuona sull’ambone, è resa simbolicamente eloquente dalla luce del Cero pasquale, che dall’alto del suo candelabro, illumina tutta la chiesa. Le sue dimensioni fanno sì che il Cero pasquale sia comodamente visto da tutti e in un certo senso presieda l’assemblea liturgica. La sua solidità e arte, anche senza il Cero pasquale fuori del tempo di Pasqua, rappresenta un permanente richiamo al cuore dell’annunzio evangelico, la risurrezione del Signore.

    il trono liturgico in legno dipinto è stato realizzato da
    Aldo Ferrari (Volano - TN)

    2. Il candelabro pasquale oggi

    E’ da favorire nelle nuove chiese l’erezione del candelabro pasquale, inamovibile e artistico: Accanto all’ambone può essere collocato il grande candelabro per il cero pasquale (1). Esso dovrebbe essere pensato fin dal progetto iniziale, come parte integrante del complesso monumentale dell’ambone, evitando che divenga un corpo estraneo, mobile e insignificante. Il candelabro, infatti, è l’arredo più insigne dell’ambone e la sua collocazione stabile presso di esso è certamente da preferire. Nella creazione del candelabro pasquale, però, è necessario realizzare un’opera, che, per la sua dignità e imponenza, possa, anche senza il Cero, avere un suo significato compiuto. Talvolta, infatti, costruito un grande candelabro, solido e splendido, non si ha più il coraggio di togliere da esso il Cero al termine del tempo di Pasqua. Questo succede perché non si è tenuto sufficientemente presente, che il candelabro deve essere, simbolicamente ed esteticamente, completo in se stesso, senza il bisogno di dover assolutamente sorreggere il Cero pasquale. Si pensi in proposito all’impatto visivo, che i grandi candelabri storici esercitano nelle antiche basiliche, pur senza Cero.

    3. Un candelabro mobile?

    E’ evidente che il candelabro fisso, in linea con l’antica tradizione, è realizzabile per lo più nelle chiese di nuova costruzione, mentre nelle normali chiese storiche si dovrà pensare ad un candelabro mobile. Sarà comunque opportuno che il sostegno del cero pasquale non si riduca ad un semplice ceppo funzionale, ma si ispiri il più possibile alla nobiltà del candelabro, esprimendo nei materiali, nella decorazione e nelle dimensioni, la bellezza e l’importanza di questo simbolo di Cristo Risorto, il Kyrios immolato e glorioso. Un candelabro minore è in ogni caso sempre necessario, sia per custodire il Cero presso il battistero, sia per posizionarlo presso il feretro nelle esequie. E’ inoltre opportuno che il candelabro pasquale, qualora fosse mobile, venga esposto presso l’ambone unicamente nel tempo di Pasqua, per non far scadere la sua dignità con un uso troppo feriale e spostandolo in continuazione.

    4. All’ambone e presso il battistero

    Il Cero pasquale collega due importanti luoghi liturgici: l’ambone e il battistero. Già nella veglia di Pasqua è evidente tale collegamento. Infatti, il Cero risplende con la sua viva fiamma sull’ambone durante il canto dell’Exultet e, nella successiva liturgia battesimale, come una colonna di luce, precede e guida l’assemblea verso il battistero, dove viene anche immerso nell’acqua del fonte. In tal modo sono descritte ritualmente le vicende dell’esodo biblico, udite nella liturgia della Parola e, con l’eloquenza dei simboli, si prepara l’evento sacramentale del battesimo, che nella santa notte di Pasqua si compie. Possiamo così notare come l’annunzio della risurrezione all’ambone e la sua attualizzazione sacramentale nel battistero, trovino nel Cero pasquale un nobile testimone e una presenza vigile. Per questo l’ambone e il battistero sono le due sedi liturgiche proprie del Cero pasquale: presso l’ambone nella beata Pentecoste (cinquantena pasquale), quando l’eco del grande Annunzio è ancora fresco e vivo, e per tutto il resto dell’anno liturgico presso il battistero, dove il mistero pasquale continua ad operare nel sacramento della rigenerazione.

    5. Anche presso l’altare?

    E’ importante capire il motivo per il quale, prima della riforma liturgica, il Cero pasquale col suo candelabro venivano posti presso l’altar maggiore dalla parte in cui si leggeva il vangelo. Con la scomparsa dell’ambone, infatti, il vangelo venne proclamato al lato sinistro guardando l’altare, detto appunto in cornu Evangelii. Per questo il Cero pasquale ebbe qui per secoli il suo posto conveniente. Il fatto attesta la coerenza con l’antica tradizione, che da sempre collega il Cero pasquale al luogo nel quale si proclama il vangelo. La disposizione vigente, che permette che il Cero sia collocato, oltre che presso l’ambone, anche vicino all’altare (PS n. 99) sembra essere problematica. Infatti, con la ripresa dell’uso dell’ambone, non ha più senso tenere il Cero e il suo candelabro presso l’altare, ma dovrebbe coerentemente ritornare al suo luogo proprio, l’ambone. Nelle rubriche relative alla Veglia pasquale, inoltre, si permette che il Cero possa essere posto anche nel mezzo del presbiterio (MR, rubriche della veglia pasquale n.17). Ma, ammettere questa possibilità, significa prospettare per il Cero pasquale e il suo candelabro un uso nuovo e una autonomia dall’ambone, che nella storia liturgica non ebbe mai.

    6. La normativa liturgica vigente

    E’ necessario che sacerdoti e operatori liturgici conoscano la lettera e lo spirito della normativa vigente e la attuino con precisione e buon gusto. Essa, infatti, permette di uscire da visioni parziali e prassi soggettive e unire tutti nel modo di celebrare, stabilito e garantito dalla Chiesa. Con questa adesione convinta e competente si potrà assicurare una retta formazione dottrinale, una solida efficacia pastorale e, per il futuro, un progresso più autentico, più sicuro, più saggio e duraturo.

    Il cero pasquale, da collocare presso l’ambone o vicino all’altare, rimanga acceso almeno in tutte le celebrazioni liturgiche più solenni di questo tempo, sia nella Messa, sia a Lodi e Vespri, fino alla Domenica di Pentecoste. Dopo di questa il cero viene conservato con il dovuto onore nel battistero, per accendere alla sua fiamma le candele dei neobattezzati nella celebrazione del Battesimo. Nella celebrazione delle esequie il cero pasquale sia collocato accanto al feretro, ad indicare che la morte è per il cristiano la sua vera pasqua. Non si accenda il cero pasquale fuori del tempo di Pasqua né venga conservato nel presbiterio (2).

    7. Il candelabro nel pensiero dei Padri

    Il Cero pasquale col suo candelabro trova un mistico commento nelle parole di san Massimo il Confessore:

    La lampada posta sul candelabro è la luce del Padre, quella vera, che illumina ogni uomo che viene al mondo. E’ il Signore nostro Gesù Cristo che, prendendo da noi la nostra carne, divenne e fu chiamato lampada, cioè sapienza e parola connaturale del Padre. E’ questa lampada che la Chiesa di Dio mostra con fede e amore nella predicazione, e che viene tenuta alta e splende agli occhi dei popoli nella vita santa dei fedeli e nella loro condotta ispirata ai comandamenti. Il Verbo chiama se stesso lucerna in quanto, essendo Dio per natura, si fece uomo per dispensare la sua luce. Chiamò lucerniere la santa Chiesa, perché in essa risplende la parola di Dio mediante la predicazione. Questa parola annunziata dalla Chiesa esige di essere posta sulla sommità del lucerniere cioè all’apice dell’onore e dell’impegno di cui la Chiesa è capace. Poniamo la lucerna sopra il lucerniere cioè sulla santa Chiesa, di modo che dall’alta cima di una interpretazione autentica ed esatta, mostri a tutti lo splendore delle verità divine (3).

    _________________________
    1 AC, n. 9.
    2 PS, n. 99.
    3 LO, vol. IV, mercol. 28 sett. tempo ord., Uff. lett., 2a lett.

    [SM=g1740771]

    [Modificato da Caterina63 11/06/2012 12:14]
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    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 17/08/2012 11:46

    "Tamquam cor in pectore": il tabernacolo eucaristico prima e dopo il Concilio di Trento

    Sull'altare maggiore il tabernacolo era come il cuore spirituale e spaziale della Chiesa

    di p. Uwe Michael Lang

     

     

     

    foto: Duomo di Siena, Tabernacolo di Lorenzo di Pietro, detto "Il Vecchietta"

     

     

    Tamquam cor in pectore: il tabernacolo eucaristico prima e dopo il Concilio di Trento

    "Il tabernacolo sull'altare maggiore era come il cuore spirituale e spaziale della Chiesa"

    di p. Uwe Michael Lang


    Negli ultimi anni la ricerca storica ha dedicato notevole attenzione al rapporto che esiste tra liturgia e architettura. Molti studiosi si sono concentrati sulla tarda antichità e sul Medio Evo, ma l'interesse si sta volgendo anche verso i periodi del Rinascimento e della Riforma cattolica prima e dopo il Concilio di Trento (1545 - 1563), come risulta evidente dagli atti di una conferenza tenuta al Kunsthistorisches Institut a Firenze nel 2003. Il redattore del volume, Joerg Stabenow, identifica due sviluppi principali che trasformarono gl'interni tipici delle chiese nei secoli XV e XVI.


    Il primo rimosse quegli elementi che dividevano l'edificio sacro in diverse sezioni, creando così uno spazio unificato. Per contrasto, si strutturarono le chiese medievali con un complesso sistema di pareti divisorie, soprattutto la cancellata che separava la navata dal coro. Il secondo interessò il tabernacolo che, collocato in posizione centrale sull'altare maggiore, venne adottato come forma ordinaria di riserva eucaristica, divenendo il punto focale dell'architettura sacra di stile barocco.


    Il termine "tabernaculum" era già usato nel Medio Evo per indicare il ricettacolo per il Santissimo Sacramento. Guglielmo Durando rileva nel suo libro "Rationale divinorum officiorum" del 1282 - e che ebbe un grande influsso nel suo tempo - che, a imitazione dell'Arca dell'Alleanza e della Tenda del convegno (Esodo 25 -26, 33, 7 -11 e altrove), "in alcune chiese è posta un'arca o tabernacolo (archa seu tabernaculum), in cui si custodisce il Corpo del Signore con reliquie". L'associazione biblica è significativa, poiché la Tenda del convegno rappresentava la presenza di Dio fra il popolo d'Israele nel deserto. Inoltre, il prologo del Vangelo di Giovanni afferma che il Verbo divino " si fece carne e venne ad abitare (letteralmente: "piantò la sua tenda") in mezzo a noi" (Gv. 1, 14). Infine, nell'Apocalisse viene evocata la Gerusalemme celeste con le parole: "Ecco la tenda di Dio con gli uomini!", che nella Vulgata latina recita: "Ecce tabernaculum Dei cum hominibus!" (Ap. 21, 3).


    L'ubicazione di un tabernacolo eucaristico fisso sull'altare maggiore è generalmente associata alle riforme liturgiche che si effettuarono dopo il Concilio di Trento, soprattutto da parte di San Carlo Borromeo, i cui sforzi per rinnovare la vita religiosa nella sua Arcidiocesi di Milano divennero esemplari per tutta la Chiesa Cattolica. Tuttavia, tale pratica era già stata promossa da Vescovi riformatori prima di Trento e si può rintracciare nella Toscana del XV secolo.


    In diverse chiese di questa regione italiana erano stati introdotti tabernacoli su altare maggiore, come la cattedrale di Volterra (1471) e la cattedrale di Prato (1487); forse l'esempio più noto è il trasferimento del vecchio tabernacolo del Vecchietta all'altare maggiore della Cattedrale di Siena nel 1506, dove prese il posto della "Maestà" di Duccio. La nuova disposizione fu vigorosamente promossa da Gian Matteo Giberti, Vescovo di Verona dal 1524 al 1543. Le "Consitutiones" di Giberti, pubblicate nel 1542 con l'approvazione di Papa Paolo III, miravano ad una riforma della vita ecclesiastica nella sua diocesi e anticiparono in molti modi gli sviluppi post-tridentini.


    Una parte importante del programma pastorale di Giberti era proprio la collocazione della riserva del Santissimo Sacramento sull'altare maggiore al centro della chiesa, dove veniva esposto alla venerazione di clero e laici. Nelle sue "Consitutiones" scriveva il vescovo, evocando vari versetti di salmi: "E come gli occhi di una schiava alla mano della sua padrona (Ps. 123, 2), così siano gli occhi di coloro che stanno intorno alla mensa del Signore (Ps. 128, 3), rivolti sempre con timore e tremore verso l'altissimo e preziosissimo sacramento, che è lì sull'altare maggiore; piangano di gioia e si rallegrino piamente nelle loro lacrime, e vedranno com'è buono il Signore (cfr. Ps. 34, 9)".


    Con uno schema simile, Pier Francesco Zini nella sua biografia del Giberti, pubblicata a Venezia nel 1555 col titolo "Boni pastoris exemplum ac specimen singulare", scrive che il tabernacolo sull'altare maggiore trova una posizione che è "come il cuore nel petto" (tamquam cor in pectore). Si voleva che il tabernacolo fosse il cuore della chiesa sia in senso spaziale che spirituale. Giberti applicò questo principio alla sua cattedrale di Verona e lo prescrisse per tutte le Chiese parrocchiali della sua Diocesi.


    Il Concilio di Trento, che si celebrò dal 1545 al 1563, non diede alcuna direttiva specifica sull'architettura e gli arredi delle Chiese. Tuttavia i decreti conciliari, affermando il tradizionale insegnamento della Chiesa, diedero chiare indicazioni teologiche sulla costruzione delle nuove Chiese e sulla ristrutturazione di quelle già esistenti. I canoni del Decreto sull'Eucaristia, datato 11 ottobre 1551, frutto della XIII sessione del Concilio, riconfermarono la posizione cattolica di fronte alla critica protestante, soprattutto quella di Martin Lutero che sosteneva che Cristo era presente nel sacramento dell'Eucaristia soltanto durante la vera e propria celebrazione liturgica, quando veniva ricevuto con fede dai comunicandi.


    I canoni tridentini ribadirono la dottrina del IV Concilio Laterano del 1215 sulla presenza reale e permanente di Cristo sotto la forma del pane e del vino dopo la loro consacrazione da parte del sacerdote. Ne consegue la necessità di una custodia appropriata e sicura delle ostie consacrate dopo la Messa, utilizzate anche per portare la Santa Comunione agli ammalati. Il canone sette parla in termini apparentemente generali della riserva della Santissima Eucaristia "in sacrario". Nell'uso medievale, il termine "sacrarium" poteva indicare qualsiasi luogo per la riserva eucaristica, compresa la sacrestia. Comunque, nel contesto di Trento, si può ritenere che molti Padri conciliari intendessero per "sacrarium" il tabernacolo d'altare. Un'interpretazione che era già corrente, come si evince dal Sinodo convocato dal Cardinale Reginald Pole, Legato della Santa Sede in Inghilterra, e tenuto a Westminster nel dicembre del 1555 e gennaio del 1556. Il sinodo decretò che la Santissima Eucaristia dovesse essere custodita "o al centro dell'altare o alla sua estremità".


    Il Concilio di Trento accentuò anche il ruolo dei vescovi nel realizzare le riforme ecclesiastiche e dispose la pubblicazione di libri liturgici revisionati, opera che fu condotta dai papi negli anni successivi. Tali fattori portarono ad una standardizzazione della vita liturgica, che fece sì che il nuovo modo di ccustodire l'Eucaristia sull'altare maggiore si diffondesse in tutto il mondo cattolico.


    Gli storici si sono spesso concentrati sul contributo dato da San Carlo Borromeo (1538 - 1584) allo sviluppo dell'architettura e degli arredi sacri post-tridentini. Borromeo è stato presentato come un modello di Vescovo riformatore, ponendo in atto i decreti tridentini nell'Arcidiocesi di Milano con diligenza esemplare. Senza ridurre il ruolo di questo grande Vescovo, sembrebbe appropriato collocare il suo operato in un più ampio contesto culturale. Il tabernacolo sull'altare maggiore non fu affatto un'innovazione del Borromeo, abbiamo visto infatti che il pensiero teologico che sosteneva tale pratica era già in circolazione da diverso tempo.


    Le idee del Borromeo sull'architettura sacra sono espresse in modo succinto nelle sue "Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae" del 1577, composto da un gruppo di autori sotto i suoi auspici. Sulla questione della riserva eucaristica, le "Instructiones" si riferiscono ai decreti del primo Sinodo provinciale di Milano tenuto nel 1565, che stabiliva che in tutte le chiese in cui si custodiva il Santissimo Sacramento, compresa la Cattedrale, questo fosse collocato sull'altare maggiore, a meno che un caso di necessità o una grave ragione non lo impedissero.


    L'Arcivescovo di Milano diede l'esempio trasferendo il Santissimo Sacramento dalla sacrestia all'altare maggiore della sua Cattedrale. Le "Instructiones" del Borromeo furono largamente recepite nel periodo post-tridentino, mentre vi era ancora qualche flessibilità sul luogo della riserva eucaristica. Vale la pena notare che il "Cerimoniale Episcoporum" del 1600 raccomandava che il Santissimo Sacramento non si tenesse sull'altare maggiore o su altro altare al quale il vescovo dovesse celebrare la Messa solenne o i Vespri. Tuttavia, non penso che ciò indichi una critica del tabernacolo sull'altare maggiore, come invece ritiene Christoph Jobst nel suo studio magistrale sul tema. La prescrizione non riguarda la disposizione generale della Chiesa, ma le rubriche di celebrazioni specifiche. Al massimo, si potrebbe dedurre che nelle liturgie pontificali si riflettesse l'antica consuetudine della riserva eucaristica separata dall'altare.


    Il rituale romano del 1614 ha un paragrafo pertinente nei "Praenotanda" sul Santissimo Sacramento dell'Eucaristia, che recita: "Il tabernacolo sia opportunamente coperto da un baldacchino, e null'altro vi sia contenuto. Sia collocato sull'altare maggiore o su altro altare dove si possa vedere facilmente e possa così rendersi degna adorazione a questo grande Sacramento".


    Anche qui c'è flessibilità sulla ubicazione del tabernacolo: può stare sull'altare maggiore o su altro altare della Chiesa che sia appropriato per la venerazione del Sacramento. Istruzioni simili si possono trovare negli atti di molti Sinodi diocesani e provinciali tenutisi nella prima metà del secolo XVII. Per esempio, il Sinodo di Costanza nel 1609 decretò che il Santissimo Sacramento fosse custodito " o sull'altare stesso, secondo l'uso romano, o alla sinistra del coro presso l'altare". In ogni modo, l'ubicazione del tabernacolo sull'altare principale secondo "l'uso romano" fu adottato gradualmente in tutta Europa come parte della Riforma tridentina.


    A questo sviluppo contribuì una serie di fattori: innanzi tutto, la chiara e sicura riaffermazione del Concilio della dottrina cattolica della presenza reale di fronte alla critica protestante; secondariamente, la crescente popolarità delle devozioni eucaristiche (Benedizione col Santissimo Sacramento, processioni eucaristiche, la devozione delle Quarantore); in terzo luogo, la fioritura dell'arte e architettura barocche non solo in Europa ma in tutto il mondo cattolico, con un'attenzione speciale nell'esprimere visibilmente le verità di fede, soprattutto la presenza reale; e per ultimo, la standardizzazione dei libri liturgici dopo il Concilio di Trento, con la pratica romana presa a modello per l'intera Chiesa.


    E' evidente che tale sviluppo, visto nel suo contesto culturale e artistico, non ebbe inizio con il Concilio di Trento, ma fu parte di una tendenza comune nel Rinascimento e nell'architettura sacra barocca di creare uno spazio unificato, nel quale il tabernacolo sull'altare maggiore era effettivamente, secondo le parole del biografo del Giberti, "tamquam cor in pectore".

     

    The Institute of Sacred Architecture, vol. 15 - spring 2009
    http://www.sacredarchitecture.org/articles/tamquam_cor_in_pectore_the_eucharistic_tabernacle_before_and_after_the_coun/

    traduzione italiana a cura di d. Giorgio Rizzieri

    (12/08/2012)


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 17/08/2012 15:49

    Miti dell'architettura sacra contemporanea

    Dieci luoghi comuni, smontati uno dopo l'altro

    di Duncan Stroik

     

     

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    Miti dell'architettura sacra contemporanea

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    di Duncan Stroik

     

    1. "Il Concilio Vaticano II ci chiede di rigettare l'architettura sacra tradizionale e di progettare le nuove chiese in stile modernista".

    Questo mito è basato più su quanto i cattolici hanno costruito negli ultimi trent'anni che su quanto che la Chiesa insegna veramente. Anche sotto un profilo solo professionale, l'architettura sacra degli ultimi decenni è stata un disastro nel vero senso della parola. Comunque, le opere sono più eloquenti delle parole, e i fedeli sono stati condotti a credere che la Chiesa esiga che le chiese siano delle astrazioni funzionali, perché è questo che stiamo costruendo. Le intenzioni dei Padri del Concilio non potevano essere più lontane da questa deriva, essi infatti auspicavano chiaramente che proseguisse l'eccellenza storica dell'architettura cattolica. E' importante ricordare quanto insegna il Concilio: "Non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l'avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti" (Sacrosanctum Concilium, 24).

    Se fare teologia cattolica significa imparare dal passato, progettare architettura cattolica significa ispirarsi alla tradizione e alle espressioni architetturali che hanno superato la prova del tempo. Il Concilio Vaticano II lo chiarisce molto bene quando afferma che..."la Chiesa non ha mai avuto come proprio un particolare stile artistico, ma, secondo l'indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando così, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura. Anche l'arte del nostro tempo e di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione, purché serva con la dovuta riverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti. In tal modo essa potrà aggiungere la propria voce al mirabile concerto di gloria che uomini eccelsi innalzarono nei secoli passati alla fede cattolica" (Sacrosanctum Concilium, 123).

     


    2. "Le nuove chiese devono essere costruite secondo le direttive del documento "Ambiente e Arte nel Culto Cattolico", pubblicato dalla Commissione Episcopale sulla Liturgia [degli U.S.A.] nel 1977".

    In mancanza di alternative, questo libretto è diventato, negli Stati Uniti, una vera e propria bibbia per molte chiese nuove o rinnovate. Il documento, che non è mai stato votato dalla Conferenza Episcopale degli Stati Uniti e non ha alcun valore canonico, è basato più sui principi dell'architettura modernista che non sulla dottrina cattolica o sul suo patrimonio di architettura sacra. Tra le sue debolezze vi è un'attenzione esagerata sull'aspetto assembleare della Chiesa, antagonismo nei confronti della storia e della tradizione, e una stridente iconoclastia. Per la natura controversa del documento, la Commissione Episcopale sulla Liturgia sta redigendo una nuova versione che si spera migliore.

     


    3. "E' impossibile che si costruiscano oggi delle belle chiese".

    Dire questo è come dire che è impossibile avere dei santi nel nostro tempo. Di certo, possiamo e dobbiamo costruire ancora belle chiese. Viviamo in un'epoca che ha mandato uomini sulla luna e si spendono ingenti somme di denaro per i musei e gli stadi sportivi. Dobbiamo essere capaci quindi di costruire edifici della stessa qualità delle prime basiliche cristiane o delle cattedrali gotiche. Recentemente, l'architettura secolare ha prodotto un grande recupero dell'architettura tradizionale, di artigianato e di costruzioni. Ci sono sempre più giovani architetti di talento che progettano edifici di tradizione classica (molti dei quali sarebbero felici di progettare edifici sacri). Studenti della Università di Notre Dame, ben formati nella tradizione classica, sono molto ricercati da compagnie di architetti e dai clienti.

    Vi è in effetti un buon numero di chiese costruite neglii ultimi vent'anni che rispondono ai criteri di durata, convenienza e bellezza, come San Giovanni Capistrano in California, 1989; la cattedrale di Brentwood in Inghilterra, 1992; l'Abbazia benedettina di Sainte-Madeleine in Francia, 1989; la chiesa dell'Immacolata Concezione in New Jersey, 1996; la chiesa di Azoia in Portogallo, 1995; la chiesa di Santa Maria in Texas, 1997; la chiesa di Sant'Agnese a New York, 1997; l'Oratorio di Pittsburgh, 1996, ecc.

     


    4. "Non possiamo permetterci oggi di costruire belle chiese. La Chiesa non ha i soldi che aveva una volta".

    Infatti, i cattolici sono la denominazione più ricca oggi in America. Abbiamo più Amministratori Delegati e sindaci di quasiasi altro gruppo religioso. Non siamo mai stati così ricchi, eppure non abbiamo mai costruito chiese così scadenti come oggi. Ciò riflette le priorità di donazione degli americani; dal 1968 al 1995 la porzione di reddito personale dato alla Chiesa è calato del 21%. Il popolo di Dio deve essere incoraggiato a sostenere generosamente la costruzione di case di preghiera. Vescovi e diocesi dovrebbero promuovere la massima qualità e non porre un limite alle spese di costruzione. I fedeli dovrebbero essere disposti a spendere di più per la casa di Dio piuttosto che per la propria casa, e costruire cercando una qualità che sia superiore di quella degli edifici pubblici. Un esempio di grande filantropia riguarda la chiesa di Santo Spirito ad Atlanta, costruita con generose donazioni da parte di alcuni parrocchiani, che l'hanno voluta di elegante mattone solido romanico nei primi anni '90. Altre parrocchie, per avere una chiesa degna e splendente, hanno deciso di raccogliere fondi rilevanti o di costruire a fasi successive.

     


    5. "Il denaro è meglio spenderlo per servire gli indigenti, per dar da mangiare agli affamati e per istruire i giovani, che per le chiese".

    Se la chiesa fosse solo un luogo di riunione questa opinione sarebbe legittima, ma una bella chiesa è anche casa per i poveri, un luogo di nutrimento spirituale e un catechismo in pietra. La chiesa è un faro e una città collocata su un monte. Evangelizza attraverso la bellezza, la permanenza e la trascendenza del cristianesimo. Soprattutto, l'edificio sacro è icona del corpo di nostro Signore, e costruendo un luogo di culto noi diventiamo come la donna evangelica che unge il corpo di Cristo con olio prezioso (Mc. 14, 3-9).

     


    6. "La forma a ventaglio, nella quale ognuno può vedere l'assemblea ed essere vicino all'altare, è la forma più appropriata per esprimere la partecipazione piena, attiva e consapevole del corpo di Cristo".

    Questo mito nasce dall'opinione estremizzata che l'assemblea è il simbolo primario della chiesa. Se la forma a ventaglio va benissimo per un teatro, per conferenze o nei parlamenti, essa non è la forma adatta per la liturgia. Per ironia, la ragione spesso addotta per la forma a ventaglio sarebbe per favorire la partecipazione, ed invece la forma semicircolare deriva da un luogo di intrattenimento. La forma a ventaglio non deriva dal Concilio Vaticano II, ma dal teatro greco o romano. Fino a tempi recenti, non era mai stato usato a modello delle chiese cattoliche. Infatti, le prime chiese teatro erano auditori protestanti del 19° secolo, appositamente progettate per porre al centro il predicatore.

     


    7. "L'edificio sacro deve essere progettato con nobile semplicità. Cappelle devozionali e immagini di santi distraggono e alienano dalla liturgia".

    Si proclama questo principio per costruire e rinnovare le chiese nel modo più iconoclastico possibile. Lo storico dell'arte, Winkelmann, già nel 1755 si avvaleva della "nobile semplicità" per descrivere l'autentica opera artistica che associava elementi sensuali e spirituali con bellezza e moralità in un'unica forma sublime, che per lui si trovavano interamente nell'arte classica greca. La "nobile semplicità" perciò non deve essere confusa con mero funzionalismo, astratto minimalismo o rozza banalità. La Sacrosanctum Concilium afferma che l'arte sacra dovrebbe indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio, e "nel promuovere e favorire un'autentica arte sacra, gli Ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità" (SC, 124). L'Ordinamento Generale del Messale Romano dichiara: "l'arredamento della chiesa si ispiri a una nobile semplicità, piuttosto che al fasto" (OGMR, 292). L'ammonimento sulla distrazione cresce anche a causa dall'avversione modernista contro le immagini figurate e al desiderio di essere più didattici che simbolici. Ma l'OGMR afferma al § 288: "i luoghi sacri e le cose che servono al culto siano davvero degne, belle, segni e simboli delle realtà celesti". Il Concilio Vaticano II dichiara: "si mantenga l'uso di esporre nelle chiese le immagini sacre alla venerazione dei fedeli" (SC, 125). E l'OGMR elabora al § 318: "Secondo un'antichissima tradizione della Chiesa, negli edifici sacri si espongano alla venerazione dei fedeli le immagini del Signore, della beata Vergine Maria e dei Santi".

     


    8. "La Chiesa Cattolica deve costruire secondo l'architettura più avanguardista del suo tempo, così come ha sempre fatto nella storia".

    Per 1500 anni, anzi fino alla seconda guerra mondiale, la Chiesa cattolica è stata considerata la più grande sostenitrice dell'arte e dell'architettura. La Chiesa ha formato artisti e architetti cristiani che a loro volta hanno influenzato l'architettura della sfera secolare. Ma negli ultimi 50 anni i ruoli si sono invertiti, e la Chiesa sta seguendo la direzione della cultura secolare e degli architetti laici che sono stati formati in una visione del mondo non-cattolica. Se precedentemente, lo sviluppo dell'architettura cattolica traeva ispirazione ed era in continuità con le opere del passato, il concetto modernista di "avanguardia" significa progredire mediante una continua rottura col passato.

    I documenti della Chiesa chiedono ai vescovi di prendersi cura dell'arte sacra e degli artisti, "allo scopo di formarli allo spirito dell'arte sacra e della sacra liturgia" (SC, 127). Il ritorno attuale d'interesse per l'architettura liturgica da parte dei fedeli sta ad indicare che la Santa Madre Chiesa riottiene il ruolo che le compete di esserne patrona principale. Come tale, essa "si è sempre ritenuta a buon diritto come arbitra, scegliendo tra le opere degli artisti quelle che rispondevano alla fede, alla pietà e alle norme religiosamente tramandate e che risultavano adatte all'uso sacro" (SC, 122). Non solo, "i vescovi abbiano ogni cura di allontanare dalla casa di Dio e dagli altri luoghi sacri quelle opere d'arte, che sono contrarie alla fede, ai costumi e alla pietà cristiana; che offendono il genuino senso religioso, o perché depravate nelle forme, o perché insufficienti, mediocri o false nell'espressione artistica" (SC, 124).

     


    9. "Nel passato, la chiesa edificio veniva vista come 'domus Dei' o casa di Dio, oggi siamo tornati alla prima denominazione che i cristiani davano alla chiesa di 'domus ecclesia' o casa del popolo di Dio".

    E' stato detto che il cattolicesimo non è una religione del "aut / aut" ma del "et / et". Per contrasto, è una visione antinomista che discende dall'illuminismo, quella che pretende che una chiesa non possa essere contemporaneamente casa di Dio e casa degli uomini, che sono membra del suo corpo. Quando si pensa alla chiesa puramente come casa del popolo di Dio, allora la si progetta come stanza da soggiorno o da auditorio. Questi due nomi storici, domus Dei e domus ecclesia, esprimono due nature distinte ma complementari della chiesa edificio, sia quale presenza di Dio sia della comunità convocata da Dio. "Tali chiese visibili non sono semplici luoghi di riunione, ma significano e manifestano la Chiesa che vive in quel luogo, dimora di Dio con gli uomini riconciliati e uniti in Cristo" (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1180).

     


    10. "Dal momento che Dio dimora dappertutto, egli è presente sia in un parcheggio auto che in una chiesa. Perciò non si deve più guardare alle chiese edificio come a luoghi sacri".

    Questa è un'idea contemporanea assai seducente che ha più a che fare con la teologia pop che con la tradizione cattolica. Fin dai primordi, Dio ha scelto di incontrare il suo popolo in luoghi sacri. La "terra sacra" del monte Sinai venne tradotta poi nella tenda nel deserto e nel tempio di Gerusalemme. Con l'avvento del cristianesimo, i credenti costruirono edifici specifici per la divina liturgia che dovevano riflettere il tempio celeste, il cenacolo, i luoghi sacri. Nel diritto canonico "col nome di chiesa si intende un edificio sacro destinato al culto divino, ove i fedeli abbiano il diritto di entrare per esercitare soprattutto pubblicamente tale culto" (Codice di Diritto Canonico, can. 1214). Come "luogo eletto" per la ricezione dei sacramenti, la chiesa stessa diviene sacramentale, poiché ha come suo centro il sacrario, cioè un luogo sacro. Come ci si riferisce alle celebrazioni, ad elementi quali l'altare, l'ambone e all'arte col nome di "sacro", così lo sono anche gli edifici progettati per essi. Pertanto, tentare di abolire la distinzione della chiesa come luogo sacro per attività sacra, vuol dire diminuire la nostra venerazione di Dio che proprio l'edificio dovrebbe contribuire a suscitare.

     

     

    Sacred Architecture - Fall 1998
    http://www.sacredarchitecture.org/images/uploads/volumesPDFs/Issue_1_1998.pdf

    trad. it. di d. G. Rizzieri

    (16/08/2012)




    [SM=g1740733]  e per non dimenticare.....

    L'orientamento della preghiera liturgica

    Prefazione al volume iniziale dei miei scritti

    di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI

     

     

    Il Concilio Vaticano II iniziò i suoi lavori con la discussione dello schema sulla sacra liturgia, che poi venne solennemente votato il 4 dicembre 1963 come primo frutto della grande assise della Chiesa, con il rango di una costituzione.

    Che il tema della liturgia si trovasse all’inizio dei lavori del Concilio e che la costituzione sulla liturgia divenisse il suo primo risultato venne considerato a prima vista piuttosto un caso. Papa Giovanni aveva convocato l'assemblea dei vescovi con una decisione da tutti condivisa con gioia, per ribadire la presenza del cristianesimo in una epoca di profondi cambiamenti, ma senza proporre un determinato programma.
    Dalla commissione preparatoria era stata messa insieme un’ampia serie di progetti. Ma mancava una bussola per poter trovare la strada in questa abbondanza di proposte. Fra tutti i progetti il testo sulla sacra liturgia sembrò quello meno controverso. Così esso apparve subito adatto: come una specie di esercizio, per così dire, con il quale i Padri potessero apprendere i metodi del lavoro conciliare.

    Ciò che a prima vista potrebbe sembrare un caso, si rivela, guardando alla gerarchia dei temi e dei compiti della Chiesa, come la cosa anche intrinsecamente più giusta. Cominciando con il tema "liturgia", si mise inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità del tema "Dio". Dio innanzitutto, così ci dice l’inizio della costituzione sulla liturgia. Quando lo sguardo su Dio non è determinante ogni altra cosa perde il suo orientamento.
    Le parole della regola benedettina "Ergo nihil Operi Dei praeponatur" (43, 3: "Quindi non si anteponga nulla all’Opera di Dio") valgono in modo specifico per il monachesimo, ma hanno valore, come ordine delle priorità, anche per la vita della Chiesa e di ciascuno nella sua rispettiva maniera. È forse utile qui ricordare che nel termine "ortodossia" la seconda metà della parola, "doxa", non significa "opinione", ma "splendore", "glorificazione": non si tratta di una corretta "opinione" su Dio, ma di un modo giusto di glorificarlo, di dargli una risposta. Poiché questa è la domanda fondamentale dell’uomo che comincia a capire se stesso nel modo giusto: come debbo io incontrare Dio? Così, l’apprendere il modo giusto dell’adorazione – dell’ortodossia – è ciò che ci viene donato soprattutto dalla fede.

    Quando ho deciso, dopo qualche esitazione, di accettare il progetto di una edizione di tutte le mie opere, mi è stato subito chiaro che vi dovesse valere l’ordine delle priorità del Concilio, e che quindi il primo volume ad uscire doveva essere quello con i miei scritti sulla liturgia.
    La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita, ed è diventata, alla scuola teologica di maestri come Schmaus, Söhngen, Pascher e Guardini, anche il centro del mio lavoro teologico.
    Come materia specifica ho scelto la teologia fondamentale, perché volevo innanzitutto andare fino in fondo alla domanda: perché crediamo? Ma in questa domanda era inclusa fin dall’inizio l’altra sulla giusta risposta da dare a Dio, e quindi anche la domanda sul servizio divino. Proprio da qui debbono essere intesi i miei lavori sulla liturgia. Non mi interessavano i problemi specifici della scienza liturgica, ma sempre l’ancoraggio della liturgia nell’atto fondamentale della nostra fede e quindi anche il suo posto nella nostra intera esistenza umana.

    Questo volume raccoglie ora tutti i miei lavori di piccola e media dimensione con i quali nel corso degli anni, in occasioni e da prospettive diverse, ho preso posizione su questioni liturgiche. Dopo tutti i contributi nati in questo modo, sono stato spinto infine a presentare una visione d'insieme che è apparsa nell'anno giubilare 2000 sotto il titolo "Lo spirito della liturgia. Un'introduzione" e che costituisce il testo centrale di questo libro.

    Purtroppo, quasi tutte le recensioni si sono gettate su un unico capitolo: "L’altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia". I lettori delle recensioni hanno dovuto dedurne che l’intera opera abbia trattato solo dell’orientamento della celebrazione e che il suo contenuto si riduca a quello di voler reintrodurre la celebrazione della messa "con le spalle rivolte al popolo".
    In considerazione di questo travisamento ho pensato per un momento di sopprimere questo capitolo (di appena nove pagine su duecento) per poter ricondurre la discussione sul vero argomento che mi interessava e continua ad interessarmi nel libro. Questo sarebbe stato tanto più facilmente possibile per il fatto che nel frattempo sono apparsi due eccellenti lavori nei quali la questione dell’orientamento della preghiera nella Chiesa del primo millennio è stata chiarita in modo persuasivo. Penso innanzitutto all’importante piccolo libro di Uwe Michael Lang, "Rivolti al Signore. L'orientamento nella preghiera liturgica" (traduzione italiana: Cantagalli, Siena, 2006), ed in modo del tutto particolare al grosso contributo di Stefan Heid, "Atteggiamento ed orientamento della preghiera nella prima epoca cristiana" (in "Rivista d’Archeologia Cristiana" 72, 2006), in cui fonti e bibliografia su tale questione risultano ampiamente illustrate e aggiornate.

    Il risultato è del tutto chiaro: l’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica.

    Sacerdote e popolo certamente non pregano uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non fosse possibile, verso una immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della sua Passione (Giovanni 17, 1).
    Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione nella mia opera: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo.

    Ma con questo ho forse detto troppo di nuovo su questo punto, che rappresenta appena un dettaglio del mio libro, e che potrei anche tralasciare. L’intenzione fondamentale dell’opera era quella di collocare la liturgia al di sopra delle questioni spesso grette circa questa o quella forma, nella sua importante relazione che ho cercato di descrivere in tre ambiti che sono presenti in tutti i singoli temi. C'è innanzitutto l'intimo rapporto tra Antico e Nuovo Testamento; senza la relazione con l'eredità veterotestamentaria la liturgia cristiana è assolutamente incomprensibile. Il secondo ambito è il rapporto con le religioni del mondo. E si aggiunge infine il terzo ambito: il carattere cosmico della liturgia, che rappresenta qualcosa di più della semplice riunione di una cerchia più o meno grande di esseri umani; la liturgia viene celebrata dentro l'ampiezza del cosmo, abbraccia creazione e storia allo stesso tempo. Questo è ciò che si intendeva nell'orientamento della preghiera: che il Redentore che noi preghiamo è anche il Creatore, e così nella liturgia rimane sempre l'amore anche per la creazione e la responsabilità nei suoi confronti. Sarei lieto se questa nuova edizione dei miei scritti liturgici potesse contribuire a far vedere le grandi prospettive della nostra liturgia e a far relegare nel loro giusto posto certe grette controversie su forme esteriori.

    Infine, e soprattutto, sento il dovere di ringraziare. Il mio ringraziamento è dovuto innanzitutto al vescovo Gerhard Ludwig Muller, che ha preso nelle sue mani il progetto delle "Opera omnia" e ha creato le condizioni sia personali che istituzionali per la sua realizzazione. In modo del tutto particolare correi ringraziare il Prof. Dr. Rudolf Voderholzer, che ha investito tempo ed energie in misura straordinaria nella raccolta e nell'individuazione dei miei scritti. Ringrazio anche il Signor Dr. Christian Schaler, che lo assiste in maniera dinamica. Infine, il mio sincero ringraziamento va alla casa editrice Herder, che con grande amore e accuratezza si è assunta l'onere di questo difficile e faticoso lavoro. Possa tutto ciò contribuire a che la liturgia venga compresa in modo sempre più profondo e celebrata degnamente. "La gioia del Signore è la nostra forza" (Neemia 8,10).

    Roma, festa dei santi Pietro e Paolo, 29 giugno 2008

     

     

    (03/11/2010)


    [Modificato da Caterina63 17/08/2012 19:42]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)